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venerdì 20 agosto 2021

IL MISTERO DEL VINO DI SICOMORO

Il sicomoro (Ficus sycomorus) era molto considerato nell'antico Egitto, essendo l'albero sacro alla Dea Hathor, patrona della fecondità. Era anche chiamato "albero dell'Eternità" e "albero dei Faraoni": col suo legno venivano fabbricati i sarcofagi. I frutti del sicomoro, simili a fichi di colore chiaro e rossiccio, erano un cibo molto apprezzato. Provenendo da un albero sacro, erano associati all'immortalità e spesso venivano posti nelle tombe come offerta per i defunti. Oltre a questo, con tali fichi veniva prodotta una bevanda inebriante, che è da tempo scomparsa. A quanto pare era forte, al punto che bruciava la gola ed era paragonato alla fiamma (vedi The Fig in Ancient Egypt su Reddit). Diversi anni fa mi sono imbattuto in contributi di navigatori che si chiedevano perché il vino di sicomoro non fosse più stato prodotto. Non ho più trovato tracce dei loro interventi, ma cercherò di dare una risposta a questo importante interrogativo. 
 

Non mi stupisce troppo l'incapacità di trovare qualsiasi traccia di uno specifico termine egiziano per indicare una bevanda prodotta dai fichi del sicomoro. Col passaggio al Cristianesimo, caddero in disuso e furono obliate molte parole che appartenevano alla sfera semantica degli antichi culti. Altre furono invece conservate in copto, perché non suscettibili di ricevere un'interpretazione positiva in senso cristiano. A scomparire furono proprio quelle parole che non poterono subire l'esaugurazione, perché i concetti che esprimevano erano incompatibili con la nuova religione, che non fu esente da manifestazioni di fanatismo e di furore iconoclastico. Qualcosa di simile come accadde anche in latino, dove parole come templum e altāre si conservarono, mentre i sinonimi fānum e āra furono colpite da interdetto e scomparvero dalla lingua popolare. 
 
Si potrebbe dedurre che il vino di sicomoro era bevuto unicamente in occasione di rituali funebri, motivo per cui finì con l'essere abolito. La sua memoria si sarebbe quindi persa rapidamente. Non sono però chiari i dettagli di questo processo di scomparsa di un'antica eredità. 
Sbagliano coloro che hanno ipotizzato che la causa della scomparsa di questa bevanda sia stato l'Islam. Evidentemente non era già più conosciuta quando gli Arabi hanno conquistato l'Egitto. Per quanto la Shari'a proibisca l'alcol, non è sempre stata applicata con lo stesso rigore e non si può pensare che abbia causato la completa scomparsa di ciò che considera haram. Fautori dell'uso smodato del vino non sono mancati dalla Turchia alla Spagna moresca, così come i pederasti! Dovremmo pensare che il fanatismo cristiano in Egitto sia stato molto più efficace, eliminando tutto ciò che era intrinsecamente connesso con i riti pagani. Il problema non era il potere ubriacante della bevanda, bensì il fatto che fosse offerta alle divinità antiche e che non avesse alcun uso profano.  
Forse un simile tabù era già da tempo presente presso gli Ebrei. Sarebbe assurdo poter disporre di una risorsa abbondante come i frutti di sicomoro e non sfruttarla per la produzione di bevande alcoliche, quando basterebbe poco per farlo. Esisteva persino la professione di raccoglitore di fichi di sicomoro. La raccolta non veniva eseguita manualmente, bensì servendosi di strumenti affini a rastrelli, dato che i frutti crescono anche sul tronco degli alberi. Non sappiamo se questi fichi entrassero a far parte della produzione della sicera, assieme ad altri ingredienti, anche se non come unica componente. Non dispendo di sufficienti dati per definire la questione, ho pensato che fosse interessante chiedere a un rabbino molto esperto un'opinione per chiarire meglio questi dubbi, se nelle consuetudini israelitiche esista qualche interdizione a questo proposito. Ho quindi trovato un'inattesa pista sul Web, che mi ha permesso di giungere a una conclusione ragionevole.  

La soluzione del mistero 

Una neopagana che si fa chiamare Hearth Moon Rising riporta nel suo sito un'importante informazione. La pagina è la seguente:  


Questo è il testo tradotto: 
 
"Non sono stata capace di scoprire tramite i miei libri o una ricerca in Internet se il fico del sicomoro sia mai stato fermentato per i riti di Hathor. Ho scoperto che questo fico è talvolta davvero fermentato in vino, ma che ha un gusto di aceto che lo rende più adatto come medicina che come divertimento."
 
Il vino di sicomoro conteneva alcol acetico, ossia etanolo con tendenza a generare acido aceto, che conferiva un tipico sapore acido e irritante. Ecco perché si diceva che "bruciava la gola". Era bevuto soltanto per finalità religiose perché non era buono. Ho avuto esperienza di vino e di idromele in incipiente stato di inacetimento. Nel primo caso era un vino vecchio e imbottigliato male. Nel secondo caso era un idromele prodotto da amici a partire da una decozione conservata in condizioni non ottimali. La sensazione di entrambe le bevande era la stessa. Erano ancora commestibili, ma berle dava un certo fastidio e infiammavano le vie urinarie. La bevanda sacra alla Dea Hathor doveva essere simile. Una divinità egizia poteva imporre ai suoi devoti le cose più stravaganti, anche baciare il culo dei babbuini! Figuriamoci se era un problema bere una pozione un po' acida. Il punto è che quando la gente è diventata cristiana, nessuno glielo faceva più fare di ingurgitare qualcosa di poco gradevole. Allo stesso modo, il popolo di Israele non aveva motivo alcuno di usare quei fichi asprigni per la produzione di alcolici, quando disponeva di buona uva, frutta adatta, cereali e miele. Con questo, il mistero è risolto. 
 
Note etimologiche

Questa è l'evoluzione del nome del sicomoro nella lingua degli Egizi dalle origini al suo periodo finale: 

 
Egiziano (Antico Regno)
nht "sicomoro" (pronuncia /'na:hat/
 
Egiziano (Medio Regno)
nht "sicomoro" (pronuncia /'na:ha/
 
Egiziano (Nuovo Regno) 
nht "sicomoro" (pronuncia /'nɔ:hə/, /'no:hə/)
 
Copto
ⲛⲟⲩϩⲉ (pronuncia /'nu:hə/
 
Da questo fitonimo deriva il nome di persona maschile Sinuhe, che significa "Figlio del Sicomoro". Nell'Egiziano del Medio Regno doveva pronunciarsi /siˀ'na:ha/. Si deve notare che il nome, di genere maschile, contiene un elemento che è morfologicamente femminile.
 
Questo è il nome del sicomoro in alcune importanti lingue semitiche:  

Ebraico 
שִׁקְמָה  šiqmā "sicomoro" (pronuncia biblica /ʃiq'ma:/
        altre trascrizioni: shikma, shikmah
     singolare costrutto: שִׁקְמַת־  šiqmat "sicomoro di"
     plurale: שִׁקְמִים  šiqmīm "sicomori" 
     plurale costrutto: שִׁקְמֵי־‎‎  šiqmē "sicomori di"
Note: 
Il singolare è di genere femminile, il plurale è invece di genere maschile. Indica l'albero e il suo frutto. 

Aramaico 
šeqmā "sicomoro" (albero e frutto) 
      (prestito dall'ebraico) 
   altri significati: "fico selvatico", "fico acerbo" 
   variante: šqem, šiqmā, šaqmā "sicomoro" 
   plurale: šiqmīn "fichi di sicomoro"
   plurali alternativi: šeqmātā, šeqmē 
tittā "sicomoro" (frutto) 
   varianti ortografiche: titā, tettā 
Note: 
Il vocabolo tittā, attestato come designazione del fico del sicomoro, è affine all'accadico tittu, tētu "fico" e all'ebraico תְּאֵנָה  te'ēnā "fico". In aramaico esiste anche tā "mora di gelso; emorroide", affine all'accadico tuttu "mora di gelso" e all'ebraico תוּת t "mora di gelso".

Accadico 
messikanu "sicomoro" (varianti: musukanu, musukannu,
    mesukannu, etc.);
sukannu "sicomoro" 
Note: 
Si tratta di prestiti dal sumerico (vedi sotto). Alcuni ritengono che in ebraico si trovi parola isolata mesukkān "sicomoro" in Isaia 40, 20, ma non sono sicuro che sia vero: sembra invece che sia un fraintendimento di הַֽמְסֻכָּ֣ן hamsukkān "impoverito, danneggiato". La questione sembra non essere risolta a tutt'oggi, ci sono studiosi che insistono col dire che mesukkān è un albero, anche se la traduzione "sicomoro" non è accettata da tutti. Secondo Haupt (1917), l'albero sarebbe invece da identificarsi con l'Acacia nilotica. Se questo vocabolo esistesse, sarebbe evidentemente un prestito dal sumerico tramite l'accadico.  
 
Arabo  
جُمَّيْز  jummayz "sicomoro" 
سَوْقَم  sawqam "sicomoro" (Yemen, obsoleto)
سَقُوم  saqūm "sicomoro" (Algeria) 
Note: 
Il primo di questi nomi del sicomoro, jummayz, ha una corrispondenza nell'ebraico mishnaico: גמזיות "sicomori", con ogni probabilità da vocalizzarsi come gummazyōt. I due nomi sawqam e saqūm sono chiari prestiti dall'aramaico.

Questo è il nome del sicomoro nella lingua di Sumer: 

Sumerico 
1) šam "sicomoro" (glosse accadiche: "sukannu",
    "musukanu", fonte: Uruanna, II.509); 
2) giš mes maganna "sicomoro", alla lettera "albero
     di Magan" (giš è un determinativo e non si pronuncia). 
Note: 
Magan era un paese mitico la cui identificazione finora non è stata determinata con sicurezza. Alla luce di questa evidenza, finora negletta, può essere identificato con l'Oman: l'unica delle terre proposte ove cresce il sicomoro. Resta però il fatto che questo vocabolo avrebbe potuto indicare anche alberi diversi. Sarebbero necessari studi più approfonditi.  
Chiaramente l'accadico messikanu (e varianti) è derivato proprio da giš mes maganna.

Sicomoro e sicamino 

In greco σῡκόμορος (sykómoros) è etimologizzato come "fico-gelso", da σῦκον (sŷkon) "fico", μόρον (móron) "mora di gelso". Si tratta di un'etimologia popolare. In realtà la parola sembra un adattamento dell'ebraico šiqmā (vedi sopra). Si tratta però di un ragionamento circolare, in quanto il nome ebraico del sicomoro è a sua volta derivato dalla stessa radice mediterranea da cui hanno avuto origine anche il greco σῦκον e il latino fīcus (verosimile prestito dall'etrusco). Esiste poi in greco un altro fitonimo collegato a questo: συκάμινος, variante συκάμνος "gelso bianco", "gelso nero", che nel greco d'Egitto è usato anche col significato di "sicomoro". Questa parola è derivata direttamente dal plurale aramaico šiqmīn "fichi di sicomoro" ed è passata in latino come sȳcamīnus
 
Ancora su un equivoco
 
Il vino di sicomoro è menzionato nell'opera di Paolo Mantegazza, Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze (1871). Il fisiologo monzese ha riportato in un elenco un gran numero di bevande fermentate, con una breve nota sulla sua produzione e spesso anche sul paese in cui sono usate. Molte informazioni sono preziose, altre sono invece abbastanza discutibili. Così egli scrive:
 
Vino di sicomoro, succo dell'albero. Inghilterra 
 
A questo punto mi viene un sospetto. Mantegazza deve aver commesso lo stesso errore in cui è incappato Michel Houellebecq, definendo "sicomoro" l'acero montano. La causa è senza dubbio derivata dall'uso volgare di chiamare "sicomoro" svariate specie di aceri e persino il platano (sycomore o sycamore in inglese, sycomore in francese). Questa abitudine deprecabile è contraria all'etimologia della parola e di certo è derivata dall'ignoranza di qualche autore moderno: ancora nel XIV secolo il francese sicamour indicava correttamente la pianta africana e mediorientale di biblica memoria.    

sabato 26 giugno 2021

LA CUCINA DELL'ANTICA ISLANDA

Anni fa, mentre mi trovavo in Valle d'Aosta, in una libreria mi imbattei in un interessante volume. Commisi l'errore di non acquistarlo. Ora è fuori catalogo e non si riesce a trovarlo facilmente.
 
La stirpe di Odino. La civiltà vichinga in Islanda 
Copertina flessibile – 28 febbraio 2012
di Jesse Byock (Autore), M. Federici (Traduttore) 

Questa è la sinossi (da www.goodreads.com):
 
"I primi coloni raggiunsero l'Islanda dalla Scandinavia e dalla Britannia vichinga alla metà del IX secolo e qui diedero vita a uno stato libero, indipendente e non gerarchico, che costituisce un unicum nella storia europea. Le strutture sociali, economiche, politiche e giuridiche, infatti, per quanto ispirate a quelle delle zone d'origine, dovettero essere modellate su una realtà geografica del tutto nuova, difficile e affascinante, e durarono con minime evoluzioni fino alla conquista norvegese del 1260, dando vita a una civiltà rurale, con una stupefacente cultura del diritto e un forte senso dell'onore.  
In questo libro, che il grande medievista Le Goff ha definito "splendido e affascinante", l'autore indaga l'Islanda indipendente in modo globale, facendo ricorso a molteplici tipologie di fonti, da quelle giuridiche a quelle archeologiche, e in particolare analizza le splendide saghe, capolavori letterari dai quali è possibile ricavare la più esatta descrizione di quello che voleva dire vivere nella "terra dei ghiacci" tra IX e XIII secolo." 
 
Leggendo lunghi brani dell'opera di Byock mentre ero nella libreria, sono rimasto particolarmente affascinato dai contenuti riguardanti le antiche tradizioni gastronomiche islandesi. 

Cibo acre! 
 
La fermentazione lattica e la putrefazione controllata erano i principali fondamenti della cucina nell'Islanda antica, fin dai tempi in cui era una nazione libera e pagana, ancor prima che il Cristianesimo venisse adottato tramite votazione in una fatidica riunione dell'Althing tenutasi nell'anno 1000.
Tutti sanno cos'è il latte acido: quando si lascia un cartoccio di latte fuori dal frigo, dopo alcuni giorni la massa grassa precipita e si separa il siero. L'odore della parte grassa è acre ed abominevole: ricorda lo smegma rappreso e irrancidito, ossia il prodotto di desquamazione dei genitali che ha assunto l'aspetto e le proprietà organolettiche del formaggio. Questo schifo immondo viene visto con disgusto e gettato via, nessuno saprebbe che farsene.
Nell'antica Islanda la parte sierosa era chiamata sýra (genitivo sýru; plurale sýrur) ed era usata per conservare i cibi. Il suo nome deriva dall'aggettivo norreno súrr che significa "amaro, aspro, sgradevole", dalla stessa radice protogermanica che ha dato l'inglese sour "acido" e il tedesco Sauer "acido". Questo sviluppo culinario non è stato importato dalla Norvegia, ma si è formato specificamente nell'Isola dei Ghiacci per via della carenza di sale - fattore che ha portato alla ricerca di diversi metodi per la conservazione dei cibi. Questo siero aveva una percentuale altissima di acido lattico! 
La procedura di conservazione era semplice. Si prendeva la carne bollita e la si lasciava macerare in un barile di sýra, dove subiva un processo di fermentazione che la trasformava in qualcosa che, per quanto possa sembrarci ripugnante al palato, poteva essere conservato a lungo e trasportato senza problemi in caso di necessità. Questo processo impediva alla carne di marcire e faceva sì che potesse conservarsi per tutto l'inverno. 
La parte grassa del latte acido, ricchissima di proteine, veniva ulteriormente coagulata in un latticino chiamato skyr (genitivo skyrs, dativo skyri) tramite l'introduzione dell'estratto delle membrane dello stomaco degli agnelli.
Mescolato alla sýra, questo skyr cagliato poteva essere agevolmente conservato in grandi recipienti interrati e bevuto quotidianamente. Ancora oggi è prodotto in Islanda lo skyr, ma il metodo di lavorazione deve essere migliorato rispetto a quello usato nell'antichità, come anche le sue proprietà organolettiche: chi lo ha assaggiato lo considera simile a un moderno yogurt denso.
Bere il latte fresco sarebbe stato considerato un lusso da quelle genti ruvide e indomite: soltanto i malati e i monaci ne bevevano in piccole quantità. Quasi nulla veniva mangiato se non era acido al punto giusto. Opportuni trattamenti di fermentazione e di putrefazione controllata trasformavano i prodotti bovini e quelli delle foche, e questi venivano trasportati e commerciati anche a grandi distanze dal loro luogo di produzione. Lo stesso burro non salato, conservato in barili, irrancidiva e andava anche oltre il rancido, subendo fermentazione e generando acido lattico in gran quantità, fino a cambiare del tutto le sue proprietà. Era il burro acido, ci cui gli occasionali visitatori dell'isola ci hanno lasciato descrizioni assai poco entusiastiche. Esistevano anche i salumi, come le salsicce e i sanguinacci, che contenevano moltissimo grasso ed erano fatti con carne bovina e di pecora. Gran parte del poco sale disponibile era usato per prepararle.   
 
Il formaggio e un aneddoto 
 
I coloni norvegesi hanno portato in Islanda l'arte di produrre il formaggio. Il nome norreno del formaggio è ostr (genitivo osts; plurale ostar).
 
Questo è il testo in norreno: 
 
Snorri Þorbrandsson var hressastr þeira brǿðra ok sat undir borði hjá nafna sínum um kveldit, ok hǫfðu þeir skyr ok ost. Snorri goði fann, at nafni hans bargst lítt við ostinn, ok spurði, hví hann mataðist svá seint. Snorri Þorbrandsson svaraði ok sagði, at lǫmbunum væri tregast um átit, fyrst er þau eru nýkefld. Þá þreifaði Snorri goði um kverkrnar á honum ok fann, at ór stóð um þverar kverkrnar ok í tungurǿtrnar. Tók Snorri goði þá spennitǫng ok kippði brott ǫrinni, ok eptir þat mataðist hann.  
 
Traduzione: 
 
Fra i figli di Thorbrand il più in gamba era Snorri; egli sedetta a tavola, quella sera, accanto al suo omonimo; ebbero per pasto latte acido e formaggio. Il godi Snorri rilevò che il suo omonimo mangiava svogliatamente il formaggio, e gli chiese perché si cibasse così lentamente. Snorri, figlio di Thorbrand, rispose dicendo che gli agnelli è difficile mangiare, se hanno un legaccio in bocca. Allora il godi Snorri lo tastò e trovò che una freccia stava confitta in gola fino alla radice della lingua; allora il godi Snorri prese una tenaglia e gli strappò via la freccia: dopo ciò quello prese a mangiare.
 
Per il testo completo della saga in norreno, riporto questo link: 
 
 
Per noi moderni è molto difficile immaginare l'estrema brutalità di quell'ambiente, la durezza di quelle fiere genti. Nel corso dei secoli la produzione di formaggio si è persa in Islanda, a favore di quella dello skyr. Non dobbiamo aspettarci qualcosa di simile al parmigiano, è ovvio. Gli antichi Germani conoscevano soltanto il formaggio a pasta molle, che non doveva avere una sapore eccellente. "Il formaggio era una cosa comune quando la terra fu colonizzata per la prima volta, ma non per molto. Il freddo e i vulcani hanno avuto un ruolo nella storia del formaggio islandese, per quanto assurdo possa sembrare. In una fase fredda, tutta la legna da ardere doveva essere utilizzata per riscaldare le case e non rimaneva nulla per ricavare il sale dall'oceano, fondamentale per la produzione del formaggio. Inoltre, le fasi fredde e le eruzioni vulcaniche non sono particolarmente favorevoli alle mucche." (Eirný Sigurðardóttir, 2017). La produzione casearia è stata reintrodotta negli anni '60 dello scorso secolo. Attualmente gli Islandesi si sono rivelati avidissimi di formaggio. 
 
 
Squali e cetacei 
 
Della cucina dell'epoca della colonizzazione dell'Islanda si conserva ancora ai nostri giorni il cosiddetto "squalo putrefatto", in islandese hákarl (pronuncia moderna /'haukhadl/, pronuncia norrena /'ha:karl/). Si prende una carcassa di squalo elefante (Cetorhinus maximus) o di squalo groenlandese (Somniosus microcephalus), la si eviscera e la si seppellisce in una fossa scavata nella spiaggia, avendo cura di ricoprirla di sabbia in modo tale da favorire i processi anaerobici di fermentazione. Durante i mesi che seguono, l'acido urico e altre sostanze tossiche vengono espulse. Si esuma poi la carcassa, macellandola, tagliando la carne in strisce sottili e sottoponendola ad affumicatura ed essiccazione. A questo punto è pronta per essere consumata.
Ha un odore intenso di ammoniaca, il gusto è quello di formaggio fortissimo tipico della carne putrefatta. Forse per via della somiglianza con i cadaveri, vi sono islandesi che si rifiutano di mangiarne. Il piatto è più che altro una curiosità che attrae i turisti. L'etimologia del ternime hákarl è abbastanza semplice: la parola, nota anche nella forma femminile hákerling, in norreno significava semplicemente "palombo" o "pescecane". Le radici che la compongono sono hár "palombo, pescecane; grigio", e karl "uomo". Del tutto infondata è l'opinione di coloro che attribuiscono alla parola un'origine onomatopeica, facendo credere che hákarl imiti il grugnito di disgusto di chi assaggia quella pietanza cadaverica.
La necessità di questo trattamento è dovuta al fatto che gli squali artici hanno carni tossiche che non possono essere consumate fresche, a differenza degli squali che popolano i nostri mari, che includono invece un gran numero di specie commestibili come il palombo (Mustelus mustelus), lo smeriglio (Lamna nasus), la verdesca (Prionace glauca), il gattuccio (Scyliorhinus canicula) - e persino il pesce martello (famiglia Sphyrnidae), la cui carne è mediocre e spesso spacciata per pesce spada (Xiphias  gladius) nelle mense italiane.
In epoca antica, allo stesso trattamento putrefattivo era sottoposta la carne di balena. Quando una balena si spiaggiava, veniva immediatamente macellata, anche se era già morta. Spesso accorrevano diverse famiglie sul luogo dello spiaggiamento, e ne sorgevano terribili liti per la spartizione della carne, fresca o passata che fosse. Durante questi alterchi ci scappava non di rado il morto e si originavano sanguinose faide che richiedevano l'arbitrato per essere risolte. La carne così bottinata veniva deposta nelle fosse e fatta decomporre in modo controllato, in modo simile a quello ancora usato per lo squalo putrefatto. 
 
Nella Saga dei Fratelli di Sangue (Fóstbrǿðra Saga), capitolo 7, Thorgils Masson e i suoi compagni scoprono che una balena che si è spiaggiata su una terra comune. Thorgeir Havarson e Thormod Bersason lo vengono a sapere a accorrono sul luogo dove Thorgils già sta macellando la carcassa del cetaceo, reclamando il possesso della carne, tutta o in parte. Ne sorge uno scontro furioso: Thorgils viene ucciso e Thorgeir viene bandito per omicidio. Ecco il testo in norreno:   
 
Víg Þorgils Mássonar ok sekð Þorgeirs

Um várit eptir fór Þorgeirr til Ísafjarðar, þangat sem skip þeira stóð uppi. Þar kom ok Þormóðr ok skipverjar þeira. Þeir fara norðr á Strandir, þegar þeim gaf byr.   Þorgils hét maðr, er bjó at Lækjamóti í Víðidal. Hann var mikill maðr ok sterkr, vápnfimr, góðr búþegn. Hann var skyldr Ásmundi Hærulang, fǫður Grettis. Hann var ok skyldr Þorsteini Kuggasyni. Þorgils var Másson. Hann fór ok á Strandir ok var genginn á hval þann, er kom á Almenningar, ok fǫrunautar hans.   Þorgeiri verðr eigi gott til fangs, þar sem hann var kominn. Berr honum engi hvalfǫng í hendr, þar sem hann var kominn, né ǫnnur gǿði.   Nú spyrr hann, hvar Þorgils var á hvalskurðinum, ok fara þeir Þormóðr þangat, ok er þeir kómu þar, þá mælti Þorgeirr: „Þér hafið mikit at gert um hvalskurðinn, ok er þat vænst at láta fleiri af njóta en yðr þessa gagnsmuna. Er hér ǫllum jafnheimolt.“   Þorgils svarar: „Vel er þat mælt. Hafi hverr þat, sem skorit hefir.“   Þorgeirr mælti: „Þér hafið mikinn hluta skorit af hvalnum, ok hafið þér þat, sem nú hafið þér skorit, ok vildum vér annathvárt, at þér gangið af hvalnum ok hafið þér þat, sem þér hafið af skorit, en vér þann hluta, er óskorinn er, eða hvárir at helmingi bæði skorinn ok óskorinn.“   Þorgils svarar: „Lítit er mér um at ganga af hvalnum, en vér erum ráðnir til at láta eigi lausan þann hlut fyrir yðr, er skorinn er, meðan vér megum á halda á hvalnum.“  Þorgeirr mælti: „Þat munuð þér þá reyna verða, hversu lengi þér haldið á hvalnum fyrir oss.“   Þorgils svarar: „Þat er ok vel, at svá sé.“   Nú herklæðast hvárirtveggju ok bjuggust til bardaga, ok er þeir váru búnir, þá mælti Þorgeirr: „Þat er vænst, Þorgils, at vér sǿkimst, því at þú ert fulltíði at aldri ok knáligr ok reyndr at framgǫngu, ok er mér forvitni á at reyna á þér, hverr ek em. Skulu aðrir menn ekki til okkars leiks hlutast.“   Þorgils segir: „Vel líkar mér, at svá sé.“   Mjǫk váru þeir jafnliða. Nú sǿkjast þeir, ok berjast hvárirtveggju. Þeir Þorgeirr ok Þorgils láta skammt hǫggva í milli, því at hvárrtveggi þeira var vápnfimr, en fyrir því at Þorgeirr var þeira meir lagðr til mannskaða, þá fell Þorgils fyrir honum. Í þeim bardaga fellu þrír menn af Þorgils liði. Aðrir þrír fellu af liði þeira Þorgeirs.  Eptir þenna bardaga fóru fǫrunautar Þorgils norðr til heraðs með miklum harmi. Þorgeirr tók upp allan hvalinn, skorinn ok óskorinn. Fyrir víg Þorgils varð Þorgeirr sekr skógarmaðr. Fyrir hans sekð réð Þorsteinn Kuggason ok Ásmundr Hærulangr.   Þeir Þorgeirr ok Þormóðr váru þat sumar á Strǫndum, ok váru þar allir menn hræddir við þá, ok gengu þeir einir yfir allt sem lok yfir akra. Svá segja sumir menn, at Þorgeirr mælti við Þormóð, þá er þeir váru í ofsa sínum sem mestum: „Hvar veiztu nú aðra tvá menn okkr jafna í hvatleika ok karlmennsku, þá er jafnmjǫk sé reyndir í mǫrgum mannraunum, sem vit erum?“   Þormóðr svarar: „Finnast munu þeir menn, ef at er leitat, er eigi eru minni kappar en vit erum.“   Þorgeirr mælti: „Hvat ætlar þú, hvárr okkarr myndi af ǫðrum bera, ef vit reyndim með okkr?“ 
Þormóðr svarar: „Þat veit ek eigi, en hitt veit ek, at sjá spurning þín mun skilja okkra samvistu ok fǫruneyti, svá at vit munum eigi lǫngum ásamt vera.“   Þorgeirr segir: „Ekki var mér þetta alhugat, at ek vilda, at vit reyndim með okkr harðfengi.“   Þormóðr mælti: „Í hug kom þér, meðan þú mæltir, ok munum vit skilja félagit.“   Þeir gerðu svá, ok hefir Þorgeirr skip, en Þormóðr lausafé meira ok ferr á Laugaból, en Þorgeirr hafðist við á Strǫndum um sumarit ok var mǫrgum manni andvaragestr. Um haustit setti hann upp skip sitt norðr á Strǫndum ok bjó um ok stafaði fyrir fé sínu. Síðan fór hann á Reykjahóla til Þorgils ok var þar um vetrinn. Þormóðr víkr á nǫkkut í Þorgeirsdrápu á misþokka þeira í þessu erendi:

   Frétt hefr ǫld, at áttum,
   undlinns, þás svik vinna,
   rjóðanda nautk ráða,
   rógsmenn saman gnóga.
   Enn vilk einskis minnask
   ǿsidýrs við stýri,
   raun gatk fyrða fjóna,
   flóðs nema okkars góða. 

 
Traduzione:  
 
Omicidio di Thorgils Masson e colpa di Thorgeir

La primavera successiva Thorgeir si recò a Isafjörd, dove era stata allestita la loro nave. Vennero anche Thormod e il loro equipaggio. Si dirigono a nord verso Strandir, non appena c'è un vento favorevole.  C'era un uomo chiamato Thorgils che viveva a Lækjamot nel Videdal. Era un uomo grande e forte, armato, un buon agricoltore. Era imparentato con Asmund Hærulang, il padre di Gretti. Era anche imparentato con Thorstein Kuggason. Thorgils era figlio di Mar. Andò anche a Strandir e lui e i suoi compagni si misero all'assalto di una che si era spiaggiata ad Almenningar. Thorgeir non ha avuto fortuna con la caccia nel luogo in cui si trovava. Non ha preso né balene né altre prede lì. Ora scopre che Thorgils sta per squarciare una balena, e lui e Tormod vanno lì. Quando arrivano, Thorgeir dice: "Sei stato impegnato a scuoiare la balena, ma era giusto lasciare più di quanto tu beneficiassi di questa utile cosa. Abbiamo tutti uguale accesso qui.'' Thorgils risponde: "È stato detto. Ciascuno di noi conserva ciò che ha scuoiato." Thorgeir disse: "Hai scuoiato gran parte della balena. Ora vogliamo che tu lasci la balena e tieni ciò che hai scuoiato, mentre noi prendiamo la parte che non è scuoiata, oppure ognuno di noi otterrà metà dello scuoiato e ciò che non è scuoiato. Thorgils rispose: "Non sono molto favorevole a lasciare la balena, e siamo determinati a non lasciare a te la parte che è stata scuoiata, finché possiamo difendere la balena". Thorgeir disse: "Allora devi dimostrare per quanto tempo puoi difendere la balena contro di noi." Thorgils risponde: "Va benissimo se deve esserlo." Ora entrambe le parti si armarono e si prepararono alla battaglia. E quando furono pronti, Thorgeir disse: "È molto ragionevole - Thorgils! - che noi due andiamo l'uno contro l'altro, perché tu sei un uomo adulto, forte e provato in battaglia, e vorrei cimentarmi con te ― e gli altri non devono prendere parte alla nostra faccenda." Thorgils dice: "Mi va bene così." Le due parti erano quasi ugualmente forti, e ora si stanno rivoltando l'una contro l'altra e stanno combattendo. Thorgeir e Thorgils non lasciarono passare molto tempo tra i tagli, perché erano entrambi abili con le armi, ma poiché Thorgeir era più adatto a ferire gli altri, Thorgils cadde per mano sua. In questa disputa caddero tre uomini della banda di Thorgils. Altri tre caddero nel gruppo di Thorgeir e Thormod. Dopo questa battaglia, i compagni di Thorgils andarono a nord e tornarono a casa dalla signoria con grande dolore. Thorgeir si impossessò dell'intera balena, scuoiata e non scuoiata. Thorgeir fu condannato al bando per l'omicidio di Thorgils. Furono Thorstein Kuggason e Åsmund Hærulang a farlo condannare. Thorgeir e Thormod trascorsero quell'estate a Strandir, e spaventarono tutta la gente del posto, e arrivarono ovunque come erbacce nei campi. Alcuni dicono che Thorgeir, quando la loro ferocia era al culmine, disse a Thormod: "Ora dove hai visto altri due uomini che erano forti e coraggiosi come noi, e che sono stati provati in battaglia allo stesso modo come noi?" Thormod risponde: "Se li cerchi, probabilmente ne troverai alcuni che non sono meno guerrieri di noi." Thorgeir disse: "Chi di noi pensi che vincerebbe se ci mettessimo l'uno contro l'altro?" Thormod risponde: "Non lo so, ma so d'altra parte che la tua domanda metterà fine alla nostra unione e comunità, in modo che non possiamo più essere seguiti." Thorgeir dice: "Non intendevo sul serio che dovremmo metterci alla prova l'uno con l'altro." Thormod disse: "Ci hai pensato da quando l'hai detto, e ora dobbiamo sciogliere la nostra compagnia". Così hanno fatto, e Thorgeir tiene una nave, mentre Thormod tiene più beni mobili e va a Laugabol. Ma Thorgeir ha trascorso l'estate a Strandir ed è stato un gradito ospite per molte persone. In autunno salpò la sua nave a nord di Strandir, visse lì e si prese cura dei suoi soldi. Poi andò a Reykjahola da Thorgils e vi rimase per l'inverno. Nell'assassinio di Thorgeir, Thormod allude in qualche modo al loro dispiacere in questa strofa: 
 
  Le notizie circolano da un secolo,
  accidenti, allora barare è un lavoro,
  mi sono divertito a governare
  abbastanza calunniatori insieme. 
  Ancora non voglio ricordare
  un animale eccitato contro il timone,
  davvero ho ottenuto l'odio degli uomini,
  per aver preso dalla marea il nostro bene. 
 
Per il testo completo della saga in norreno, riporto questo link:  

https://heimskringla.no/wiki/
Fóstbræðra_saga

 
Le saghe islandesi sono un inestimabile patrimonio di dati il cui studio accurato ci permette di conoscere in dettaglio la vita degli isolani. Purtroppo al di fuori del loro luogo d'origine non sembrano ottenere la considerazione che meriterebbero. Nella Eyrbyggja saga si specifica che in seguito all'introduzione del Cristianesimo, in Islanda non si digiunava. Non è difficile capire che pinnipedi e cetacei, per il solo fatto di vivere in ambiente acquatico, erano a tutti gli effetti considerati "pesci". Nel 1481, Papa Sisto IV confermò questa interpretazione, scrivendo un'apposita lettera al Vescovo di Skálholt, Magnús Eyjólfsson.   

Il bestiame islandese  

I coloni giunti dalla Norvegia in più ondate portarono con sé il loro bestiame: bovini, pecore, capre, cavalli, maiali, galline e oche. Nei primi tempi della colonia, i porci venivano lasciati liberi di grufolare nei boschi. Poi, quando fu chiaro che il bestiame suino produceva l'erosione del terreno, aggravata dalla deforestazione, il suo allevamento fu vietato per legge (Diamond, 2005). La stessa sorte del porco colpì anche il bestiame caprino, che pure aveva avuto un certo successo. Nonostante sussistano tuttora diversi toponimi correlati alla capra, questa finì con l'estinguersi. Prosperarono soltanto i bovini, principale e irrinunciabile fonte di latte, e gli ovini, che fornivano lana e carne. In una terra tanto isolata, la genetica degli animali domestici si è evoluta in modo molto peculiare rispetto ai loro simili del Nord Europa, soprattutto a causa della mancanza di incroci nel corso del secoli. Ad esempio, il latte delle vacche islandesi è molto più ricco di grassi rispetto agli altri paesi. 
 
Metodi di cottura delle carni 

I metodi di cottura erano arcaici, di certo ereditati dall'epoca antecedente alla divisione dei vari popoli germanici dalla loro matrice comune. Comune a tutti i Germani era l'arrosto, che consideva nell'infilzare la carne su uno spiedo, facendola cuocere a fuoco lento e sfruttando il grasso colante. In Norvegia l'arrosto era tipico delle classi elevate, ma in Islanda non sembra essere stato molto diffuso, anche per la mancanza di selvaggina adatta (ad esempio non c'erano cervi, cinghiali e orsi bruni). Un modo più comune quanto singolare per cuocere la carne consisteva nello scavare una buca, rivestirla di legna, riempirla d'acqua, poi fatta bollire tramite pietre incandescenti. Man mano che la cottura procedeva, se necessario potevano essere aggiunte altre pietre roventi. Nell'acqua erano messe a bollire erbe e spezie. Questo sistema arcaico era un tempo usato in tutta la Scandinavia pagana per preparare le carni delle vittime sacrificali durante il sacrificio, detto blót in norreno (genitivo blóts; plurale blót). Non è improbabile che la sua origine fosse addirittura anteriore all'adozione di una lingua indoeuropea da parte degli antenati dei Germani. Si noterà che i pastori baschi della Biscaglia, tra i gruppi più arcaici d'Europa, usavano questo sistema per far bollire il latte fino a tempi recenti e forse lo usano tuttora. Finché durarono i costumi pagani, i blót erano un'occasione per mangiare carne fresca, non lavorata. In seguito all'adozione del Cristianesimo, il consumo di carne fresca divenne molto raro: in genere si mangiava un montone o un agnello in occasione del Natale. 
Che dire dell'orso polare (Ursus maritimus)? Non sarebbe stato conveniente arrostirlo e banchettare con le sue carni? Ai tempi della colonizzazione l'orso polare scendeva raramente fino in Islanda: gli avvistamenti riportati sono pochissimi. Non era considerato commestibile. Probabilmente i primi Vichinghi che provarono a mangiarne uno finirono intossicati in modo gravissimo per via del fegato molto velenoso, pieno zeppo di vitamina A e in grado di uccidere facilmente. Gli Inuit sanno bene che non bisogna mangiare il fegato dell'animale, ma questa conoscenza non dovette essere compresa dai coloni.   
 
La carne di cavallo 
 
Quando l'Islanda adottò per legge il Cristianesimo, furono per qualche tempo conservate alcune reliquie pagane: il culto degli Dei in forma privata, l'esposizione infantile e il consumo di carne equina. In quella terra erano molto comuni i sacrifici di cavalli, finché fu in vigore il Costume Antico. Le carni dei nobili animali immolati venivano poi consumate nel corso dei banchetti dedicati alle divinità. Per contro, il Cristianesimo aborriva questi costumi e nutriva una forte avversione per la carne equina come cibo. Stando ai seguaci della nuova fede, tutta quella succulenta abbondanza sarebbe dovuta finire ai vermi, nella terra molle. Una quindicina di anni dopo l'adozione del Cristianesimo in Islanda, il fanatico Re Olaf II di Norvegia (995 - 1030) si interessò all'Isola dei Ghiacci e alla sua popolazione sofferente: volle sapere come la religione cristiana vi fosse osservata. Fu allora riferito al sovrano norvegese che nel frattempo tutti i resti della religione pagana erano stati aboliti in Islanda, compreso il consumo di carne di cavallo. Il Re Olaf ne fu molto rallegrato. Non va dimenticato che tra le inique leggi da lui emanate ve ne era una che vietava di mangiare la carne equina, comminando ai trasgressori la pena di morte. Gli Islandesi erano coraggiosissimi quando si trattava di impugnare le armi in faide e liti private, ma avvizzivano alla sola idea di affrontare i sovrani di Norvegia e le loro armate. Temevano oltre ogni misura l'interruzione dei traffici commerciali, da cui dipendeva l'esistenza stessa della colonia in un territorio tanto povero di risorse naturali. Sono comunque dell'avviso che avrebbero benissimo potuto resistere nella religione di Thor, evitando così di essere incatenati da quella di Cristo: invece cedettero per una serie di eventi sfavorevoli, perché non era giunta loro la voce della morte del Re Olaf Tryggvason, avvenuta proprio nell'anno 1000. Secondo alcuni era imminente una terribile guerra civile tra la fazione cristiana e quella pagana, e non ho ragione di dubitarlo. Un bagno di sangue sembrava imminente. Forse gli adoratori degli Dei avrebbero potuto farsi onore nella pugna e resistere anche al Re Olaf II, il figlio di Harald, e per giunta con grande facilità, permanendo nei costumi degli Avi. Tuttavia sul lungo periodo la sorte sarebbe stata per loro funesta, anche a causa del peggioramento del clima, che li avrebbe condannati a morire di fame senza aiuti esterni.     
 
Carni e uova di uccelli marini 

Un contributo molto importante al sostentamento delle genti dell'Islanda veniva da altri cibi che noi riterremmo abominevoli: gli uccelli marini e le loro uova.
L'abbondanza di gabbiani e delle loro uova in un luogo giustificò spesso l'insediamento di coloni, attratti dalla disponibilità di cibo. Venivano mangiati uccelli marini di ogni tipo, compresa la pulcinella di mare (Fratercula arctica). Ancora oggi il cuore della pulcinella di mare è ritenuto una ghiottoneria.   
Nel XIX secolo, i coloni stanziati nelle isole Vestmann avevano come unico cibo disponibile i salumi di uccelli marini, e a causa dell'insalubrità di una simile alimentazione le loro donne davano spesso alla luce bambini colpiti da tetano neonatale. Il nesso tra consumo di tale carne e la terribile malattia dei neonati è dimostrato dall'analisi di un'altra popolazione che aveva una dieta simile, quella dell'isola di Saint Kilda (gaelico Hiort). Tempo fa ho riportato un importante documento su questo tema, tradotto in italiano (forse per la prima volta), in un mio contributo intitolato Sulle malattie degli Islandesi. Questo è il link: 
 
 
Con mia grande sorpresa ho appreso che le uova del gabbiano comune (Chroicocephalus ridibundus), detto anche gabbiano dalla testa nera, sono tuttora molto ricercate in Inghilterra, dove costano di più di quelle di gallina per via della loro scarsità e delle notevoli difficoltà di raccolta, che dura soltanto 3 o 4 settimane ogni anno. Un singolo uovo di gabbiano può arrivare a costare fino a 8 sterline: è uno dei più dispendiosi ingredienti usati dagli chef britannici nelle loro preparazioni culinarie. È ritenuto un cibo di lusso. Senza dubbio l'uso alimentare che gli Inglesi fanno delle uova di questi volatili è un costume ereditato dai Vichinghi. Sono riuscito a trovare nel Web un blog che riporta informazioni molto interessanti. Questo è il link:
 
 
Cereali, polente e pane
 
I cibi più popolari nell'antica Islanda erano grossolani pastoni di cereali, specie di polente fatte di orzo o di avena. In norreno il nome di questo cibo è grautr (genitivo grautar; senza plurale). Nel dizionario di Zoëga la glossa inglese è "porridge". Scovazzi ha usato traduzioni più fantasiose, come "polenta di aveva" e "tritello d'orzo". Questo è un testo in norreno che menziona la pastosa preparazione (Eyrbyggja saga, capitolo 39):
 
Þeir fengu hǿgja útivist ok kómu við Hǫrðaland ok tóku þar útsker eitt. Þeir bjuggu þar mat sinn á landi. Þorleifr kimbi hlaut búðarvǫrð, ok skyldi gera graut. Arnbjǫrn var á landi, ok gerði sér graut; hafði hann búðarketil þann, er Þorleifr skyldi hafa síðan. Gekk Þorleifr á land upp, ok bað Arnbjǫrn fá sér ketil inn, en hann hafði þá enn eigi gerðan sinn graut, ok hrǿrði enn þá í katlinum, ok stóð Þorleifr yfir honum uppi. Þá kǫlluðu Austmenn af skipinu utan, at Þorleifr skyldi mat búa, sǫgðu hann mjǫk íslenzkan, ok kváðu hann slikt hafa fyritómlæti sitt. Þá varð Þorleifi skapfátt, ok tók ketilinn, en steypti niðr grautinum Arnbjarnar; sneri á brott síðan. Arnbjǫrn hélt á þvǫrunni, ok laust með henni til Þorleifs, ok kom á hálsinn; þat var litit hǫgg, en með þvi at grautrinn var heitr, þá brann Þorleifr á hálsinum.
 
Traduzione:
 
Ebbero una navigazione favorevole, giunsero a Hördaland e approdarono in un'isola rocciosa. Essi prepararono a terra il loro pasto. Thorleif Kimbi fu sorteggiato a cuocere le vivande, e doveva preparare una polenta d'avena. Arnbjörn stava a terra e si preparava il suo orzo tritato egli aveva la casseruola, che avrebbe poi dovuto adoperare Thorleif. Questi allora andò a terra e pregò Arnbjörn di dargli la casseruola, ma quello non aveva terminato il suo tritello e mescolava ancora nella casseruola: Thorleif stava presso di lui. Allora i Norvegesi gridarono dalla nave che Thorleif doveva preparare il pasto, e dissero che doveva essere proprio un Islandese, data la sua lentezza. Allora Thorleif si scatenò, afferrò la casseruola, buttò via il tritello di Arnbjörn e se n'andò via. Arnbjörn gli stava dietro e impugnava il mestolo: con questo colpì Thorleif e lo raggiunse al collo: fu una ferita leggera, ma per il fatto che il tritello era caldo, bruciò Thorleif al collo. 
 
Il cereale più coltivato dagli Islandesi ai tempi della colonizzazione era l'orzo. Anzi, era quasi l'unico. Il suo nome norreno è bygg. L'avena doveva essere scarsa, mentre è certo che la segale e il frumento erano merci d'importazione, non potendo crescere sull'isola. Il pane di frumento era molto costoso, quindi potevano permetterselo soltanto persone particolarmente benestanti; lo stesso impasto serviva anche per produrre le ostie usate dai preti per la celebrazione dell'Eucarestia. Con ogni probabilità la panificazione avveniva senza lievito. Erano prodotti tre tipi di pane: una focaccia sottile cotta sulle braci o su pietre roventi, un pane grossolano e pesante seppellito nella cenere, focacce di grano fini cotte in padella. Si è scoperto che era utilizzato anche un cereale selvatico in grado di crescere persino negli ambienti più estremi: l'orzo delle sabbie (Elymus arenarius), come dimostrato da Lisa Carlson Griffin e da Ralph M. Rowlett nel loro lavoro A lost "Viking" cereal grain (1981).  
Il clima divenne sempre più rigido e nel corso del XV secolo la coltivazione dell'orzo divenne impossibile. Una conseguenza gravissima fu la completa scomparsa di quello che un simpatico fratacchione considerava un modo divino di consumare i cereali: la birra! L'allegra bevanda fu sostituita dal siero acido chiamato sýra allungato con acqua, che però non era alcolico. La carestia fu la norma in quei tempi terribili, in cui moltissime persone si ischeletrirono e morirono di fame senza aver mai conosciuto una gioia.
Nel tardo Medioevo la mancanza di cereali e la conseguente assenza di pane nella dieta, divennero così evidenti che la maggior parte dei visitatori stranieri ne erano stupefatti e ne facevano menzione nei loro scritti. Una diceria comune voleva che i contadini islandesi avrebbero permesso volentieri a chiunque potesse fornire loro un pezzo di pane di dormire con le loro figlie, in cambio di questa rara ghiottoneria.
Nel 1492 il navigatore e cartografo tedesco Martin Behaim (Norimberga, 1459 - Lisbona, 1507) scrisse che in Islanda si trovavano uomini di ottant'anni che non avevano mai assaggiato il pane, alimento che era sostituito dal pesce. Il pane e burro che tanto piaceva ai Vichinghi aveva lasciato da tempo il passo al pesce imburrato. Non dobbiamo mai dimenticare che quella comunità isolata rischiò concretamente di soccombere, come è accaduto alle genti della Groenlandia.  
 
Assenza di alberi da frutto 
 
Quando i coloni giunsero in Islanda, non vi trovarono alcuna specie di albero da frutto. L'unica specie arborea era la betulla (Betula pubescens). Gli alberi furono abbattuti a ritmo serrato, finché non rimase ben poco delle antiche foreste: la terra fu quasi completamente decalvata. Non si trovava nessuno degli alberi proficui presenti in Norvegia. Non c'erano i meli, donatori delle piccole mele nordiche. Non erano certo le mele dorate e grosse che si diceva crescessero ad Asgard, ma di certo sarebbero state di aiuto. Non si riusciva a trovare neppure l'ombra di una noce, di una nocciola o di una ghianda.  
Provate a immaginarvi, se ci riuscite, un paese in cui il nome stesso della mela è soltanto una reminiscenza letteraria. Non sarebbe un'impresa facile! 
Le uniche risorse in quanto a frutta erano le bacche selvatice, tra cui il mirtillo nero (Vaccinium myrtillus) e il mirtillo blu (Vaccinium uliginosum). Molto comune era l'empetro nero (Empetrum nigrum), la cui bacca ha un gusto molto aspro e che era considerata una leccornia. Era presente anche l'uva ursina (Arctostaphylos uva-ursi), anch'essa abbastanza sgradevole al palato. Le bacche erano spesso aggiunte allo skyr.   
Uno sviluppo peculiare e inatteso della gastronomia dell'antica Islanda è l'uso di un'alga rossa (Palmaria palmata) che non era consumata in Norvegia. Il suo nome norreno è sǫl (genitivo plurale sǫlva). In inglese quest'alga è chiamata dulse (varianti: dillisk, dilsk), termine che deriva dall'irlandese duileasc, a sua volta dall'antico irlandese duilesc (protoceltico *doliskos, dalla stessa radice di *doliā "foglia"). Quesa innovazione è stata senza dubbio importata dall'elementi irlandese, che tanta parte ha avuto nella formazione del popolo dell'Isola dei Ghiacci.    
Dalla combustione dell'alga rossa si ottenevano esigue quantità di sale. Era il cosiddetto "sale nero", pieno zeppo di sporcizia e di ceneri, ma sempre meglio di niente.
 
Assenza di api e scarsità di miele 
 
In Islanda il clima era tanto rigido che l'ape domestica (Apis mellifica) non vi attecchiva: anche nei periodi storici di maggior mitezza climatica, gli inverni duravano comunque più a lungo di quanto l'utile imenottero riuscisse a sopportare. Una drammatica conseguenza di questo fatto è stata fin da subito la necessità di importare il miele dalla Norvegia. Al giorno d'oggi il miele è un alimento abbastanza marginale nell'alimentazione umana ed esistono altre sostanze dolcificanti più diffuse; tra tutti i Germani antichi l'uso principale del miele era però la produzione della più nobile bevanda alcolica: l'idromele. Il nome norreno dell'idromele è mjǫðr (genitivo mjaðar, dativo miði). In Islanda alligna una specie nativa di bombo (Bombus jonellus), ma non è in grado di produrre un miele utilizzabile, essendo assai scarsa la sua quantità e di difficile raccolta. Altre specie di bombi attualmente presenti (Bombus hortorum e Bombus lucorum) sono con ogni probabilità di introduzione recente. Sappiamo che gli Islandesi non si rassegnarono tanto facilmente alla mancanza di idromele e che persino in Groenlandia venivano importati favi di miele dalla Norvegia, ancora in epoca tarda (Diamond, 2005). In ogni caso, la bevanda finì con lo scomparire e finì con l'essere soltanto una nozione letteraria, come una grande quantità di altre cose preziose, che pure un tempo erano state comuni. Si capirà che in assenza di idromele e di birra, a un certo punto persino ubriacarsi doveva essere un'impresa disperata!    
Dopo secoli di carenza di miele in Islanda, ecco che l'apicoltura è stata finalmente introdotta con successo negli anni '60 del XX secolo da un volenteroso apicoltore norvegese Torbjørn Andersen, che possiede 20 arnie e produce ogni anno fino a 200 chili di miele. Il prodotto costa circa 100 euro al chilo. Produrre 5 litri di idromele con questo miele verrebbe a costarmi circa 200 euro, trascurando il costo dell'acqua naturale e del lievito. Decisamente troppo. In tutto, ogni anno sono prodotte in Islanda da 1 a 2 tonnellate di miele.  
 
https://www.vitaminabee.it/
apicoltura-islandese/ 
 
Il vino 
 
Naturalmente in Islanda non è mai attecchita la vite e non si è mai avuta una produzione vinicola locale. Tuttavia l'affermarsi del Cristianesimo rese necessaria l'importazione del vino, anche se a prezzi esorbitanti, perché era imprescindibile il suo uso per la celebrazione dell'Eucarestia: infatti non può essere sostituito da bevande inebrianti non ottenute dall'uva. Sappiamo che il vino veniva importato persino nella remota colonia della Groenlandia, con difficoltà anche maggiori (Diamond, 2005). Ci dovevano essere periodi in cui il vino non giungeva a destinazione. Nella sede vescovile islandese di Skálhot si produceva una bevanda ottenuta dalle bacche selvatiche dell'empetro nero: evidentemente veniva mescolata allo scarso vino disponibile o forse lo sostituiva, essendo considerata "vino" grazie a una dispensa papale. C'è anche un'altra possibile spiegazione. Sappiamo bene che i vescovi erano furbi come volpi e voraci come lupi. Forse uno di loro ha cominciato a spacciare per vino d'uva il prodotto dell'empetro nero ai parrocchiani ingenui. Senza dubbio per dir messa ne serviva ben poco, il resto era ingurgitato dai principi della Chiesa di Roma! Ancora oggi una simile bevanda è prodotta di uno dei pochi vinificatori d'Islanda (forse l'unico), Ómar Gunnarsson: il suo marchio commerciale è Kvöldsól, alla lettera "Sole della Sera". Si tratta con ogni probabilità di una reintroduzione recente anziché della diretta continuazione della bevanda che si produceva a Skálholt.
 
Una cucina fatta di mancanze  

Concludo riportando queste significative osservazioni: 
 
"È ovvio che la cucina islandese di tutti i giorni, fin dai tempi più antichi, differiva in molti modi dalla contemporanea cucina nordeuropea, e penso che si possa dire con certezza che ciò non riflette il cambiamento dei gusti. Ci sono indicazioni che i coloni abbiano cercato di continuare a fare le cose come avevano sempre fatto, ma sono stati costretti, rapidamente o gradualmente, ad adattarsi a un ambiente più duro. La cucina islandese è stata per quasi mille anni una cucina di mancanze: mancanza di grano, mancanza di prodotti freschi, mancanza di sale, mancanza di combustibile, persino mancanza di recipienti e utensili da cucina. Il popolo islandese ha dovuto pagare un certo prezzo per aver scelto di vivere in un luogo più a nord della vita stessa, ma si è adattato al proprio ambiente ed è riuscito a sopravvivere per mille anni con quello che aveva." 
(Nanna Rögnvaldardóttir, 2021). 
 
Questo è il link a una pagina di estremo interesse, della stessa autrice: 
 

venerdì 12 giugno 2020

 
COBRA VERDE

Titolo originale: Cobra Verde
Paese di produzione: Germania Ovest
Anno: 1987
Lingua: Tedesco, Ewe   
Durata: 111 min
Genere: Avventura
Regia: Werner Herzog
Soggetto: Bruce Chatwin (dal romanzo Il viceré di Ouidah)
Sceneggiatura: Werner Herzog
Produttore: Lucki Stipetić
Produttore esecutivo: Walter Saxer, Salvatore Basile
Fotografia: Viktor Růžička
Montaggio: Maximiliane Mainka
Musiche: Popol Vuh
Scenografia: Ulrich Bergfelder
Costumi: Gisela Storch
Interpreti e personaggi:
    Klaus Kinski: Francisco Manoel da Silva/Cobra Verde
    King Ampaw: Taparica
    José Lewgoy: Dom Octavio Coutinho
    Salvatore Basile: Capitano Fraternidade
    Peter Berling: Bernabé
    Guillermo Coronel: Euclides, il taverniere nano
    Nana Agyefi Kwame II: Re Bossa Ahadee
    Nana Fedu Abodo: Yovogan
    Kofi Yerenkyi: Bakoko
    Kwesi Fase: Kankpé
    Benito Stefanelli: Capitano Pedro Vicente
    Kofi Bryan: Messaggero del Re Bossa
    Carlos Mayolo: Governatore di Bahia 
    Marcela Ampudia: Bonita
    Maria Elvira Chavez Mejia: Wanderleide
    Luz Marina Rodriguez Molina: Valkyria
    Awudu Adama
    Ho Ziavi' Zigi Cultural Troupe: Coro di ragazze danzanti
Doppiatori italiani:
    Dario Penne: Francisco Manoel da Silva/Cobra Verde
Location:
    Colombia (Villa de Leyva, Valle del Cauca), Brasile, Ghana
Colonna sonora:
   Cobra Verde è il sedicesimo album dei Popol Vuh (1987).
   Contenuto:
   1. Der Tod des Cobra Verde (4:35)
   2. Nachts: Schnee (1:51)
   3. Der Marktplatz (2:30)
   4. Eine andere Welt (5:07)
   5. Grab der Mutter (4:30)
   6. Die singenden Mädchen von Ho, Ziavi" (Zigi Cultural
       Troupe Ho, Ziavi) (6:52)
   7. Sieh nicht überm Meer ist's (1:26)
   8. Hab Mut, bis daß die Nacht mit Ruh' und Stille kommt
      (9:32)
   2006 bonus track
      OM Mani Padme Hum 4" (Piano Version) (5:28)
   Compositore: Florian Fricke (tranne il coro danzante)
 
Trama: 
Una siccità spaventosa colpisce il Sertão, una desolata regione del Brasile, uccidendo il bestiame del fattore Francisco Manoel da Silva. L'uomo biondo e segaligno si trova costretto a lavorare come garimpeiro in una fangosa miniera d'oro, una specie di girone infernale a cielo aperto. Quando il padrone lo priva della paga, Da Silva insorge e lo uccide. Si rifugia quindi nella foresta, dove assume il nome di Cobra Verde (ossia "Serpente Verde") e diventa un temutissimo bandito che semina il terrore nel Sertão. Durante una visita in una città, assiste alla fustigazione di un mandingo. Un compagno dello schiavo legato al palo cerca di fuggire, ma incontra lo sguardo truce e gelido del Cobra Verde, che con la sola forza di volontà lo convince a ritornare al luogo della punizione e a sottoporsi alle frustate. Dom Octávio Coutinho, un proprietario terriero, è testimone dell'accaduto e ne resta profondamente colpito: dice quindi al bandito biondo che gli servono uomini come lui e gli propone di fare il guardiano degli schiavi che lavorano nelle sue piantagioni di canna da zucchero. Cobra Verde accetta l'incarico, pensando bene di nascondere la propria problematica identità di fuorilegge. Per un po' tutto sembra filare liscio. I guai iniziano per via di un fatto oltremodo singolare: l'uomo manifesta una strana reazione alla vista dei corpi femminili, caratterizzata da inturgidimento dei corpi cavernosi e da sommovimento dei dotti seminali, accompagnata da impellente necessità di eiettare lo sperma a contatto con l'oggetto del desiderio. Accade così che Cobra Verde, già noto per essere un infaticabile montatore, particolarmente arrapato dalle donne di colore, si lascia sedurre dalle figlie mulatte di Dom Coutinho, possedendole carnalmente e ingravidandole tutte. "Tanto non ho niente da perdere", dice tra sé e sé prima di iniziare a penetrare quel ben di Dio. Secondo le costumanze barbariche di quel contesto, Dom Coutinho avrebbe potuto far uccidere all'istante il seduttore delle sue figlie - che ormai gli ha rivelato la propria identità banditesca. Invece gli propone un affare lucroso ma pericolosissimo, sperando di provocarne così la morte. Francisco Manoel da Silva Verde è incaricato di recarsi in Africa, nel Regno di Dahomey, allo scopo di riaprire la rotta atlantica del commercio degli schiavi, forzando il blocco navale imposto dagli Inglesi. Gli concedono l'apposita patente di mercante di esseri umani e gli aprono un conto in banca, in cui saranno depositati i proventi del suo lavoro. Arrivato in Dahomey, il Re Bossa Ahadee lo riceve e si lascia da lui convincere a riprendere le forniture di schiavi; gli concede anche di prendere possesso della roccaforte portoghese di Elmina, abbandonata da tempo, facendone la propria residenza. Tra quelle mura il brasiliano trova Tarapica, un robusto Yoruba libero, unico superstite della precedente spedizione. I due diventano subito soci e riescono con successo a restaurare la rotta atlantica, inviando carichi di schiavi in Brasile. La loro fortuna dura poco: il Re Bossa, che è mentalmente instabile, accusa Da Silva di un gran numero di crimini fantomatici, tra cui l'avvelenamento del levriero reale. La condanna è la pena di morte per decapitazione. Accade l'insperato: il nipote del sovrano fa rapire nottetempo Da Silva e Tarapica, pensando di utilizzarli in un complotto. Il suo intento è infatti quello di rovesciare Re Bossa e di salire al trono. L'impresa ha qualcosa di eroico. L'uomo venuto dal Brasile addestra un esercito di donne gerriere, riuscendo col duro impegno nel suo intento di portate a compimento la Rivoluzione. Le cose però non vanno come si attendeva. Non appena il tiranno è stato abbattuto, il nuovo Re abbandona chi gli ha permesso di ottenere la vittoria. La vita di Da Silva è sconvolta da una ferale notizia: la schiavitù è stata abolita dal Brasile. Il suo conto in banca è stato confiscato. Non gli rimane più alternativa. Non può ritornare nella sua terra d'origine, dove lo aspetta la forca. Ammesso e non concesso che riesca ad arrivarci, visto che l'Inghilterra ha messo una taglia sulla sua testa. I suoi sogni sono annientati: le sue ultime forze le impiega nel vano tentativo di mettere in mare una grossa barca senza remi e senza vela. 
 

Incipit: 

"La madre di Francisco Manoel sospira,
Francisco, sento tanto dolore, ho paura.
La madre di Francisco Manoel sta gridando.  
La siccità è durata per quasi dodici anni,
Son malate le pietre, il mondo sta finendo,
E se soffri t'inganni.
Io ora morirò. Fa' piano, questa panca per tristezza si spezza.
Non muoverti, sta' fermo.
L'alba, la terra, l'acqua stan diventando nere.
Dio perplesso fa finta che sia il suo volere.
Francisco nel suo viaggio legge un verso del cielo,
Non fissare lo sguardo al sabbioso orizzonte, alla spiaggia salata,
Non chiedere ragioni, non indagare il torto: inutili questioni.  
Il Fato ti riserva questo regalo antico,
Ti manderà un'amante, ti manderà un amico."

Recensione: 
Le febbrili vicende narrate dalla pellicola hanno come epilogo l'annichilimento del protagonista, che in ogni istante della sua esistenza terrena ha lottato invano contro quell'orrida e plumbea cosa chiamata "realtà". Un uomo deformato dalla poliomielite procede sulla battigia, con andatura quadrupede. La sua figura distorta e sofferente sembra il sigillo geroglifico dell'avventura fallimentare di Cobra Verde, quasi il sardonico e beffardo commento delle spaventose forze che muovono il Destino. Nelle originali intenzioni del regista, Francisco Manoel da Silva sarebbe dovuto morire affogato mentre cercava di far scivolare tra le onde la pesantissima imbarcazione. La morte sarebbe stata per lui la fine dei tormenti della vita, ma non avrebbe aggiunto nulla alla narrazione. Egli appartiene a quella specie di uomini che non si sentono a loro agio da nessuna parte. 
 
"Come descrivere questa mia stupida esistenza? Come dire quanto sia triste e solitaria, senza famiglia, senza amici? Il solo uomo bianco in questo paese, forse nell'intero continente. Intanto sono diventato padre di 62 bambini, ma questo non mi procura alcuna soddisfazione. Può darsi che l'anno prossimo io possa tornare, e sposarmi. Vorrei vivere nella terra del ghiaccio e della neve. Ovunque, purché sia lontano da qui. Il caldo è crudele e non dà tregua, ti scorre dentro il corpo come una febbre. Eppure, nonostante ciò, il mio cuore si fa ogni giorno più freddo." 
 
Quando si è in Brasile, l'Africa è una terra utopica. Quando si arriva in Africa, il Brasile è il Giardino dell'Eden.  
 
 
Visioni apocalittiche 
 
Fortissimo è il tema herzoghiano della decadenza cosmica, che pochi sembrano aver notato. Il bandito Cobra Verde giunge in una città, suscitando il terrore della popolazione, Si scatena un fuggi fuggi generale, tutti corrono a nascondersi, urlando in preda alla disperazione. Un bambino cerca di trasportare un barile facendolo rotolare, poi vi rinuncia. Nella piazza, piena di sporcizia, una scrofa brunastra grufola oscenamente mentre viene montata con fatica da un magro verro grigio chiazzato di bianco. La prima volta che ho visto il film ho avuto una distorsione percettiva: ai miei occhi quel verro è sembrato un cane! Solo guardando con attenzione ho potuto capire che quello non era un atto di bestialità tra specie diverse. C'è un altro dettaglio degno di nota, non facile a stamparsi nella memoria perché l'azione accade in pochi secondi: è in corso un funerale e qualcuno ordina a gran voce di riportare la bara indietro nella chiesa. Il prete, colto dal marasma e oppresso dai paramenti sgargianti, si affretta a salire le scale da cui era appena sceso, inseguendo il feretro. I partecipanti lo imitano prontamente, accalcandosi e incespicando, come se si fossero defecati nelle brache!  

La Venere Nera 

Spicca una scena surreale di altissimo valore simbolico. Cobra Verde raggiunge una regione selvosa in cui sorge lo scheletro di una grande chiesa in rovina. A un certo punto passa un convoglio di schiavi e di asini, con molti bagagli. In due reggono una portantina velata di bianco. Il bandito spara e mette tutti in fuga. Poi urla: "Il danaro o la vita!" Dalla portantina esce una Venere Nera, coperta di un lungo velo bianco. La donna prosperosa risponde con voce sensuale: "La vita!" Avanza con movenze languide, mimando una danza erotica, quindi si getta tra le braccia dell'uomo. I due si conoscono e sono amanti. L'uomo percorre molte miglia a piedi ogni giorno per potere incontrare la Venere Nera. È scalzo e afferma di non potersi fidare delle scarpe. Non si fida nemmeno di un cavallo, proprio come non si fida della gente. "La sola cosa che voglio è andare via di qui verso un altro mondo", aggiunge. Non ha la benché minima idea delle delusioni che lo attendono.   

 
La poesia del Taverniere Nano 

In questo film trova spazio una delle più bizzarre ossessioni di Herzog: la tematica nanesca! Già il bambino che spinge il barile desta qualche sospetto, in quanto non ci si riesce a togliere dalla mente l'idea che sia in realtà un nano. Poi, quando Cobra Verde entra nella locanda, vediamo che il suo gerente è un autentico nano. Per la precisione, è affetto da nanismo ipofisario (infatti è abbastanza ben proporzionato nelle membra). Il taverniere si presenta: il suo nome completo è Euclides Alves da Silva Pernambucano Wandereley. Il bandito nota subito il cognome Da Silva. Non è improbabile che i due siano lontani parenti. Euclides ha un'innata vena poetica e lo dimostra subito: "Soltanto la mia schiena e il mio torace sono deformi. La notte sogno di trasportare un'intera catena di montagne sulle mie spalle." Cobra Verde ne è subito ammirato. "Hai più fegato tu di tutta questa città", commenta. Euclides gli porta da mangiare, con ogni probabilità riso e fagioli. Il fuorilegge resta fino a notte fonda a farsi una bella bevuta di acquavite di canna, e nel frattempo ascolta con grande interesse. Riporto il dialogo:      

Cobra Verde: "Come fai a sapere tante cose?"
Euclides: "Le so dal nostro prete, e lui le ha imparate dal nostro vescovo." 
Cobra Verde: "E da dove viene la neve?" 
Euclides: "Aah! Puoi vederla tu stesso, viene giù dalla luna. C'è tanta neve sulla luna. È per questo che la vedi così bianca. Bianca e fredda. Se guardi con attenzione la vedi." 
Cobra Verde: "Come succede?" 
Euclides: "Beh, ecco, la luna tira su l'acqua che le serve dall'oceano e poi, quando arriva la notte, le cime delle montagne attraggono i fiocchi di neve. Dentro la neve c'è del sale, ma solo tanto quanto ce n'è nelle nostre lacrime." 
Cobra Verde: "E dove si trova?"
Euclides: "Oh, molto, molto lontano. Devi andare verso ovest. Ci vogliono quattro anni a dorso di cavallo e dieci a piedi. E alla fine del viaggio troverai delle grandi, grandi montagne, che si innalzano sempre più alte, fino a raggiungere le nuvole, e quando avrai raggiunto le nuvole, allora là troverai la neve. La neve cade solo durante la notte, e viene giù leggera come le piume, ed è la luna a mandarcela e ce la manda giù attraverso le nuvole. E quando arriva, è come se l'intero mondo diventasse leggero, come il cotone. Soffice e leggero. E allora anche i leoni diventano bianchi, e anche le aquile reali. Tutto si avvolge in un candido mantello e non capisci più dov'è l'inizio e dov'è la fine. E quando cammini in mezzo alla neve, i tuoi piedi non pesano assolutamente niente. E i fiocchi ti girano intorno, ti accarezzano, ti sfiorano leggeri, come piume di uccelli."
Euclides (dopo una pausa): "Fra un anno o due venderò questa locanda, andrò ad ovest e mi arrampicherò in cima a quella montagne!"  
Cobra Verde: "Io andrò verso il mare. Il Sertão inaridisce i cuori e uccide il bestiame." 
Euclides: "Quando arrivi al mare fai molta attenzione. Perché è da lì che nascono gli uragani, e anche i fiocchi di neve. Almeno così ti ci eleveranno padre!" 
Cobra Verde (stringendo la mano ad Euclides): "Non ho mai avuto un amico in tutta la mia vita. Addio amico!"  

Tutto questo è puro genio! È struggente! Una visione utopica della neve e del gelo.   
 
Zucchero insanguinato  
 
La lavorazione della canna da zucchero è lunga e complessa. Richiede grande cura ed esperienza, oltre alla dura fatica. Dom Coutinho ne illustra per sommi capi le varie fasi. A un certo punto Cobra Verde è testimone di un fatto orribile. Uno schiavo mandingo rimane con un braccio intrappolato in un ingranaggio. Un suo compagno è costretto a recidere l'arto servendosi di un machete. Il fatto è ritenuto pura e semplice quotidianità. È ritenuto normale. Quindi irrilevante. Eppure all'improvviso siamo messi di fronte a una tremenda verità: in questo mondo tutto è insanguinato, persino lo zucchero!  

 
Il concetto di razza in Brasile 

Nel Profondo Sud degli States, nella Confederazione, bastava una goccia di sangue africano per fare di una persona un "negro". Anche se il suo aspetto era in tutto e per tutto quello di un bianco. Ricordo vagamente un film in cui una divina attrice, credo che fosse Ava Gardner, si trovava ad essere considerata una "negra" perché nelle sue vene scorreva un ottavo o un sedicesimo di sangue nero. In Brasile è in vigore un concetto completamente diverso, fondato sul fenotipo anziché sull'interezza del corredo genetico. In altre parole, una persona è classificata come preto "nero", pardo "mulatto" (alla lettera "marrone, bruno") o branco "bianco", non tanto per via dei suoi ascendenti, bensì del suo mero aspetto fisico, della sua apparenza. Quindi una persona con un ottavo o con un sedicesimo di sangue nero è considerata bianca a tutti gli effetti. Le interazioni tra queste parti della popolazione seguono dinamiche complesse e difficilmente comprensibili. Solo per fare un esempio, di solito gli uomini pardos cercano di sposare una moglie bianca o comunque dalla pelle più chiara della propria. Il personaggio di Manoel Francisco da Silva ci mostra uno schema di comportamento molto diverso: egli è un uomo dai caratteri somatici nordici, che potrebbe essere un discendente dei Goti, ed ama possedere carnalmente un gran numero di donne nere o mulatte - tanto che ci si potrebbe anche chiedere se in vita sua abbia mai conosciuto una bianca. In Brasile è una pratica comune e radicata viaggiare in lungo e in largo, intrattenere relazioni occasionali con donne sconosciute e ingravidarle, senza che la cosa comporti biasimo sociale. Le realtà di quella terra sono incredibili e varie. Pochi sanno che la Confederazione continua a vivere nel comune di Americana (Stato di San Paolo), dove la Bandiera Ribelle è tuttora molto venerata dai discendenti degli esuli giunti dopo la fine della Guerra di Secessione. Ebbene, non di rado si vedono persone di colore portare con orgoglio il vessillo dei Confederati! 

Anacronismi e altre incongruenze 

La vicenda di Cobra Verde inizia verso il 1880 e si conclude esattamente nel 1888, anno in cui avvenne la definitiva abolizione della schiavitù nell'Impero del Brasile. Il Re del Dahomey, Bossa Ahadee, è vissuto in realtà un secolo prima degli eventi narrati nel film: noto anche come Tagbesu (Tagbessou), regnò dal 1740 al 1774. Negli anni in cui è ambientata la pellicola regnava invece Glele (Glèlè), detto anche Badohou, che morì nel dicembre del 1889.   
 
Sono stato colpito dall'insegna della taverna il cui gerente è il nano Euclides: riporta la scritta "BAR RESTAURANTE". Una scritta che suona molto moderna. Sappiamo che la parola "bar" nella sua attuale accezione era già in uso nel mondo anglosassone, eppure mi sembra strano che fosse già stata importata in Brasile sul finire del XIX secolo. Probabilmente è un insidioso anacronismo di cui Herzog non si è accorto. Può anche darsi che io mi sbagli, sarebbero necessarie ricerche approfondite che esulano dallo scopo di una recensione e che richiederanno una trattazione in altra sede.
 
Nel paese africano notiamo la presenza di abbondanti fichi d'India (nome scientifico: Opuntia ficus indica), cosa un tantino singolare. Non ho approfondite conoscenze di botanica storica che mi permettano di dire se tale specie è attecchita in Africa. Sappiamo che è ben acclimatata in Sicilia, così potrebbe anche darsi che fosse presente nel Dahomey sul finire del XIX secolo. Quando ho appreso che il film è stato in parte girato in Colombia, lì per lì ho pensato che l'incongruenza potesse avere questa origine. Sembra tuttavia che le scene ambientate in Africa non siano state girate in Sudamerica, bensì in Ghana, così il problema persiste. 

Ricorre un errore geografico abbastanza marchiano. Mentre il Regno di Dahomey si trovava in quello che oggi è chiamato Benin, il forte portoghese di Elmina sorge nel territorio del Ghana, a oltre 500 chilometri dalla capitale del Re Bossa. Per raggiungerlo è necessario andare dal Dahomey verso occidente, cosa che Francisco Manoel da Silva non avrebbe potuto fare con una semplice passeggiata. 
 
Il fratacchione paraninfo 

La religione del Dahomey era il culto Voodoo (Vodun). Un pingue missionario si trova a corte da tempo, ma i suoi tentativi di ottenere conversioni alla Chiesa Romana si sono sempre dimostrati pressoché inutili. L'ecclesiastico, vagamente somigliante a un Bud Spencer semicalvo, invecchiato ed incattivito, vestito con un saio bianco, ha approfittato dell'ospitalità del Re Bossa per spargere il proprio seme in un gran numero di ventri femminili fecondi, generando così tanti figli da rendere difficile la conta. In particolare le figlie le fa prostituire senza scrupolo alcuno: in poche parole è un pappone della peggior specie. Nessuno mette in dubbio il suo fervore religioso, che però non impedisce interpretazioni a dir poco bizzarre delle dottrine eucaristiche cattoliche: quando sta distribuendo la comunione ai suoi pochi parrocchiani, non esita a dare l'ostia in bocca a una capra maculata!  
 
 
Il viceré di Ouidah  
 
Bruce Chatwin scrisse un lungo e complesso romanzo, intitolato Il viceré di Ouidah (prima edizione: 1980), pubblicato in Italia da Adelphi (1983). Werner Herzog ha comperato dallo scrittore i diritti cinematografici sull'opera, in modo tale da poterne trarre ispirazione per il suo film. La trama del romanzo in questione è per necessità molto più elaborata di quella di Cobra Verde: moltissimi dettagli e sviluppi narrativi non sono stati trasposti in pellicola. L'opera di Chatwin all'epoca fu considerata "eccessivamente violenta" e "barocca" dai soliti critici radical chic pieni di nauseante buonismo politically correct. L'ispirazione venne allo scrittore nel corso di una sua visita in Benin, in un periodo molto difficile di torbidi politici. La figura di Francisco Manoel da Silva è ispirata a quella di Francisco Félix de Sousa (scritto anche Souza), un negriero vissuto agli inizi del XIX secolo. Nato a Bahía nel 1754, morì a Ouidah nel 1849, alla venerabile età di 94 anni. Era riuscito a diventare il Viceré (chacha) del Regno di Dahomey. È stato definito "il più grande mercante di schiavi". Pochi sanno che i suoi discendenti, che portano il suo cognome, sono tuttora tra le famiglie più potenti dell'intera Africa, se non addirittura la più potente. Si trovano in Benin, Ghana, Togo e Nigeria. Una cosa sorprendente salta subito agli occhi: mentre Francisco Félix de Sousa somigliava un po' a Garibaldi ed era biondiccio, i suoi discendenti sono tutti neri. Non è così difficile comprenderne il motivo: il Viceré ebbe un harem di donne native e fu padre di un'ottantina di figli. Fu sepolto in un santuario della religione Vodun, che praticava assiduamente nonostante l'adesione di forma alla Chiesa Romana. 
 
Il Dahomey e le sue responsabilità 
 
Appare subito evidente che l'origine del concetto di regalità nelle culture dell'Africa subsahariana ha avuto origine nell'Egitto dei Faraoni. Il Re del Dahomey era considerato una divinità sulla terra. La sua vita era regolata da strani tabù. Ad esempio gli era vietato guardare il mare. Quando il Re Bossa Ahadee finisce detronizzato, viene murato vivo con le sue mogli nella sua estrema dimora-tomba. Pur votate alla morte, le donne si occupano di praticargli una specie di eutanasia. Pochi sembrano considerare una dato di fatto: i regni africani erano società guerriere che praticavano la schiavitù. Il Dahomey era in perenne guerra con gli Egba e ne traeva un gran numero di schiavi, che poi venivano venduti al Brasile e ad altre nazioni. I regni africani erano i principali fautori del mercato di esseri umani. Migliaia di prigionieri finivano incatenati in orrendi pozzi. In fondo tutto ciò è abbastanza coerente, dato che la schiavitù è stata pratica comunissima dovunque per millenni e nessuno pensava come una persona del XXI secolo. I fanatici attivisti del buonismo politically correct si rifiutano di considerare queste cose, perché il loro intento è quello di riscrivere la Storia secondo i propri desiderata ideologici. Non esiste qualcosa di simile all'uomo nero innocente da contrapporre all'uomo bianco perverso e maligno: Homo sapiens è dominato dalla schizofrenia. Come diceva l'Ispettore Derrick, umano e disumano possono convivere in ognuno di noi.

 
Il coro danzante
 
Ho incontrato non poche difficoltà per identificare la lingua del coro di ragazze danzanti che cantano alla fine del film, mentre scorrono i titoli di coda. Già in una sequenza le si era viste ed erano presentate dal corrotto fratacchione come il suo "coro di monache". Sono partito dal nome del gruppo, Ho Ziavi' Zigi Cultural Troupe, per arrivare al suo luogo di origine, che è Ziavi, nel distretto di Ho, in Ghana. Ho poi trovato nel Web materiale che mi ha permesso di risalire alla lingua delle canzioni. Si tratta della lingua Ewe, appartenente al ceppo Gbe. È parlata in Ghana e in Togo da più di 3 milioni di persone. Allo stesso ceppo appartiene anche la lingua Fon, anche detta Fon-gbe, parlata in Benin, Togo e Nigeria da circa 1,5 milioni di persone. Il Fon era proprio la lingua ufficiale del Regno di Dahomey. 
 
Curiosità 
 
Lo schiavo rimasto con un braccio intrappolato e spappolato in una macchina è stato interpretato da un attore mutilato, che portava una protesi. Girare la scena è stato quindi molto semplice: il braccio finto finito tra gli ingranaggi della pressa ha dato l'impressione di un incidente reale! 
 
Il produttore ha suggerito a Herzog di impiegare attori afroamericani per i ruoli delle persone di colore, ma lui si è rifiutato in modo categorico e ha voluto reclutare professionisti africani locali. Una scelta che approvo appieno.
 
La parte del film ambientata in Africa è stata girata per prima, in quanto è stata ritenuta più complessa e difficile. La parte ambientata in Brasile è stata girata subito dopo. La città in cui Cobra Verde sparge il terrore è ben riconoscibile: è Villa de Leyva, in Colombia. Si riconoscono subito i suoi edifici in stile coloniale. Herzog ha dimostrato la propria maestria riuscendo a rappresentare un'atmosfera di disfacimento che manca nel borgo attuale. 

Nel 1994 nacque a Cleveland (Ohio) il gruppo musicale Cobra Verde, post-punk e hard rock, tuttora attivo. La sua denominazione trae chiaramente origine dal film herzoghiano. Il primo album pubblicato ha un titolo molto suggestivo: Viva la Muerte.
 
 
L'epilogo 
 
Questo è stato il quinto e ultimo film in cui Werner Herzog ha diretto Klaus Kinski, dopo Aguirre furore di Dio (1972), Nosferatu - Il principe della notte (1979), Woyzeck (1979) e Fitzcarraldo (1982). Spesso i recensori insistono nel chiamare Kinski "attore-feticcio" di Herzog. Non so da dove questa bislacca denominazione abbia tratto la sua origine, fatto sta che il rapporto tra i due non è mai stato semplice. Sembra che all'origine della rottura ci sia stato un episodio di aggressione fisica. Il biondo e intemperante attore a quanto pare si lanciò contro il regista tentando di strangolarlo. Una foto molto diffusa nel Web ci mostra lo scatto dell'aggressore, gli occhi pieni di odio e il volto stravolto dalla possessione diabolica. Non ci sono dubbi: Kinski era un uomo con più di un aspetto, per usare un modo di dire comune tra i Vichinghi. In altre parole, egli era un genuino berserk. Guardando la foto, comprendiamo all'istante il significato della locuzione "avere il verme negli occhi", che descriveva i guerrieri invasati. Al culmine del suo dispotismo, il bizzoso attore pretese che Herzog rimuovesse il direttore della fotografia, Thomas Mauch, che aveva collaborato ai suoi film fin dal principio. Mauch fu sostituito, ma lo stesso Kinski non comparve in altri film herzoghiani. In seguito il regista descrisse il suo rapporto con lui nel film documentario Kinski, il mio più caro nemico (1999).