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mercoledì 24 ottobre 2018

LA CHICHA: STORIA, CULTURA ED ETIMOLOGIA


Il nome chicha è attribuito a una tipologia di bevande lievemente alcoliche prodotte dalla fermentazione del mais o di altri ingredienti, tipiche dell'America Latina e di origini precolombiane. Talvolta come sinonimo di chicha si usa birra di mais, anche se le somiglianze con la birra a noi ben nota sono scarse. In pratica stiamo trattando di un caso singolare di uso culinario della saliva. La più antica ricetta per la produzione della tradizionale bevanda degli Indios dell'America meridionale e centrale prevedeva una lunga masticazione del mais: il pastone ottenuto veniva sputato in un vaso che veniva sotterrato, per far sì che le forze vive della fermentazione alcolica agissero decomponendo gli amidi in zuccheri semplici, dando origine a molecole di etanolo e producendo un liquido torbido e denso. Questo veniva cotto, filtrato e lasciato riposare al buio per un certo periodo prima di essere pronto per il consumo. Non oso immaginare i retrogusti, ma è chiaro che nel contesto il pur blando effetto inebriante era molto più importante delle proprietà organolettiche. Dato il basso tenore alcolico (dall'1 al 3% in volume), l'unico modo per ottenere una bella sbronza consisteva nel bere quantità immani di questo intruglio. Si vede chiaramente che numerose ricette che si trovano nel Web sono in gran parte recenti e fantasiose, prevedendo l'utilizzo di ingredienti - come ad esempio lo zucchero di canna - che in tempi precolombiani non si potevano trovare su suolo americano. Approfondendo le nostre conoscenze sull'argomento, apprendiamo che nel corso dei secoli coloniali la masticazione è stata in gran parte sostituita da un processo più compatibile con i gusti degli Spagnoli: la germinazione, che trasforma il cereale in malto, seguita dalla bollitura. Esistono anche varianti non fermentate, come la chicha morada. Tuttavia si trova anche la prova inconfutabile che la ricetta antica non è del tutto caduta in disusso. Anzi, nelle regioni andine questa produzione casereccia è ancora abbastanza fiorente, pur essendo vietata dalla legge per motivi igienici. Esistono anche denominazioni specifiche per indicarla: chicha de muco, dove muco indica la farina di mais masticata (dal Quechua muku), oppure taqui (parola nativa ma non Quechua). Il procedimento tradizionale è descritto in una pagina del sito Soundsandcolours.com, in cui si vede una ragazza nell'atto di masticare la farina di mais per poi sputarla: si spiega che il prodotto di questa discutibile operazione acquista un sapore simile a quello dello yogurt, anche se trovo difficile credere che la questione sia così anodina. 


Altre immagini esplicite si trovano in una sezione del sito ecuadoregno Planv.com, il cui titolo è Museo de la corrupción. Ne riporto una abbastanza significativa: 


I Diaghiti, fierissimo popolo del Nordovest dell'Argentina, offrivano al dio uranico Kakanchig grandi quantità di liquori che i cronisti spagnoli definivano nauseabondi (asquerosos) per via del loro procedimento di lavorazione, che comportava masticazione della materia prima da parte di donne, che secondo la tradizione dovevano essere anziane. Con ogni probabilità era temuto il potere magico e maligno del mestruo, per questo il poco piacevole incarico non era dato a donne in età fertile. 


En Santiago del Estero (1586) en el tiempo de la recolección de los frutos se reunían para adorar a Cacanchic- “á quien /.../veneraban, y ofrecían en sacrificio sus asquerosos licores y gran cantidad de aves muertas: llevabanle sus enfermos, para que los curasse y dedicaban a su servicio algunas doncellas de catorce, ó quince años, de quienes se aprovechaban para abominables torpezas los Hechiceros sus Ministros, por cuya boca sus oráculos, con palabras tan amphibologicas, que pudiessen rara vez convencerlos de engañosos. Apareciaseles á estos, en forma visible /.../”
(Hist.Comp., t.primero, lib.primero, cap.IV, p.16).

Lo storico Pedro Lozano riporta che Viltipoco, valoroso capo degli Omaguaca, popolo imparentato con le genti di Atacama e con i Diaghiti, donò a un prete un gran vaso di chicha, e l'ecclesiastico non ne voleva bere, perché riteneva tale bevanda impura (sucia). Questo non per astrusi pregiudizi religiosi, ma per un dato di fatto incontrovertibile, ossia perché era stata fermentata per mezzo della saliva. Come il prete vide che il collerico Viltipoco si offendeva, fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco e a trangugiare il poco attraente beverone. 


Viltipoco y los suyos llegaron a dominar gran parte del Tucumán, aislándolo del resto del virreynato del Perú. El padre Gaspar Monroy hizo esfuerzos para incorporarlo a la fe cristiana. Pedro Lozano, en su "Descripción Corográfica" narra un episodio entre el Padre Monroy y Viltipoco: "El cacique le ofrece un vaso de chicha al sacerdote y éste intenta rechazarlo por la (suciedad) que implicaba su fabricación, pero luego al ver que el indígena se ofendería, tomó el brebaje. Fue tal la alegría que sintió Viltipoco que a partir de aquí trocóse en otro hombre y se mostró más benigno".

Le bevande "sporche" sono ben note anche in Amazzonia, dove vengono preparate dalla masticazione della manioca o della frutta. In un caso se ne è visto il consumo in un film di grande popolarità. Sean Connery nel film Mato Grosso (Medicine Man) di John McTiernan (1992) - un autentico capolavoro - è uno studioso talmente alcolizzato da non potersi rassegnare alla sobrietà nemmeno per pochi giorni, finendo così con l'ubriacarsi alla festa della bevanda di palma, fermentata dalla frutta grazie alla ptialina contenuta nello sputo delle donne. Una cosa talmente disgustosa che renderebbe astemio più di un bevitore. Per ulteriori informazioni, si rimanda al sito di Giorgio Samorini, che è oltremodo interessante: 


Note etimologiche

Oscurissima è l'etimologia della parola chicha. Si tratta di una parola della lingua dei Taino, di ceppo Arawak, la prima popolazione con cui Cristoforo Colombo è entrato in contatto. Insoddisfatti di una spiegazione tanto semplice, gli accademici continuano a brancolare nel buio, delirando senza sosta. Per la Real Academia Española (RAE) deriverebbe invece da un supposto vocabolo della lingua Kuna (Guna) di Panama, chichab "granturco" (non è in ogni caso Maya, come ho letto in un'occasione). La glossa è comunque poco attendibile, dalle risorse reperite risulta oba glossato "maíz" e sisa glossato "licor". Secondo Luis Cabrera chicha proverrebbe dal Nahuatl chichia (chichiya) "essere acido, aspro o amaro" e da atl "acqua". Questo Cabrera è definito studioso di cultura azteca e dovrebbe essere un esperto, anche se le informazioni non si trovano. Eppure dalle mie conoscenze della lingua Nahuatl, che ho appreso in gioventù, non risulta affatto che sia possibile un composto *chichiatl o *chichiyatl "acqua acida" a partire da un verbo e da un sostantivo. Stando a un gran numero di siti nel Web, anche un certo Don Luis G. Iza avrebbe approvato questa proposta etimologica. Non va però nascosto che di tale autore non si riesce a trovare notizia: i siti che riportano l'informazione copiano le stesse parole da un'unica fonte non recuperabile e sospetta di essere un fake. Anche di Luis Cabrera ce ne sono parecchi, si sospetta trattarsi di un pacchetto memetico. Altrettanto inattendibile è la derivazione da un supposto verbo *chichiani "sputare" riportato da Gonçalves da Lima (1990). Una parola chichiani in realtà esiste, ma indica una sorta reggiseno ("apollador de teta"). Nel senso di "sputare" è una fabbricazione a partire dal corretto verbo Nahuatl chicha, chihcha "sputare", che ha un'occlusiva glottidale, quasi un piccolo colpo di tosse, prima della seconda -ch-. Il sostantivo derivato da questo verbo è chichitl, chihchitl "sputo". Non solo fonetica inadatta, ma anche semantica inadatta: gli Indiani ritenevano sacra la bevanda, non l'avrebbero chiamata da un dettaglio della sua produzione. Questa è la caratteristica di quasi tutte le paretimologie: i loro fabbricatori ignorano la struttura delle lingue a cui si appellano per spiegare qualcosa. Tra l'altro la chicha non era (e non è tuttora) la bevanda tipica delle genti di lingua Nahuatl, che usavano un fermentato di succo d'agave chiamato octli /ukλi/: la locuzione octli poliuhqui /'ukλi pu'liʍki/ (dal verbo polihui "essere rovinato") indicava una bevanda troppo fermentata, donde ne derivò il ben noto pulque /'pulke/ (con accento retratto), tuttora molto diffuso in Messico. Esistevano ed esistono ancor oggi in Messico anche bevande a base di mais, ma a quanto pare erano già nell'antichità fermentate tramite i lieviti selvatici e non tramite la saliva. In Nahuatl si chiamava teooctli /teu:'ukλi/ "pulque divino" una forte bevanda prodotta dal mais e data alle vittime destinate ad essere immolate a Huitzilopochtli, allo scopo di intorpidirle. G. Edward Nicholson (ONU) ha scritto un articolo, Chicha Maize Types, and Chicha Manufacture in Peru, le cui prime due pagine sono consultabili al seguente sito: 


Nell'opera in questione sono contenute diverse inconsistenze. Questo è un estratto:

«The origin of the word chicha is not clear, but it appears to be of Caribbean (Arawak) origin, as a derivation of chichal or chichiatl. In the latter case, the two voices, chichilia and atl mean "to ferment" and "water" respectively; while in the former case chi means "with" and chal means "saliva." and, together, "to spit" or "spit".»

Innanzitutto Nicholson confonde la lingua Nahuatl con le lingue Caribe e con quelle Arawak, cosa già di per sé assurda quanto deprecabile. Il verbo citato, chichilia, è in realtà transitivo: tlachichilia "inacidire qualcosa, renderla aspra o amara". Così si può dire: nicchichilia in atl "rendo aspra l'acqua". Quello che non si può fare con questo verbo è formare composti da cui la parola chicha sia derivata. Per quanto riguarda la forma chichal che lo studioso riporta, è un'alterazione del verbo Nahuatl chihcha (vedi sopra), ma la sua analisi è farneticante e incompatibile con la lingua degli Aztechi. Ancora più stravaganti sono le altre proposte etimologiche reperibili, fatte a partire dalla lingua Maya (quale delle tante derivate dal Maya classico?): autori sudamericani citano forme non verificate (es. chiboca "masticare", chichaá "riempire d'acqua", zicha "acqua fresca"), non attribuite con precisione e prive di una semantica attendibile. In pratica si tratta di fantalinguistica amerindiana. Emerge un fatto di per sé stupefacente: una lingua importante come il Nahuatl non è conosciuta nemmeno da persone che dovrebbero esserne specialiste. Anziché studiosi seri, troviamo labili menzioni di personaggi fantomatici come Luis Cabrera e Don Luis G. Iza. Manca il costume di cercare informazioni corrette, anche in questi tempi in cui il Web dovrebbe rendere le cose più facili rispetto al passato pre-Internet.

Il nome Quechua della chicha

La forma più antica documentata del nome Quechua della chicha è aswa. Era così che gli Incas pronunciavano la parola: /'aswa/, ovviamente con la sibilante /s/ sorda come in sale. Nelle varietà locali di Quechua si sono tuttavia prodotte alcune importanti evoluzioni: la sibilante /s/ a contatto con l'approssimante /w/ ha prodotto un suono aspirato /qh/, /x/ o /h/. Così vediamo che nella stessa lingua della città di Cuzco, que è ritenuta la più nobile e tradizionale varietà di Quechua, la chicha è attualmente chiamata aha o aqha. Questa è stata l'evoluzione fonetica: 

aswa > aqha > aha

Alcuni autori di epoca coloniale usano ortografie singolari come aka e acca per trascrivere /aqha/, /aha/, ma occorre fare estrema attenzione, perché in Quechua esiste la parola aka /'aka/, che significa "merda, escremento umano" e che non deve dare origine a confusioni. La forma antiquata aswa non è del tutto estinta, probabilmente è stata reintrodotta come dottismo ed è la sola usata nel Quechua di Ancash (Perù settentrionale) e in quello di Imbabura (Ecuador). Nel Quechua di Huánuco è accaduta una cosa assai singolare: la radice nativa per indicare la chicha è scomparsa, rimpiazzata da chiicha, prestito dallo spagnolo, mentre la parola aswa significa "pus". Non sappiamo se si tratti di uno slittamento semantico o se sia un lemma di sostrato, omofono per puro caso. Propendo per la seconda ipotesi. Faccio poi notare che nel Quechua di Santiago del Estero (Argentina), noto come Quichua, ogni traccia della radice aswa / aqha è scomparsa.

In epoca incaica si chiamava yamur, o meglio yamur aswa, una chicha speciale che l'Inca offriva al Sole nel corso di una speciale cerimonia. A quanto mi risulta, questo vocabolo si è completamente estinto in tutte le varietà di Quechua attualmente parlate e non sono riuscito a risalire al suo significato originario.     

Il composto aqhawasi "chicheria" (< aqha + wasi "casa") indica un locale dove si produce e si serve la chicha. Abbiamo poi aqhallanthu "indicatore di una chicheria" (< aqha + llanthu "ombra"): si tratta di un'insegna, di una bandierina o altro contrassegno posto in cima a un'asta che sporge dalla parete di una chicheria per permettere ai nativi di capire dove poter ingurgitare ettolitri di bevanda fermentata. Lo slittamento semantico deve essere stato "ombra" => "che fa ombra" => "tendina" => "insegna", cfr. llanthuna "parasole". Gli interessanti composti aqhawiksa e aqharapi significano entrambi "ubriaco", "ubriacone". All'epoca dell'Impero esisteva un ufficiale incaico chiamato aqhapaq kuraka, letteralmente "signore della chicha". Il nome strumentale aswana significa "pentola di chicha" nel Quechua di Imbabura. Nel Quechua di Huanca aswap ñawin è la prima chicha estratta dall'anfora in cui è fermentata. Infine abbiamo il verbo aqhay "produrre la chicha", con la variante asway. Tramite un comune suffisso si forma poi nella lingua di Huanca il verbo aswakuy "produrre la chicha". Non mi risultano formazioni simili dalla variante aqha diffusa in altre varianti della lingua.

La lingua Aymará non mostra alcuna concordanza col Quechua sul nome della chicha: la bevanda è chiamata k'usa (scritto anche kusa). Questo vocabolo, si noterà, è riportato erroneamente da G. Edward Nicholson come *kufa per un fraintendimento ortografico: una -s- allungata è stata da lui letta come -f-, errore non da poco. Si noti che in Aymará non esiste il suono /f/. Nella lingua dei Mochica, purtroppo ormai spenta, la bevanda era chiamata kuiċho (trascrizione di Ernst Wilhelm Middendorf, 1892). Così abbiamo attestate le seguenti frasi: tiñ mān kuiċho "io bevo la chicha"; ako eiš funo, mananchi llollek villōs kuiċho "dopo il pasto bevono un vaso di chicha". Forse l'idea che la forma Aymará e quella Mochica discendano da una protoforma comune non è poi così peregrina, o forse si tratta di un antichissimo prestito culturale.

Una citazione nell'opera di Houellebecq

La chicha è citata da Michel Houellebecq nel romanzo Sottomissione, con riferimento a un tè alla menta servito nel bar di una moschea di Parigi. Questa bevanda aromatizzata è ritenuta abominevole dall'autore, che considera la parola chicha, pronunciata a denti alti, come se fosse un'onomatopea per indicare lo sputo. Una schifiltosità alquanto strana da parte di un autore che nello stesso volume descrive un atto di sodomia su una prostituta magrebina, senza protezione alcuna, seguito dalla fellatio del membro sporco di residui fecali.

venerdì 7 ottobre 2016


LE PARTICELLE ELEMENTARI

Titolo originale: Elementarteilchen
AKA: Atomised; The Elementary Particles
Paese di produzione: Germania
Lingua originale: Tedesco
Anno: 2006
Durata: 113 min
Colore: Colore
Audio: Sonoro
Genere: Drammatico
Regia: Oskar Roehler
Produttori: Oliver Berben, Bernd Eichinger
Soggetto: Michel Houellebecq (Les Particules
   élémentaires)
Sceneggiatura: Oskar Roehler
Fotografia: Carl-Friedrich Koschnick
Montaggio: Peter R. Adam
Musiche: Martin Todsharow
Scenografia: Ingrid Henn
Distribuzione: Momentum Pictures
Interpreti e personaggi:
    Moritz Bleibtreu: Bruno Klement
    Christian Ulmen: Michael Djerzinski
    Martina Gedeck: Christiane
    Franka Potente: Annabelle
    Nina Hoss: Jane
    Uwe Ochsenknecht: padre di Bruno
Premi:
    Festival di Berlino 2006: miglior attore (Moritz
       Bleibtreu)

Trama:
Il film è incentrato sulla sessualità disturbata di due fratellastri molto diversi tra loro: Michael Djerzinski e Bruno Klement. Figli di una donna lasciva e un po' disinvolta infatuata della subcultura hippie, sono stati abbandonati alla nascita. Michael è diventato uno studente dotato e si è dato alla carriera universitaria, crescendo ossessionato dall'abiogenesi e cercando il modo per abolire la sessualità umana. Bruno è cresciuto con la nonna, che un giorno è morta per via delle ustioni provocate da una pentola di brodo bollente che le si è rovesciata sulla testa. Così al bambino è toccato finire in un terribile collegio pullulante di bulli scatenati che lo costringevano a prendere in bocca lo spazzolone del cesso tutto sporco di feci.

Un giorno Michael e Bruno si ritrovano. Michael è diventato un ricercatore brillante. Tornato dall'Irlanda, dove lavorava, incontra un'amica dell'adolescenza, che non ha mai avuto il coraggio di avvicinare. Saputo che lui non si è mai giaciuto con una donna, lei finisce col sedurlo e col guidarlo nella penetrazione, portandolo a eiacularle nella vagina. Bruno è in tutto e per tutto un fallito che ha da poco lasciato la moglie dopo una fellatio andata male. Lei non lo aveva mai fatto ed è stata spinta a provarci per cercare di salvare il matrimonio, ma ha usato i denti, procurando al marito un serio fastidio. Così lui l'ha fatta smettere e dall'episodio è scaturito il divorzio. Bruno, già annichilito perché un editore gli aveva rifiutato uno scritto contenente frasi molto aggressive contro i Mandingo, definiti "organi genitali deambulanti", si consola ingurgitando fiumi di alcol. Facendo una gran fatica a procurarsi una partner, finisce in un camping frequentato da moltissime adepte della New Age, convinto di riuscire a rimorchiarne qualcuna. Finalmente trova ciò che cerca: si immerge in una vasca di acqua calda in cui una bella mora ha appena finito di copulare con uno sconosciuto. Si mette al posto del ganzo appena andato via e infila il suo salsicciotto nella vulva ancora calda dello sperma da poco deposto. Comincia ad ancheggiare fino ad aggiungere anche il suo contributo seminale. Ne nasce una storia ardente. Quando i due sono convinti di aver trovato la felicità, questa sfuggirà loro di mano senza rimedio. La vita per Bruno si trasformerà in un incubo ad occhi aperti. 

Recensione: 
 Pur trattandosi a mio avviso di un prodotto valido, la cui visione è senz'altro raccomandata, rimangono alcune perplessità. Mi domando spesso se ci sia un film, anche uno solo, che traspone in sequenze un libro senza apportarvi alcuna modifica. Sarebbe inutile cercare: non se ne troverà neppure uno. Se la vicenda narrata nel libro di Houellebecq si svolge in Francia, quella del film è ambientata in Germania. Come conseguenza di questa scelta, cambia qualcosa nell'onomastica. Il signor Bruno Clément /kle'mã/ si ritrova trasformato in Bruno Klement /'kle:mənt/ (in neotedesco è /'kli:mənt/). Anche se la diversa ambientazione può sembrare un dettaglio marginale, in realtà cambia la natura stessa della storia. Non è tuttavia questo il punto più importante.

Appiattimento bidimensionale 

Il film sembra una mera proiezione bidimensionale del romanzo di Houellebecq. Mi pare talmente riduttivo rispetto alla fonte da cui è stato tratto che potrebbe essere visto come un'impalcatura scheletrica in confronto a un edificio compiuto con tutta la complessità delle genti che lo abitano. È come un disegno paragonato alla realtà a tre dimensioni che ritrae. Tutto ciò che riguarda i due fratellastri è a malapena accennato, il che rende abbastanza difficile comprenderne a fondo la personalità. Solo per fare un esempio, tutto il catastrofico vissuto di Bruno, vessato in modo atroce dai bulli durante l'infanzia in collegio, si riduce a una singola scena - mentre nel romanzo si fanno profonde digressioni sul concetto di "animale alpha" e sulla crudeltà nelle società primitive. Allo stesso modo la micropenia che tanto condiziona la vita dello sventurato erotomane non viene nemmeno menzionata. Houellebecq ci descrive la genealogia di Michel e di Bruno, partendo da Martin Ceccaldi che sposò Géneviève July, generando Janine Ceccaldi. Questa non soltanto perse la verginità a 13 anni (fatto che l'autore si premura di definire anomalo per quei tempi), ma eccelse negli studi riuscendo a conseguire grandi risultati. Si sposò in prime nozze con Serge Clément, il cui aspetto era quello di una scimmia dotata di telefono portatile, generando Bruno. In seconde nozze sposò poi Marc Djerzinski, figlio di un minatore originario del bacino carbonifero di Katowice, in Polonia. Tutti questi dettagli, non trasponibili nel film, sono stati completamente espunti. Mentre Houellebecq fornisce un gran numero di informazioni che permettono di comprendere quanto sta accadendo, in tutto il suo squallore, Roehler presenta ogni cosa come se fosse un meteorite caduto dal cielo e non suscettibile di analisi. Alcuni eventi sono presentati in un ordine diverso rispetto al romanzo. Ad esempio il funerale della madre dei due fratellastri, che nel libro è il Capolinea, nel film precede temporalmente la sciagura che ha macinato Bruno. Come può tutto questo non tradursi in una struttura narrativa del tutto diversa?   

Houellebecq e la Fantascienza 

Il libro Le particelle elementari - che lo si voglia o no - è un'opera fantascientifica. Sì, ne sono consapevole: questa mia affermazione mi attirerà le ire funeste di numerosi fantascientisti. Strepiteranno tutti i fanatici che comprano soltanto libri con un robot o un'astronave sulla copertina. I commessi delle librerie avranno le convulsioni: per loro dire che Houellebecq va nello scaffale della SF è empietà e bestemmia. Eppure quanto affermo è la pura e semplice verità. Houellebecq descrive come Michel Djerzinski è diventato l'uomo che ha sconfitto la Morte. Lo ha fatto in concreto, ponendo le basi per l'immortalità dei corpi. Non soltanto egli è uno scienziato geniale: è anche un filosofo molto profondo. Il libro di Houellebecq gronda filosofemi complessi ed è pieno zeppo di dialoghi sui massimi sistemi. Orbene, il film Le particelle elementari di tutto questo non conserva nemmeno una sillaba. Michael Djerzinski vi è sì descritto come un ricercatore di grandissimo talento, ma nulla di più. Non si ha proprio niente di fantascientifico nelle sequenze dell'opera di Roehler. Siamo a mio avviso di fronte a uno dei pochi casi, se non l'unico, di film drammatico non fantascientifico tratto da un libro di Science Fiction

Erotismo e sesso compulsivo

Senza dubbio il sesso rappresenta la massima ossessione di Michel Houellebecq, che la trasfonde a piene mani nelle sue opere. Questa continua descrizione dell'ipersessualità non è tuttavia una pura e semplice esaltazione degli atti materiali. Quando si leggono i passaggi erotici di un libro dell'autore francese non si è indotti in stato di eccitazione, quanto di depressione: si viene permeati da un profondissimo senso di sfacelo e di morte ontologica. Roehler riesce a rendere bene questo sentire annichilente. Quando Christiane si presenta a Bruno in abbigliamento sexy e i due escono per andare in un locale di scambisti, si avvertono i lezzi dello stato terminale in cui l'intero genere umano versa. Siamo di fronte a una società putrefatta, simile a una grande carogna brulicante di cagnotti, dalle cui membra trasuda un fetidissimo percolato caustico. Bruno è convinto di aver trovato il Paradiso in quel ricettacolo di contatti tra corpi, ma la Nemesi è in agguato. Mentre uno sconosciuto energumeno sta cavalcando Christiane, avviene la catastrofe. La spina dorsale della donna, già provata dall'artrosi, cede e si spezza, lasciandola sul pavimento, inerme e paralizzata. La miseria morale di Bruno si manifesta con il suo indugio, restando egli troppo tempo senza farsi vivo, le dita paralizzate ad ogni tentativo di telefonare alla sua amata. Lei viene stritolata dalla nitida consapevolezza del Nulla Assoluto che è l'esistenza, così si suicida arrampicandosi sul davanzale del balcone e precipitando nel vuoto. Il sesso descritto da Houellebecq è parte di una complessa metafora dell'insostenibilità della condizione umana, e il regista tedesco nulla toglie alla sua potenza. Il senso di vuoto e di desolazione che si prova è totale. 

La spagnola

Mettendosi nei panni del povero Bruno, Houellebecq esprime alcune riflessioni sulla pratica detta "spagnola" o "sega spagnola" (branlette espagnole in francese, in inglese titjob), che come ognuno saprà, consiste nel mettere il fallo eretto tra i seni di una donna, che col loro moto ritmico finiscono col provocare l'eiaculazione. A quanto nel romanzo si dice, è difficile ottenerla dalle prostitute, così Bruno passa anni senza sperimentarla. Ecco le querule lamentazioni a questo proposito: 

"Dopotutto, si diceva speranzosamente, la squaw di ieri, per esempio, è passabilmente scopabile. Seno grosso un po’ moscio, ideale per una bella spagnola; erano tre anni che non si faceva fare una spagnola. Eppure le spagnole gli piacevano un sacco; solo che in genere le puttane non ne fanno. Forse non amano ricevere lo sperma in faccia? Forse la spagnola richiede più tempo e investimento personale rispetto a una sega semplice? È che la prestazione risultava atipica: in genere la spagnola non si pagava, ergo non era prevista, ergo era difficile da ottenere. Per loro era qualcosa di intimo, qualcosa che facevano col loro uomo. Soltanto col loro uomo, purtroppo. Più di una volta, Bruno, in cerca di una bella sega alla spagnola, aveva dovuto accontentarsi di una sega semplice, o tutt’al più di un bocchino. Ben riusciti, peraltro; tuttavia, in fatto di spagnole l’offerta era strutturalmente insufficiente, ecco come la pensava Bruno." 

Del tutto diversa la situazione in Germania, dove molte ragazze prosperose concedono con gioia tale pratica. Così ecco che Bruno Klement, trasposizione germanofona di Bruno Clément, durante il funerale di sua nonna, si apparta con una bionda formosa e le mette il fallo tra i seni esuberanti. Lei muove quella sua bellezza fino a fare eiaculare il suo amante occasionale, che ansima come una scimmia in calore. Non solo è una delle poche occorrenze di questa pratica erotica in un film non pornografico, ma è un'altra sostanziale differenza tra l'opera di Houellebecq e quella di Roehler. 

L'incesto tra figlio e madre

Come nel libro, Bruno prova attrazione sessuale per la sua disinibita madre, osservandola mentre dorme con le gambe un po' aperte. Houellebecq accenna alla cosa. "Io sono tua madre", puntualizza la donna al giovane figlio erotomane. "In genere, a quel punto, Bruno si chiedeva con angoscia se magari quel mattino non si fosse svegliata mentre lui tuffava lo sguardo nella sua vulva. Eppure la puntualizzazione fatta dalla madre non aveva niente di sorprendente; l’incesto è considerato tabù già tra i mandrilli e le oche." Non ci sono risparmiate dense pornografie sulle scellerate attività di Janine Ceccaldi, che iniziò il tredicenne figlio del new ager Di Meola alle attività sessuali. Roehler raccoglie queste suggestioni e accentua la morbosità dello sguardo che Bruno riserva al cunnus della madre. Non solo, ci mostra Bruno che si allontana dalla tentazione e va ad appartarsi, masturbandosi furiosamente pensando al vaso procreativo che lo ha messo al mondo.

Un implacabile atto di accusa

Sono in perfetto accordo con Michel Houellebecq e con Oskar Roehler nell'accusare la subcultura hippie e le conventicole New Age di aver portato la società occidentale alla rovina. Tuttavia a differenza dello scrittore francese e del regista tedesco, non esito a utilizzare un linguaggio violento e streicheriano. Lo stramaledetto paradigma New Age è cancrena e metastasi esiziale, chi lo ha propalato è un bacillo della lebbra, è il treponema pallido che ha causato la tabe al genere umano. 

sabato 20 agosto 2016


SOTTOMISSIONE

Titolo originale: Soumission
Autore: Michel Houellebecq
1ª ed. originale: gennaio 2015
1ª ed. italiana: 2015
Editore italiano: Bompiani
Genere: Romanzo
Sottogenere: Fantapolitica, romanzo distopico
Lingua originale: Francese
Traduttore: Vincenzo Vega
Codice ISBN: 978-88-45-27870-9
Ambientazione: Francia
Protagonisti: François
Coprotagonisti: Myriam
Altri personaggi:
    Marie-Françoise 
    Tanneur
    Godefroy Lempereur 
    Robert Rediger
    Steve

Trama:

Siamo in Francia nel 2022. Il secondo mandato di François Hollande sta per finire. Le alternative sono due: il Fronte Nazionale di Marine Le Pen e la Fratellanza Islamica di Mohammed Ben Abbes, che riesce a vincere al secondo turno con l'appoggio dei socialisti, dei liberali e dei moderati. Mohammed Ben Abbes sceglie con cura la sua strategia. Impone una versione soft della Shari'a, che se da un lato cambia radicalmente la condizione della donna nella società, dall'altro lascia alcune valvole di sfogo, come il libero uso delle bevande alcoliche, permettendo persino ai docenti universitari di festeggiare la loro conversione all'Islam con un cocktail party.
François è un docente universitario intrappolato in una vita mediocre e bidimensionale. La frattura con il passato giunge tra capo e collo. Gli sconvolgimenti politici che ridisegnano il volto della Francia non risparmiano le istituzioni scolastiche: la Sorbona diventa un'università islamica finanziata dall'Arabia Saudita. François fa qualche debole tentativo di resistere al nuovo corso degli eventi e all'influenza pervasiva della religione musulmana. Cerca conforto spirituale prima a Rocamadour, poi nell'abbazia di Ligugé, due luoghi altamente simbolici. A Rocamadour si trova un'immagine della Vergine Nera che fu venerata da sovrani e santi nel corso della storia della Francia, mentre Ligugé fu il ritiro monastico dove Joris-Karl Huysmans andò a vivere come oblato in seguito alla sua conversione. Eppure François in quei luoghi non riesce a trovare nemmeno una ragione per aggrapparsi alla religione cattolica, ormai defunta e ridotta a un fantasma senza colore incapace di comunicare alcunché a un intellettuale laico. La seduzione esercitata dal parolaio Rediger è potente, troppi sono i benefici promessi, tra cui uno stipendio triplo e la possibilità di prendere giovani studentesse come mogli e concubine. Siamo di fronte al primo caso noto di una conversione all'Islam ottenuta tramite libagioni alcoliche, un colpo di scena degno del migliore teatro giapponese.  

Recensione:

Anche se quasi tutti ne dicono peste e corna, a me quest'opera di Houellebecq è piaciuta. Certo, è un libro controverso e alcuni suoi assunti suscitano in me non poche perplessità, tuttavia gli spunti di riflessione che suggerisce sono degni di essere sviluppati. 

Il Decadentismo è presente in tutto il romanzo attraverso la figura di Joris-Karl Huysmans. Il percorso dello scrittore ottocentesco, che lo ha portato alla conversione e al pentimento - il suo meme più ossessivo è l'ammissione di avere il cuore "indurito e affumicato dai bagordi" - si rivela tuttavia posticcio. Un attento studio porta François ad individuare nel cambiamento di Huysmans un puro e semplice tic naturalistico, ora della fine una posa. Quelle che Houellebecq illustra per bocca del suo personaggio sono conclusioni originali e a parer mio meritorie, a cui tanti studiosi universitari non erano mai arrivati. Seguiamo dunque l'autore di Là-bas nelle sue peregrinazioni terrene. Dopo una vita trascorsa nei labirintici meandri del Ministero dell'Interno e dei Culti (il "maledetto ufficio"), costretto alla squallida cucina delle mense, tra formaggi desolanti e sogliole temibili, ha infine trovato scampo dai fratacchioni, che notoriamente da qualche secolo a questa parte hanno sviluppato una certa allergia nei confronti della vita ascetica. Appurato che il grande Huysmans fu un poser, attratto più dalla buona cucina borghese che dal concetto stesso di Spirito, cosa resta più al tormentato François? Tipico esemplare del genere umano postmoderno, nudo e balbuziente di fronte al concetto stesso di Verità, non riuscirà a reggere al trauma: la sua sola alternativa sarà la sottomissione alla Volontà di Dio.

Assenza di contenuti profetici

Stupisce che in tutto il romanzo non si faccia la benché minima allusione allo Stato Islamico e agli attentati terroristici che hanno sconvolto la Francia. Il terrorismo è il grande assente dalle pagine di Sottomissione. In un passaggio vengono menzionati i salafiti, che protestano perché il regime di Ben Abbes ammette troppe immoralità e non impone una reale applicazione della Shari'a. Vengono anche menzionati scontri violenti tra gli identitari e gli attivisti islamici durante le presidenziali, episodi al limite della guerra civile, ma questa ondata di violenza è destinata a spegnersi in breve tempo: non si ha nulla che somigli davvero alla realtà in cui viviamo. Se vogliamo considerare Houellebecq un profeta, non possiamo fare a meno di notare che ha fallito, non essendo riuscito a prevedere l'attuale corso degli eventi, che pure era in formazione o già in pieno sviluppo mentre lui stava dando vita alla sua opera.

Natura ucronica del romanzo

Ci si rende conto che qualcosa non quadra quando si legge che la Siria ha presentato domanda di adesione all'Unione Europea allargata governata da Ben Abbes: evidentemente nel corso storico narrato da Houellebecq non si è mai verificata la guerra civile. Non c'è mai stata la scintilla che ha fatto esplodere la rivolta, Assad non ha mai bombardato i ribelli, Aleppo e Homs non sono mai diventate cumuli di macerie. Il romanzo è stato annunciato nel dicembre del 2015, pare quindi che sia stato scritto durante il 2014. Eppure tutto si spiegherebbe molto meglio se si assumesse che sia stato scritto molto prima, già nel 2011 e tenuto nascosto dall'autore. Tutto è molto semplice. Nel dicembre 2010 è esplosa la crisi del pane in Tunisia, che ha raggiunto il suo apice nel gennaio 2011, provocata dalle sciagurate e irrealistiche politiche di coltivazione di vegetali destinati alla produzione di biocarburanti. I politicanti non hanno pensato che sottrarre terra all'agricoltura per produrre il biodiesel avrebbe avuto conseguenze. La crisi del pane ha innescato le cosiddette Primavere Arabe, che le nostrane Eumenidi femministe hanno salutato come "trionfo della democrazia". Questo vento di Primavera Araba si è spento in fretta quasi ovunque, soffocato dalla repressione, portando però a una ribellione di vaste proporzioni in Siria e alla disastrosa guerra civile. Complice una gravissima siccità, si sono instaurate le condizioni di instabilità che hanno portato all'ascesa dello Stato Islamico, con tutte le spaventose conseguenze che questo ha avuto a livello mondiale. Quindi il Punto di Divergenza tra la nostra realtà e gli eventi ucronici narrati da Houellebecq è per necessità anteriore alla crisi del pane e alle Primavere Arabe. 

Mohammed Ben Abbes, l'Augusto musulmano 

Figlio di un droghiere tunisino e maestro di taqiyya, Mohammed Ben Abbes riesce ad imporre una sua singolare visione politica che affonda le sue radici nell'Antica Roma e in particolare nella figura di Ottaviano Augusto, il fondatore dell'Impero. Egli intende far rivivere quella grandiosa costruzione nel XXI secolo, utilizzando come collante religioso l'Islam. Questo ambizioso progetto gli riesce così bene che non soltanto ripristina l'antica unità di Roma Imperiale, ma estende il suo dominio anche a regioni che non erano mai state soggette all'autorità dell'Urbe, come la Germania e il Nordeuropa. Mohammed Ben Abbes diviene il restauratore della continuità territoriale e culturale del mondo classico, che era stata infranta proprio dalla comparsa dell'Islam. Cosa rende sommamente improbabile la comparsa di un simile genio politico? Il fatto stesso che nella realtà i maestri di taqiyya non hanno la necessaria pazienza e non riescono a trattenere le teste calde dal compiere azioni mostruose. Sono proprio questi atti sanguinari e ributtanti che hanno inoculato nelle genti delle nazioni europee una benedetta e salvifica diffidenza nei confronti della religione di Maometto, ostacolandone la diffusione.

Pratiche sessuali dimenticate

A un certo punto François evoca il ricordo di una lettura sui bordelli della Belle Epoque, affermando di aver provato un autentico choc nel constatare che certe pratiche sessuali menzionate gli erano totalmente sconosciute. Tra queste il "viaggio in terra gialla" e la "saponetta imperiale russa". Ne deduce quindi che siano cadute nell'oblio proprio come certi mestieri tradizionali. a quelle che chiama pratiche sessuali dimenticate. In realtà dopo un'attenta ricerca in siti francesi sono riuscito ad apprendere che il cosiddetto "viaggio in terra gialla" (voyage en terre jaune) è semplicemente il coito anale: la terra gialla è una metafora poetica dello sterco, una vera e propria kenning. Così faire dans la terre jaune e gouter la terre jaune sono locuzioni traducibili con être sodomite actif, se livrer a la pédérastie, mentre ne pas croquer de la terre jaune equivale a ne pas être sodomite actif. Ovviamente la terra gialla è rigorosamente unisex: questi detti possono applicarsi alla penetrazione anale di un uomo come di una donna. Il nome di tali rapporti è obsoleto, non certo la realtà descritta. Pensare che il protagonista descritto da Houellebecq possa ignorare questo lessico è poco credibile. Per quanto riguarda la "saponetta imperiale russa" (savonnette impériale russe), era una masturbazione lenta e sensuale eseguita con l'uso di sapone come lubrificante. L'operatrice doveva stare molto attenta a non far entrare del sapone nell'uretra del cliente. Era previsto un supplemento in caso di uso di "sapone del Congo" (savon du Congo).

Una grande verità

Non mi sono sfuggite le meditazioni sulla natura del desiderio maschile e sulla castità. In un mondo in cui i sessi vivono in uno stato di segregazione, la libidine dell'uomo tende ad affievolirsi fino a scomparire. A renderla un ardente fuoco dell'Inferno che tortura i viventi è proprio quella grande successione di tette e di culi femminili che pongono l'osservatore in uno stato febbrile, fino a farlo consumare nel desiderio di toccare, di leccare, di penetrare. Come in un perverso feedback, le tonnellate di pornografia nel Web, con tutti quei video di pompini maestosi e di buchi del culo stimolati oralmente, hanno reso possibile questa terribile tossicosi. Detto questo, un Mohammed Ben Abbes non certo è il rimedio: chiamare i piranha per cacciare i lucci non è una strategia molto furba. 

Reazioni nel Web:

L'amica N. considera sprezzantemente questo romanzo come il "diario di uno scopatore incallito". A dire il vero le descrizioni delle avventure erotiche del protagonista non mi sembrano così sconvolgenti, nulla che possa scandalizzare un navigatore di questi tempi, avvezzo a imbattersi in tonnellate di pornografia nel corso delle sue peregrinazioni nel Web. Più probabile che l'eterea N. intendesse fustigare un suo ex amante, a cui l'attribuzione dell'epiteto "scopatore incallito" potrebbe anche essere azzeccata. Tuttavia N. dimentica un piccolo dettaglio: per scopare bisogna essere in due.

Concludo con il link a un interessante articolo: