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mercoledì 21 aprile 2021

IL VIN DE POMM, IL MELICHINO E UN ANNOSO EQUIVOCO

Questa definizione è tratta dalla versione online del Vocabolario degli Accademici della Crusca
 
 
MELICHINO.
Definiz: Lat. vinum ex malis, *pomatium.
Esempio: G. V. 11. 82. 2. Facea, e vendea il melichino, cioè cervogia fatta con mele. 
 
Il vocabolo melichino sarebbe dunque un sinonimo di sidro e del lombardo vin de pomm. Questo termine non va confuso con il nome dei melichini piacentini, biscotti rustici fatti con la farina di mais. Tutto parrebbe chiaro, eppure non è così. 

La glossa latina corretta di melichino è infatti vinum ex melle, hydromeli (1), medus (2)
(1) dal greco
(2) dal gallico 
 
La traduzione italiana corretta è questa:  
 
melichino = idromele leggero

In altre parole, siamo di fronte a un annoso abbaglio: melichino non è un altro nome del sidro e almeno in origine indicava una bevanda ben diversa. 
 
Una distorsione antica  

Vi ricordate di Nicolò Tommaseo (1802 - 1874)? Era quello che derideva Leopardi e che è stato reso cieco dalla sifilide, dopo un'assidua frequentazione dei bordelli di Parigi. Scrisse un detestabile romanzo, Fede e bellezza (Venezia, 1840), che Manzoni definì "un pasticcio mezzo giovedì grasso e mezzo venerdì santo", mentre Cattaneo ne parlà come di "una lunga e turpe storia per trovar marito". I suoi ingredienti sono misticismo, erotismo, senso del peccato, profonda religiosità e decadentismo. A onor del vero va detto che il Tommaseo ha compiuto anche qualche opera meritoria, avendo prodotto assiene a Bernardo Bellini (1792 - 1876) il Dizionario della Lingua italiana (1a ed. 1861), il più importante del Risorgimento. Questo lavoro monumentale è sinteticamente noto come Tommaseo-Bellini. Essendo deceduti sia Tommaseo che Bellini, gli ultimi due volumi furono portati a termine da Giuseppe Meini (1810 - 1889): a lui si devono tutte le voci da si a zuzzurellone. Dovremmo quindi definire l'opera in modo più corretto come Tommaseo-Bellini-Meini
 
Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini portavano avanti convenzioni ortografiche più antiche, seguite da moltissimi altri autori secoli prima di loro. Così scrivevano sistematicamente "mele" per "miele". L'ambiguità non esisteva a livello fonetico: era soltanto grafica e avrebbe potuto essere evitata tramite l'uso di un accento: mèle = miele. Tutti davano per scontata l'immediata comprensibilità delle loro parole, non si rendevano conto delle ambiguità e non immaginavano le conseguenze ultime delle loro scelte, come quella di non usare alcun accento per distinguere il miele dalle mele. L'opposizione tra i due lemmi omografi è così descritta in dettaglio:  
 
mele /'mɛle/ "miele"  -  mele /'mele/ "mele"
 
Non comparendo alcun diacritico, è tuttora possibile ingenerare confusione tra chi legge l'opera e non è informato a sufficienza. Ecco la voce MELICHINO (contrassegnata con una croce + perché caduta in disuso già all'epoca) nel Tommaseo-Bellini:  
 

+ MELICHINO. S m. Cervoglia fatta con mele. V. Melca nel De Vit., e anche il § 6 di Melicus e Meninon in Cel. Aurel.; e Melinus e Mellinia in Plaut., e in Plin. Melitinus, e in Apic. Melizomum, e nell'Onom. lat. gr. Mellaceum. G. V. 11. 82. 2. (C) Facea, e vendea il melichino, cioè cervogia fatta con mele. 
 
Si vede subito che la definizione è stata presa direttamente dal più antico Vocabolario degli Accademici della Crusca. La citazione "Facea, e vendea il melichino, cioè cervogia fatta con mele", ripresa tal quale e incompleta, è dall'opera di Giovanni Villani (1280 - 1348), storico, cronista e mercante fiorentino, autore della Nuova Cronica. Perché dico che è incompleta la citazione del Villani? Perché l'originale è questo (Nuova Cronica, Libro dodicesimo): "Alla fine si levò in Guanto uno di vil mestiere, che facea e vendea il melichino, cioè cervogia fatta con mele, ch'avea nome Giacopo d'Artivello, e fecesi maestro della Comuna di Guanto". Il toponimo Guanto è riferito alla famosa città di Gand (fiammingo Gent), nelle Fiandre Orientali. Subito dopo il Villani aggiunge: "E questo fu l’anno MCCCXXXVII; e per suo bello parlare e franchezza montò in brieve tempo in tanto stato e signoria col favore della Comune di Guanto, che cacciò di Fiandra al tutto il conte e tutti i suoi seguaci, e così di Guanto e di Bruggia e d’Ipro e delle altre ville di Fiandra ch’amavano il conte; imperò che chiunque facea resistenza si partia di Guanto con VIm o più della Comuna, e venia contro a que’ cotali, a combatterli e cacciarli; e così in poco tempo fu al tutto signore di Fiandra." Non sta parlando di Firenze. Ne deduciamo in ogni caso che l'autore riteneva l'uso del melichino proprio di genti di infima condizione sociale.

Ecco le necessarie glosse alla definizione della Crusca, a quella di Tommaseo e alla citazione da Villani: 

con mele = col miele 
cervogia fatta con mele = bevanda fermentata fatta col miele  

Veniamo ora alle voci latine e greche riportate da Tommaseo-Bellini: 

1) melca = latte con aceto e spezie
Non ha attinenza col melichino, essendo un latte acidulo e aromatizzato. Si veda il mio contributo sull'argomento:  
 

Le altre voci citate sono senza dubbio derivate dal latino mel "miele" o dal greco meli "miele": 

meninon (errato per melinon, Celio Aureliano, gr.)
melinus (varie fonti, lat.)
mellinia (lat.)
melitinus (Plinio il Vecchio, < gr.)
melizomum (Marco Gavio Apicio, < gr.)
mellaceum (lat.) 

Va espunta la voce melicus "poeta lirico; melodioso", che è dal greco μελικός (melikós), a sua volta da μέλος (mélos) "canzone, verso di una poesia", ma anche "membro, parte del corpo" - di cui non ho trovato nessun significato secondario attinente alla nostra trattazione: probabilmente il Tommaseo è incorso in un equivoco, interpretando con ingenuità "melodioso" come "dolce".
 
Nessuna delle voci elencate può essere derivata dal nome della mela, che in latino era mālum. Siccome Tommaseo e Bellini queste cose le dovevano sapere bene, è evidente che alludevano a un idromele leggero e non a un sidro di mele. Ancora una volta c'è stata un'interferenza con le cazzute e fantomatiche mele! 

Riporto qualche dettaglio in più. 
 
2) melinon = tipo di impiastro
greco: μέλινον 
 
Indubbiamente è una voce greca, anche se il suffisso in nasale -in- è ben strano, dato che i derivati di μέλι (meli) "miele" sono formati con μελιτο- (melito-) e μελισσο- (melisso-). 
La grafia meninon, erronea, è un refuso del Tommaseo-Bellini. Il demone Titivillus è sempre stato all'opera! Ecco il passo del medico Celio Aureliano che cita la preparazione (Morborum chronicorum libri V, tomo II):
 
Adponenda praetera extrinsecus emplastra, quae in cicatricem ducere valeant, ut est melinon, ac deinde siccantia magis. 
Tum cum firmum adparuerit lenimentum, erit amitaonion imponendum, vel polyarcyon malagma, admixto cerotario, ex oleo Cyprino confecto, parte tertia: siquidem haec singularia primo tempore aegrotantes ferre minime possint.   
 
Come si può notare, già esistevano i cerotti, alla lettera pezzi di cera usati per chiudere e curare le ferite. Come tutti i prodotti delle api, la cera è ricca di potenti antibiotici naturali. 
 
3) melinus = di miele; relativo al miele 

Questo aggettivo è strano per essere genuinamente latino: ci saremmo aspettati una liquida doppia -ll- e non siamo in grado di spiegarci l'anomalia. Potrebbe essere un prestito dal greco, che però ha derivati di μέλι (meli) "miele" formati con μελιτο- (melito-) e μελισσο- (melisso-). Non deve essere confuso con forme quasi omonime ma con vocale -ē- lunga: 
 
mēlīnus "di martora, di tasso" (donde mēlīna "sacca di pelle
      di tasso"), derivato da mēlēs "martora, tasso"
mēlinus "di mela cotogna"; "di color giallo cotogna" (dal greco
      μήλινος)
mēlinum "olio di cotogne" (dal greco μήλινον)
 
Questi sono due sostantivi che hanno a che fare con bevande ottenute dal miele: 
 
i) melina = idromele 
glossa inglese: mead  
 
Nello Pseudolus (Atto 2, scena 4, 51), Plauto ha scritto:  
 
murrinam, passum, defrutum, melinam promere quoiusmodi "prendere vino di mirra, passito, vino cotto e idromele, di qualunque tipo". 
 
Sono menzioni di varie bevande dolci in uso a Roma all'epoca, tra cui un vino aromatizzato alla mirra (murrina), un degno passito fatto con uvette (passum) e un poco salutare vino cotto in pentole di piombo e addolcito dalla reazione naturale col metallo tossico: è il famigerato dēfrutum (dēfrūtum), che sarebbe saggio rifiutare anche in condizioni di astinenza.
Altri riportano mellam anziché melinam: va detto che i testi di Plauto sono soggetti a letture e tentativi di restauro piuttosto capricciosi. Basti pensare che anziché quoiusmodī troviamo quoiquoimodī e quoivismodī. Tuttavia la scansione metrica del verso trocaico dimostra che non sarà da leggersi *mellam e che la forma melinam è perfettamente legittima. Ecco l'alternanza di sillabe lunghe e brevi: 
 
mur- (lunga)
-ri- (breve) 
-nam (lunga) 
pas- (lunga)
-sum (lunga)
dē- (lunga) 
-frū- (lunga)
-tum (lunga)
me- (breve) 
-li- (breve)
-nam (lunga)
quo- (lunga)
-ius- (lunga)
-mo- (breve)
-dī (lunga) 
 
Chiaramente la voce in questione è derivata dalla sostantivazione dell'aggettivo melinus "di miele; relativo al miele". Ne esiste una variante con consonante doppia e vocale lunga nel suffisso:
 
ii) mellīna = idromele 
glossa inglese: mead 

E' riportato che questa variante di melina "idromele" si troverebbe in Plauto, nell'Epidicus (Atto 1, scena 1, 23), ma si vede subito che non è così: 

Ubi is ergost? nisi si in vidulo aut si in mellina attulisti "Dov'è dunque? A meno che tu non lo abbia portato in una valigia o in una borsa"

In questo caso mellīna è una variante di mēlīna "borsa di pelle di tasso" e non c'entra con l'idromele, a dispetto di molte citazioni trovate nel Web.

4) mellinia = dolcezza, delizia 
sinonimi: dulcedo, dulcitudo, dulcitas, dulcor, mel

Plauto ha scritto nel Truculentus (Atto 4, scena 1, 6): 
 
hoc nimio magnae melliniae mihist "ciò è per me di troppo grande delizia".
 
Non siamo di fronte al nome di una bevanda, bensì a un semplice sostantivo astratto.

5) melitinus = mellifero, relativo al miele  

È dal greco μελίτινος (melítinos) "fatto di miele". In Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, Libro XXXVI, 33) si trova la seguente menzione del termine: 

Melitinus lapis sucum remittit dulcem melleumque. tunsus et cerae mixtus erutionibus pituitae maculisque corporis medetur et faucium exulcertioni, epinyctidas tollit, volvarum dolores inpositus vellere.  
 
"La pietra melitina emette un liquido dolce e di miele. Pestata e mischiata alla cera cura le eruzioni di catarro e le macchie del corpo e le ulcerazioni delle gole, toglie le pustole notturne e, messa sopra con un panno di lana, i dolori degli organi femminili." 

Non sembra essere lo specifico nome di una bevanda: è piuttosto un medicamento di dubbia efficacia. Si nota che in greco il suffisso -in- ha la vocale lunga, mentre in latino ha la vocale breve. 

6) melizōmum = sciroppo di miele 
greco: μελίζωμον

Questo è quanto scrisse Marco Gavio Apicio nel De re coquinaria (1, 2, 2): 

II. Conditum melizomum viatorium.

1. Conditum melizomum perpetuum, quod subministratur per viam peregrinanti: piper tritum cum melle despumato in cupellam mittis conditi loco, et ad momentum quantum sit bibendum, tantum aut mellis proferas aut vinum misceas sed, si vas erit, nonnihil vini melizomo mittas, adiciendum propter mellis exitum solutiorem. 
 
7) mellāceum = mosto cotto  
varianti: mellācium
sinonimi: sapa

È una voce postclassica. Il grammatico Nonio Marcello (IV o V secolo d.C.) ha dato nella sua opera De compendiosa doctrina (551, 21) la seguente definizione della parola sapa:
 
Sapa, quod nunc mellaceum dicimus, mustum ad mediam partem decoctum. 
 
Come si evince dal testo di Nonio, il mosto veniva cotto fino a ridursi della metà (ad mediam partem). Una sopravvivenza romanza di mellāceum è lo spagnolo melaza (in origine il plurale neutro), passato in francese come mélasse, da cui è stato preso l'italiano melassa.
 
Come si vede, le mele non c'entrano una cippa! Non posso certo dire di essere il primo ad essersi accorto del problema. Vincenzo Monti nel 1821 ha scritto Proposta di alcune correzione ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, in cui ha segnalato l'ambiguità: 
 
OSSERVAZIONE
 
Quel con mele tanto può esser plurale di Mela, quanto singolare di Mele, o sia Miele ; anzi ha più apparenza di questo che dell'altro. Chi assicura dunque al Crusca che la latina definizione Vinum ex malis, Pomatium sia giusta, e non piuttosto Mellina, o com'altri vogliono Melina con una sola l ( v. Plauto, Pseud. 2. 4. 51 ), cioè Pozione fatta col miele? La cervoglia non si fa forse con questo egualmente , anzi meglio?
 
Cosa ne deduciamo? Possiamo giungere a questa solida conclusione: in origine melichino e vin de pomm non erano sinonimi, ma si riferivano a due diverse bevande che un tempo erano in uso in Lombardia e altrove. La confusione deve poi essere effettivamente subentrata. Nel Dizionario veneziano-italiano di Giuseppe Piccio, II Edizione, con note grammaticali e fonologiche seguite da testi dialettali, Libreria Emiliana Editrice, Venezia (1929), la voce veneziana vin de pomi è tradotta in italiano con "sidro, melichino".  


Molti anni fa spiegai a un amico soprannominato Totz, nativo di Sovico, come mi producevo in casa l'idromele usando miele, acqua e lievito. Il Totz mi disse che la stessa ricetta da me descritta, ma con successiva diluizione con acqua, serviva a produrre il vin de pomm. Segno che il melichino aveva preso il nome del sidro, vin de pomm (= vinum ex malis), confondendosi con esso nel sapere comune e dando luogo a una singolare contraddizione. Questa è la spiegazione che mi è venuta in mente, alla luce dei fatti. Ai Lombardi di Milano e della Brianza era necessario produrre una bevanda inebriante, perché il vino era troppo costoso (si trovava soltanto il barbera di Superciuc, che doveva essere importato a caro prezzo dal Piemonte). Quindi si produceva questo spumantino dolce, fatto con miele o con mele, in fondo non importava, bastava che ci fosse qualcosa da bere per stare un po' allegri. Ho notato che il carissimo amico P. "Nodens" chiamava vin de pomm anche il vino moscato del Piemonte e più in generale ogni tipo di spumante dolce. "Gh'è ul vin de pomm!", diceva quando un comune amico apriva una bottiglia. Questo è segno che a un certo punto la locuzione vin de pomm si era separata dal suo significato letterale per indicare qualsiasi bevanda leggermente alcolica, frizzante e di colore chiaro, indipendentemente dalla materia prima utilizzata per la sua produzione (miele, mele, uva). Ho poi letto che nel Cusio, soprattutto a Omegna, per vin de pomm si intendeva invece un vino scadente. Sarebbe utile se la carissima L., che è di Omegna, confermasse l'informazione.

giovedì 16 aprile 2020

L'IDROMELE: ALCUNE CONSIDERAZIONI FONOLOGICHE, ETIMOLOGICHE E SEMANTICHE

L'uso della parola idromele "bevanda alcolica fermentata dal miele" è tutto sommato problematico, come possiamo capire indagandone l'etimologia, in apparenza lapalissiana. Questo perché il termine greco antico ὑδρόμελι (hydrómeli) è sinonimo di μελίκρᾱτον, μελίκρητον (melíkrāton, melíkrēton), che indicava un miscuglio di acqua e miele, non fermentato, oppure un miscuglio di latte e miele offerto alle potenze degli Inferi e parimenti analcolico. Si tratta di un composto formato a partire da ὕδωρ (hýdōr) "acqua" e da μέλι (méli) "miele". L'accento cade sulla terzultima sillaba, perché l'ultima è breve, e nella lingua greca è la quantità dell'ultima sillaba a regolare la posizione dell'accento - a differenza della lingua latina, in cui la posizione dell'accento è regolata dalla quantità della penultima sillaba. 
 
La parola greca ὑδρόμελι, importata tra i Romani, scritta hydromeli e pronunciata /(h)i'dromeli, hy'dromeli/, poteva indicare anche la bevanda fermentata alcolica: ha subìto quindi uno slittamento semantico. Sarebbe utile poter accedere a una documentazione più approfondita, ma questo non è poi tanto facile. Dobbiamo notare una cosa importante: si tratta di un prestito dotto, che non fu mai accolto nella lingua del volgo e che a quanto ne so non ha mai lasciato esiti in nessuna lingua romanza. Se sarò smentito da qualche romanista che ha più dimestichezza di me con l'immensa mole di dati dell'enorme numero di varietà romanze, ben venga, ma ho ragione di credere che ciò non accadrà mai. Anche in greco moderno ὑδρόμελι indica la bevanda alcolica. Si tratta di un vocabolo tratto dall'antichità, non di un'eredità passata attraverso la genuina usura del volgo. In altre parole, appartiene alla Katharevousa, la lingua nobile. Lo si comprende all'istante, dato che nella lingua popolare, l'acqua è chiamata νερό (neró). Tra l'altro, in Grece esiste tuttora un'interessante produzione di idromele. 
 
In italiano, per ragioni etimologiche e per una pronuncia ortografica (dedotta cioè a partire dalla forma scritta letteraria senza cognizione alcuna della metrica originaria), dalla forma sdrucciola idròmele a un certo punto si passò a quella piana, idroméle, che è da considerarsi di uso generale. Questo ha creato problemi a non finire. La gente più incolta non comprende il significato della parola idromele e confonde l'augusta bevanda col sidro. La prima reazione di un analfabeta alla menzione dell'idromele e alla spiegazione di come viene preparato dal miele, è sempre di stupore: troppo forte è l'idea preconcetta di una derivazione dalle mele per via della terminazione. Alcuni addirittura tendono ad ipercorreggere la parola e a pronunciare *idromiele nel tentativo di ripristinare un'etimologia comprensibile. Inutile dire che questo *idromiele è assolutamente erroneo, cosa che noto usando l'asterisco. Eppure questo ipercorrettismo esiste e resiste. Ricordo di aver letto da giovane un fumetto in cui Ercole, venutosi a trovare a New York, in un ristorante chiamava i camerieri "schiavi" e diceva di preferire di gran lunga l'idromele alla coca cola. Il punto è che il fumettista aveva scritto la parola con una -i- di troppo.  

 
Anche se si tratta di un'impresa vana, andrebbe proposto un nobile neologismo dalle ottime basi etimologiche, che appianerebbe ogni controversia e farebbe sparire ogni dubbio: MEDO "idromele", tratto direttamente dal celtico (gallico): è attestato come medu, di genere neutro, mentre la variante maschile medus si trova come prestito nel tardo latino delle Gallie. Questo elemento Medu- è alla base dell'antroponimo gallico Medugenos "Nato dall'Idromele", attestato anche in celtiberico come MEZUKENOS e in ogamico come MEDDOGENI (al genitivo) - oltre che nell'etnonimo Medulli, che designava un popolo alpino. Nella Lusitania sono attestati i Medubrigenses, il cui nome deriva dal toponimo celtico *Medubriga "Città dell'Idromele". Nelle lingue celtiche medievali e moderne si hanno le seguenti forme, tutte dalla stessa radice protoceltica: 
 
antico irlandese: miḋ "idromele" (genitivo meḋo)
        meḋḃ "ebbro"
  irlandese moderno: miodh "idromele" 
medio gallese: medd "idromele"
       meddw "ebbro"
  gallese moderno: medd "idromele"
bretone: mez "idromele"
cornico: medh "idromele"
 
Famosa è la dea irlandese Me "Ebbra", il cui nome deriva dal protoceltico *Medwā, sostantivazione dell'aggettivo *medwos "ubriaco (di idromele)". Nella regione della Loira esiste un fiume che era chiamato Meduana, il cui nome deriva da quello della stessa divinità adorata nell'antica Irlanda precristiana.

Il sostantivo antico irlandese è di genere neutro e punta a una ricostruzione protoceltica *medu, ma esistono anche attestazioni di genere maschile, che puntano a una ricostruzione protoceltica *medus. La forma gallica di genere maschile, passata in latino, è attestata nella Epistula Anthimi uiri inlustris comitis et legatarii ad gloriosissimum Theudoricum regem Francorum de obseruatione ciborum  (VI secolo): 

Ceruisa bibendo uel medus et aloxinum quam maxime omnibus congruum est ex toto, quia ceruisa, quae bene facta fuerit, beneficium prestat et rationem habet, sicut et tesanae, quae nos facimus alio genere. tamen generaliter frigida est.
Similiter et de medus bene factum, ut mel bene habeat, multum iuuat. 
 
E ancora, più avanti nello stesso testo, troviamo una menzione dell'idromele, assieme a una preziosa testimonianza sull'intolleranza al lattosio tra i Franchi: 
 
De lactibus uero sanis hominibus; si quis crudos lactis uult bibere, mel habeant admixtum uel uinum aut medus; et si non fuerit aliquid de istis poculis, sale mittatur modicum, et non coacolat intus in hominibus; nam si purum acceptum fuerit, aliquibus coacolat intus in epar et in stomachum et solet grauiter laedere. Si tamen, quomodo mulgitur, contra calidum bibitum fuerit, si taliter, non nocet. 
 
L'autore di questo trattato, Antimo, era un medico di Bisanzio, che il Teodorico il Grande (454 - 526), Re degli Ostrogoti, inviò come rappresentante alla corte dell'omonimo Teodorico (485 - 534), Re dei Franchi e figlio di Clodoveo, della dinastia dei Merovingi. Vediamo che il vocabolo medus in questo testo non può essere un prestito dal gotico, che aveva senza dubbio *midus, con diverso vocalismo (vedi sotto). A rigor di logica potrebbe essere un prestito dalla lingua germanica dei Franchi. Notiamo però che la bevanda a base di miele non è stata inventata dai Franchi: era già ben nota ai Galli e diffusissima. Vediamo che la birra è designata col termine celtico (cisalpino) ceruisa. Anche la parola aloxinum è di origine celtica e designava una bevanda aromatizzata con assenzio: ha la stessa radice dell'inglese ale "birra" (anglosassone ealu, ealo, genitivo ealoþ). Assumo quindi che medus sia un elemento del sostrato/adstrato celtico. Il Glossario di Vienne ci testimonia che una forma tarda di gallico era senz'ombra di dubbio ancora parlata al tempo dei Franchi: la parola caio "recinto" è glossata con "breialo siue bigardio"
 
Questo nome dell'idromele, che risale alla radice indoeuropea *medhu-, si trova nelle lingue germaniche: 
 
protogermanico: *miðuz "idromele" 
norreno: mjǫðr "idromele"
   islandese moderno: mjöður "idromele"
   faroese: mj
øður "idromele"
   antico svedese: miödher, mioþer "idromele"
   svedese moderno: mjöd "idromele" 
   antico danese: mioth, miøth, møth "idromele"
   danese moderno: mjød "idromele"
antico alto tedesco: metu "idromele"
   medio alto tedesco: mete, met "idromele"
   tedesco moderno: Met "idromele"
antico sassone: medu "idromele"
   medio basso tedesco: mēde, medde "idromele"
   basso tedesco (Vestfalia): mia "idromele"
antico frisone: mede "idromele"
  frisone occidentale: mea "idromele"
medio olandese: mēde "idromele"
  olandese moderno: mede, mee "idromele"
antico inglese: meodu, meodo, medo "idromele"
   medio inglese: mede, methe(1) "idromele"
   inglese moderno: mead /mi:d/ "idromele"
   scots: mede, meid "idromele"
gotico: *midus "idromele"(2) 

(1)La variante methe si deve a influenza norrena.
(2)La forma gotica è stata presa a prestito dal lituano: midus "idromele". 
 
Torniamo dunque al greco antico. Nella lingua di Omero si trova un vocabolo discendente dall'indoeuropeo *medhu-, che non era usato altrove: μέθυ (méthy), di genere neutro, genitivo μέθυος (méthyos), tradizionalmente tradotto con "vino" o con "bevanda inebriante". Il significato originale doveva essere quello di "idromele", ma già in epoca classica questa conoscenza era andata perduta. Il navigatore massaliota Pitea (380 a.C. circa - 310 a.C. circa), che visitò la regione costiera della Norvegia, paese denominato Thule (Θούλη), affermò che le popolazioni locali facevano uso di una bevanda inebriante prodotta dal miele e dal grano, ma non usò il termine μέθυ per designarla. Se questa bevanda fosse stata conosciuta all'epoca dai Greci, non avrebbe destato grande sorpresa scoprire che era prodotta dalle genti di Thule. Il caso è davvero curioso. Sappiamo per certo da prove archeologiche che l'idromele era prodotto in epoca omerica e persino che c'era la consuetudine di aromatizzarlo col rosmarino. A quanto pare la bevanda antichissima è stata gradualmente abbandonata a causa della concorrenza del vino  d'uva, che ha finito col soppiantarla. Quando in seguito l'idromele alcolico è stato riscoperto, ha dovuto ricevere un nome nuovo.    

La radice *medhu- ha dato discendenti in molti altri rami della famiglia indoeuropea, ma sarebbe impossibile fare una trattazione dettagliata in questa sede, tanto complesso è l'argomento. Questi sono alcuni dati relativi alle lingue indoarie e iraniche: 
 
sanscrito: madhu "miele; vino"
romaní: mol "vino"
protoiranico: *madu "miele; vino" 
   avestico: maδu "vino (d'uva)"
   antico ossetico (scitico): mud "miele"
   battriano: μολο (molo) "vino"
   curdo settentrionale: mot "melassa"
   medio persiano: may "vino"
   persiano moderno: mey "vino"*
   harzani: mat "sciroppo denso, melassa"
   azero (dialetto di Urmia): mazow "sciroppo d'uva con acqua"
 
*Parola della lingua letteraria. 
 
Gli Sciti bevevano idromele e lo chiamavano mud, come il miele. Tra la maggior parte delle altre genti iraniche è subentrato una specie di tabù verso il miele, così l'antico nome dell'idromele è passato a indicare il vino d'uva. 

Persino in arabo esiste la parola maδi "vino bianco frizzante", importata direttamente dal medio persiano (prima della scomparsa della dentale intermedia); deve essere un termine colloquiale o tecnico. Sorprende la vastità del lessico enologico tra gli Arabi, con buona pace della loro religione che ha un cattivo rapporto con l'ebbrezza. 
 
In tocario B abbiamo due diverse parole: mīt "miele" e mot "bevanda inebriante". La prima parola tocaria, mīt, ha avuto un'enorme diffusione, dando origine al cinese antico 蜜 mit "miele" (cinese attuale , usato in composti come 蜂蜜 fēngmì "miele", 蜜蜂 mìfēng "ape da miele"). Dal cinese antico, mit "miele" è giunto nel giapponese divenendo mitsu "miele", e in coreano divenendo mil "miele". La seconda parola tocaria, mot "bevanda inebriante", è un prestito da una lingua iranica, con ogni probabilità il sogdiano (mwδ, mδw "vino", pron. /muð/). 
  
Anche nelle lingue baltiche e in quelle slave i discendenti di *medhu- sono ben attestati e fiorenti. Questo è un quadro delle lingue baltiche:  
 
lituano: medùs "miele"*
lettone: medus "miele; idromele"
letgallo: mads "miele"
antico prussiano: meddo "miele" 
 
*C'è anche midus "idromele", che è un chiaro prestito dal gotico. 
 
Questo è un quadro sintetico delle lingue slave
 
antico slavo ecclesiastico: медъ (medŭ) "miele"
russo: мёд /mjot/ "miele"; "idromele"
ucraino: мед /med/ "miele"; "idromele"
polacco: miód /mjut/ "miele", miód pitny "idromele"* 
ceco, slovacco: med "miele", medovina "idromele"
bulgaro: мед (med) "miele"
serbo, croato: ме̑д, mȇd "miele"
macedone: мед (med) "miele"
sloveno: méd "miele" (mẹ̑d in ortografia tonale)

*Ricordo un articolo su un vecchio quotidiano cartaceo, che parlava di una cooperativa comunista e di "miele da bere" importato dalla Polonia (hanno tradotto alla lettera miód pitny). Forse i trinariciuti non conoscevano la parola idromele o non la volevano usare per qualche loro ubbia. 

Un notevole prestito slavo in rumeno è mied "idromele" (parola del linguaggio popolare).
 
Alla luce di quanto esposto, vediamo che l'uso del neologismo MEDO in italiano restaurerebbe un'ottima tradizione, avendo un fondamento storico ineccepibile. Inoltre porrebbe fine agli inveterati fraintendimenti di cui abbiamo già discusso. Alla Festa Celtica in Val Veny, i Taurini vendono un eccellente idromele di loro produzione: ogni anno mi piazzo davanti alla loro bancarella per abbondanti libagioni. Ebbene, non sarei più costretto a sentire decine di visitatori continuare con la baggianata dell'associazione tra l'idromele e queste cazzute fantomatiche mele! 
 
Il cognome Idromele 

In Italia esistono i cognomi più bizzarri. Ve ne sono alcuni tra i più notevoli che traggono origine da nomi di bevande. Tra questi abbiamo Vino, Birra, Acquavite, Amaro, Liquori, Spiriti, Rum, Sambuca, Gin e Sidro. Come documentato dal sito www.gens.info, il rarissimo cognome Idromele è presente in due soli comuni, il primo in Piemonte, non lontano da Tortona, e il secondo nei pressi di Roma. 

mercoledì 24 ottobre 2018

LA CHICHA: STORIA, CULTURA ED ETIMOLOGIA


Il nome chicha è attribuito a una tipologia di bevande lievemente alcoliche prodotte dalla fermentazione del mais o di altri ingredienti, tipiche dell'America Latina e di origini precolombiane. Talvolta come sinonimo di chicha si usa birra di mais, anche se le somiglianze con la birra a noi ben nota sono scarse. In pratica stiamo trattando di un caso singolare di uso culinario della saliva. La più antica ricetta per la produzione della tradizionale bevanda degli Indios dell'America meridionale e centrale prevedeva una lunga masticazione del mais: il pastone ottenuto veniva sputato in un vaso che veniva sotterrato, per far sì che le forze vive della fermentazione alcolica agissero decomponendo gli amidi in zuccheri semplici, dando origine a molecole di etanolo e producendo un liquido torbido e denso. Questo veniva cotto, filtrato e lasciato riposare al buio per un certo periodo prima di essere pronto per il consumo. Non oso immaginare i retrogusti, ma è chiaro che nel contesto il pur blando effetto inebriante era molto più importante delle proprietà organolettiche. Dato il basso tenore alcolico (dall'1 al 3% in volume), l'unico modo per ottenere una bella sbronza consisteva nel bere quantità immani di questo intruglio. Si vede chiaramente che numerose ricette che si trovano nel Web sono in gran parte recenti e fantasiose, prevedendo l'utilizzo di ingredienti - come ad esempio lo zucchero di canna - che in tempi precolombiani non si potevano trovare su suolo americano. Approfondendo le nostre conoscenze sull'argomento, apprendiamo che nel corso dei secoli coloniali la masticazione è stata in gran parte sostituita da un processo più compatibile con i gusti degli Spagnoli: la germinazione, che trasforma il cereale in malto, seguita dalla bollitura. Esistono anche varianti non fermentate, come la chicha morada. Tuttavia si trova anche la prova inconfutabile che la ricetta antica non è del tutto caduta in disusso. Anzi, nelle regioni andine questa produzione casereccia è ancora abbastanza fiorente, pur essendo vietata dalla legge per motivi igienici. Esistono anche denominazioni specifiche per indicarla: chicha de muco, dove muco indica la farina di mais masticata (dal Quechua muku), oppure taqui (parola nativa ma non Quechua). Il procedimento tradizionale è descritto in una pagina del sito Soundsandcolours.com, in cui si vede una ragazza nell'atto di masticare la farina di mais per poi sputarla: si spiega che il prodotto di questa discutibile operazione acquista un sapore simile a quello dello yogurt, anche se trovo difficile credere che la questione sia così anodina. 


Altre immagini esplicite si trovano in una sezione del sito ecuadoregno Planv.com, il cui titolo è Museo de la corrupción. Ne riporto una abbastanza significativa: 


I Diaghiti, fierissimo popolo del Nordovest dell'Argentina, offrivano al dio uranico Kakanchig grandi quantità di liquori che i cronisti spagnoli definivano nauseabondi (asquerosos) per via del loro procedimento di lavorazione, che comportava masticazione della materia prima da parte di donne, che secondo la tradizione dovevano essere anziane. Con ogni probabilità era temuto il potere magico e maligno del mestruo, per questo il poco piacevole incarico non era dato a donne in età fertile. 


En Santiago del Estero (1586) en el tiempo de la recolección de los frutos se reunían para adorar a Cacanchic- “á quien /.../veneraban, y ofrecían en sacrificio sus asquerosos licores y gran cantidad de aves muertas: llevabanle sus enfermos, para que los curasse y dedicaban a su servicio algunas doncellas de catorce, ó quince años, de quienes se aprovechaban para abominables torpezas los Hechiceros sus Ministros, por cuya boca sus oráculos, con palabras tan amphibologicas, que pudiessen rara vez convencerlos de engañosos. Apareciaseles á estos, en forma visible /.../”
(Hist.Comp., t.primero, lib.primero, cap.IV, p.16).

Lo storico Pedro Lozano riporta che Viltipoco, valoroso capo degli Omaguaca, popolo imparentato con le genti di Atacama e con i Diaghiti, donò a un prete un gran vaso di chicha, e l'ecclesiastico non ne voleva bere, perché riteneva tale bevanda impura (sucia). Questo non per astrusi pregiudizi religiosi, ma per un dato di fatto incontrovertibile, ossia perché era stata fermentata per mezzo della saliva. Come il prete vide che il collerico Viltipoco si offendeva, fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco e a trangugiare il poco attraente beverone. 


Viltipoco y los suyos llegaron a dominar gran parte del Tucumán, aislándolo del resto del virreynato del Perú. El padre Gaspar Monroy hizo esfuerzos para incorporarlo a la fe cristiana. Pedro Lozano, en su "Descripción Corográfica" narra un episodio entre el Padre Monroy y Viltipoco: "El cacique le ofrece un vaso de chicha al sacerdote y éste intenta rechazarlo por la (suciedad) que implicaba su fabricación, pero luego al ver que el indígena se ofendería, tomó el brebaje. Fue tal la alegría que sintió Viltipoco que a partir de aquí trocóse en otro hombre y se mostró más benigno".

Le bevande "sporche" sono ben note anche in Amazzonia, dove vengono preparate dalla masticazione della manioca o della frutta. In un caso se ne è visto il consumo in un film di grande popolarità. Sean Connery nel film Mato Grosso (Medicine Man) di John McTiernan (1992) - un autentico capolavoro - è uno studioso talmente alcolizzato da non potersi rassegnare alla sobrietà nemmeno per pochi giorni, finendo così con l'ubriacarsi alla festa della bevanda di palma, fermentata dalla frutta grazie alla ptialina contenuta nello sputo delle donne. Una cosa talmente disgustosa che renderebbe astemio più di un bevitore. Per ulteriori informazioni, si rimanda al sito di Giorgio Samorini, che è oltremodo interessante: 


Note etimologiche

Oscurissima è l'etimologia della parola chicha. Si tratta di una parola della lingua dei Taino, di ceppo Arawak, la prima popolazione con cui Cristoforo Colombo è entrato in contatto. Insoddisfatti di una spiegazione tanto semplice, gli accademici continuano a brancolare nel buio, delirando senza sosta. Per la Real Academia Española (RAE) deriverebbe invece da un supposto vocabolo della lingua Kuna (Guna) di Panama, chichab "granturco" (non è in ogni caso Maya, come ho letto in un'occasione). La glossa è comunque poco attendibile, dalle risorse reperite risulta oba glossato "maíz" e sisa glossato "licor". Secondo Luis Cabrera chicha proverrebbe dal Nahuatl chichia (chichiya) "essere acido, aspro o amaro" e da atl "acqua". Questo Cabrera è definito studioso di cultura azteca e dovrebbe essere un esperto, anche se le informazioni non si trovano. Eppure dalle mie conoscenze della lingua Nahuatl, che ho appreso in gioventù, non risulta affatto che sia possibile un composto *chichiatl o *chichiyatl "acqua acida" a partire da un verbo e da un sostantivo. Stando a un gran numero di siti nel Web, anche un certo Don Luis G. Iza avrebbe approvato questa proposta etimologica. Non va però nascosto che di tale autore non si riesce a trovare notizia: i siti che riportano l'informazione copiano le stesse parole da un'unica fonte non recuperabile e sospetta di essere un fake. Anche di Luis Cabrera ce ne sono parecchi, si sospetta trattarsi di un pacchetto memetico. Altrettanto inattendibile è la derivazione da un supposto verbo *chichiani "sputare" riportato da Gonçalves da Lima (1990). Una parola chichiani in realtà esiste, ma indica una sorta reggiseno ("apollador de teta"). Nel senso di "sputare" è una fabbricazione a partire dal corretto verbo Nahuatl chicha, chihcha "sputare", che ha un'occlusiva glottidale, quasi un piccolo colpo di tosse, prima della seconda -ch-. Il sostantivo derivato da questo verbo è chichitl, chihchitl "sputo". Non solo fonetica inadatta, ma anche semantica inadatta: gli Indiani ritenevano sacra la bevanda, non l'avrebbero chiamata da un dettaglio della sua produzione. Questa è la caratteristica di quasi tutte le paretimologie: i loro fabbricatori ignorano la struttura delle lingue a cui si appellano per spiegare qualcosa. Tra l'altro la chicha non era (e non è tuttora) la bevanda tipica delle genti di lingua Nahuatl, che usavano un fermentato di succo d'agave chiamato octli /ukλi/: la locuzione octli poliuhqui /'ukλi pu'liʍki/ (dal verbo polihui "essere rovinato") indicava una bevanda troppo fermentata, donde ne derivò il ben noto pulque /'pulke/ (con accento retratto), tuttora molto diffuso in Messico. Esistevano ed esistono ancor oggi in Messico anche bevande a base di mais, ma a quanto pare erano già nell'antichità fermentate tramite i lieviti selvatici e non tramite la saliva. In Nahuatl si chiamava teooctli /teu:'ukλi/ "pulque divino" una forte bevanda prodotta dal mais e data alle vittime destinate ad essere immolate a Huitzilopochtli, allo scopo di intorpidirle. G. Edward Nicholson (ONU) ha scritto un articolo, Chicha Maize Types, and Chicha Manufacture in Peru, le cui prime due pagine sono consultabili al seguente sito: 


Nell'opera in questione sono contenute diverse inconsistenze. Questo è un estratto:

«The origin of the word chicha is not clear, but it appears to be of Caribbean (Arawak) origin, as a derivation of chichal or chichiatl. In the latter case, the two voices, chichilia and atl mean "to ferment" and "water" respectively; while in the former case chi means "with" and chal means "saliva." and, together, "to spit" or "spit".»

Innanzitutto Nicholson confonde la lingua Nahuatl con le lingue Caribe e con quelle Arawak, cosa già di per sé assurda quanto deprecabile. Il verbo citato, chichilia, è in realtà transitivo: tlachichilia "inacidire qualcosa, renderla aspra o amara". Così si può dire: nicchichilia in atl "rendo aspra l'acqua". Quello che non si può fare con questo verbo è formare composti da cui la parola chicha sia derivata. Per quanto riguarda la forma chichal che lo studioso riporta, è un'alterazione del verbo Nahuatl chihcha (vedi sopra), ma la sua analisi è farneticante e incompatibile con la lingua degli Aztechi. Ancora più stravaganti sono le altre proposte etimologiche reperibili, fatte a partire dalla lingua Maya (quale delle tante derivate dal Maya classico?): autori sudamericani citano forme non verificate (es. chiboca "masticare", chichaá "riempire d'acqua", zicha "acqua fresca"), non attribuite con precisione e prive di una semantica attendibile. In pratica si tratta di fantalinguistica amerindiana. Emerge un fatto di per sé stupefacente: una lingua importante come il Nahuatl non è conosciuta nemmeno da persone che dovrebbero esserne specialiste. Anziché studiosi seri, troviamo labili menzioni di personaggi fantomatici come Luis Cabrera e Don Luis G. Iza. Manca il costume di cercare informazioni corrette, anche in questi tempi in cui il Web dovrebbe rendere le cose più facili rispetto al passato pre-Internet.

Il nome Quechua della chicha

La forma più antica documentata del nome Quechua della chicha è aswa. Era così che gli Incas pronunciavano la parola: /'aswa/, ovviamente con la sibilante /s/ sorda come in sale. Nelle varietà locali di Quechua si sono tuttavia prodotte alcune importanti evoluzioni: la sibilante /s/ a contatto con l'approssimante /w/ ha prodotto un suono aspirato /qh/, /x/ o /h/. Così vediamo che nella stessa lingua della città di Cuzco, que è ritenuta la più nobile e tradizionale varietà di Quechua, la chicha è attualmente chiamata aha o aqha. Questa è stata l'evoluzione fonetica: 

aswa > aqha > aha

Alcuni autori di epoca coloniale usano ortografie singolari come aka e acca per trascrivere /aqha/, /aha/, ma occorre fare estrema attenzione, perché in Quechua esiste la parola aka /'aka/, che significa "merda, escremento umano" e che non deve dare origine a confusioni. La forma antiquata aswa non è del tutto estinta, probabilmente è stata reintrodotta come dottismo ed è la sola usata nel Quechua di Ancash (Perù settentrionale) e in quello di Imbabura (Ecuador). Nel Quechua di Huánuco è accaduta una cosa assai singolare: la radice nativa per indicare la chicha è scomparsa, rimpiazzata da chiicha, prestito dallo spagnolo, mentre la parola aswa significa "pus". Non sappiamo se si tratti di uno slittamento semantico o se sia un lemma di sostrato, omofono per puro caso. Propendo per la seconda ipotesi. Faccio poi notare che nel Quechua di Santiago del Estero (Argentina), noto come Quichua, ogni traccia della radice aswa / aqha è scomparsa.

In epoca incaica si chiamava yamur, o meglio yamur aswa, una chicha speciale che l'Inca offriva al Sole nel corso di una speciale cerimonia. A quanto mi risulta, questo vocabolo si è completamente estinto in tutte le varietà di Quechua attualmente parlate e non sono riuscito a risalire al suo significato originario.     

Il composto aqhawasi "chicheria" (< aqha + wasi "casa") indica un locale dove si produce e si serve la chicha. Abbiamo poi aqhallanthu "indicatore di una chicheria" (< aqha + llanthu "ombra"): si tratta di un'insegna, di una bandierina o altro contrassegno posto in cima a un'asta che sporge dalla parete di una chicheria per permettere ai nativi di capire dove poter ingurgitare ettolitri di bevanda fermentata. Lo slittamento semantico deve essere stato "ombra" => "che fa ombra" => "tendina" => "insegna", cfr. llanthuna "parasole". Gli interessanti composti aqhawiksa e aqharapi significano entrambi "ubriaco", "ubriacone". All'epoca dell'Impero esisteva un ufficiale incaico chiamato aqhapaq kuraka, letteralmente "signore della chicha". Il nome strumentale aswana significa "pentola di chicha" nel Quechua di Imbabura. Nel Quechua di Huanca aswap ñawin è la prima chicha estratta dall'anfora in cui è fermentata. Infine abbiamo il verbo aqhay "produrre la chicha", con la variante asway. Tramite un comune suffisso si forma poi nella lingua di Huanca il verbo aswakuy "produrre la chicha". Non mi risultano formazioni simili dalla variante aqha diffusa in altre varianti della lingua.

La lingua Aymará non mostra alcuna concordanza col Quechua sul nome della chicha: la bevanda è chiamata k'usa (scritto anche kusa). Questo vocabolo, si noterà, è riportato erroneamente da G. Edward Nicholson come *kufa per un fraintendimento ortografico: una -s- allungata è stata da lui letta come -f-, errore non da poco. Si noti che in Aymará non esiste il suono /f/. Nella lingua dei Mochica, purtroppo ormai spenta, la bevanda era chiamata kuiċho (trascrizione di Ernst Wilhelm Middendorf, 1892). Così abbiamo attestate le seguenti frasi: tiñ mān kuiċho "io bevo la chicha"; ako eiš funo, mananchi llollek villōs kuiċho "dopo il pasto bevono un vaso di chicha". Forse l'idea che la forma Aymará e quella Mochica discendano da una protoforma comune non è poi così peregrina, o forse si tratta di un antichissimo prestito culturale.

Una citazione nell'opera di Houellebecq

La chicha è citata da Michel Houellebecq nel romanzo Sottomissione, con riferimento a un tè alla menta servito nel bar di una moschea di Parigi. Questa bevanda aromatizzata è ritenuta abominevole dall'autore, che considera la parola chicha, pronunciata a denti alti, come se fosse un'onomatopea per indicare lo sputo. Una schifiltosità alquanto strana da parte di un autore che nello stesso volume descrive un atto di sodomia su una prostituta magrebina, senza protezione alcuna, seguito dalla fellatio del membro sporco di residui fecali.

mercoledì 3 agosto 2016

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LATINO SICERA, GRECO SIKERA, EBRAICO SHEKHAR

In ebraico il termine שכר šēkhār /ʃe:'xa:r/ indicava una bevanda fermentata ottenuta da una decozione di cereali, frutta e miele. Era un potente inebriante, tipico del paese di Canaan. La storia dell'adattamento di questa parola nelle lingue dell'Occidente è antica e complessa. Si può dire che il termine ebraico sia passato in greco divenendo σίκερα (sikera), ma è più probabile che il prestito sia avvenuto già in epoca antica a partire da una lingua semitica diversa, probabilmente l'accadico, in cui la birra d'orzo era chiamata sikaru(m), sikru(m). Infatti l'ebraico mostra una consonante fricativa -kh- derivata dalla lenizione della precedente occlusiva -k-, che invece è conservata in greco. Se il termine fosse passato in greco dall'ebraico in epoca tarda, posteriore alla lenizione, il suono -kh- sarebbe stato reso con un'aspirata greca, scritta con la lettera -χ-. Inolte in Tracia è attestato Σικερηνος (Sikerenos) come epiteto di Apollo: senza dubbio trae il nome dalla bevanda, a dimostrazione dell'antichità del termine. La radice semitica ultima da cui sia la forma accadica che quella ebraica derivano ha il significato di "ubriacarsi", "intossicarsi" (es. ebraico šākhar). La traduzione più propria sarebbe quindi "bevanda intossicante (diversa dal vino)".  

Nella lingua neoebraica parlata oggi in Isreaele, che è una vera conlang creata da Ben Yehuda, la parola שכר šēkhār è usata per indicare la birra, pur essendo questa corrispondenza abbastanza impropria. La bevanda usata nell'antica Israele era forte e non somigliava molto alla debole birra dei nostri tempi. Potrebbe invece essere usata per designare certe birre speciali ad alta gradazione, potenti quasi come il vino.

Dal greco sikera la parola è passata in latino come sicera, e da questa forma deriva l'antico francese cisdre, divenuto poi cidre. Infine dal francese cidre è passato in italiano come sidro e in inglese come cider. Proprio il termine sidro è spesso utilizzato nelle traduzioni bibliche per rendere l'ebraico שכר, per quanto il paragone con il succo di mela fermentato non si molto più sensato del paragone con la birra moderna. Il sito Etimo.it, nonostante contenga non di rado proposte etimologiche datate e non sia esente da errori, per quanto riguarda la parola sidro fa bene il punto della situazione:


"sídro a. fr. cisdre, mod. cidre; sp. sira, ant. sizra (ing. cider; celto: gall. <s>eider : dal lat. SÍCERA = gr. SÍKERA contratto in SIC'RA, d'onde SIDRA) voce venuta dall'oriente: ebr. schêkâr qualunque bevanda fermentata ed esilarante [ebr. schâkar essere avvelenato]
  Specie di bevanda fermentata, che si prepara col succo delle mele: anticamente Cidra e Siccera." 

Ora, i sostenitori della pronuncia ecclesiastica del latino, che credono alla presenza in tale lingua di suoni palatali ab aeterno, devono per necessità postulare che la parola sicera dovesse suonare /'sitʃera/ fin dalla sua comparsa nell'Urbe, contraddicendo così la sua chiarissima etimologia e fallendo una volta di più nei loro vani tentativi di ammettere la natura primitiva del suono /tʃ/. Invece è ben evidente che la forma latina suonasse come in greco /'sikera/, che la palatalizzazione avvenne soltanto in epoca tarda, ponendo le basi della forma francese antica cisdre di cui sopra (chiaramente l'elemento la grafia c- è frutto di ipercorrettismo, mentre l'occlusiva dentale -d- è sorta dallo scontro di -s- con -r-).