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venerdì 20 agosto 2021

IL MISTERO DEL VINO DI SICOMORO

Il sicomoro (Ficus sycomorus) era molto considerato nell'antico Egitto, essendo l'albero sacro alla Dea Hathor, patrona della fecondità. Era anche chiamato "albero dell'Eternità" e "albero dei Faraoni": col suo legno venivano fabbricati i sarcofagi. I frutti del sicomoro, simili a fichi di colore chiaro e rossiccio, erano un cibo molto apprezzato. Provenendo da un albero sacro, erano associati all'immortalità e spesso venivano posti nelle tombe come offerta per i defunti. Oltre a questo, con tali fichi veniva prodotta una bevanda inebriante, che è da tempo scomparsa. A quanto pare era forte, al punto che bruciava la gola ed era paragonato alla fiamma (vedi The Fig in Ancient Egypt su Reddit). Diversi anni fa mi sono imbattuto in contributi di navigatori che si chiedevano perché il vino di sicomoro non fosse più stato prodotto. Non ho più trovato tracce dei loro interventi, ma cercherò di dare una risposta a questo importante interrogativo. 
 

Non mi stupisce troppo l'incapacità di trovare qualsiasi traccia di uno specifico termine egiziano per indicare una bevanda prodotta dai fichi del sicomoro. Col passaggio al Cristianesimo, caddero in disuso e furono obliate molte parole che appartenevano alla sfera semantica degli antichi culti. Altre furono invece conservate in copto, perché non suscettibili di ricevere un'interpretazione positiva in senso cristiano. A scomparire furono proprio quelle parole che non poterono subire l'esaugurazione, perché i concetti che esprimevano erano incompatibili con la nuova religione, che non fu esente da manifestazioni di fanatismo e di furore iconoclastico. Qualcosa di simile come accadde anche in latino, dove parole come templum e altāre si conservarono, mentre i sinonimi fānum e āra furono colpite da interdetto e scomparvero dalla lingua popolare. 
 
Si potrebbe dedurre che il vino di sicomoro era bevuto unicamente in occasione di rituali funebri, motivo per cui finì con l'essere abolito. La sua memoria si sarebbe quindi persa rapidamente. Non sono però chiari i dettagli di questo processo di scomparsa di un'antica eredità. 
Sbagliano coloro che hanno ipotizzato che la causa della scomparsa di questa bevanda sia stato l'Islam. Evidentemente non era già più conosciuta quando gli Arabi hanno conquistato l'Egitto. Per quanto la Shari'a proibisca l'alcol, non è sempre stata applicata con lo stesso rigore e non si può pensare che abbia causato la completa scomparsa di ciò che considera haram. Fautori dell'uso smodato del vino non sono mancati dalla Turchia alla Spagna moresca, così come i pederasti! Dovremmo pensare che il fanatismo cristiano in Egitto sia stato molto più efficace, eliminando tutto ciò che era intrinsecamente connesso con i riti pagani. Il problema non era il potere ubriacante della bevanda, bensì il fatto che fosse offerta alle divinità antiche e che non avesse alcun uso profano.  
Forse un simile tabù era già da tempo presente presso gli Ebrei. Sarebbe assurdo poter disporre di una risorsa abbondante come i frutti di sicomoro e non sfruttarla per la produzione di bevande alcoliche, quando basterebbe poco per farlo. Esisteva persino la professione di raccoglitore di fichi di sicomoro. La raccolta non veniva eseguita manualmente, bensì servendosi di strumenti affini a rastrelli, dato che i frutti crescono anche sul tronco degli alberi. Non sappiamo se questi fichi entrassero a far parte della produzione della sicera, assieme ad altri ingredienti, anche se non come unica componente. Non dispendo di sufficienti dati per definire la questione, ho pensato che fosse interessante chiedere a un rabbino molto esperto un'opinione per chiarire meglio questi dubbi, se nelle consuetudini israelitiche esista qualche interdizione a questo proposito. Ho quindi trovato un'inattesa pista sul Web, che mi ha permesso di giungere a una conclusione ragionevole.  

La soluzione del mistero 

Una neopagana che si fa chiamare Hearth Moon Rising riporta nel suo sito un'importante informazione. La pagina è la seguente:  


Questo è il testo tradotto: 
 
"Non sono stata capace di scoprire tramite i miei libri o una ricerca in Internet se il fico del sicomoro sia mai stato fermentato per i riti di Hathor. Ho scoperto che questo fico è talvolta davvero fermentato in vino, ma che ha un gusto di aceto che lo rende più adatto come medicina che come divertimento."
 
Il vino di sicomoro conteneva alcol acetico, ossia etanolo con tendenza a generare acido aceto, che conferiva un tipico sapore acido e irritante. Ecco perché si diceva che "bruciava la gola". Era bevuto soltanto per finalità religiose perché non era buono. Ho avuto esperienza di vino e di idromele in incipiente stato di inacetimento. Nel primo caso era un vino vecchio e imbottigliato male. Nel secondo caso era un idromele prodotto da amici a partire da una decozione conservata in condizioni non ottimali. La sensazione di entrambe le bevande era la stessa. Erano ancora commestibili, ma berle dava un certo fastidio e infiammavano le vie urinarie. La bevanda sacra alla Dea Hathor doveva essere simile. Una divinità egizia poteva imporre ai suoi devoti le cose più stravaganti, anche baciare il culo dei babbuini! Figuriamoci se era un problema bere una pozione un po' acida. Il punto è che quando la gente è diventata cristiana, nessuno glielo faceva più fare di ingurgitare qualcosa di poco gradevole. Allo stesso modo, il popolo di Israele non aveva motivo alcuno di usare quei fichi asprigni per la produzione di alcolici, quando disponeva di buona uva, frutta adatta, cereali e miele. Con questo, il mistero è risolto. 
 
Note etimologiche

Questa è l'evoluzione del nome del sicomoro nella lingua degli Egizi dalle origini al suo periodo finale: 

 
Egiziano (Antico Regno)
nht "sicomoro" (pronuncia /'na:hat/
 
Egiziano (Medio Regno)
nht "sicomoro" (pronuncia /'na:ha/
 
Egiziano (Nuovo Regno) 
nht "sicomoro" (pronuncia /'nɔ:hə/, /'no:hə/)
 
Copto
ⲛⲟⲩϩⲉ (pronuncia /'nu:hə/
 
Da questo fitonimo deriva il nome di persona maschile Sinuhe, che significa "Figlio del Sicomoro". Nell'Egiziano del Medio Regno doveva pronunciarsi /siˀ'na:ha/. Si deve notare che il nome, di genere maschile, contiene un elemento che è morfologicamente femminile.
 
Questo è il nome del sicomoro in alcune importanti lingue semitiche:  

Ebraico 
שִׁקְמָה  šiqmā "sicomoro" (pronuncia biblica /ʃiq'ma:/
        altre trascrizioni: shikma, shikmah
     singolare costrutto: שִׁקְמַת־  šiqmat "sicomoro di"
     plurale: שִׁקְמִים  šiqmīm "sicomori" 
     plurale costrutto: שִׁקְמֵי־‎‎  šiqmē "sicomori di"
Note: 
Il singolare è di genere femminile, il plurale è invece di genere maschile. Indica l'albero e il suo frutto. 

Aramaico 
šeqmā "sicomoro" (albero e frutto) 
      (prestito dall'ebraico) 
   altri significati: "fico selvatico", "fico acerbo" 
   variante: šqem, šiqmā, šaqmā "sicomoro" 
   plurale: šiqmīn "fichi di sicomoro"
   plurali alternativi: šeqmātā, šeqmē 
tittā "sicomoro" (frutto) 
   varianti ortografiche: titā, tettā 
Note: 
Il vocabolo tittā, attestato come designazione del fico del sicomoro, è affine all'accadico tittu, tētu "fico" e all'ebraico תְּאֵנָה  te'ēnā "fico". In aramaico esiste anche tā "mora di gelso; emorroide", affine all'accadico tuttu "mora di gelso" e all'ebraico תוּת t "mora di gelso".

Accadico 
messikanu "sicomoro" (varianti: musukanu, musukannu,
    mesukannu, etc.);
sukannu "sicomoro" 
Note: 
Si tratta di prestiti dal sumerico (vedi sotto). Alcuni ritengono che in ebraico si trovi parola isolata mesukkān "sicomoro" in Isaia 40, 20, ma non sono sicuro che sia vero: sembra invece che sia un fraintendimento di הַֽמְסֻכָּ֣ן hamsukkān "impoverito, danneggiato". La questione sembra non essere risolta a tutt'oggi, ci sono studiosi che insistono col dire che mesukkān è un albero, anche se la traduzione "sicomoro" non è accettata da tutti. Secondo Haupt (1917), l'albero sarebbe invece da identificarsi con l'Acacia nilotica. Se questo vocabolo esistesse, sarebbe evidentemente un prestito dal sumerico tramite l'accadico.  
 
Arabo  
جُمَّيْز  jummayz "sicomoro" 
سَوْقَم  sawqam "sicomoro" (Yemen, obsoleto)
سَقُوم  saqūm "sicomoro" (Algeria) 
Note: 
Il primo di questi nomi del sicomoro, jummayz, ha una corrispondenza nell'ebraico mishnaico: גמזיות "sicomori", con ogni probabilità da vocalizzarsi come gummazyōt. I due nomi sawqam e saqūm sono chiari prestiti dall'aramaico.

Questo è il nome del sicomoro nella lingua di Sumer: 

Sumerico 
1) šam "sicomoro" (glosse accadiche: "sukannu",
    "musukanu", fonte: Uruanna, II.509); 
2) giš mes maganna "sicomoro", alla lettera "albero
     di Magan" (giš è un determinativo e non si pronuncia). 
Note: 
Magan era un paese mitico la cui identificazione finora non è stata determinata con sicurezza. Alla luce di questa evidenza, finora negletta, può essere identificato con l'Oman: l'unica delle terre proposte ove cresce il sicomoro. Resta però il fatto che questo vocabolo avrebbe potuto indicare anche alberi diversi. Sarebbero necessari studi più approfonditi.  
Chiaramente l'accadico messikanu (e varianti) è derivato proprio da giš mes maganna.

Sicomoro e sicamino 

In greco σῡκόμορος (sykómoros) è etimologizzato come "fico-gelso", da σῦκον (sŷkon) "fico", μόρον (móron) "mora di gelso". Si tratta di un'etimologia popolare. In realtà la parola sembra un adattamento dell'ebraico šiqmā (vedi sopra). Si tratta però di un ragionamento circolare, in quanto il nome ebraico del sicomoro è a sua volta derivato dalla stessa radice mediterranea da cui hanno avuto origine anche il greco σῦκον e il latino fīcus (verosimile prestito dall'etrusco). Esiste poi in greco un altro fitonimo collegato a questo: συκάμινος, variante συκάμνος "gelso bianco", "gelso nero", che nel greco d'Egitto è usato anche col significato di "sicomoro". Questa parola è derivata direttamente dal plurale aramaico šiqmīn "fichi di sicomoro" ed è passata in latino come sȳcamīnus
 
Ancora su un equivoco
 
Il vino di sicomoro è menzionato nell'opera di Paolo Mantegazza, Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze (1871). Il fisiologo monzese ha riportato in un elenco un gran numero di bevande fermentate, con una breve nota sulla sua produzione e spesso anche sul paese in cui sono usate. Molte informazioni sono preziose, altre sono invece abbastanza discutibili. Così egli scrive:
 
Vino di sicomoro, succo dell'albero. Inghilterra 
 
A questo punto mi viene un sospetto. Mantegazza deve aver commesso lo stesso errore in cui è incappato Michel Houellebecq, definendo "sicomoro" l'acero montano. La causa è senza dubbio derivata dall'uso volgare di chiamare "sicomoro" svariate specie di aceri e persino il platano (sycomore o sycamore in inglese, sycomore in francese). Questa abitudine deprecabile è contraria all'etimologia della parola e di certo è derivata dall'ignoranza di qualche autore moderno: ancora nel XIV secolo il francese sicamour indicava correttamente la pianta africana e mediorientale di biblica memoria.    

mercoledì 18 agosto 2021

ORIGINE ED ETIMOLOGIA DI GAMBRINUS

 
Nella cultura popolare, l'invenzione della birra è attribuita a un leggendario Re delle Fiandre. Il suo nome è Gambrinus, con la variante meno comune Cambrinus. A lui sono stati intitolati innumerevoli locali in molte nazioni. Solo per fare un esempio, notissimo è il Caffè Gambrinus a Napoli. Esiste persino una famosa lega calcistica cèca, la Gambrinus liga. Nell'iconografia tradizionale, il sovrano è ritratto come un uomo robusto e biondiccio, incoronato, con barba e capelli intonsi come i Merovingi, seduto su un grande barile. In mano regge un capiente boccale pieno della bevanda spumeggiante. Alcuni lo chiamano anche il Bacco della birra. Sorge una domanda che esige una risposta. Chi era veramente Gambrinus? Qual è l'origine genuina del suo stranissimo nome?  
 
Bisognerà passare in rassegna le etimologie finora proposte. Alcune sono evidentemente false etimologie, partorite non soltanto dall'ignoranza popolare, ma anche dalle contorsioni mentali di parrucconi accademici privi di mezzi filologici, dediti al culto di assonanze peraltro vaghe. Altre possono contenere qualche elemento interessante, anche se non mi sembrano comunque convincenti. 
 
1) Dal latino cambarus "cellerario, addetto alle cantine";
2) Dal latino ganeae birrinus "colui che beve in una taverna"; 
3) Dal celtico camba "pentola per la preparazione della birra" 
4) Corruzione di Jan Primus "Giovanni Primo", con possibile allusione a due nobili: 
    i) Duca Giovanni I di Brabante; 
    ii) Duca Giovanni Senza Paura di Borgogna. 
5) Derivato da Gambrinus, nome del coppiere di Carlo Magno (o di uno dei coppieri), secondo un mito; 
6) Derivato dal nome pannonico della birra, tramandato in latino come camum
7) Distorsione di Gambrivius, nome di un antico sovrano delle Fiandre; 
8) Dal nome della città francese di Cambrai (latino Camaracum, di origine gallica), di cui sarebbe stato il fondatore; 
9) Dal nome della città sassone di Amburgo (tedesco Hamburg, antico sassone Hammaburg), di cui sarebbe stato il fondatore; 
10) Dall'antico alto tedesco gambra "germinazione del grano".

Discussione dell'etimologia 1) 

Non sono riuscito a reperire alcuna attestazione del vocabolo cambarus riportato da decine di siti Web con la glossa "cellerario, addetto alle cantine". Non è chiaramente una parola latina classica. Non se ne trova alcuna menzione nel ricchissimo Glossarium mediæ et infimæ latinitatis di Du Cange et alteri, che ha soltanto CAMBARIUS "brasiator, potifex, seu cerevisiæ confector" ("produttore di birra"): si rimanda quindi all'etimologia 3). Ovviamente si trova il quasi omofono GAMBARUS "cancer, astacus" (ossia "granchio, astice"), che non ha alcuna attinenza con l'oggetto della nostra ricerca. 
 

 
Discussione dell'etimologia 2) 
 
Il vocabolo ganea "taverna" è ben attestato già in epoca classica e nessuno può dubitare della sua reale esistenza. Per contro, il vocabolo birrinus, che dovrebbe significare "bevitore", presenta più di un problema. Non sembra attestato: centinaia di siti del Web riportano in modo acritico soltanto la glossa  di ganeae birrinus come "colui che beve in una taverna" o "bevitore di taverna" (in inglese "a drinker in a tavern" o "tavern drinker", in tedesco "einer Schenke Trinkende"), senza specificare l'eventuale fonte ultima della locuzione. Questo birrinus potrebbe essere una forma medievale derivata dalla contrazione di *biberinus, possibilmente da un aggettivo coniato a partire da bibere "bere" o da biber "bevanda". Esiste un santo di nome Birrino (latino Sanctus Birrinus), che però ha una chiara etimologia celtica (cfr. gallese byrr "corto") e non ha alcuna relazione con la birra o col ganeae birrinus: è ricordato principalmente par aver convertito Re Cynegisil dei Sassoni Occidentali.  

Discussione dell'etimologia 3)

Una parola celtica camba col significato di "pentola per la preparazione della birra" deve essere esistita, essendo attestata nel latino tardo delle Gallie come elemento di sostrato/adstrato. Abbiamo un'ulteriore glossa di camba: "Brassiatorum officina, seu locus, ubi cerevisia coquitur et conficitur, quem vulgo brasseriam, vel braxatoriam nuncupamus", da cui l'antico francese cambe "birrificio". Ancora oggi nella Francia settentrionale e nei Paesi Bassi è chiamato cam il sostegno del calderone in cui viene fatto bollire il mosto di birra. La parola camba in gallico aveva il significato primario di "curva" o "cosa curva", dall'aggettivo cambo- "curvo": per via di una semantica gergale, questo vocabolo deve essere stato usato per indicare un recipiente per la birrificazione, dalla forma caratteristica, quindi per estensione il luogo stesso della produzione di birra. Tutto ciò è molto logico. Quello che è meno logico è passare da camba a Gambrinus. Procediamo con ordine. Da camba, in latino volgare si formò il sostantivo cambarius "produttore di birra", con il tipico suffisso -ārius, che ha una vocale lunga. Da cambarius, evolutosi in camberius, nel francese settentrionale è derivato cambier "birraio". Si capisce subito che è una tipica forma settentrionale per via della mancata palatalizzazione della consonante iniziale. Per arrivare al nome del Re della Birra, servirebbero i seguenti passaggi: l'applicazione di un suffisso -in-, la caduta della vocale mediana, la produzione del nesso -mbr- e la sonorizzazione di /k/ iniziale in /g/. Tutto ciò pare abbastanza implausibile, anche se non impossibile. 
Trovo molto interessanti due derivati di camba attestati in latino volgare: 
1) cambagium "tributum quod dominis exsolvebant subditi pro coquenda cerevisia", ossia "tassa sulla produzione della birra", da cui è derivato in francese antico cambaige, cambage, gambage.
2) cambitor "cambarius, brasiator, confector cerevisiæ", ossia "produttore di birra", da cui è derivato in francese antico cambgeur, cangeour.  
 
 
 

Discussione dell'etimologia 4)

L'idea stessa che Gambrinus possa derivare da Jan Primus "Giovanni Primo" è ridicola. Non si può pensare che una consonante occlusiva /g/ si sia potuta formare in un simile contesto. Purtroppo questa deprecabile etimologia popolare è quella che ha riscosso più successo, a dispetto della sua palese assurdità. Gli stessi birrai moderni la vedono con particolare favore, sia in Germania che in Francia, pur essendo rivali.
 
Discussione dell'etimologia 5) 
 
Carlo Magno era un avidissimo divoratore di arrosti, tuttavia in fatto di bevande inebrianti era molto parco. Non era astemio, ma per l'epoca era particolamente moderato: non beveva più di tre calici di vino ad ogni banchetto. Aborriva l'ubriachezza e non amava vedere altri in quello stato, al punto che emanò leggi che vietavano la tipica costumanza franca di fare libagioni per la salute eterna dei morti. Un'altra legge, molto moderna nei concetti, si occupava di igiene nella produzione dei cibi e delle bevande, vietando ad esempio di pigiare l'uva coi piedi e di conservare il vino in otri di pelle. Non sembra che il sovrano amasse particolarmente la birra, anche se sotto il suo regno i birrifici furono incentivati. Certo, questo non implica che non avesse un coppiere che servisse anche la birra, tuttavia l'attribuzione di Gambrinus alla corte carolingia non ha alcun fondamento storico. Si tratta dell'associazione di elementi mitologici a un personaggio reale, come del resto è accaduto con il fabbro Weland (Galan). Conosciuto in norreno come Vǫlundr, è protagonista di narrazioni tipiche del mondo germanico. Proprio come Gambrinus, ha incrociato il suo destino con quello di Carlo Magno. Il punto è che questo processo mitopoietico, pur interessante, non chiarisce affatto l'etimologia dei nomi in questione.

Discussione dell'etimologia 6) 
 
Questa è la glossa di camum data da Du Cange: "Species potionis ex hordeo et aliis frugibus confectæ". Era una bevanda fatta con orzo e altri cereali, probabilmente a seconda della disponibilità del momento. Si potrebbe pensare a una derivazione di Gambrinus da questa radice cam- "birra" e dal protoceltico *ber- "portare", ma è a mio avviso poco plausibile. 
 

Discussione dell'etimologia 7) 
Gambrinus o Gambrivius?

La forma corretta dell'antroponimo potrebbe essere Gambrivius, nel qual caso Gambrinus sarebbe un errore di trascrizione: la lettera -n- avrebbe avuto origine dall'interpretazione fallace della legatura delle due lettere -v- e -i- ad opera di qualche copista. Posso dimostrare che non c'è bisogno di supporre un errore di questo genere: le due forme erano semplici varianti antiche dello stesso nome, di cui sussiste una documentazione inaspettata.  
 
 
Il mito di Re Gampar, figlio di Mers 
 
L'umanista bavarese Johann Georg Turmair, anche noto come Johannes Aventinus  (1477 - 1534). 
Nella sua opera Annales Boiorum, egli fornì un elenco di sovrani dei popoli germanici, che avrebbero regnato a partire dall'epoca appena successiva al Diluvio Universale, fino ad arrivare ai tempi di Giulio Cesare. La riportiamo con tanto di cronologia.  
 
Tuitsch (2214 a.C. - 2038 a.C.)
Mannus (1978 a.C. - 1906 a.C.)
Eingeb (1906 a.C. - 1870 a.C.)
Ausstaeb (1870 a.C. - 1820 a.C.)
Herman (1820 a.C. - 1757 a.C.)
Mers (1757 a.C. - 1711 a.C.)
Gampar (1711 a.C. - 1667 a.C.)
Schwab (1667 a.C. - 1621 a.C.)
Wandler (1621 a.C. - 1580 a.C.)
Deuto (1580 a.C. - 1553 a.C.)
Alman (1553 a.C. - 1489 a.C.)
Baier (1489 a.C. - 1429 a.C.)
Ingram (1429 a.C. - 1377 a.C.)
Adalger (1377 a.C. - 1328 a.C.)
Larein (1328 a.C. - 1277 a.C.)
Ylsing (1277 a.C. - 1224 a.C.)
Brenner I (1224 a.C. - 1186 a.C.)
Heccar (1186 a.C. - 1155 a.C.)
Frank (1155 a.C. - 1114 a.C.)
Wolfheim Siclinger (1114 a.C. - 1056 a.C.)
Kels I, Gal e Hillyr (1056 a.C. - 1006 a.C.)
Alber e altri 6 ignoti (1006 a.C. - 946 a.C.)
Walther, Panno e Schard (946 a.C. - 884 a.C.) 
Main, Öngel e Treibl (884 a.C. - 814 a.C.)
Myela, Laber e Penno (814 a.C. - 714 a.C.)
Venno e Helto (714 a.C. - 644 a.C.)
Mader (644 a.C. - 589 a.C.)
Brenner II e Koenman (589 a.C. - 479 a.C.)
Landein, Antör e Rögör (479 a.C. - 399 a.C.)
Brenner III (399 a.C. - 361 a.C.) 
Schirm e Brenner IV (361 a.C. - 263 a.C.) 
Thessel, Lauther e Euring
(279 a.C. - 194 a.C.)
Dieth I e Diethmer (194 a.C. - 172 a.C.)
Baermund e Synpol (172 a.C. - 127 a.C.)
Boiger, Kels II e Teutenbuecher (127 a.C. - 100 a.C.)
Scheirer (100 a.C. - 70 a.C.)
Ernst e Vocho (70 a.C. - 50 a.C.)
Pernpeist (50 a.C. - 40 a.C.)
Cotz, Dieth II e Creitschir (40 a.C. - 13 a.C.
 
Il Re Gampar (o Gambrivius), figlio di Mers (o Marsus), avrebbe regnato dal 1711 a.C. al 1667 a.C.: un regno lungo e prospero di oltre 40 anni. Cosa dire di questo materiale? Si capisce subito che è stato fabbricato. È però stato fabbricato con ingegno. Esiste qualche corrispondenza storica: Boiger è una distorsione di Boiorix, nome di un sovrano dei Cimbri; Teutenbuecher è una capricciosa distorsione di Teutobodo, nome di un capo dei Teutoni. Ariovisto è diventato Ernst. Molti nomi di sovrani sono eponimi: si riconosce all'istante in essi il nome di un popolo germanico. Così Mers è l'eponimo dei Marsi; Schwab è l'eponimo dei Suebi; Wendler è l'eponimo dei Vandali; Frank è l'eponimo dei Franchi; Baier è l'eponimo dei Baiuvari (Bavari). Sono integrate importanti informazioni fornite dagli Autori. In Tuitsch riconosciamo subito il capostipite Tuisto menzionato da Tacito. In Mannus riconosciamo subito il figlio di Tuisto. I tre capostipiti delle nazioni germaniche sono menzionati come Eingeb (Ingaevones), Ausstaeb (Istaevones) e Herman (Herminones). Anche il nome Gampar segue la logica sopra illustrata: è l'eponimo dei Gambrini o Gambrivii.   
 
I Gambrini o Gambrivii 
 
Tacito ci parla di un'enigmatica popolazione che abitava nella Germania settentrionale, proprio nel territorio delle attuali Fiandre: i Gambrini, anche detti Gamabrini. Evidentemente Gamabrini è una forma più antica, che ha poi subìto la perdita della vocale mediana -a-. Si riporta questo nome anche un'altra variante: Gambrivii. A questo punto tutto torna alla perfezione. Così come i gloriosi Tencteri erano a tutti noti per la loro abilità di allevare cavalli di razza, allo stesso modo i Gambrini dovevano essere a tutti noti per aver elaborato un'ottima birra di malto, tanto da passare per inventori della bevanda. 
 
"Celebrant carminibus antiquis, quod unum apud illos memoriae et annalium genus est, Tuistonem deum terra editum. Ei filium Mannum, originem gentis conditoremque, Manno tris filios adsignant, e quorum nominibus proximi Oceano Ingaevones, medii Herminones, ceteri Istaevones vocentur. Quidam, ut in licentia vetustatis, pluris deo ortos plurisque gentis appellationes, Marsos Gambrivios Suebos Vandilios adfirmant, eaque vera et antiqua nomina; ceterum Germaniae vocabulum recens et nuper additum, quoniam qui primi Rhenum transgressi Gallos expulerint ac nunc Tungri, tunc Germani vocati sint: ita nationis nomen, non gentis, evaluisse paulatim, ut omnes primum a victore ob metum, mox et a se ipsis invento nomine Germani vocarentur." 
(Tacito, De origine et situ Germanorum, II) 

Traduzione: 

"In antichi carmi, che presso di loro è l'unico genere di memorizzazione e di tradizione storica, celebrano il dio Tuistone nato dalla terra. A lui assegnano il figlio Manno, origine e fondatore della popolazione, a Manno tre figli, dai cui nomi i più vicini all'Oceano sono chiamati Ingevoni, quelli intermedi Ermioni, gli altri Istevoni. Alcuni, come capita nella libertà di chi racconta cose antiche, affermano che nacquero più figli al dio e più nomi, Marsi, Gambrivii, Suebi, Vandilii, e che quelli sono i nomi veri e antichi; per il resto il nome della Germania è recente e aggiunto da poco, poiché quelli che, avendo oltrepassato il Reno per primi, cacciarono i Galli e ora (sono chiamati) Tungri, allora furono chiamati Germani: così un po' alla volta prevalse il nome di una popolazione, non della stirpe; sicché tutti venivano chiamati Germani in un primo momento dal vincitore per paura, poi anche da loro stessi una volta trovato il nome."
 
Discussione delle etimologie 8) e 9) 

Accanto alla denominazione latina (di origine gallica) di Cambrai, Camaracum, ne è registrata anche un'altra: Gambrivium
Accanto alla denominazione alto tedesca di Amburgo, Hammaburg, ne è registrata anche un'altra: Gambrivium
Non ho reperito i dettagli di questo toponimo e delle sue attestazioni, ma è edivente che sia derivato dal nome dei Gambrivii di cui parla Tacito. 
 
Discussione dell'etimologia 10)  
 
Questa deve essere l'antica radice del nome di Gambrinus

Protogermanico: *gambraz / *gamaβraz 
Antico alto tedesco: gambar, kambar  
Longobardo: Gambara (n. pers. f.)
Glossa latina: strenuus; sagax 
Traduzione: forte; coraggioso; potente; sagace
 
Derivati: 
 
Protogermanico: *gambrīn 
Antico alto tedesco: gambarī, gambrī
Traduzione: forza, vigore; potere, virtù 
 
Protogermanico: *gambrō 
Antico alto tedesco: gambra 
Traduzione: "germinazione del grano" 
   Significato originario: "forza, potere, virtù" 
 
Quest'ultimo esito non va confuso con l'omofono seguente: 
 
    Protogermanico: *gamb(r)ō(n
    Antico inglese: gombe 
    Antico sassone: gambra 
    Traduzione: "tributo" 
    Note: Prestito dal celtico: gallico cambio- "tributo". 

Esistono alcuni notevoli esiti in norreno, che mostrano uno slittamento semantico peggiorativo: 

Protogermanico: *gambran 
Norreno: gambr 
Traduzione: "discorso sfrenato", "vanteria" 
   Significato originario: "esibizione di forza" 

Protogermanico: *gambrōnan 
Norreno: gambra 
Traduzione: "parlare in modo sfrenato", "vantarsi" 
   Significato originario: "esibire la propria forza" 

Protogermanico: *gambrisaz 
Norreno: gambrs 
Traduzione: "tipo di uccello" 
Note: Non sono riuscito ad identificare la specie precisa di volatile designato con questo strano appellativo.
 
L'etimologia ultima della radice protogermanica è sconosciuta: deve essere un relitto del sostrato preindoeuropeo. 
 
Conclusioni 
 
L'identità di Gambrinus è a questo punto evidente. Egli è Wotan, l'inventore di tutte le Arti.  

sabato 26 giugno 2021

LA CUCINA DELL'ANTICA ISLANDA

Anni fa, mentre mi trovavo in Valle d'Aosta, in una libreria mi imbattei in un interessante volume. Commisi l'errore di non acquistarlo. Ora è fuori catalogo e non si riesce a trovarlo facilmente.
 
La stirpe di Odino. La civiltà vichinga in Islanda 
Copertina flessibile – 28 febbraio 2012
di Jesse Byock (Autore), M. Federici (Traduttore) 

Questa è la sinossi (da www.goodreads.com):
 
"I primi coloni raggiunsero l'Islanda dalla Scandinavia e dalla Britannia vichinga alla metà del IX secolo e qui diedero vita a uno stato libero, indipendente e non gerarchico, che costituisce un unicum nella storia europea. Le strutture sociali, economiche, politiche e giuridiche, infatti, per quanto ispirate a quelle delle zone d'origine, dovettero essere modellate su una realtà geografica del tutto nuova, difficile e affascinante, e durarono con minime evoluzioni fino alla conquista norvegese del 1260, dando vita a una civiltà rurale, con una stupefacente cultura del diritto e un forte senso dell'onore.  
In questo libro, che il grande medievista Le Goff ha definito "splendido e affascinante", l'autore indaga l'Islanda indipendente in modo globale, facendo ricorso a molteplici tipologie di fonti, da quelle giuridiche a quelle archeologiche, e in particolare analizza le splendide saghe, capolavori letterari dai quali è possibile ricavare la più esatta descrizione di quello che voleva dire vivere nella "terra dei ghiacci" tra IX e XIII secolo." 
 
Leggendo lunghi brani dell'opera di Byock mentre ero nella libreria, sono rimasto particolarmente affascinato dai contenuti riguardanti le antiche tradizioni gastronomiche islandesi. 

Cibo acre! 
 
La fermentazione lattica e la putrefazione controllata erano i principali fondamenti della cucina nell'Islanda antica, fin dai tempi in cui era una nazione libera e pagana, ancor prima che il Cristianesimo venisse adottato tramite votazione in una fatidica riunione dell'Althing tenutasi nell'anno 1000.
Tutti sanno cos'è il latte acido: quando si lascia un cartoccio di latte fuori dal frigo, dopo alcuni giorni la massa grassa precipita e si separa il siero. L'odore della parte grassa è acre ed abominevole: ricorda lo smegma rappreso e irrancidito, ossia il prodotto di desquamazione dei genitali che ha assunto l'aspetto e le proprietà organolettiche del formaggio. Questo schifo immondo viene visto con disgusto e gettato via, nessuno saprebbe che farsene.
Nell'antica Islanda la parte sierosa era chiamata sýra (genitivo sýru; plurale sýrur) ed era usata per conservare i cibi. Il suo nome deriva dall'aggettivo norreno súrr che significa "amaro, aspro, sgradevole", dalla stessa radice protogermanica che ha dato l'inglese sour "acido" e il tedesco Sauer "acido". Questo sviluppo culinario non è stato importato dalla Norvegia, ma si è formato specificamente nell'Isola dei Ghiacci per via della carenza di sale - fattore che ha portato alla ricerca di diversi metodi per la conservazione dei cibi. Questo siero aveva una percentuale altissima di acido lattico! 
La procedura di conservazione era semplice. Si prendeva la carne bollita e la si lasciava macerare in un barile di sýra, dove subiva un processo di fermentazione che la trasformava in qualcosa che, per quanto possa sembrarci ripugnante al palato, poteva essere conservato a lungo e trasportato senza problemi in caso di necessità. Questo processo impediva alla carne di marcire e faceva sì che potesse conservarsi per tutto l'inverno. 
La parte grassa del latte acido, ricchissima di proteine, veniva ulteriormente coagulata in un latticino chiamato skyr (genitivo skyrs, dativo skyri) tramite l'introduzione dell'estratto delle membrane dello stomaco degli agnelli.
Mescolato alla sýra, questo skyr cagliato poteva essere agevolmente conservato in grandi recipienti interrati e bevuto quotidianamente. Ancora oggi è prodotto in Islanda lo skyr, ma il metodo di lavorazione deve essere migliorato rispetto a quello usato nell'antichità, come anche le sue proprietà organolettiche: chi lo ha assaggiato lo considera simile a un moderno yogurt denso.
Bere il latte fresco sarebbe stato considerato un lusso da quelle genti ruvide e indomite: soltanto i malati e i monaci ne bevevano in piccole quantità. Quasi nulla veniva mangiato se non era acido al punto giusto. Opportuni trattamenti di fermentazione e di putrefazione controllata trasformavano i prodotti bovini e quelli delle foche, e questi venivano trasportati e commerciati anche a grandi distanze dal loro luogo di produzione. Lo stesso burro non salato, conservato in barili, irrancidiva e andava anche oltre il rancido, subendo fermentazione e generando acido lattico in gran quantità, fino a cambiare del tutto le sue proprietà. Era il burro acido, ci cui gli occasionali visitatori dell'isola ci hanno lasciato descrizioni assai poco entusiastiche. Esistevano anche i salumi, come le salsicce e i sanguinacci, che contenevano moltissimo grasso ed erano fatti con carne bovina e di pecora. Gran parte del poco sale disponibile era usato per prepararle.   
 
Il formaggio e un aneddoto 
 
I coloni norvegesi hanno portato in Islanda l'arte di produrre il formaggio. Il nome norreno del formaggio è ostr (genitivo osts; plurale ostar).
 
Questo è il testo in norreno: 
 
Snorri Þorbrandsson var hressastr þeira brǿðra ok sat undir borði hjá nafna sínum um kveldit, ok hǫfðu þeir skyr ok ost. Snorri goði fann, at nafni hans bargst lítt við ostinn, ok spurði, hví hann mataðist svá seint. Snorri Þorbrandsson svaraði ok sagði, at lǫmbunum væri tregast um átit, fyrst er þau eru nýkefld. Þá þreifaði Snorri goði um kverkrnar á honum ok fann, at ór stóð um þverar kverkrnar ok í tungurǿtrnar. Tók Snorri goði þá spennitǫng ok kippði brott ǫrinni, ok eptir þat mataðist hann.  
 
Traduzione: 
 
Fra i figli di Thorbrand il più in gamba era Snorri; egli sedetta a tavola, quella sera, accanto al suo omonimo; ebbero per pasto latte acido e formaggio. Il godi Snorri rilevò che il suo omonimo mangiava svogliatamente il formaggio, e gli chiese perché si cibasse così lentamente. Snorri, figlio di Thorbrand, rispose dicendo che gli agnelli è difficile mangiare, se hanno un legaccio in bocca. Allora il godi Snorri lo tastò e trovò che una freccia stava confitta in gola fino alla radice della lingua; allora il godi Snorri prese una tenaglia e gli strappò via la freccia: dopo ciò quello prese a mangiare.
 
Per il testo completo della saga in norreno, riporto questo link: 
 
 
Per noi moderni è molto difficile immaginare l'estrema brutalità di quell'ambiente, la durezza di quelle fiere genti. Nel corso dei secoli la produzione di formaggio si è persa in Islanda, a favore di quella dello skyr. Non dobbiamo aspettarci qualcosa di simile al parmigiano, è ovvio. Gli antichi Germani conoscevano soltanto il formaggio a pasta molle, che non doveva avere una sapore eccellente. "Il formaggio era una cosa comune quando la terra fu colonizzata per la prima volta, ma non per molto. Il freddo e i vulcani hanno avuto un ruolo nella storia del formaggio islandese, per quanto assurdo possa sembrare. In una fase fredda, tutta la legna da ardere doveva essere utilizzata per riscaldare le case e non rimaneva nulla per ricavare il sale dall'oceano, fondamentale per la produzione del formaggio. Inoltre, le fasi fredde e le eruzioni vulcaniche non sono particolarmente favorevoli alle mucche." (Eirný Sigurðardóttir, 2017). La produzione casearia è stata reintrodotta negli anni '60 dello scorso secolo. Attualmente gli Islandesi si sono rivelati avidissimi di formaggio. 
 
 
Squali e cetacei 
 
Della cucina dell'epoca della colonizzazione dell'Islanda si conserva ancora ai nostri giorni il cosiddetto "squalo putrefatto", in islandese hákarl (pronuncia moderna /'haukhadl/, pronuncia norrena /'ha:karl/). Si prende una carcassa di squalo elefante (Cetorhinus maximus) o di squalo groenlandese (Somniosus microcephalus), la si eviscera e la si seppellisce in una fossa scavata nella spiaggia, avendo cura di ricoprirla di sabbia in modo tale da favorire i processi anaerobici di fermentazione. Durante i mesi che seguono, l'acido urico e altre sostanze tossiche vengono espulse. Si esuma poi la carcassa, macellandola, tagliando la carne in strisce sottili e sottoponendola ad affumicatura ed essiccazione. A questo punto è pronta per essere consumata.
Ha un odore intenso di ammoniaca, il gusto è quello di formaggio fortissimo tipico della carne putrefatta. Forse per via della somiglianza con i cadaveri, vi sono islandesi che si rifiutano di mangiarne. Il piatto è più che altro una curiosità che attrae i turisti. L'etimologia del ternime hákarl è abbastanza semplice: la parola, nota anche nella forma femminile hákerling, in norreno significava semplicemente "palombo" o "pescecane". Le radici che la compongono sono hár "palombo, pescecane; grigio", e karl "uomo". Del tutto infondata è l'opinione di coloro che attribuiscono alla parola un'origine onomatopeica, facendo credere che hákarl imiti il grugnito di disgusto di chi assaggia quella pietanza cadaverica.
La necessità di questo trattamento è dovuta al fatto che gli squali artici hanno carni tossiche che non possono essere consumate fresche, a differenza degli squali che popolano i nostri mari, che includono invece un gran numero di specie commestibili come il palombo (Mustelus mustelus), lo smeriglio (Lamna nasus), la verdesca (Prionace glauca), il gattuccio (Scyliorhinus canicula) - e persino il pesce martello (famiglia Sphyrnidae), la cui carne è mediocre e spesso spacciata per pesce spada (Xiphias  gladius) nelle mense italiane.
In epoca antica, allo stesso trattamento putrefattivo era sottoposta la carne di balena. Quando una balena si spiaggiava, veniva immediatamente macellata, anche se era già morta. Spesso accorrevano diverse famiglie sul luogo dello spiaggiamento, e ne sorgevano terribili liti per la spartizione della carne, fresca o passata che fosse. Durante questi alterchi ci scappava non di rado il morto e si originavano sanguinose faide che richiedevano l'arbitrato per essere risolte. La carne così bottinata veniva deposta nelle fosse e fatta decomporre in modo controllato, in modo simile a quello ancora usato per lo squalo putrefatto. 
 
Nella Saga dei Fratelli di Sangue (Fóstbrǿðra Saga), capitolo 7, Thorgils Masson e i suoi compagni scoprono che una balena che si è spiaggiata su una terra comune. Thorgeir Havarson e Thormod Bersason lo vengono a sapere a accorrono sul luogo dove Thorgils già sta macellando la carcassa del cetaceo, reclamando il possesso della carne, tutta o in parte. Ne sorge uno scontro furioso: Thorgils viene ucciso e Thorgeir viene bandito per omicidio. Ecco il testo in norreno:   
 
Víg Þorgils Mássonar ok sekð Þorgeirs

Um várit eptir fór Þorgeirr til Ísafjarðar, þangat sem skip þeira stóð uppi. Þar kom ok Þormóðr ok skipverjar þeira. Þeir fara norðr á Strandir, þegar þeim gaf byr.   Þorgils hét maðr, er bjó at Lækjamóti í Víðidal. Hann var mikill maðr ok sterkr, vápnfimr, góðr búþegn. Hann var skyldr Ásmundi Hærulang, fǫður Grettis. Hann var ok skyldr Þorsteini Kuggasyni. Þorgils var Másson. Hann fór ok á Strandir ok var genginn á hval þann, er kom á Almenningar, ok fǫrunautar hans.   Þorgeiri verðr eigi gott til fangs, þar sem hann var kominn. Berr honum engi hvalfǫng í hendr, þar sem hann var kominn, né ǫnnur gǿði.   Nú spyrr hann, hvar Þorgils var á hvalskurðinum, ok fara þeir Þormóðr þangat, ok er þeir kómu þar, þá mælti Þorgeirr: „Þér hafið mikit at gert um hvalskurðinn, ok er þat vænst at láta fleiri af njóta en yðr þessa gagnsmuna. Er hér ǫllum jafnheimolt.“   Þorgils svarar: „Vel er þat mælt. Hafi hverr þat, sem skorit hefir.“   Þorgeirr mælti: „Þér hafið mikinn hluta skorit af hvalnum, ok hafið þér þat, sem nú hafið þér skorit, ok vildum vér annathvárt, at þér gangið af hvalnum ok hafið þér þat, sem þér hafið af skorit, en vér þann hluta, er óskorinn er, eða hvárir at helmingi bæði skorinn ok óskorinn.“   Þorgils svarar: „Lítit er mér um at ganga af hvalnum, en vér erum ráðnir til at láta eigi lausan þann hlut fyrir yðr, er skorinn er, meðan vér megum á halda á hvalnum.“  Þorgeirr mælti: „Þat munuð þér þá reyna verða, hversu lengi þér haldið á hvalnum fyrir oss.“   Þorgils svarar: „Þat er ok vel, at svá sé.“   Nú herklæðast hvárirtveggju ok bjuggust til bardaga, ok er þeir váru búnir, þá mælti Þorgeirr: „Þat er vænst, Þorgils, at vér sǿkimst, því at þú ert fulltíði at aldri ok knáligr ok reyndr at framgǫngu, ok er mér forvitni á at reyna á þér, hverr ek em. Skulu aðrir menn ekki til okkars leiks hlutast.“   Þorgils segir: „Vel líkar mér, at svá sé.“   Mjǫk váru þeir jafnliða. Nú sǿkjast þeir, ok berjast hvárirtveggju. Þeir Þorgeirr ok Þorgils láta skammt hǫggva í milli, því at hvárrtveggi þeira var vápnfimr, en fyrir því at Þorgeirr var þeira meir lagðr til mannskaða, þá fell Þorgils fyrir honum. Í þeim bardaga fellu þrír menn af Þorgils liði. Aðrir þrír fellu af liði þeira Þorgeirs.  Eptir þenna bardaga fóru fǫrunautar Þorgils norðr til heraðs með miklum harmi. Þorgeirr tók upp allan hvalinn, skorinn ok óskorinn. Fyrir víg Þorgils varð Þorgeirr sekr skógarmaðr. Fyrir hans sekð réð Þorsteinn Kuggason ok Ásmundr Hærulangr.   Þeir Þorgeirr ok Þormóðr váru þat sumar á Strǫndum, ok váru þar allir menn hræddir við þá, ok gengu þeir einir yfir allt sem lok yfir akra. Svá segja sumir menn, at Þorgeirr mælti við Þormóð, þá er þeir váru í ofsa sínum sem mestum: „Hvar veiztu nú aðra tvá menn okkr jafna í hvatleika ok karlmennsku, þá er jafnmjǫk sé reyndir í mǫrgum mannraunum, sem vit erum?“   Þormóðr svarar: „Finnast munu þeir menn, ef at er leitat, er eigi eru minni kappar en vit erum.“   Þorgeirr mælti: „Hvat ætlar þú, hvárr okkarr myndi af ǫðrum bera, ef vit reyndim með okkr?“ 
Þormóðr svarar: „Þat veit ek eigi, en hitt veit ek, at sjá spurning þín mun skilja okkra samvistu ok fǫruneyti, svá at vit munum eigi lǫngum ásamt vera.“   Þorgeirr segir: „Ekki var mér þetta alhugat, at ek vilda, at vit reyndim með okkr harðfengi.“   Þormóðr mælti: „Í hug kom þér, meðan þú mæltir, ok munum vit skilja félagit.“   Þeir gerðu svá, ok hefir Þorgeirr skip, en Þormóðr lausafé meira ok ferr á Laugaból, en Þorgeirr hafðist við á Strǫndum um sumarit ok var mǫrgum manni andvaragestr. Um haustit setti hann upp skip sitt norðr á Strǫndum ok bjó um ok stafaði fyrir fé sínu. Síðan fór hann á Reykjahóla til Þorgils ok var þar um vetrinn. Þormóðr víkr á nǫkkut í Þorgeirsdrápu á misþokka þeira í þessu erendi:

   Frétt hefr ǫld, at áttum,
   undlinns, þás svik vinna,
   rjóðanda nautk ráða,
   rógsmenn saman gnóga.
   Enn vilk einskis minnask
   ǿsidýrs við stýri,
   raun gatk fyrða fjóna,
   flóðs nema okkars góða. 

 
Traduzione:  
 
Omicidio di Thorgils Masson e colpa di Thorgeir

La primavera successiva Thorgeir si recò a Isafjörd, dove era stata allestita la loro nave. Vennero anche Thormod e il loro equipaggio. Si dirigono a nord verso Strandir, non appena c'è un vento favorevole.  C'era un uomo chiamato Thorgils che viveva a Lækjamot nel Videdal. Era un uomo grande e forte, armato, un buon agricoltore. Era imparentato con Asmund Hærulang, il padre di Gretti. Era anche imparentato con Thorstein Kuggason. Thorgils era figlio di Mar. Andò anche a Strandir e lui e i suoi compagni si misero all'assalto di una che si era spiaggiata ad Almenningar. Thorgeir non ha avuto fortuna con la caccia nel luogo in cui si trovava. Non ha preso né balene né altre prede lì. Ora scopre che Thorgils sta per squarciare una balena, e lui e Tormod vanno lì. Quando arrivano, Thorgeir dice: "Sei stato impegnato a scuoiare la balena, ma era giusto lasciare più di quanto tu beneficiassi di questa utile cosa. Abbiamo tutti uguale accesso qui.'' Thorgils risponde: "È stato detto. Ciascuno di noi conserva ciò che ha scuoiato." Thorgeir disse: "Hai scuoiato gran parte della balena. Ora vogliamo che tu lasci la balena e tieni ciò che hai scuoiato, mentre noi prendiamo la parte che non è scuoiata, oppure ognuno di noi otterrà metà dello scuoiato e ciò che non è scuoiato. Thorgils rispose: "Non sono molto favorevole a lasciare la balena, e siamo determinati a non lasciare a te la parte che è stata scuoiata, finché possiamo difendere la balena". Thorgeir disse: "Allora devi dimostrare per quanto tempo puoi difendere la balena contro di noi." Thorgils risponde: "Va benissimo se deve esserlo." Ora entrambe le parti si armarono e si prepararono alla battaglia. E quando furono pronti, Thorgeir disse: "È molto ragionevole - Thorgils! - che noi due andiamo l'uno contro l'altro, perché tu sei un uomo adulto, forte e provato in battaglia, e vorrei cimentarmi con te ― e gli altri non devono prendere parte alla nostra faccenda." Thorgils dice: "Mi va bene così." Le due parti erano quasi ugualmente forti, e ora si stanno rivoltando l'una contro l'altra e stanno combattendo. Thorgeir e Thorgils non lasciarono passare molto tempo tra i tagli, perché erano entrambi abili con le armi, ma poiché Thorgeir era più adatto a ferire gli altri, Thorgils cadde per mano sua. In questa disputa caddero tre uomini della banda di Thorgils. Altri tre caddero nel gruppo di Thorgeir e Thormod. Dopo questa battaglia, i compagni di Thorgils andarono a nord e tornarono a casa dalla signoria con grande dolore. Thorgeir si impossessò dell'intera balena, scuoiata e non scuoiata. Thorgeir fu condannato al bando per l'omicidio di Thorgils. Furono Thorstein Kuggason e Åsmund Hærulang a farlo condannare. Thorgeir e Thormod trascorsero quell'estate a Strandir, e spaventarono tutta la gente del posto, e arrivarono ovunque come erbacce nei campi. Alcuni dicono che Thorgeir, quando la loro ferocia era al culmine, disse a Thormod: "Ora dove hai visto altri due uomini che erano forti e coraggiosi come noi, e che sono stati provati in battaglia allo stesso modo come noi?" Thormod risponde: "Se li cerchi, probabilmente ne troverai alcuni che non sono meno guerrieri di noi." Thorgeir disse: "Chi di noi pensi che vincerebbe se ci mettessimo l'uno contro l'altro?" Thormod risponde: "Non lo so, ma so d'altra parte che la tua domanda metterà fine alla nostra unione e comunità, in modo che non possiamo più essere seguiti." Thorgeir dice: "Non intendevo sul serio che dovremmo metterci alla prova l'uno con l'altro." Thormod disse: "Ci hai pensato da quando l'hai detto, e ora dobbiamo sciogliere la nostra compagnia". Così hanno fatto, e Thorgeir tiene una nave, mentre Thormod tiene più beni mobili e va a Laugabol. Ma Thorgeir ha trascorso l'estate a Strandir ed è stato un gradito ospite per molte persone. In autunno salpò la sua nave a nord di Strandir, visse lì e si prese cura dei suoi soldi. Poi andò a Reykjahola da Thorgils e vi rimase per l'inverno. Nell'assassinio di Thorgeir, Thormod allude in qualche modo al loro dispiacere in questa strofa: 
 
  Le notizie circolano da un secolo,
  accidenti, allora barare è un lavoro,
  mi sono divertito a governare
  abbastanza calunniatori insieme. 
  Ancora non voglio ricordare
  un animale eccitato contro il timone,
  davvero ho ottenuto l'odio degli uomini,
  per aver preso dalla marea il nostro bene. 
 
Per il testo completo della saga in norreno, riporto questo link:  

https://heimskringla.no/wiki/
Fóstbræðra_saga

 
Le saghe islandesi sono un inestimabile patrimonio di dati il cui studio accurato ci permette di conoscere in dettaglio la vita degli isolani. Purtroppo al di fuori del loro luogo d'origine non sembrano ottenere la considerazione che meriterebbero. Nella Eyrbyggja saga si specifica che in seguito all'introduzione del Cristianesimo, in Islanda non si digiunava. Non è difficile capire che pinnipedi e cetacei, per il solo fatto di vivere in ambiente acquatico, erano a tutti gli effetti considerati "pesci". Nel 1481, Papa Sisto IV confermò questa interpretazione, scrivendo un'apposita lettera al Vescovo di Skálholt, Magnús Eyjólfsson.   

Il bestiame islandese  

I coloni giunti dalla Norvegia in più ondate portarono con sé il loro bestiame: bovini, pecore, capre, cavalli, maiali, galline e oche. Nei primi tempi della colonia, i porci venivano lasciati liberi di grufolare nei boschi. Poi, quando fu chiaro che il bestiame suino produceva l'erosione del terreno, aggravata dalla deforestazione, il suo allevamento fu vietato per legge (Diamond, 2005). La stessa sorte del porco colpì anche il bestiame caprino, che pure aveva avuto un certo successo. Nonostante sussistano tuttora diversi toponimi correlati alla capra, questa finì con l'estinguersi. Prosperarono soltanto i bovini, principale e irrinunciabile fonte di latte, e gli ovini, che fornivano lana e carne. In una terra tanto isolata, la genetica degli animali domestici si è evoluta in modo molto peculiare rispetto ai loro simili del Nord Europa, soprattutto a causa della mancanza di incroci nel corso del secoli. Ad esempio, il latte delle vacche islandesi è molto più ricco di grassi rispetto agli altri paesi. 
 
Metodi di cottura delle carni 

I metodi di cottura erano arcaici, di certo ereditati dall'epoca antecedente alla divisione dei vari popoli germanici dalla loro matrice comune. Comune a tutti i Germani era l'arrosto, che consideva nell'infilzare la carne su uno spiedo, facendola cuocere a fuoco lento e sfruttando il grasso colante. In Norvegia l'arrosto era tipico delle classi elevate, ma in Islanda non sembra essere stato molto diffuso, anche per la mancanza di selvaggina adatta (ad esempio non c'erano cervi, cinghiali e orsi bruni). Un modo più comune quanto singolare per cuocere la carne consisteva nello scavare una buca, rivestirla di legna, riempirla d'acqua, poi fatta bollire tramite pietre incandescenti. Man mano che la cottura procedeva, se necessario potevano essere aggiunte altre pietre roventi. Nell'acqua erano messe a bollire erbe e spezie. Questo sistema arcaico era un tempo usato in tutta la Scandinavia pagana per preparare le carni delle vittime sacrificali durante il sacrificio, detto blót in norreno (genitivo blóts; plurale blót). Non è improbabile che la sua origine fosse addirittura anteriore all'adozione di una lingua indoeuropea da parte degli antenati dei Germani. Si noterà che i pastori baschi della Biscaglia, tra i gruppi più arcaici d'Europa, usavano questo sistema per far bollire il latte fino a tempi recenti e forse lo usano tuttora. Finché durarono i costumi pagani, i blót erano un'occasione per mangiare carne fresca, non lavorata. In seguito all'adozione del Cristianesimo, il consumo di carne fresca divenne molto raro: in genere si mangiava un montone o un agnello in occasione del Natale. 
Che dire dell'orso polare (Ursus maritimus)? Non sarebbe stato conveniente arrostirlo e banchettare con le sue carni? Ai tempi della colonizzazione l'orso polare scendeva raramente fino in Islanda: gli avvistamenti riportati sono pochissimi. Non era considerato commestibile. Probabilmente i primi Vichinghi che provarono a mangiarne uno finirono intossicati in modo gravissimo per via del fegato molto velenoso, pieno zeppo di vitamina A e in grado di uccidere facilmente. Gli Inuit sanno bene che non bisogna mangiare il fegato dell'animale, ma questa conoscenza non dovette essere compresa dai coloni.   
 
La carne di cavallo 
 
Quando l'Islanda adottò per legge il Cristianesimo, furono per qualche tempo conservate alcune reliquie pagane: il culto degli Dei in forma privata, l'esposizione infantile e il consumo di carne equina. In quella terra erano molto comuni i sacrifici di cavalli, finché fu in vigore il Costume Antico. Le carni dei nobili animali immolati venivano poi consumate nel corso dei banchetti dedicati alle divinità. Per contro, il Cristianesimo aborriva questi costumi e nutriva una forte avversione per la carne equina come cibo. Stando ai seguaci della nuova fede, tutta quella succulenta abbondanza sarebbe dovuta finire ai vermi, nella terra molle. Una quindicina di anni dopo l'adozione del Cristianesimo in Islanda, il fanatico Re Olaf II di Norvegia (995 - 1030) si interessò all'Isola dei Ghiacci e alla sua popolazione sofferente: volle sapere come la religione cristiana vi fosse osservata. Fu allora riferito al sovrano norvegese che nel frattempo tutti i resti della religione pagana erano stati aboliti in Islanda, compreso il consumo di carne di cavallo. Il Re Olaf ne fu molto rallegrato. Non va dimenticato che tra le inique leggi da lui emanate ve ne era una che vietava di mangiare la carne equina, comminando ai trasgressori la pena di morte. Gli Islandesi erano coraggiosissimi quando si trattava di impugnare le armi in faide e liti private, ma avvizzivano alla sola idea di affrontare i sovrani di Norvegia e le loro armate. Temevano oltre ogni misura l'interruzione dei traffici commerciali, da cui dipendeva l'esistenza stessa della colonia in un territorio tanto povero di risorse naturali. Sono comunque dell'avviso che avrebbero benissimo potuto resistere nella religione di Thor, evitando così di essere incatenati da quella di Cristo: invece cedettero per una serie di eventi sfavorevoli, perché non era giunta loro la voce della morte del Re Olaf Tryggvason, avvenuta proprio nell'anno 1000. Secondo alcuni era imminente una terribile guerra civile tra la fazione cristiana e quella pagana, e non ho ragione di dubitarlo. Un bagno di sangue sembrava imminente. Forse gli adoratori degli Dei avrebbero potuto farsi onore nella pugna e resistere anche al Re Olaf II, il figlio di Harald, e per giunta con grande facilità, permanendo nei costumi degli Avi. Tuttavia sul lungo periodo la sorte sarebbe stata per loro funesta, anche a causa del peggioramento del clima, che li avrebbe condannati a morire di fame senza aiuti esterni.     
 
Carni e uova di uccelli marini 

Un contributo molto importante al sostentamento delle genti dell'Islanda veniva da altri cibi che noi riterremmo abominevoli: gli uccelli marini e le loro uova.
L'abbondanza di gabbiani e delle loro uova in un luogo giustificò spesso l'insediamento di coloni, attratti dalla disponibilità di cibo. Venivano mangiati uccelli marini di ogni tipo, compresa la pulcinella di mare (Fratercula arctica). Ancora oggi il cuore della pulcinella di mare è ritenuto una ghiottoneria.   
Nel XIX secolo, i coloni stanziati nelle isole Vestmann avevano come unico cibo disponibile i salumi di uccelli marini, e a causa dell'insalubrità di una simile alimentazione le loro donne davano spesso alla luce bambini colpiti da tetano neonatale. Il nesso tra consumo di tale carne e la terribile malattia dei neonati è dimostrato dall'analisi di un'altra popolazione che aveva una dieta simile, quella dell'isola di Saint Kilda (gaelico Hiort). Tempo fa ho riportato un importante documento su questo tema, tradotto in italiano (forse per la prima volta), in un mio contributo intitolato Sulle malattie degli Islandesi. Questo è il link: 
 
 
Con mia grande sorpresa ho appreso che le uova del gabbiano comune (Chroicocephalus ridibundus), detto anche gabbiano dalla testa nera, sono tuttora molto ricercate in Inghilterra, dove costano di più di quelle di gallina per via della loro scarsità e delle notevoli difficoltà di raccolta, che dura soltanto 3 o 4 settimane ogni anno. Un singolo uovo di gabbiano può arrivare a costare fino a 8 sterline: è uno dei più dispendiosi ingredienti usati dagli chef britannici nelle loro preparazioni culinarie. È ritenuto un cibo di lusso. Senza dubbio l'uso alimentare che gli Inglesi fanno delle uova di questi volatili è un costume ereditato dai Vichinghi. Sono riuscito a trovare nel Web un blog che riporta informazioni molto interessanti. Questo è il link:
 
 
Cereali, polente e pane
 
I cibi più popolari nell'antica Islanda erano grossolani pastoni di cereali, specie di polente fatte di orzo o di avena. In norreno il nome di questo cibo è grautr (genitivo grautar; senza plurale). Nel dizionario di Zoëga la glossa inglese è "porridge". Scovazzi ha usato traduzioni più fantasiose, come "polenta di aveva" e "tritello d'orzo". Questo è un testo in norreno che menziona la pastosa preparazione (Eyrbyggja saga, capitolo 39):
 
Þeir fengu hǿgja útivist ok kómu við Hǫrðaland ok tóku þar útsker eitt. Þeir bjuggu þar mat sinn á landi. Þorleifr kimbi hlaut búðarvǫrð, ok skyldi gera graut. Arnbjǫrn var á landi, ok gerði sér graut; hafði hann búðarketil þann, er Þorleifr skyldi hafa síðan. Gekk Þorleifr á land upp, ok bað Arnbjǫrn fá sér ketil inn, en hann hafði þá enn eigi gerðan sinn graut, ok hrǿrði enn þá í katlinum, ok stóð Þorleifr yfir honum uppi. Þá kǫlluðu Austmenn af skipinu utan, at Þorleifr skyldi mat búa, sǫgðu hann mjǫk íslenzkan, ok kváðu hann slikt hafa fyritómlæti sitt. Þá varð Þorleifi skapfátt, ok tók ketilinn, en steypti niðr grautinum Arnbjarnar; sneri á brott síðan. Arnbjǫrn hélt á þvǫrunni, ok laust með henni til Þorleifs, ok kom á hálsinn; þat var litit hǫgg, en með þvi at grautrinn var heitr, þá brann Þorleifr á hálsinum.
 
Traduzione:
 
Ebbero una navigazione favorevole, giunsero a Hördaland e approdarono in un'isola rocciosa. Essi prepararono a terra il loro pasto. Thorleif Kimbi fu sorteggiato a cuocere le vivande, e doveva preparare una polenta d'avena. Arnbjörn stava a terra e si preparava il suo orzo tritato egli aveva la casseruola, che avrebbe poi dovuto adoperare Thorleif. Questi allora andò a terra e pregò Arnbjörn di dargli la casseruola, ma quello non aveva terminato il suo tritello e mescolava ancora nella casseruola: Thorleif stava presso di lui. Allora i Norvegesi gridarono dalla nave che Thorleif doveva preparare il pasto, e dissero che doveva essere proprio un Islandese, data la sua lentezza. Allora Thorleif si scatenò, afferrò la casseruola, buttò via il tritello di Arnbjörn e se n'andò via. Arnbjörn gli stava dietro e impugnava il mestolo: con questo colpì Thorleif e lo raggiunse al collo: fu una ferita leggera, ma per il fatto che il tritello era caldo, bruciò Thorleif al collo. 
 
Il cereale più coltivato dagli Islandesi ai tempi della colonizzazione era l'orzo. Anzi, era quasi l'unico. Il suo nome norreno è bygg. L'avena doveva essere scarsa, mentre è certo che la segale e il frumento erano merci d'importazione, non potendo crescere sull'isola. Il pane di frumento era molto costoso, quindi potevano permetterselo soltanto persone particolarmente benestanti; lo stesso impasto serviva anche per produrre le ostie usate dai preti per la celebrazione dell'Eucarestia. Con ogni probabilità la panificazione avveniva senza lievito. Erano prodotti tre tipi di pane: una focaccia sottile cotta sulle braci o su pietre roventi, un pane grossolano e pesante seppellito nella cenere, focacce di grano fini cotte in padella. Si è scoperto che era utilizzato anche un cereale selvatico in grado di crescere persino negli ambienti più estremi: l'orzo delle sabbie (Elymus arenarius), come dimostrato da Lisa Carlson Griffin e da Ralph M. Rowlett nel loro lavoro A lost "Viking" cereal grain (1981).  
Il clima divenne sempre più rigido e nel corso del XV secolo la coltivazione dell'orzo divenne impossibile. Una conseguenza gravissima fu la completa scomparsa di quello che un simpatico fratacchione considerava un modo divino di consumare i cereali: la birra! L'allegra bevanda fu sostituita dal siero acido chiamato sýra allungato con acqua, che però non era alcolico. La carestia fu la norma in quei tempi terribili, in cui moltissime persone si ischeletrirono e morirono di fame senza aver mai conosciuto una gioia.
Nel tardo Medioevo la mancanza di cereali e la conseguente assenza di pane nella dieta, divennero così evidenti che la maggior parte dei visitatori stranieri ne erano stupefatti e ne facevano menzione nei loro scritti. Una diceria comune voleva che i contadini islandesi avrebbero permesso volentieri a chiunque potesse fornire loro un pezzo di pane di dormire con le loro figlie, in cambio di questa rara ghiottoneria.
Nel 1492 il navigatore e cartografo tedesco Martin Behaim (Norimberga, 1459 - Lisbona, 1507) scrisse che in Islanda si trovavano uomini di ottant'anni che non avevano mai assaggiato il pane, alimento che era sostituito dal pesce. Il pane e burro che tanto piaceva ai Vichinghi aveva lasciato da tempo il passo al pesce imburrato. Non dobbiamo mai dimenticare che quella comunità isolata rischiò concretamente di soccombere, come è accaduto alle genti della Groenlandia.  
 
Assenza di alberi da frutto 
 
Quando i coloni giunsero in Islanda, non vi trovarono alcuna specie di albero da frutto. L'unica specie arborea era la betulla (Betula pubescens). Gli alberi furono abbattuti a ritmo serrato, finché non rimase ben poco delle antiche foreste: la terra fu quasi completamente decalvata. Non si trovava nessuno degli alberi proficui presenti in Norvegia. Non c'erano i meli, donatori delle piccole mele nordiche. Non erano certo le mele dorate e grosse che si diceva crescessero ad Asgard, ma di certo sarebbero state di aiuto. Non si riusciva a trovare neppure l'ombra di una noce, di una nocciola o di una ghianda.  
Provate a immaginarvi, se ci riuscite, un paese in cui il nome stesso della mela è soltanto una reminiscenza letteraria. Non sarebbe un'impresa facile! 
Le uniche risorse in quanto a frutta erano le bacche selvatice, tra cui il mirtillo nero (Vaccinium myrtillus) e il mirtillo blu (Vaccinium uliginosum). Molto comune era l'empetro nero (Empetrum nigrum), la cui bacca ha un gusto molto aspro e che era considerata una leccornia. Era presente anche l'uva ursina (Arctostaphylos uva-ursi), anch'essa abbastanza sgradevole al palato. Le bacche erano spesso aggiunte allo skyr.   
Uno sviluppo peculiare e inatteso della gastronomia dell'antica Islanda è l'uso di un'alga rossa (Palmaria palmata) che non era consumata in Norvegia. Il suo nome norreno è sǫl (genitivo plurale sǫlva). In inglese quest'alga è chiamata dulse (varianti: dillisk, dilsk), termine che deriva dall'irlandese duileasc, a sua volta dall'antico irlandese duilesc (protoceltico *doliskos, dalla stessa radice di *doliā "foglia"). Quesa innovazione è stata senza dubbio importata dall'elementi irlandese, che tanta parte ha avuto nella formazione del popolo dell'Isola dei Ghiacci.    
Dalla combustione dell'alga rossa si ottenevano esigue quantità di sale. Era il cosiddetto "sale nero", pieno zeppo di sporcizia e di ceneri, ma sempre meglio di niente.
 
Assenza di api e scarsità di miele 
 
In Islanda il clima era tanto rigido che l'ape domestica (Apis mellifica) non vi attecchiva: anche nei periodi storici di maggior mitezza climatica, gli inverni duravano comunque più a lungo di quanto l'utile imenottero riuscisse a sopportare. Una drammatica conseguenza di questo fatto è stata fin da subito la necessità di importare il miele dalla Norvegia. Al giorno d'oggi il miele è un alimento abbastanza marginale nell'alimentazione umana ed esistono altre sostanze dolcificanti più diffuse; tra tutti i Germani antichi l'uso principale del miele era però la produzione della più nobile bevanda alcolica: l'idromele. Il nome norreno dell'idromele è mjǫðr (genitivo mjaðar, dativo miði). In Islanda alligna una specie nativa di bombo (Bombus jonellus), ma non è in grado di produrre un miele utilizzabile, essendo assai scarsa la sua quantità e di difficile raccolta. Altre specie di bombi attualmente presenti (Bombus hortorum e Bombus lucorum) sono con ogni probabilità di introduzione recente. Sappiamo che gli Islandesi non si rassegnarono tanto facilmente alla mancanza di idromele e che persino in Groenlandia venivano importati favi di miele dalla Norvegia, ancora in epoca tarda (Diamond, 2005). In ogni caso, la bevanda finì con lo scomparire e finì con l'essere soltanto una nozione letteraria, come una grande quantità di altre cose preziose, che pure un tempo erano state comuni. Si capirà che in assenza di idromele e di birra, a un certo punto persino ubriacarsi doveva essere un'impresa disperata!    
Dopo secoli di carenza di miele in Islanda, ecco che l'apicoltura è stata finalmente introdotta con successo negli anni '60 del XX secolo da un volenteroso apicoltore norvegese Torbjørn Andersen, che possiede 20 arnie e produce ogni anno fino a 200 chili di miele. Il prodotto costa circa 100 euro al chilo. Produrre 5 litri di idromele con questo miele verrebbe a costarmi circa 200 euro, trascurando il costo dell'acqua naturale e del lievito. Decisamente troppo. In tutto, ogni anno sono prodotte in Islanda da 1 a 2 tonnellate di miele.  
 
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Il vino 
 
Naturalmente in Islanda non è mai attecchita la vite e non si è mai avuta una produzione vinicola locale. Tuttavia l'affermarsi del Cristianesimo rese necessaria l'importazione del vino, anche se a prezzi esorbitanti, perché era imprescindibile il suo uso per la celebrazione dell'Eucarestia: infatti non può essere sostituito da bevande inebrianti non ottenute dall'uva. Sappiamo che il vino veniva importato persino nella remota colonia della Groenlandia, con difficoltà anche maggiori (Diamond, 2005). Ci dovevano essere periodi in cui il vino non giungeva a destinazione. Nella sede vescovile islandese di Skálhot si produceva una bevanda ottenuta dalle bacche selvatiche dell'empetro nero: evidentemente veniva mescolata allo scarso vino disponibile o forse lo sostituiva, essendo considerata "vino" grazie a una dispensa papale. C'è anche un'altra possibile spiegazione. Sappiamo bene che i vescovi erano furbi come volpi e voraci come lupi. Forse uno di loro ha cominciato a spacciare per vino d'uva il prodotto dell'empetro nero ai parrocchiani ingenui. Senza dubbio per dir messa ne serviva ben poco, il resto era ingurgitato dai principi della Chiesa di Roma! Ancora oggi una simile bevanda è prodotta di uno dei pochi vinificatori d'Islanda (forse l'unico), Ómar Gunnarsson: il suo marchio commerciale è Kvöldsól, alla lettera "Sole della Sera". Si tratta con ogni probabilità di una reintroduzione recente anziché della diretta continuazione della bevanda che si produceva a Skálholt.
 
Una cucina fatta di mancanze  

Concludo riportando queste significative osservazioni: 
 
"È ovvio che la cucina islandese di tutti i giorni, fin dai tempi più antichi, differiva in molti modi dalla contemporanea cucina nordeuropea, e penso che si possa dire con certezza che ciò non riflette il cambiamento dei gusti. Ci sono indicazioni che i coloni abbiano cercato di continuare a fare le cose come avevano sempre fatto, ma sono stati costretti, rapidamente o gradualmente, ad adattarsi a un ambiente più duro. La cucina islandese è stata per quasi mille anni una cucina di mancanze: mancanza di grano, mancanza di prodotti freschi, mancanza di sale, mancanza di combustibile, persino mancanza di recipienti e utensili da cucina. Il popolo islandese ha dovuto pagare un certo prezzo per aver scelto di vivere in un luogo più a nord della vita stessa, ma si è adattato al proprio ambiente ed è riuscito a sopravvivere per mille anni con quello che aveva." 
(Nanna Rögnvaldardóttir, 2021). 
 
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