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mercoledì 10 giugno 2020

 
AGUIRRE, FURORE DI DIO

Titolo originale: Aguirre, der Zorn Gottes
Paese di produzione: Germania Ovest
Anno: 1972
Lingua: Inglese, Quechua, tedesco  
Durata: 90 min
Rapporto: 1,33:1 (4:3)
Genere: Storico, drammatico
Regia: Werner Herzog
Soggetto: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Produttore: Werner Herzog
Casa di produzione: Werner Herzog Filmproduktion
Fotografia: Thomas Mauch
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Musiche: Popol Vuh
Interpreti e personaggi:
    Klaus Kinski: Don Lope de Aguirre
    Helena Rojo: Doña Inés de Atienza  
    Del Negro: Frate Gaspar de Carvajal
    Ruy Guerra: Don Pedro de Ursúa
    Peter Berling: Don Fernando de Guzmán
    Cecilia Rivera: Flores de Aguirre
    Alejandro Repullés: Don Gonzalo Pizarro 
    Daniel Ades: Perucho
    Edward Roland: Okello
    Armando Polanah: Armando
    Justo González: González
    Indios della Cooperativa Lauramarca
Doppiatori italiani:
    Pier Luigi Zollo: Lope de Aguirre 
Titoli tradotti: 
    Spagnolo: Aguirre, la cólera de Dios (Spagna)
         Aguirre, la ira de Dios (America Latina)
    Catalano: Aguirre, la còlera de Deu
    Inglese: Aguirre, the Wrath of God  
    Francese: Aguirre, la colère de Dieu
Colonna sonora: 
    Aguirre è il settimo album dei Popol Vuh.
 Registrazione: 1972-1974
 Anno di rilascio: 1975
 Contenuto:
   Lato 1
   1. Aguirre I (7:22)
     I. L'Acrime di Rei
     II. Flöte"
   2. Morgengruß II (2:55)
   3. Aguirre II (6:15)
   4. Agnus Dei (3:03)
   Lato 2
   1. Vergegenwärtigung (16:51)
   CD bonus track (2004)
   1. Aguirre III (7:16)
 Compositore:
Florian Fricke, tranne il brano 2, composto da Daniel Fichelscher 

  Nota: Soltanto Aguirre I e Aguirre II formano la colonna sonora del film.
 
Trama: 
Anno del Signore 1560. Dall'impervia regione andina parte una spedizione guidata da Gonzalo Pizarro, diretta verso l'Amazzonia profonda alla ricerca del favoloso Paese di Eldorado. I Conquistaderes, oppressi dalle corazze metalliche e dal peso delle armi, marciano seguiti da centinaia di Indios ridotti in schiavitù, facendosi strada a fatica nella foresta melmosa. Questi nativi, originari delle Ande e ben adattati al clima rigido, soffrono molto, si ammalano e muoiono in gran numero. L'ultimo giorno dell'anno, date le crescenti difficoltà, Gonzalo Pizarro dà ordine a un gruppo di quaranta uomini di discendere lungo il fiume servendosi di zattere, avvertendo che se non saranno di ritorno entro una settimana, saranno considerati dispersi. A capo del gruppo viene messo il valoroso Pedro de Ursúa. Come secondo in comando viene scelto il fiero Lope de Aguirre. Il pingue Don Fernando de Guzmán assume l'incarico di rappresentare la Corona di Spagna, mentre Frate Gaspar de Carvajal funge da portatore della Parola di Dio e tiene al contempo il diario dell'impresa. Contro il consiglio di Pizarro, seguono la spedizione esplorativa anche l'amante di Ursúa, Doña Inés, e la giovane figlia di Aguirre, Flores. La spedizione esplorativa, partita il 4 gennaio, si trova subito in difficoltà: una delle zattere rimane intrappolata in un gorgo e non riesce a raggiungere la riva. Nel corso della notte, gli uomini a bordo della zattera bloccata rimangono uccisi. Si diffonde il panico, perché c'è la certezza che gli artefici dell'agguato siano Indios della foresta. Come se non bastasse, la notte successiva il fiume si gonfia e trascina via le restanti zattere. A questo punto Ursúa vorrebbe tornare indietro via terra per cercare di ricongiungersi a Pizarro e ai suoi, ma incontra l'opposizione di Aguirre e della maggior parte degli uomini, che non vogliono obbedire: ha così inizio la sedizione. Ursúa viene deposto, ferito e imprigionato in una gabbia. Don Fernando de Guzmán, inizialmente eletto comandante, viene quindi proclamato Imperatore di Eldorado da Aguirre, che dichiara detronizzato il Re di Spagna Filippo II. Viene indetto un processo farsesco e Ursúa è condannato a morte. Tuttavia l'Imperatore posticcio all'ultimo gli salva la vita - con grande disappunto di Aguirre. La spedizione continua per mezzo di un'unica zattera appena costruita traendo la materia prima dalla foresta. Il feroce Aguirre dà fin da subito prova di grande squilibrio e di indole tirannica, soggiogando gli uomini col terrore. Nessuno osa protestare: soltanto Inés esprime la sua opinione contraria, venendo ignorata. Durante una sosta in un villaggio abbandonato e pieno di cibo, vengono scoperte tracce di cannibalismo. Segue una fuga precipitosa. Discendendo il fiume, la zattera è raggiunta da due indigeni in canoa. Questi vengono fatti salire; gli spagnoli notano che uno di loro porta al collo un gioiello d'oro. L'incontro finisce in modo violento. Avendo il fratacchione dato una bibbia agli ospiti, li uccide a causa della loro blasfemia quando il volume viene gettato via con sdegno, forse su istigazione delle parole dell'interprete. Le cose vanno sempre peggio. L'Imperatore obeso e fittizio si ingozza di frutta e di mais mentre i suoi sudditi muoiono di fame. In preda a un capriccio puerile, scaraventa in acqua l'unico cavallo rimasto. Quest'azione dissennata non resta senza conseguenze. Poco dopo, l'inetto Guzmán viene trovato garrotato vicino alla latrina. Il suo immane corpo è senza vita. Aguirre è ora il capo indiscusso, ma il suo destino è segnato, il suo cammino conduce all'annientamento.

Citazioni: 

"Io sono Aguirre, Furore di Dio! Se io, Aguirre, voglio che gli uccelli cadano fulminati, gli uccelli devono cadere stecchiti dagli alberi! Sono il furore di Dio, la terra che io calpesto mi vede e trema!" 
(Lope de Aguirre) 
 
"I miei uomini misurano tutto con l'oro, ma per me conta solo il potere. L'oro lo lascio ai servi."
(Lope de Aguirre) 

"Lo sapete, Inés, che per la gloria di Nostro Signore la Chiesa deve stare sempre dalla parte del più forte."
(Frate Gaspar de Carvajal) 

"Terremoti, epidemie e inondazioni si sono abbattuti sul mio popolo, ma quello che ci hanno portato gli Spagnoli è infinitamente peggiore. Mi hanno dato il nome di Balthazar. Ma in realtà il mio vero nome è Runodimah, "Colui che parla". Prima ero il signore di queste terre, e tutti dovevano abbassare lo sguardo davanti a me. Nessuno osava guardarmi negli occhi, e ora sono in catene, come il mio popolo, e devo abbassare io lo sguardo. Voi mi avete tolto tutto ciò che avevo. Avete fatto di me un misero schiavo. Sei tu a farmi pietà adesso, perché so bene che nessuno di voi potrà uscire vivo da questa foresta."
(Balthazar) 

"Io, il Furore di Dio, mi sposerò con mia figlia e fonderò con lei la dinastia più pura che abbia mai regnato sulla terra. Noi due insieme regneremo su tutto questo continente. Resisteremo! Sono il Furore di Dio, e Dio è con me! 
(Lope de Aguirre) 

 
Recensione: 
Questo vibrante capolavoro merita di essere visto e rivisto molte volte. Ogni volta si coglie un particolare nuovo. È una sinfonia della Catabasi e dell'Annichilimento, in cui il Cosmo rivela la sua vera natura di Caos, essendo ogni parvenza di ordine il semplice frutto di un processo allucinatorio. Tutto ha inizio con un incitamento alla ribellione. Così Lope de Agirre rammenta ai suoi uomini che se Hernán Cortés non avesse disobbedito agli ordini, non avrebbe conquistato un impero. Come pronuncia queste parole, si avverte che qualcosa è cambiato in modo irreversibile. Si è instaurata una frattura ontologica. In modo subdolo, nel vicecomandante si è accesa la sinistra fiammella della follia. È l'innesco di una metamorfosi funesta che non potrà in alcun modo arrestarsi. Il titanismo prometeico farà presto il suo corso, portando il protagonista al delirio solipsistico. Si capisce bene che egli è diventato una monade leibniziana, quando scruta un albero e si illude di riconoscere tra i rami la sagoma spettrale di un vascello abbandonato, candido come uno scheletro seccato dal sole del deserto. L'uomo pieno di hybris non ha più alcun contatto con il mondo esterno. La realtà è una gran brutta cosa: la si può definire come l'insieme dei fenomeni del mondo sensibile che non mutano secondo i desideri e le disposizioni degli esseri senzienti. Non c'è in essa alcuna malleabilità, alcuna duttilità. Si oppone a ogni movimento e lo rende penoso. Eppure c'è sempre chi non si arrende a questa caratteristica del contesto incubico chiamato "vita". Per questo motivo il feroce e biondo conquistador si deteriorerà istante dopo istante, ormai vinto dalle febbri malariche, finendo col tenere il suo monologo farneticante di fronte a un branco di simpatiche scimmiette dalla coda prensile. Tutti coloro che lo accompagnavano sono stati uccisi dalle frecce avvelenate, anche la figlia con cui fantasticava di generare tramite copula incestuosa una nuova razza di semidei. La zattera si sta sfaldando, ormai è in buona parte sotto il pelo dell'acqua mista a rifiuti. Resta solo il Disfacimento, quella forza tremenda quanto ineluttabile che corrode ogni cosa, dissolve ogni struttura, fa precipitare ogni essere nel Nulla. Le note dei Popol Vuh codificano questa Nemesi, stampandone il progredire nelle sinapsi dello spettatore!

Principio d'induzione 
 
Il ragionamento fatto da Aguirre è in sé molto logico. Si basa su un assunto profondamente radicato nella mente di ogni esemplare della specie Homo sapiens: il principio d'induzione. Tutti sanno che Hernán Cortés si impadronì del Messico dopo aver abbattuto l'Impero Azteco - divendo così uno degli uomini più ricchi del pianeta. Allo stesso modo è ben noto che Francisco Pizarro, che divenne un notabile a Panama, raggiunse l'Impero dell'Inca e con stratagemmi fraudolenti non faticò troppo ad abbatterlo. Forte di queste evidenze, Aguirre è sicuro dell'esistenza di un'altra civiltà autoctona, ancora più ricca e gloriosa di quelle già conquistate. Egli chiama questa nuova nazione con un nome che è rimasto famoso: Impero di Eldorado. "Il Messico non è stato un'illusione", dice il condottiero a coloro che dubitano, già vinti dalle febbri amazzoniche. Quindi Eldorado deve esistere; è una necessità storica. In realtà sappiamo che il mito di Eldorado ebbe origine in Colombia dalla civiltà dei Muisca, oggi più noti come Chibchá, che avevano raggiunto una ricchezza e un livello tecnologico paragonabile a quello dei Maya. Si dice che un loro sovrano si recasse una volta all'anno sulle acque della laguna di Guatavita (a 60 km circa da Bogotá), col corpo nudo coperto di polvere d'oro. Così gli fu dato un nome che fu tradotto in spagnolo come El Dorado, ossia "Il Dorato". La civiltà dei Muisca fu abbattuta da eserciti di Tercios spagnoli e di Lanzichenecchi bavaresi, ma il mito di Eldorado visse di vita propria, tanto che per molto tempo fu data per scontata l'imminente scoperta di una nuova civiltà, con una tale abbondanza d'oro da permetterne l'uso per lastricare le strade. Lo stesso Voltaire, nel Candido, ha raccolto e sviluppato questo mitologema. La fede nell'esistenza di Eldorado durò fino al 1800, quando si scoprì che Walter Raleigh aveva ingannato il mondo e che non avevano alcun fondamento le sue favole sull'esistenza di un mare interno grande come il Mar Caspio, con una città di nome Manoa posta su una sua riva e dotata di dimore dai tetti di oro massiccio. 
 
L'avidità di un ecclesiastico violento 
 
Frate Gaspar de Carvajal è interpretato in modo splendido da Joseph Nicholas Anton Del Negro, attore e pittore ispanoamericano più noto col nome artistico di Del Negro. All'inizio del film ci dà l'impressione di essere una persona umana e moderata, piena di compassione per l'orrenda vita degli indigeni, tanto da annotare sul suo diario: "I nostri schiavi indios valgono poco o nulla. Il cambio di clima li fa morire come mosche. Non abbiamo tempo di dar loro una sepoltura cristiana." La sua ambiguità emerge nel corso del suo dialogo con Dona Inés, quando dichiara senza mezzi termini che il compito della Chiesa è quello di stare col più forte. Quando vede il ciondolo d'oro portato al collo da un nativo, l'ecclesiastico impazzisce. Viene rapito da una forza totalizzante, quella dell'avidità. Il suo volto è deformato, i suoi occhi brillano di una luce spaventosa. Credo di aver visto una luce simile soltanto negli occhi di Chikatilo, il Mostro di Rostov. L'esito di questa possessione è una crisi violenta che lo porta a uccidere. L'indio che porta la bibbia a un orecchio e la scaraventa a terra, perché non parla, è una reminiscenza che Herzog ha tratto dalle cronache della Conquista del Perù: fu l'Inca Atahuallpa il protagonista di una simile vicenda. La profanazione del testo sacro è ciò che trasforma Carvajal in un berserk: afferrata una spada, trafigge non soltanto l'indio che aveva gettato via la bibbia, ma anche il suo compagno, che all'inizio i soldati avevano scambiato per una donna. Nessun pentimento. L'unico commento da parte dell'uomo di Chiesa, mentre ritrae la lama insozzata di sangue, è questo: "Convertire questi selvaggi è davvero un compito arduo". Dal canto suo, Don Lope de Aguirre ritiene che la religione sia un ingombrante mucchio d'immondizia, utile unicamente per conservare il potere. Lo dice anche in modo esplicito, quando rivolge al fratacchione queste parole: "Prete, non dimenticarti di pregare. Altrimenti il tuo dio te la farà pagare cara." 
 
Una profezia insidiosa 
 
I due indios che salgono sulla zattera di Aguirre, trovandovi poco dopo una brutta fine, spiegano il motivo della loro visita. Da lungo tempo il loro popolo attendeva la venuta dei Figli del Sole, che sarebbero giunti in quell'angolo della Terra con strumenti in grado di produrre il rumore del tuono, perché la Creazione era stata lasciata incompleta dall'Artefice ed essi vi avrebbero posto rimedio. Il contenuto dell'antica profezia dei Figli del Sole era di una verità cristallina, anche se chi la aveva enunciata si era dimenticato di un dettaglio importante. I Figli del Sole sono malvagi come loro padre. 
 

Il vero Lope de Aguirre 
 
Lope de Aguirre (circa 1510 - 1561) nacque a Oñati, nella valle di Araotz, nella provincia basca di Gipúzcoa. I suoi interessi fin da giovane furono rivolti alle portentose notizie che giungevano dal Nuovo Mondo. Aveva ventun anni quando Hernando Pizarro, fratello del più famoso Francisco, fece ritorno dal Perù portando con sé immense ricchezze del distrutto Impero dell'Inca. Aguirre, che si trovava a Siviglia, fu talmente colpito dall'accaduto che giurò di diventare egli stesso un conquistador. Giunto in Sudamerica, si distinse subito per la violenza, l'indole collerica e l'implacabile sete di vendetta. Un giudice lo aveva fatto frustare in pubblico, accusandolo di aver sfruttato gli indigeni (ebbene sì, la Corona faceva del suo meglio per proteggerli). Aguirre percorse a piedi  molte miglia per trovare questo giudice, dopo tre anni lo sorprese a Cuzco mentre si trovava in una biblioteca e lo uccise conficcandogli un pugnale in una tempia fino a spaccargli il cranio. Prese realmente parte alla spedizione di Pedro de Ursúa, ammutinandosi e facendolo uccidere. Scrisse realmente una lettera a Filippo II, dichiarando l'indipendenza dalla Corona di Spagna e proclamamando come sovrano l'hidalgo Hernando de Guzmán - che uccise presto. Le sue imprese superarono la fantasia di Herzog, dato che riuscì a raggiungere l'Oceano Atlantico alla testa di uomini armati con cui pensava di invadere la colonia di Panama, passare l'Istmo e compiere una spedizione navale per impadronirsi del Perù. La sua megalomania lo portò al disastro. Circondato e vinto a Barquisimeto, in Venezuela, si dice che abbia ucciso la propria figlia Elvira per impedire che fosse profanata. Tradito dai suoi, fu catturato e fucilato. Il cadavere fu squartato e i suoi pezzi vennero inviati in varie città venezuelane come monito. Giudicato in un processo postumo, fu condannato per lesa maestà.
 
Una testimonianza etnologica

Ancora oggi nella regione dell'Orinoco c'è chi ritiene Aguirre uno spirito maligno, un demonio. Ricordavo un brano sull'argomento e dopo una lunga ricerca sono riuscito a trovarlo. Lo pubblico in questa sede: 
 
Il demonio del Casiquiare 
 
«Verso il 1599* si registrò un'altra punta nella bruciante febbre dell'Eldorado quando Pedro de Ursua, uomo talmente di pochi scrupoli da essere soprannominato "sbudellatore di indios", ottenne da Andrea Hurtado de Mendoza, viceré del Perù, il titolo di Governatore di Omagua e di Eldorado.
  Pedro de Ursua riuscì a metter insieme in breve tempo una specie di esercito di Francischiello, formato per lo più da poveri disgraziati, la schiuma degli spostati e dei falliti che si trovava nelle colonie spagnole. Una spedizione che assurse in seguito ad esempio da manuale per la disorganizzazione dimostrata.
  Tra questi disperati c'era certo Lope de Aguirre "... piccolo di statura e smilzo, brutto, con la barba nera e con un paio di occhi grifagni come quelli dell'aquila".
  Strano a dirlo, Lope de Aguirre era uno dei pochi che allora non credessero alla favola dell'Eldorado; forse perché anni di continui patimenti e frustrazioni subite rincorrendo inutilmente questo mito, gli dovevano aver insegnato a diffidare dei pazzi condottieri. Aguirre aveva accettato di partecipare a questa spedizione per un altro scopo. Possedeva un piano ambizioso: creare un proprio regno nel Sudamerica.
  Poco per volta riuscì a guadagnarsi dei proseliti approfittando del malcontento che, dopo i primi entusiasmi, serpeggiava sempre in questo genere di spedizioni. Così, arrivati nel territorio di Omagua, esplose nel gennaio del 1561 la rivolta e Pedro de Ursua venne fatto a pezzi assieme agli ufficiali.
  Poi, ben consci di non poter ritornare nella colonia spagnola dove li attendeva la forca, gli ammutinati concepirono un piano audace e disperato. Navigando, solcarono le acque scure del Rio Negro fino a quando queste confluirono in quelle del Rio della Amazzoni. 
  Qui, dagli indigeni, appresero l'esistenza di una via d'acqua segreta che univa il Rio Negro all'Orinoco: era il Rio Casiquiare, un corso d'acqua unico al mondo nel suo genere che collega due fiumi di opposte direzioni, in quanto uno socia sulla costa venezuelana mentre l'altro confluisce nel Rio della Amazzoni. 
  Aguirre risalì questa nuova via mai solcata da alcun uomo bianco; alla fine sbucò di fronte all'isola Margarita, vicina al delta dell'Orinoco. Marciò verso Barquisimeto, una colonia posta nei pressi di Coro, conquistandola con un colpo di mano. Ma ebbe l'imprudenza di dichiarare Barquisimeto indipendente dal Regno di Spagna e di proclamare troppo tempestivamente il proprio regno personale, mentre ancora i suoi seguaci non erano completamente d'accordo. E ci rimise la testa.
  Lope de Aguirre entrò comunque nelle saghe venezuelane. Ancor oggi è identificato con uno spirito del male, uno dei tanti che popolano l'Orinoco. 
  E quando il tempo si fa minaccioso e si alzano dalle paludi marcescenti i fuochi fatui, ci si segna ancora pensando che l'anima del demonio Aguirre sia tornata a ghermire una nuova preda.»
(Tratto da Storia Moderna, di Gabriele De Rosa, ed. Minerva Italica, 1982) 

*Deve essere un refuso per 1959. 

 
La vera spedizione di Gonzalo Pizarro 

Possiamo tracciare la genesi della narrazione del film: Herzog ha ibridato due storie diverse. Le gesta di Lope de Aguirre, che prese parte alla spedizione di Pedro de Ursúa, sono state fittamente intrecciate a quelle di Gonzalo Pizarro (1502, secondo alcuni 1510 - 1548), la cui spedizione avvenne quasi un ventennio prima, nel 1541. Assieme a Francisco de Orellana (1511 - 1546), Pizarro partì da Quito (attuale Ecuador) alla ricerca di un luogo irreale chiamato Paese della Cannella (País de la Canela), per via della supposta abbondanza di cinnamomo. Fu questa la spedizione a cui prese parte il fratacchione diarista, Gaspar de Carvajal. Il reclutamento permise di mettere assieme 220 spagnoli e 4.000 indigeni. Prima partì Pizarro con questi contingenti, mentre Orellana, secondo in comando, si riunì a loro dopo essere stato a Guayaquil per reclutare altri armati e per trovare cavalli. Dopo aver seguito il corso del Rio Coca e del Rio Napo, cominciarono gravi problemi. Mancanza di viveri e febbri tropicali. 140 spagnoli e 3.000 nativi persero le loro vite in condizioni abiette. Fu decisa la costruzione di una nave, usata da 50 uomini comandati da Orellana per andare alla ricerca di cibo. Come nel film herzoghiano, l'imbarcazione non fece ritorno e fu considerata dispersa. Due anni dopo la partenza, Pizarro raggiunse Quito con 80 superstiti. Orellana seguì invece il corso del Rio delle Amazzoni, arrivando infine alla sua foce - primo europeo a riuscire in una simile impresa. Fu lo stesso Carvajal a darne testimonianza nella sua opera Relación del nuevo descubrimiento del famoso Río Grande que descubrió por muy gran ventura el capitán Francisco de Orellana

Possibili incongruenze nella fauna  
 
Richiamo l'attenzione su alcuni dettagli della fauna che compare nella pellicola di Herzog. 
 
Si nota un maiale nel villaggio abbandonato dai cannibali. Si tratta di un porco dall'aspetto bizzarro, scuro e abbastanza simile a quello di un cinghiale. Siamo nel 1560, così ci si chiede se l'allevamento dei suini domestici si fosse già diffuso in territori non ancora appartenenti alla Corona di Spagna. Nel Nuovo Mondo esistono porci selvatici, come ad esempio i pecari in Messico, già ben conosciuti dai nativi in tempi preispanici (gli Aztechi chiamavano coyametl questo animale). Si tratta però di animali molto aggressivi, di cui non è mai stata tentata la domesticazione. 
 
Sempre nel villaggio già menzionato si può vedere una cagna distesa a terra e intenta ad allattare i cuccioli. Il suo pelo è nero, se si eccettua una macchia bianca sulla parte inferiore del corpo. Si comprende subito che non è cane autoctono. I cani nativi dell'America sono ancor oggi un mistero e avevano caratteri molto strani. Così è nota una razza canina allevata dagli Aztechi, caratterizzata dal corpo glabro e dall'assenza di voce. Purtroppo questi cani sono oggi estinti e a quanto mi risulta le loro tracce sono difficili da identificare. Mi domando se i chihuahua ne possano preservare almeno in parte l'eredità genetica dei cani nudi del Messico antico. La cosa non è affatto sicura e richiede studi approfonditi.
 
Non deve essere invece considerata anacronistica la presenza dei polli, la cui storia in Sudamerica è davvero interessante. Si pensa che siano stati portati nel Nuovo Mondo da Cristoforo Colombo e subito usati per scambi commerciali dai nativi. Così il pollame, facilmente trasportabile in gabbie, deve essere giunto precocemente in territori non soggetti alla Corona di Spagna, diffondendosi in Amazzonia e arrivando agli Incas nel giro di pochi decenni. Il nome dell'Inca Atahuallpa significa "Gallo". L'etimologia della parola atawallpa non è chiara. Probabilmente in tempi più antichi indicava un uccello selvatico affine al gallo cedrone, che avrebbe dato il nome anche all'animale domestico. Studi recenti sembrano dimostrare che i polli abbiano raggiunto il Perù almeno un secolo prima di Colombo, portati dai Polinesiani. L'argomento merita una trattazione approfondita, ma non è questa la sede adatta.  

Possibili incongruenze nella flora 

Richiamo l'attenzione su alcuni dettagli della fauna che compare nella pellicola di Herzog. 
 
Sempre nel villaggio dei cannibali, si vede che gli uomini di Aguirre, all'inizio sospettosi, si gettano su una gran quantità di banane acerbe e le divorano avidamente. Il problema che mi pongo è questo: nel 1560 sarebbe stato possibile rinvenire banani in aree amazzoniche non sottoposto al dominio degli Spagnoli? Sappiamo che la prima piantagione di banane del Nuovo Mondo risale al 1502. Certo, le novità si diffondevano rapidamente, ma la pianta del banano richiede molta più fatica e ingegno dell'allevamento dei polli (la riproduzione non avviene in modo naturale, richiede innesti, etc.). Cuzco cadde nel 1533 e non si vedeva traccia alcuna di banane in tutto il Tawantinsuyu. Non è facile trovare informazioni per capire nei dettagli la cronologia della diffusione di questa coltura in Sudamerica. In ogni caso mi sembra eccessivo credere che avesse raggiunto l'Amazzonia solo una trentina di anni dopo la caduta di Cuzco.   
 
Una possibile incongruenza culinaria  

Il fratacchione, Gaspar de Carvajal, commenta l'arbitrio del demente Don Pedro de Guzman, che ha gettato nel fiume il cavallo. Queste sono le sue parole: 
 
"Ha commesso un grave errore. Una volta, in Messico, ho visto un intero esercito di Indios scappare da un cavallo. E in più quel cavallo poteva sfamarci per una settimana." 

Il punto è che all'epoca non si mangiava carne equina. Sarebbe stato ritenuto un costume non cristiano. In questo secolo il consumo di carne equina ci appare del tutto naturale. Eppure fino a non troppo tempo fa non era così. In Sudamerica esiste ancora una diffusa avversione all'idea di mangiare il cavallo. Penso che tra le genti di Spagna del XVI secolo non ci sarebbero state molte persone disposte a infrangere questo tabù, nemmeno in condizioni di estremo bisogno.
 
Uno strano effetto speciale 
 
Due uomini pianificano la fuga, per un semplice motivo: ritengono che sia meglio andare con gli Indios che rimanere con quel pazzo di Aguirre. Il condottiero ascolta le loro parole, senza essere visto, così invia Perucho a compiere l'esecuzione. Uno dei disertori sta contando. Quando arriva a dire "nove", Perucho abbatte la spada sul suo collo, sbalzandone via la testa, che finisce tra i cespugli. Per qualche istante si vede la testa recisa, la cui faccia è fatta di gomma, muovere le labbra, da cui esce la parola "dieci". Tutto ciò mi è parso inquietante, ma al contempo inverosimile. 
 
Curiosità  

Secondo la rivista Time, questo è uno dei 100 film migliori di tutti i tempi. Concordo appieno! 
 
Il film fu girato in inglese, unica lingua che potesse accomunare un cast multinazionale. Quindi fu fatto il doppiaggio in tedesco, non senza problemi, visto che Kinski pretendeva un compenso stratosferico per le sessioni di registrazione.     
 
Klaus Kinski ebbe modo durante le riprese di comportarsi in modo eccessivo ed intemperante. Una notte era disturbato da alcuni uomini della troupe che giocavano a carte in una capanna, vociando senza sosta. Così afferrò un fucile e sparò nella capanna, alla cieca: soltanto per puro caso non uccise nessuno. Una comparsa fu mutilata di una falange. Il fucile gli venne confiscato da Herzog, che lo detiene tuttora. In un'altra occasione Kinski colpì alla testa un uomo della troupe con una spada. Se la vittima dell'aggressione non avesse indossato un pesante casco, probabilmente avrebbe perso la vita. 
 
Herzog aveva scritto d'impeto la sceneggiatura del film, ispirato dal genio, mentre era in viaggio con la sua squadra di calcio. Il punto è che arrivò Kinski, ubriaco fradicio, che si mise a vomitare sui fogli, rendendoli assolutamente illeggibili. Herzog fu costretto a gettare via tutte; non gli riuscì mai di ricostruire con esattezza i testi perduti, per quanto sforzasse la sua memoria. 
 
Molte delle scene, inedite e incomprensibili, offuscavano negli attori il confine tra la recitazione nel personaggio e la semplice reazione alle situazione. In una scena iniziale, quando la carrozza che trasporta la figlia di Aguirre si ribalta e minaccia di collassare, una mano entra dal lato destro dell'inquadratura per aiutare gli attori a mantenere la presa. Quella mano appartiene al regista! 
 
Il suonatore di flauto andino era un mendicante con problemi mentali. Si spaventava facilmente e non fu facile gestirlo. 
 
Herzog fu truffato da trafficanti senza scrupoli, che gli dovevano vendere le scimmie per il finale. Si trattava di esemplari di una specie molto amabile, la scimmia scoiattolo (nome scientifico: Saimiri sciureus). Disperato, pur di recuperare gli animali, il regista si finse un veterinario e affermò che mancava un certificato vaccinale. Per fortuna la sua strategia ebbe successo. 
 
Nel corso delle riprese ci fu soltanto un caso di epatite, di probabile origine oro-fecale. Nessun caso di malaria. Il regista fu assalito dalle formiche di fuoco mentre maneggiava un machete. Come conseguenza dei morsi dei furiosi imenotteri, dovette stare qualche giorno a letto con la febbre. 

Tracce della sceneggiatura originale 

All'inizio il vascello fantasma intravisto dal febbricitante Aguirre doveva essere reale. Nelle intenzioni del regista, quel relitto era tutto ciò che rimaneva della spedizione di Orellana, di cui si è parlato diffusamente. In seguito alla distruzione dei fogli della sceneggiatura, corrosi dal vomito acidissimo di Kinski, l'idea fu abbandonata. 
 
Aguirre doveva raggiungere, solo superstite, la foce del Rio delle Amazzoni e finire nell'Oceano. A quel punto doveva vedere un minuscolo pappagallo, che ripeteva all'infinito una sola parola: "Eldorado!" Anche questa idea è naufragata. Potere della materia rigettata da Kinski, più ebbro di Balaram! Sembra che abbia ingurgitato quantitativi immensi delle più disparate bevande alcoliche, rasentando il coma etilico e creando un'acre mistura scura in grado di turbare gli incubi di Herzog per molti anni! 

Etimologia di Aguirre 

Il cognome Aguirre ha la sua origine nella lingua basca (Euskara), che era l'idioma materno del celebre Don Lope: l'ortografia originale è Agirre (varianti Agerri, Agerre e persino Ager). È un cognome tipico della nobiltà del Paese Basco. La sua etimologia è abbastanza incerta, anche se è opinione comune che derivi dall'aggettivo ageri "manifesto, evidente, prominente". Dato che la consonante rotica debole -r- in basco non alterna con quella forte -rr-, bisognerà a mio avviso supporre una protoforma *ageri-re. In questo caso la rotica forte si sarebbe sviluppata come il prodotto dell'unione di due rotiche deboli. Il significato originale del cognome dovrebbe quindi essere "Luogo esposto" o "Luogo prominente". Si hanno anche diversi cognomi derivati: Eizagirre, Agirresarobe, Agirrezabal (da zabal "largo, ampio"). Molte famiglie cognome Aguirre sono documentate in tutto il Paese Basco e se ne trovava una persino a Tolosa, nella Linguadoca profonda.

Etimologia di Runodimah
 
Il significato del vero nome dell'indio Balthazar, Runodimah, è ben spiegato da lui stesso nel corso del film. Mentre egli parla con la figlia di Aguirre, Flores, ne fa esplicita menzione: "Colui che parla". Ha tutta l'aria di essere una cattiva trascrizione di un originario Runa Rimaq, che è dal Quechua runa "uomo", rimaq "che parla" (rimay significa "parlare"). Dalla stessa radice verbale proviene anche il nome della città di Lima: è stato preso da quello del torrente Rimaq, ossia "Parlante", con riferimento al suono limpido e cristallino prodotto dalle sue acque mentre scorrono sulle rocce. Un suono a cui veniva con ogni probabilità attribuito un significato oracolare. Strano a dirsi, nel Web il nome dell'indio è trascritto come Runo Dama, anche se ascoltando il film si sente nitidamente che non è così. La lingua parlata da Balthazar e dagli Indios poi uccisi dal fratacchione è un bel problema. A quanto si legge nel Web, dovrebbe essere una varietà di Quechua, eppure non riesco a distinguerne una sola parola e anche la fonologia sembra abbastanza diversa. Gli attori provengono dalla Cooperativa Lauramarca e dovrebbero quindi parlare Quechua. Dubito che il problema sia il mio udito difettoso, visto che il Quechua di Cuzco lo riesco a distinguere bene.

sabato 30 novembre 2019


LA FONTANA DELLA VERGINE 

Titolo originale: Jungfrukällan
Anno: 1960
Regia: Ingmar Bergman
Paese: Svezia
Lingua: Svedese
Durata: 89 min
Colore: B/N
Rapporto: 1,37:1
Genere: Epico, drammatico
Soggetto: Leggenda popolare del XIV secolo (Per Tyrssons
      d
öttrar i Vänge)
Sceneggiatura: Ulla Isaksson
Produttori (non accreditati): Ingmar Bergman, Allan
      Ekelund
Casa di produzione: Svensk Filmindustri 
Responsabile della produzione: Carl-Henry Cagarp 
Fotografia: Sven Nykvist
Musiche: Erik Nordgren
Montaggio: Oscar Rosander
Scenografia: P.A. Lundgren
Costumi: Marik Vos-Lundh (come Marik Vos)
Trucco: Börje Lundh
Fonici: Evald Andersson (effetti sonori), Staffan Dalin,
     Aaby Wedin 
Dipartimento artistico: Karl-Arne Bergman
Assistente alla telecamera: Rolf Holmquist
Interpreti e personaggi:
    Birgitta Pettersson: Karin
    Gunnel Lindblom: Ingeri, la serva pagana
    Max von Sydow: Töre
    Birgitta Valberg: Märeta
    Axel Düberg: Pastore magro
    Tor Isedal: Pastore a cui è stata strappata la lingua
    Ove Porath: Bambino
    Allan Edwall: Il monaco
    Oscar Ljung: Simon
    Gudrun Brost: Frieda
    Axel Slangus: Il Guardiano del Ponte, Odino
    Tor Borong: Un bracciante
    Leif Forstenberg: Un bracciante
Doppiatori italiani:
    Fiorella Betti: Karin
    Anna Miserocchi: Ingeri, la serva pagana
    Giuseppe Rinaldi: Töre
    Lydia Simoneschi: Märeta
    Pino Locchi: Pastore magro
    Manlio Busoni: Il monaco
    Maria Saccenti: Frieda
    Amilcare Pettinelli: Il Guardiano del Ponte, Odino
Traduzioni del titolo:
    Inglese: The Virgin Spring
    Tedesco: Die Jungfrauenquelle
    Francese: La Source
    Spagnolo: El manantial de la doncella
    Portoghese:
A Fonte da Virgem
    Danese: Jomfrukilden
    Finnico: Neidonlähde
    Lituano:
Šaltinis
    Polacco: Źródło
    Russo: Девичий источник
    Ungherese: Szűzforrás
    Turco: Genç kız pınarı
    Arabo (Egitto): Alrabi' albekr
    Persiano:
Cheshme-ye bakere
    Giapponese:
Shojo no izumi (処女の泉
Premi e riconoscimenti:
    1961 - Premio Oscar
        Oscar al miglior film straniero
    1961 - Golden Globe
        Golden Globe per il miglior film straniero
    1960 - Festival di Cannes
        Menzione speciale
    1961 - Semana Internacional de Cine de Valladolid
        Lábaro de oro

Trama:
Siamo nel XIV secolo, in una regione impervia della Svezia. Töre è un proprietario terriero la cui moglie Märeta è molto devota. La loro  unica figlia, la bellissima Karin, deve portare dei ceri in chiesa in occasione della Candelora per offrirli alla Vergine. Infatti secondo il costume cristiano i ceri per la Madonna devono essere offerti da una ragazza vergine. Nella fattoria di Töre abita anche Ingeri, una serva che porta in grembo un figlio, frutto di uno stupro. Di notte, mentre i suoi padroni dormono, lei invoca Odino affinché porti loro la rovina. La ragazza gravida è infatti pagana. Nessuno sospetta l'odio che cova in lei, così viene incaricata di accompagnare Karin nel suo viaggio verso la chiesa. Durante il tragitto accadono cose portentose. Mentre Karin procede a cavallo, Ingeri viene chiamata dal custode del ponte, che la attira nella propria dimora. Presto si capisce che il vecchio uomo è in realtà lo stesso Odino. Terrorizzata in seguito a un'avance, la giovane pagana fugge via nel bosco. Intanto la figlia di Töre incontra tre pastori. Il primo è un uomo magro con pochi capelli biondicci. Il secondo, bruno e dal sembiante distorto, è mutilato della lingua e parla in modo incomprensibile. Il terzo è un bambino. I tre convincono facilmente la ragazza a dividere con loro le proprie provviste, ma a questo punto accade la tragedia. Una volta consumato con lei il pasto, i due uomini le saltano addosso e la stuprano. Preso da una furia incoercibile, l'uomo con la lingua tagliata si avventa su di lei con una grossa mazza di legno e le fracassa il cranio, uccidendola sul colpo. Ingeri, che nel frattempo è giunta sul luogo, assiste al delitto ma non fa nulla per fermarli. La ragazza uccisa viene spogliata delle sue vesti preziose e abbandonata. L'uomo con la lingua tagliata trova i ceri e li calpesta con furia. Il bambino, mosso a pietà, seppellisce Karin raccogliendo a mani nude il terriccio e mettendolo sul corpo estinto per coprirlo alla bell'e meglio. Intanto nella dimora di Töre tutti capiscono che qualcosa è andato storto, visto che la giovane non ha fatto ritorno. Giungono i tre pastori, che trovano il padrone della fattoria e gli chiedono ospitalità, dicendo di provenire da un paese devastato dalla carestia. Vengono accolti e condotti nella grande sala, dove viene dato loro da mangiare. Durante la notte, i tre commettono un gravissimo errore: propongono alla signora della casa, Märeta, la vendita di una splendida veste, dicendo che apparteneva a una loro sorella deceduta. La donna riconosce subito il prezioso abito di seta della figlia. Capisce immediatamente che la povera Karin è stata uccisa da quegli uomini. Senza scomporsi dice loro che ne deve parlare con suo marito, quindi si reca da lui e gli racconta tutto. Töre è furioso e prepara la vendetta di sangue. Chiede a Ingeri, che gli ha narrato le atrocità compiute dai pastori, di scaldare le pietre per il bagno. Fatto questo, sradica con la forza delle proprie braccia una betulla, ne taglia i rami e li usca per fustigarsi mentre prende un bagno a vapore. Si tratta di un complesso rituale preparatorio. Fatto questo, entra nella grande sala e uccide i pastori. Non ha pietà neppure del bambino, nononstante le suppliche di Märeta, che per istinto materno vorrebbe risparmiarlo: lo afferra e lo getta contro un mobile, fracassandogli la spina dorsale, uccidendolo sul colpo. Ingeri guida i genitori di Karin sul luogo del delitto e il cadavere viene tolto dal sottile strato di terra nuda sotto cui l'aveva nascosta il bambino. Töre non sa darsi pace e si strazia, non capisce come Dio possa averlo caricato con un simile gravame. Nonostante non sia capace di spiegarsi la volontà divina, l'uomo promette solennemente che edificherà una grande chiesa di pietra e di calce proprio in quel luogo. Non appena il corpo della vergine viene rimosso, sgorga una copiosa fonte di acqua limpida. Ingeri si prosterna, piange e si lava il volto nell'acqua, mentre Märeta usa l'acqua per pulire la faccia di Karin da ogni traccia di sozzura e di sangue.     

 
Recensione: 
Con pochissime eccezioni, i recensori che abbondano nel Web non sembrano capire l'estrema complessità di questo film. C'è chi parla del rapporto tra l'essere umano e Dio, in un'ottica esclusivamente cristiana. Eppure la chiave di lettura appare subito fin dalle prime sequenze della pellicola, come una crepa che si apre all'improvviso nel cielo: la giovane Ingeri, nella sua solitudine, compie un atto privato che è qualcosa di inconcepibile in un contesto dominato dal geloso Dio delle Scritture. Ingeri urla: "Odino vieni a me!" Ecco la spaccatura che incrina le certezze dell'uomo medievale. Tanto hanno risuonato in me queste parole che mi è parso di udirle in norreno: "Óðinn kom til mik!" Sarebbe di grande interesse curare un doppiaggio del film in quella lingua. Certo, nel XIV secolo sarebbe suonata in modo un po' diverso, ma la sostanza non cambia. Emerge dall'analisi dell'opera di Bergman l'incredibile debolezza della religione ancestrale rispetto al nuovo culto cristiano, introdotto sulla punta della spada. Di fronte al tormento dell'uomo che si domanda come mai Dio sia muto, più muto del pastore assassino responsabile di tutto questo dolore, la soluzione sarebbe semplice. Eppure proprio per la sua semplicità, appare inconcepibile al protagonista. Abiurare il Cristianesimo e adorare Odino, ecco la soluzione più ovvia, più immediata, in grado di ricomporre un mondo distrutto. Perché costruire una chiesa anziché placare l'antica divinità con un sacrificio di sangue? Cercare la Salvezza? Perché mai, visto che nessuno si può salvare? Non so come mai nessuno si sia accorto di questo punto cruciale. Per dirla in modo stringato, il problema è che troppe persone credono che Odino e Thor siano invenzioni della Marvel. 

Una censura vigliacca 

In un borgo particolarmente bigotto del Texas il film di Bergman è stato censurato perché nelle sequenze dello stupro sono visibili le gambe nude della ragazzina. Questa è la mens puritana americana. Il problema non è la violenza sessuale, che ha proprio nella Bibbia una rinomata tradizione apologetica. Il problema sono le gambe nude. Ecco, volevo giusto farlo notare. Tra le mer(d)aviglie dell'America c'è anche questo genere di cose.  


Una guerra di religione 
 
I tre pastori sono pagani che combattono attivamente contro la religione dominante. I loro crimini non sono semplici atti di predazione: sono atti di guerra. Il calpestamente dei ceri non sarebbe mai stato compiuto da un cristiano in un simile contesto. Il pastore bruno dalla lingua mozzata è quello più animato dall'odio, perché intende vendicarsi di un grave torto che gli è stato inflitto. Anche se nella pellicola di Bergman non si parla degli antefatti, si capisce all'istante qual è la causa della mutilazione. L'uomo è stato sorpreso a compiere un sacrificio pagano e un sovrano cristiano lo ha condannato, facendogli recidere la lingua. Cose del genere erano all'ordine del giorno. Oggi si fa tanto parlare di un Medioevo splendido che irradiava la luce della civilità. Coloro che lo fanno e che a ogni piè sospinto insistono sulle "radici cristiane dell'Europa", relegano nell'Oblio le innumerevoli atrocità di quel mondo di tormenti e di morte, in cui la Chesa di Roma governava col pugno di ferro del peggior tiranno. Sono orrori ben documentati. Ne esiste una vasta miniera in cui non smetto mai di scavare. 
 
 
Il Guardiano del Ponte 

"Come ti chiami?", chiede Ingeri. "Di questi tempi quale valore ha un nome?", risponde il Guardiano. L'allusione è chiara. In un'epoca in cui si è imposto il Cristianesimo e l'Antico Costume langue, i nomi degli uomini hanno cessato di avere importanza. Non mancano i riferimenti all'onniveggenza e all'onniscienza di Odino. "Questo è un luogo molto solitario. Non hai nessuno vicino?" chiede Ingeri. "No", risponde il Guardiano, "Io sento ciò che voglio. E vedo ciò che voglio. Sento tutto ciò che si sussurra in segreto, e vedo quello che altri non vedono." Poi promette di condividere con la ragazza questa facoltà sovrumana: "Puoi riuscire a farlo anche tu, solo che tu lo voglia. Ascolta!" All'improvviso si odono rumori di zoccoli di cavalli al galoppo. "Cos'è questo galoppo all'esterno?", chiede Ingeri. "Sono tre spettri che vanno a nord!", risponde il Guardiano. La giovane non supera la prova, non accetta il modo in cui la forza sta per esserle trasmessa. Non gradisce di farsi rovistare tra le gambe dall'essere che le appare come un vecchio uomo lascivo. Quando fugge sconvolta dalla dimora del dio, si sentono gracchiare due grossi corvi: sono proprio Huginn e Muninn! Si credeva che questi prodigiosi volatili, neri come la pece, volassero in tutto il mondo e portassero a Odino ogni genere di notizie e di informazioni. Essendo in grado di bilocarsi, il Guardiano del Ponte fa la sua comparsa tra gli arbusti, sghignazzando. Si vede che un suo occhio è diverso dall'altro: si tratta di una biglia di pasta di vetro lavorata con arte. Com'è notorio, il Padre degli Asi è monocolo, avendo sacrificato un occhio per avere la sapienza. Le sue capacità di mascheramento sono leggendarie! 
 
Nei rari commentatori che si sono resi conto dei contenuti pagani del film, sorge il dubbio che il Guardiano del Ponte possa essere il Diavolo. La cosa non è affatto problematica. Come l'ottima studiosa Gianna Chiesa Isnardi ci ricorda, nella società scandinava cristianizzata permaneva la ferma credenza nell'esistenza fisica degli antichi Dei, che però erano ritenuti demoni. Così ai tempi in cui la vicenda è ambientata Odino era considerato una manifestazione del Diavolo. Si è verificato un bizzarro sincretismo. In altre parole, se la conoscenza delle cose del Cielo aveva per i Cristiani nordici la sua fonte nelle Scritture, la demonologia era formata dall'intero edificio dell'antica religione pagana. La conoscenza delle cose dell'Inferno implicava dunque la pratica dei riti del Paganesimo e questo per secoli dopo che era avvenuta la cristianizzazione. Peccato che queste cose i manuali scolastici non le riportino, tanto sono considerate irrilevanti dallo sciagurato corpo docente. 
 

 
Ingeri e il veleno dei rospi 

La pratica magica di Ingeri è per necessità molto limitata. Si limita in buona sostanza all'utilizzo dei rospi, nascosti abilmente in mezzo al cibo per avvelenare le persone odiate. Il suo bersaglio è Karin, ma il batrace tossico finisce in bocca al pastore più giovane, inducendogli un'intensa nausea e crisi di vomito. La bruna Ingeri è consapevole della pochezza delle proprie arti, per questo viene subito irretita dal Custode del Ponte, che le promette una cura ai dolori della gravidanza. Il seggio di Odino è di fattura arcaica. I braccioli sono statue lignee finemente intagliate: una rappresenta Thor con tanto di martello, l'altra rappresenta Freyr. Seguono alcuni incantesimi. "Questo reca sollievo ai tuoi dolori", dice Odino alla ragazza, mostrandole il corpo di un serpente arrotolato e irrigidito. Ne ha subito pronto un altro identico, un doppione, seguito da una formula simile: "Questo reca sollievo alle tue pene". "Basta o sangue, non scorrere più!", recita quindi mostrando il dito mozzato di un uomo, rimedio contro le emorragie. La divinità estrae un pesce rinsecchito e dice: "Pesce non nuotare più". Subito dopo estrae un pipistrello rinsecchito e dice: "Pipistrello non volare più". Tutto ciò ha corrispondenze ben numerose nel patrimonio di formule e incantesimi in uso nell'antica Germania come medicina tradizionale. Com'è ovvio, i recensori ignari dell'antica religione non si sono accorti di nulla e nemmeno menzionano questi tesori antropologici nei loro interventi. 


Lo scacciapensieri 
 
Uno dei tre pastori, quello ben dotato di parlantina, a un certo punto suona uno scacciapensieri. Si tratta di uno dei più antichi strumenti musicali. Molti pensano che sia originario della Sicilia, dove è chiamato marranzanu. In realtà il suo uso è documentato su territori vastissimi, praticamente in ogni parte del globo. Oltre a marranzanu, in Sicilia è chiamato anche mariòlu o ngannalarruni (alla lettera "inganna-ladri"). La parola marranzanu significa propriamente "grillo canterino", ma esiste anche un suo omofono col significato di "uomo poco raccomandabile" (derivato di marranu, equivalente all'italiano marrano, di origine spagnola e in ultima analisi araba). Così grazie a questa omofonia è nato mariòlu, come per un gioco di parole (anche mariòlu significa "uomo poco raccomandabile"). In Sardegna lo strumento musicale arcaico è chiamato trunfa o trumba. In modo simile, gli Zingari della Campania lo conoscono come tromba, denominazione che ritorna nei Balcani come dombra. In Lombardia è detto viabò, in Corsica riberbula. In Francia si chiama guimbarde, in Spagna arpa de boca o biribao, in Portogallo birimbau. La sua diffusione raggiunge la Siberia e la remotissima terra degli Jakuti (che non sono gli inventori della Jacuzzi).  

Il canto del cuculo 

L'arrivo dei tre pastori è preceduto e accompagnato dal canto del cuculo, un uccello augurale connesso a Odino. Simile a un piccione con gli occhi grossi, fissi e strabici, col ventre decorato finemente da leggere striature, questo parassita dei nidi di altre specie emette un verso nitidissimo e potente, anche se molto ripetitivo: "Gukkù! Gukkù! Gukkù!" Può andare avanti anche per mezz'ora. Quel cuculo canoro è un portento funesto che annuncia la rovina di Karin e continua a cantare a lungo. 


Il pastore e l'uccisore: due fratelli  

In Germania esiste un detto arcaico, testimonianza di un'epoca molto diversa dalla nostra. Schäfer und Schinder sind Geschwisterkinder "Il pastore e l'uccisore sono due fratelli". Il termine Schinder, ormai arcaico, indicava un uomo incaricato di abbattere animali vecchi o malati e di riciclarne i resti. Era una sorta di intoccabile, come i Dalit dell'India. I suoi compiti includevano la soppressione dei cani randagi, la pulizia dei pozzi neri e delle fogne, la rimozione di cumuli di immondizia. Un altro significato di Schinder è "uomo che abusa,  tormenta o sfrutta altre persone". Il pastore e l'abbattitore erano i residui di una società neolitica male assimilata dalle genti indoeuropee e relegati come altri intoccabili ai margini del consorzio umano: non sorprende troppo che su di loro gravasse uno stigma, che fossero considerati moralmente ripugnanti. Lo stupro e l'assassinio erano loro attributi, come la sporcizia e l'impurità.  


Il canto del monaco 
 
La vergine Karin è appena partita a cavallo per portare i ceri alla Madonna. Il monaco è al settimo cielo ed esprime la sua gioia con un bellissimo canto che non è stato tradotto. La sua pronuncia è chiarissima, al punto che molte parole mi risultano comprensibili, come se la lingua fosse una forma di tardo norreno più che non svedese moderno. In particolare la rotica /r/ è fortemente trillata, come in italiano e in spagnolo. Quando visitai la Svezia, rimasi stupito dal suono della lingua. Quando capii che la parola stjarna "stella", era pronunciata /'ʃanǝ/, mi sentii quasi male e fui preso dal disgusto. E pensare che in norreno i suoni erano distinti, chiari e cristallini come acqua di fonte! Ecco, il canto del monaco bergmaniano testimonia che una pronuncia arcaica e nobile dello svedese è ancora ricordata da alcuni. 

 
Un inferno pagano 
 
Il monaco è un uomo molto istruito e intelligente. È un valente poeta, le cui parole non si dimenticano. Oltre a conoscere le Scritture, conosce bene anche le cose pagane. Così, avendo capito che i pastori e gli assassini sono consanguinei stretti, raggiunge il bambino steso sul letto e gli racconta del reame di Hel:

"Vedi come il fumo trema e si abbarbica sotto il tetto? È come se avesse parura dell'Ignoto. Eppure se si librasse nell'aria troverebbe uno spazio infinito dove volteggiare. Ma forse non lo sa. E così se ne sta qui, nascosto, tremolante e inquieto. Con gli uomini capita lo stesso. Essi vagano inquieti come tante foglie al vento. Per quel che sanno e per quello che non sanno. Tu... tu passerai su un ponticello stretto e malfermo. Così stretto che non saprai dove poggiare il piede per sorreggerti. Sotto di te muggisce un fiume, ed è tetro, e vuole inghiottirti. Ma raggiungerai l'altra riva. Ma ora avanti a te trovi un burrone, così scosceso che non puoi vederne il fondo. Delle mani vogliono afferrarti, ma non ti raggiungono. Infine, di fronte a te avrai un'orribile montagna. Il fuoco scaturisce dai fianchi. Crepacci orrendi partono dalle sue falde. Le fiamme sprizzano tutte insieme, rame e ferro, vetriolo azzurro e giallo zolfo. Il basalto geme e si frantuma sotto il maglio dei fulmini, e intorno atterriti piccoli uomini fuggono, come mille formiche. Perché quella fornace inghiotte gli assassini e i predoni!"

Solo a questo punto subentra qualcosa di cristiano, anche se non viene menzionato esplicitamente il Salvatore:

"Ma nel preciso esatto istante in cui ti senti perso, una mano ti afferra e un braccio ti circonda alla vita, e ti trasporta lontano, in salvo, là dove il Male non ha più potere alcuno." 

Ci si imbatte ben di rado in simili vette di poesia, di assoluto lirismo!

Un antico codice di vendetta 

Per Töre la vendetta è qualcosa di estremamente importante. L'uccisione di un proprio caro non può e non deve per nessun motivo restare impunita. In un contesto in cui la giustizia pubblica è lesta soltanto a punire le offese religiose, è dovere irrinunciabile del singolo assumersi l'onere di vendicarsi. A parer mio è errato, nonostante venga fatto spesso, opporre il codice della vendetta, di cui si ricorda l'origine pagana, alle dottrine cristiane del perdono e della misericordia. Basta infatti studiare le saghe nordiche per comprendere che l'essere pagano o cristiano non influenza affatto il modo di intendere la vendetta. Ci furono ferventi cristiani che non porgevano affatto l'altra guancia. Il Re Olaf II Haraldsson di Norvegia, che fu fatto santo (e tale dovrebbe essere ancora considerato dai cattolici), era violento e tirannico, tanto che il perdono gli era alieno. Impugnava la spada e affrontava i nemici in battaglia, faceva torturare e uccidere, condannava a morte senza la minima esitazione. Eppure lui e i suoi cortigiani erano chiamati Kristmenn, ossia "Uomini di Cristo".  


La leggenda delle figlie di Per Tyrsson 
 
Bergman ha apportato modifiche alla leggenda originale e l'ha molto rielaborata. Questo è il testo della ballata, intitolata Per Tyrssons döttrar i Vänge o Töres döttrar i Vänge (due versi sono incompleti, le parti mancanti ricostruite sono messe tra parentesi quadre [...]): 

Per Tyrssons döttrar i Vänge
kaller var deras skog
de sovo en sömn för länge
medan skogen han lövas

Först vaknade den yngsta
kaller [var deras skog]
så väckte hon upp de andra
medan [skogen han lövas]
Så satte de sig på sängastock.
Så flätade de varandras lock.
Så togo de på sina silkesklär.
Så gingo de sig åt kyrkanom.
Men när som de kommo till Vänge lid
så möta dem tre vallare
- Å antingen viljen I bli vallareviv
eller viljen I mista ert unga liv?
- Å inte vilja vi bli vallareviv.
Långt hellre vi mista vårt unga liv
De högg deras huven mot björkestock.
Där runno tre klara källor opp.
Kropparna grävde de ner i dy.
Kläderna buro de fram till by.
Men när som de kommo till Vänge gård,
ute för dem fru Karin står
- Å viljen I köpa silkessärkar
dem sexton jungfrur stickat å virkat
- Lös upp era knyten å låt mej se,
kanhända jag känner dem alla tre
Fru Karin sig för bröstet slår
och upp till Per Tyrsson i porten hon går
- Där håller tre vallare på vår gård.
De hava gjort av med döttrarna vår.
Per Tyrsson han tar sitt svärd i hand.
Så högg han ihjäl de äldsta två.
Den tredje låter han leva
för att få honom fråga:
- Vad heter eder fader?
Vad heter eder moder?
- Vår fader Per Tyrsson i Vänge
Vår moder fru Karin i Skränge
Per Tyrsson han går sig åt smedjan
Han slår sig järn om midjan
- Vad skola vi göra för syndamen?
- Vi ska bygga en kyrka av kalk å sten.

- Den kyrkan skall heta Kärna
den bygga vi upp så gärna  
 
Questa è la traduzione:  

Le figlie di Per Tyrsson a Vänge,
era così fredda la foresta,
dormirono un sonno troppo lungo 
mentre la foresta metteva le foglie
La più giovane si svegliò per prima,
Iera così fredda <la foresta>,
E così lei svegliò le altre
mentre la foresta metteva le foglie 
Poi si sedettero sul letto
Così si intrecciarono i capelli l'un l'altra
Così indossarono le loro vesti di seta
Così andarono alla chiesa
Ma quando giunsero al colle di Vänge
Incontrarono tre banditi.
"Volete essere mogli di banditi, 
o perdere le vostre giovani vite?"
"Non vogliamo essere mogli di banditi,
perderemo piuttosto le nostre giovani vite". 
Tagliarono le loro teste su un ceppo di betulla
Là subito sgorgarono tre fonti
I corpi sepolti nel fango 
I vestiti portati al villaggio
Quando giunsero alla fattoria di Vänge
La Signora Karin li incontrò nel cortile
"E vorreste voi comprare abiti di seta,
da nove ragazze intrecciati e cuciti a maglia?"
"Slegate i vostri sacchi e fatemi vedere,
forse li conosco tutti e tre"
La Signora Karin si batté il petto dal dolore
e andò a trovare Per Tyrsson.
"Ci sono tre banditi nel nostro cortile,
che hanno ucciso le nostre figlie."
Per Tyrsson impugnò la sua spada
Egli uccise i due più anziani
Il terzo lo lasciò in vita
Quindi gli chiese questo:
"Qual è il nome di tuo padre?
Qual è il nome di tua madre?"
"Nostro padre è Per Tyrsson a Vänge,
Nostra madre è la Signora Karin a Stränge."
Per Tyrson andò alla fucina
E si fece applicare il ferro intorno alla vita.
"Cosa dobbiamo fare per i nostri peccati?"
"Costruiremo una chiesa di calce e di pietra.
Quella chiesa sarà chiamata Kerna,
e la costruiremo ben volentieri." 

Il testo svedese, sopra riportato in ortografia normalizzata, è stato cantato da Greta Naterberg e raccolto da J.H. e D.S. Wallman nel 1812. Come si vede, nella ballata sono tre le vergini uccise; Karin è invece il nome della moglie del possidente, loro madre. Bergman ha semplificato le cose, così c'è una sola vergine, a cui viene attribuito il nome che nella leggenda originale era della moglie di Töre. La cosa più sconvolgente, di cui nella pellicola non si fa menzione, è che i tre briganti assassini sono essi stessi figli dei genitori delle vergini e quindi loro fratelli. Essi volevano prendere come mogli le loro stesse sorelle, ignorando la loro origine. Perché i tre figli sono diventati briganti? Non lo sappiamo. Sugli antefatti, oscurissimi, ha cercato di fare chiarezza il regista, mettendoci della sua fantasia. 
 
Etimologia di Töre 
 
L'antroponimo Töre, con la variante Tyre e col patronimico Tyrsson, risale al norreno Þýrví, Þórví, attestato però come nome femminile. Il nome del signore di Vänge dovrebbe significare "Consacrato a Thor", meno probabilmente "Combattente di Thor". Resta di difficile spiegazione l'Umlaut palatale.
 
Altre recensioni e reazioni nel Web 
 
Segnalo una recensione che mi sembra migliore di molte altre, pubblicata sul sito Quinlan.it (Rivista di critica cinematografica). L'autore è Massimilano Schiavoni.   

 
Certo, mi pare un po' stravagante la tesi del Divino che salterebbe fuori in un suo aspetto mostruoso proprio nel verrucoso rospo che insozza il pane, in contrasto al candore immacolato dell'ostia. In ogni caso, è comunque molto interessante.