Visualizzazione post con etichetta gerghi e slang. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta gerghi e slang. Mostra tutti i post

sabato 11 settembre 2021

ETIMOLOGIA DI GIAGGIANESE, GIARGIANESE

Cos'è un giaggianese? Molti se lo saranno chiesto. La parola, che ha la comune variante giargianese, in sostanza significa "persona che parla in modo incomprensibile". Ha una connotazione intrinsecamente spregiativa, giungendo a indicare anche chi parla in modo incomprensibile a bella posta, al fine di imbrogliare, di raggirare gli ingenui. L'idea portante è che colui che parla in modo oscuro, lo debba per forza fare per un cattivo fine. 
 
Formazione e diffusione del termine  

La parola in questione, attestata alla fine del XIX secolo, in ultima analisi deriva dal napoletano ggiaggianése, plurale ggiaggianise. Dopo un periodo di declino, negli anni '40 dello scorso secolo la parola ha ripreso vita e da Napoli si è irradiata anche a Settentrione. Nella città Partenopea, giaggianese ormai è più che altro in uso per indicare una lingua incomprensibile, non tanto colui che la parla. La locuzione tipica è "parlare il giaggianese". Per un napoletano, ogni lingua che non riesce a capire è automaticamente una forma di giaggianese. Sembra comunque che la locuzione fosse più diffusa in passato e che attualmente stia scomparendo. A Milano è in uso la forma abbreviata giaggiana o giargiana. Esempio: "L'è un giaggiana" o "L'è un giargiana". L'accezione più comune nella metropoli è quella di "persona non nativa di Milano e non assimilata agli usi locali", quindi anche di "zotico". La traduzione nel gergo dei Paninari sarebbe "tamarro". Pare che sia tuttora considerato un "giargiana" anche chi proviene dalla periferia della città, indipendentemente dalla sua origine etnica. La scomparsa del suffisso -ese e l'uscita maschile in -a sono comuni in milanese, basti pensare a cuménda "commendatore" e a Berlüsca "Berlusconi". Sembra che la parola in questione sia del tutto ignota in Veneto e in Sardegna. A Torino non è ignota, ma a quanto pare è desueta e il suo uso identifica immediatamente la persona come milanese.
 
Esperienze personali: 
giargianese = che parla un diverso dialetto
 
In Puglia, nelle province di Foggia, Bari, Barletta, Andria e Trani, il giargianese (giargianaise) è il forestiero, colui che parla un dialetto differente da quello locale. Quindi il giargianese può anche essere un pugliese egli stesso. Ricordo che due giovani pugliesi, uno di Trani e l'altro di Lecce, non riuscivano affatto a intendersi quando parlavano nelle loro rispettive lingue locali: erano costretti a ricorrere all'italiano come lingua franca. In quell'occasione il pugliese di Trani ebbe a dire, forse scherzosamente, che quelli di Lecce sarebbero "di un'altra razza".

Esperienze personali:
giaggianese = meridionale

Ricordo ancora la frase pronunciata in un'occasione dall'amico P., nativo della Brianza, ai tempi in cui frequentavamo l'università. Quando gli chiesi cosa significasse la parola "giaggianese", rispose così: "I giagianés hinn i teruni", ossia "I giaggianesi sono i terroni". Il termine "terroni", comunemente usato per indicare le genti del Meridione, ha una connotazione abbastanza spregiativa. Lo si sente usare soprattutto nei paesi della Lombardia profonda, che non hanno mai metabolizzato i flussi migratori. Questa traduzione di "giaggianesi" con "terroni" mi lasciò abbastanza interdetto. In vita mia non avevo mai sentito la parola con questo significato. Sapevo invece che alcuni meridionali la usavano per designare le genti del Nord. Come risolvere questa eclatante contraddizione? La cosa mi incuriosiva, ma pensai che dovesse trattarsi di un fraintendimento. Finii col non pensarci più per molti anni, finché il problema semantico ed etimologico non saltò fuori nuovamente. 
 
Esperienze personali:
giaggianese = extracomunitario
 
Nel frattempo la realtà sociale era cambiata profondamente e con "giagganesi" si intendevano  gli extracomunitari, soprattutto quelli provenienti dall'Africa. Rimasi stupito quando un siciliano biondiccio, di accese simpatie neofasciste, indicò come "giaggianesi" proprio le genti del Nordafrica - che per ovvi motivi non riscuotevano affatto le sue simpatie. Ovviamente la traduzione del lombardo P., che rendeva "giaggianesi" con "meridionali", era incompatibile con quella del siciliano neofascista, che era meridionale e rendeva invece "giaggianesi" con "marocchini".  

Tentativi etimologici
 
Non si riesce al momento ad andare oltre alle due principali ipotesi di etimologia finora enunciate. Sono le seguenti: 
 
1) I giaggianesi sarebbero stati in origine gli abitanti di Viggiano (prov. di Potenza, Basilicata). La pronuncia del toponimo è Viggiàno (parola piana).

viggianese => ggiaggianese 
plurale viggianise => ggiaggianise
 
Crollato il Regno delle Due Sicilie, a Napoli si riversarono innumerevoli esuli dalla Lucania, che esercitavano la professione di musicisti ambulanti, vivendo spesso di espedienti e finendo con acquisire una pessima fama di imbroglioni - come di regola accade ai vagabondi. Quando mi sono imbattuto in queste informazioni, all'inizio sono stato diffidente, pensando che potessero essere pacchetti memetici e miti infondati diffusi nel Web. In realtà, sono stato in grado di trovarne conferma. Proprio a Viggiano c'è un'importante tradizione di suonatori di arpa fin dal tempo del Regno di Napoli, attestata già nella prima metà del XVIII secolo (Antonini, 1745). L'arpa viggianese, diatonica e più piccola di quella classica, è sprovvista di pedali. È detta anche arpicedda. Nel corso dei secoli molti musicisti di Viggiano hanno portato la loro arte fin nelle più remote contrade del pianeta, ottenendo talvolta un notevole successo. 

2) I giaggianesi sarebbero stati stati in origine gli abitanti di Vigevano (prov. di Pavia, Lombardia). La pronuncia del toponimo è Vigévano (parola sdrucciola).
 
*viggevanese => ggiaggianese  
plurale *viggevanise => ggiaggianise 

Il romanista Gerhard Rohlfs (Berlino, 1892 - Tubinga, 1986) spiegò questo strano vocabolo in questo modo ingegnoso, per quanto un po' macchinoso e contorto. Così ha scritto: "piccoli commercianti che vengono dall'Alt'Italia per comprare l'uva o il mosto: deformazione di viggevanesi 'di Vigevano'." 
 
A parer mio è più probabile che Vigevano sia divenuto *Viggéggiano per assimilazione, quindi la trafila sarebbe questa:  
 
*viggevanese => *viggeggianese => ggiaggianese 
plurale *viggevanise => *viggeggianise => ggiaggianise 
 
L'amico D. mi spiegava che nel suo paese, situato nel Varesotto, esisteva la costumanza di miscelare il vino locale, rosso e a basso tenore alcolico, a certi rosati pugliesi, economici e molto più forti. Il risultato a quanto pare era eccellente, tanto da essere stato trovato in vendita anche in taverne nella lontana Genova. 

Una profonda incertezza
 
Sono stati fatti tentativi di sintesi per mettere assieme queste due etimologie contrastanti, che pure sembrano avere qualche verosimiglianza: i Vigevanesi compratori di uve e di mosti sarebbero stati assimilati ai precedenti Viggianesi musicisti itineranti per via della loro supposta e comune tendenza a imbrogliare. Ovviamente il condizionale è d'obbligo: secondo altre fonti, i compratori settentrionali di uve e di mosti erano invece persone da infinocchiare (Tarantino, 1985).  
 
L'enigma della rotica  

Lo stesso Rohlfs ebbe occasione di inventare un racconto che a parer mio è ridicolo. È il mito del soldato George. Il vocabolo "giaggianese" sarebbe tornato in auge a Napoli dipo lo sbarco alleato, proprio per via della presenza di militari statunitensi, che parlavano in modo incomprensibile. Dato che molti di loro si chiamavano George, spiega il Rohlfs, ecco che "giaggianese" sarebbe diventato "giargianese", quasi "giorgianese". Sembra che una variante "giorgënése" sia davvero attestata a Monopoli (Cortelazzo, Marcato, 1998), ma questo non prova granché: in molti dialetti meridionali le sillabe pretoniche sono per loro natura abbastanza deboli e suscettibili ad oscillazioni. A mio avviso, è più probabile che da "giaggianese" si sia arrivati a "giargianese" per via di un banale ipercorrettismo.  
 
Alcune considerazioni 
 
Il fallimento della romanistica appare evidente. 
 
1) Si avverte la necessità di un vocabolario storico del napoletano, che a quanto pare è tuttora inesistente. 
2) Si avverte la necessità di mappe di diffusione dei termini colloquiali, che a quanto pare mancano o sono in ogni caso di difficile reperibilità. 
3) Non è possibile che si debba scavare nei forum del Web per raccogliere informazioni frammentarie, spesso difficili a validarsi.  
4) Troppo spesso non si riesce ad andare oltre alla fatidica etichetta "etimologia incerta", per quanti sforzi si possano fare. È la condizione terribile del PANTANO ETIMOLOGICO
5) Il senso di impotenza e inconoscibilità si accresce in modo enorme quando ad essere di "etimologia incerta" sono vocaboli di origine recente.

giovedì 9 settembre 2021

IL MARCHESE, NOME VOLGARE DEL MESTRUO: MITI E FALSE ETIMOLOGIE

Quando ero al liceo, mi capitò più volte di sentire una strana designazione del mestruo: il nome per indicarlo era marchese. Mi sono chiesto spesso quale ne fosse la vera etimologia. Non trovando alcuna risposta, salvo la possibile connessione col verbo marcare, la cosa è caduta nel dimenticatoio. Solo in epoca più recente mi sono di nuovo interessato alla questione e ho fatto qualche ricerca nel Web. Ovviamente ho constatato che impazzano le etimologie popolari e i miti infondati. Sull'oscenissimo social Quora mi sono imbattuto in alcuni vani tentativi di spiegazione di questa parola colloquiale. Ecco la fatidica domanda degli utenti, posta un paio di volte: "Perché al sud il ciclo mestruale veniva chiamato il marchese?", "Cosa significa “mi è venuto il marchese”? Cosa c’entra il marchese con le mestruazioni?"

 
 
Premesso che il marchese è detto così al Sud come al Nord, riporto in questa sede le più significative risposte alla domanda quorana. 
 
Questo è il commento di Domenico Bagnato (ho conservato refusi e spazi): 
 
L’ origine di questa espressione è molto semplice: i marchesi erano soliti indossare delle vestiti lunghi di colore rosso vivo per distinguersi dal popolo e sottolineare il loro rango nobiliare. C’è un rimando, dunque, al colore rosso. Oggi questo modo di dire è abbastanza inusuale, anche se ce ne sono tantissimi per denominare le mestruazioni: “ho le mie cose”, “sono in quei giorni”, “avere le regole”, “è arrivata la zia” e tante altre che cambiano anche da regione e regione.
 
Niki Hofer Chiavegato ha commentato così: 

Semplicemente perché era un modo di comunicare tra donne, madri nonne e figlie, per non farsi comprendere dai loro coetanei giovani.
 
"È arrivato il marchese? Si o no?"
 
I nobili dei secoli scorsi indossavano sottovesti di porpora, per distinguersi dai plebei in mutandoni e pezze. 
 
Dunque il colore rosso di tali ricche vesti veniva usato come parafrasi semplice ed elegante per indicare la prima mestruazione che "doveva arrivare"

Più stringato, Gabriele Calvillo ha scritto: 

Perche il sanguinamento e' anche detto marcatura. E popolarmente e' uscito il Marchese…

Alessandro Caccaviello insiste sul fantomatico rosso delle vesti dei marchesi: 
 
Effettivamente è un qualcosa di molto simpatico. Ti spiego, è un semplice richiamo al colore Rosso vivo degli abiti lunghi che i marchesi indossavano per distinguersi dalla popolazione comune (l'abito non fa il monaco ma in questo caso lo differenzia ).

Katia Balzano ripete la stessa versione: 

I marchesi indossavano delle palandrane (veste lunga e ampia da camera) di colore rosso vivo per distinguersi dal popolo e far capire chiaramente la loro nobilita rispetto alla plebe. Il nome deriva da questo

Paolo Memo elabora la leggenda, trovando parallelismi basati sul colore del sangue: 

Non solo a sud, anche al nord. È per via delle palandrane color rosso vivo che un tempo i marchesi indossavano. Altrove si parla de "gli inglesi" o "le giubbe rosse". Più catastrofiche le espressioni "Mar Rosso" o "profondo rosso". Tra le varie espressioni "le regole", "le mie cose", "quei giorni", "gli ospiti"… In questa pagina altre creative, divertenti od anche poetiche definizioni

Livio Felix sembra un po' più originale:

Perché quando il Marchese latifondista del Sud Borbonico, visitava le sue campagne per le quali metteva dei braccianti, visitava anche la moglie del contadino, che, ovviamente in quei giorni, non era disponibile per il marito.

Decisamente più dettagliato è quanto scritto da Carlo Coppola, che pure non si distacca nella sostanza dalla favola della palandrana rossa: 
 
Una domanda divertente.
 
L'uso di citare "il marchese" per dire che sono arrivate le mestruazioni deriva dal fatto che i marchesi un tempo, come molti altri nobili, usavano mantelle di colore rosso porpora per distinguersi dal popolo.
 
In altri Paesi del mondo si usano altre e divertenti frasi.
 
In Russia si usa dire
"красная армия атакует" per esempio e cioè "sta attaccando l'armata rossa". :-) .
 
In Inghilterra si usa "arrivano le Giubbe Rosse" in riferimento alla tenuta rossa dell'esercito britannico imperiale.
 
In America "arriva la zia Rosy".
 
Anche se molto interessanti, le espressioni idiomatiche usate in Russia, Inghilterra e Stati Uniti non sono davvero una prova della veridicità dell'inveterata storiella del marchese dalla veste purpurea.

Capisaldi di una pseudoscienza

In sostanza, questo è il processo con cui si producono e si affermano le etimologie popolari: 

1) Si trova una curiosa parola sfugge all'analisi; 
2) Non si cerca alcun lavoro sull'argomento; 
3) Si costruisce ad hoc un racconto infondato atto a dare una spiegazione, prendendo spunto da un'assonanza;
4) Si conclude di aver trovato la vera etimologia; 
5) Si sostiene questa versione con furore fanatico; 
6) Si cerca con ogni mezzo, ingiuria inclusa, di mettere a tecere chiunque osi sostenere il contrario.

Il punto 2) è fondamentale, è la chiave di volta di tutte le fabbricazioni di questo genere: se ci fosse una ricerca, unita alle basi per comprendere i risultati, l'etimologia popolare non si formerebbe nemmeno. Quello che mi stupisce è proprio l'autoreferenzialità degli etimologi popolari. Non attingono allo scibile nella sua interezza. Attingono in modo esclusivo soltanto alle proprie conoscenze, limitate e distorte, come se fossero l'Universo. Spesso si tratta di un mucchietto di stronzate apprese a scuola da una maestrina con un cervello microscopico, mera ripetitrice pappagallesca di stronzate udite da altri.

La vera etimologia

Nel furbesco italiano, robusto e creativo gergo dei furfanti attestato già nel XVI secolo, la parola marchese significava semplicemente "mese" e non aveva speciali associazioni al mestruo. Nasceva dalla semplice alterazione della parola mese intercalando una sillaba. Questo era il calendario furbesco:

Marchese del lenzore "Gennaio"
Marchese del scaglioso "Febbraio"
Marchese del cervante "Marzo"
Marchese del cornuto "Aprile"
Marchese dei carnosi "Maggio"
Marchese del roverso "Giugno"
Marchese del possente "Luglio"
Marchese del cerchioso "Agosto"
Marchese della giusta "Settembre"
Marchese del tossegoso "Ottobre"
Marchese del frizzante "Novembre"
Marchese del ben nassuto "Dicembre"
Coda di drago "Dicembre"

L'Ouroboros rappresenta l'anno, definito anche serpente e bero (ossia "vipera").

Il furbesco, nato col preciso intento di rendere incomprensibili ai profani le conversazioni dei malavitosi, iniziò la sua decadenza agli inizi del XX secolo e finì con l'estinguersi. Tuttavia ha lasciato traccie indelebili nella lingua italiana colloquiale, come l'esempio del marchese dimostra in modo eloquente. Se il furbesco fosse conosciuto al di fuori di una ristrettissima cerchia di studiosi, non sarebbe stato necessario inventare il racconto grottesco dei nobiluomini vestiti di rosso che sarebbero andati in giro a ispezionare le donne, annusando ciò che trovavano tra le loro gambe. In conclusione, le etimologie popolari non appartengono davvero al dominio della linguistica, essendo puri e semplici pacchetti memetici in grado di autopropagarsi come i virus. 

giovedì 20 maggio 2021

UN SINGOLARE ESPERIMENTO ANTROPOLOGICO: IL PANINARISMO

Inizi anni '80 del XX secolo. Si stavano spegnendo gli ultimi echi del '68. La gente non voleva più saperne dell'impegno politico e sociale, il cui frutto erano stati gli anni di piombo. Ne aveva abbastanza dei comunisti, del terrorismo e della Rivoluzione. Cominciavano a vedersi i soldi, dopo un lungo periodo di stenti. Finalmente si aveva la pancia piena, la borghesia si poteva permettere spese consistenti. Così a Milano si formarono i paninari (Gallo, 1993). Erano una vera e propria tribù urbana, con proprie regole e un proprio slang (Azzali, 1993). 
Com'è specificato in modo pedantesco nella Wikipedia in italiano, per identificare il fenomeno di costume giovanile è utilizzato il termine paninaro, come se fosse un nome astratto e collettivo. Questa è la spiegazione data: "Per sineddoche, non esistendo un nome come paninarismo o paninaresimo per tutto il movimento, a cui ci si riferisce semplicemente come i paninari". Ebbene, il termine Paninarismo esiste eccome, perché l'ho fatto esistere io. "La lingua è del popolo, ed è il popolo stesso che crea le parole, le distrugge e le trasforma, con buona pace di Lavoisier" (De Benedetti, 2015). 
L'etimologia del termine paninaro viene fatta risalire al primo luogo documentato in cui si radunavano i gruppi da cui l'embrione del movimento si sarebbe formato e sviluppato: il bar Al Panino in Piazza del Liberty, nota più semplicenente come Piazza Liberty, nel pieno centro di Milano. Ci sono tuttavia opinioni discordanti e alcuni negano espressamente questa tesi, affermando che il locale in questione era piuttosto un raduno di giovani di estrema destra detti sanbabilini (Verdoia, 2013). In seguito il tempio del Paninarismo divenne il famosissimo Burghy in Piazza San Babila, un locale che può essere considerato il precursore di McDonalds.      

 
Un'interpretazione dietrologica 

Secondo la vulgata corrente, i paninari sarebbero stati l'espressione del cosiddetto "riflusso nel privato". Con questo termine del linguaggio giornalistico si intede un atteggiamento di disimpegno politico e sociale, il ripiegamento nella sfera del privato in un clima caratterizzato da estrema disillusione. Quindi un fenomeno di costume fondato sulla moda e sull'apparire sarebbe stato la conseguenza di qualcosa che era già in atto a un livello più profondo. Alcuni sostengono addiruttura che i paninari si sarebbero formati dal "vuoto pneumatico" degli anni '80 (Leggeri, 2015). Propongo un diverso modo di analizzare il fenomeno. A parer mio, il Paninarismo sarebbe invece stato la principale causa dell'affermarsi del "riflusso nel privato" e del "vuoto pneumatico", una costruzione artificiale architettata a tavolino per uno scopo ben preciso. Vediamo di esporre in dettaglio gli eventi. Era necessario disinnescare la tensione sociale, che aveva raggiunto livelli insopportabili, prossimi al punto di rottura. Bisognava seppellire per sempre gli anni di piombo e la loro eredità maledetta. Far obliare i problemi con la crescita esponenziale dei consumi. Silvio Berlusconi aveva tutti i mezzi per riuscire nell'ambiziosa impresa. Direi che ci è riuscito alla perfezione. In altre parole, il Paninarismo è stato un esperimento antropologico su larga scala, che ha impattato in modo pervasivo sui comportamenti e sui modi di pensare della popolazione italiana. Una delle sue caratteristiche fondanti era un acceso filoamericanismo di origine feticistica, puramente materialista e non ideologica. Un fatto del tutto nuovo. Non a caso si è parlato di edonismo reaganiano (D'Agostino, 1985), definito come "non solo un goliardico scherzo catodico, ma il piedino di porco per penetrare nella Weltanschauung degli Anni '80" (D'Agostino, 2011). Va detto questo: si tratta di una subcultura autoctona. Mentre i rockabilly, i metallari e i dark sono giunti dal mondo anglosassone, i paninari sono a tutti gli effetti un prodotto italiano. 
 

Drive In e il contesto mediatico
 
Qualcuno si ricorda ancora di Drive In? I Millennials non ne sanno nulla. Per farla breve, era una trasmissione andata in onda sulle reti di Berlusconi dal 1983 al 1988. Chi l'ha vista non l'ha dimenticata. Lory Del Santo incedeva sensuale, con le sue splendide tettine, con le sue gambe statuarie. Sorriso smagliante e voce vellutata. All'epoca non era ancora dedita alle assurdità New Age. Era sensualità assoluta. Nella sigla d'apertura lei passava e a Enrico Beruschi cadevano gli occhi sul pavimento (effetto speciale rudimentale). Suonava la musichetta in sottofondo e una vocina femminile faceva "saxofonofonì". Tutta la popolazione maschile italiana se ne restava davanti al video con lo sperma che premeva nei testicoli. Potremmo definire Drive In una manifestazione dei frivoli anni '80. Oppure era proprio Drive In a generare l'essenza dei frivoli anni '80? Molti troveranno stravagante la mia domanda. Consideriamo però alcune cose. La trasmissione, che andò in onda con cadenza settimanale a partire dal 1983, aveva una diffusione capillare, giungendo ovunque. Questo è un fatto che non va sottovalutato. Si avvertiva un imperativo: dimenticare la violenza. Lasciarsi alle spalle l'orrore. La Milano della mala con la sua escalation che l'aveva trasformata in feroce gangsterismo. Una scia di sangue, rapine quotidiane. Morti ammazzati. Attentati senza sosta, sequestri. Stragismo, eversione. Guardando la televisione si poteva dire basta. Basta con la strategia della tensione! Basta con Lotta Continua! Basta con le Brigate Rosse! Basta con Vallanzasca! Basta con i tumulti! Basta con i tribunali studenteschi! Basta con i coglioni che urlavano "fascista!" a chiunque non condividesse le loro stronzate! Simili atrocità erano come l'alito di un dragone infernale, sulfureo, un tanfo pestilenziale che nessuno voleva più annusare. I primi segnali di disimpegno cominciarono su finire degli anni '70, quando fu notato che moltissimi avevano abiurato Marx per abbracciare il consumismo (Montanelli, 1979). A questa urgente domanda di senso, Berlusconi diede una risposta forte che fu percepita come salvifica. Ecco quindi un po' di profumo erotico che non costava nulla. Un profumo inebriante, che non si poteva fare a meno di continuare ad annusare. Questa strategia ebbe un immenso successo. Non bisogna tuttavia dimenticare che non è tutto oro ciò che luccica. Erano i prodromi di ciò che si sarebbe sviluppato appieno anni dopo, irradiandosi dalla Reggia di Hardcore. Tempo fa ebbi a dare una definizione meno anodina del fenomeno: "prove tecniche di puttanizzazione". I frutti maturi del seme piantato in quell'epoca li si è visti nel XXI secolo col diffondersi di una nuova definizione della prostituzione: "Un'intelligente forma di imprenditoria che dà alla donna l'accesso alla ricchezza tramite la libera gestione del proprio corpo".  

 
Enzo Braschi, il Profeta del Paninarismo 
 
Proprio Drive In fu il palco migliore per la diffusione del Paninarismo, che ebbe in Enzo Braschi il suo predicatore convulsionario. Si presentava sul palco mentre suonavano le note di Wild Boys (pron. uabbòis o uabbò), una canzone dei Duran Duran, gruppo il cui cantante Simon Le Bon era idolatrato dai paninari. Imperversava, faceva faville. In seguito il comico ha affermato cose stravaganti su questo suo passato, dando l'impressione di un tentativo di rinnegarlo. Ha rifiutato l'etichetta di ideologo del movimento paninaro, facendo capire che in realtà vi si sarebbe infiltrato obtorto collo. Questo a dispetto del fatto di per sé evidente che è stato per anni il massimo promotore di quella subcultura. Si è diffusa poi una leggenda, una diceria, secondo cui alcuni paninari lo avrebbero pestato perché aveva perculato l'identità del loro gruppo. Queste sono le sue parole riportate in un'intervista: "Se è vero che un gruppo di paninari milanesi mi riempirono di botte? No. Però quelli che ci credevano veramente in quel movimento si sentirono offesi. Una volta un paio di paninari di zona San Babila, a Milano, mi inseguirono. Non ho mai capito se volessero un autografo o darmi una 'compilation di schiaffazzi'. Un'altra volta in una discoteca mi si avventarono una trentina di loro: quelli sì, volevano spaccarmi le ossa. Io mi feci grosso e li respinsi. Forse, mi salvai la vita" (Braschi, 2017). Trovo difficile credergli. Sono tutte affermazioni analizzabili tramite un famoso brocardo: "excusatio non petita, accusatio manifesta". Sarebbe sensato dirlo usando una parola genovese: "sono musse". A mio avviso Braschi non intese mai perculare un'identità che traeva vita, vigore e grandissima diffusione proprio dai suoi numeri comici. Chi può pensare che senza di lui ci sarebbero stati così tanti paninari? In realtà era il protagonista indiscusso di uno dei più importanti esperimenti antropologici di tutto il XX secolo. Credo che ne fosse consapevole, anche se non posso fornirne una dimostrazione diretta. Senza dubbio è stato notevole l'effetto dell'opera braschiana sulla codifica e sull'omologazione del gergo paninaro sull'intero territorio italiano e oltre. Qualcuno accusa Braschi di aver preso una subcultura elitaria ed esclusiva, tipica unicamente del Milanese, facendone qualcosa di nazional popolare (Sam Arko, 2007). Perché dovrebbe essere un'accusa? Diabole Domine, era proprio quello lo scopo dell'esperimento! 
 
Un sintetico glossario 
 
Il paninarese era pieno zeppo di anglismi, autentici o maccheronici; l'influenza della lingua inglese si esercitava anche sulla morfologia (esistevano plurali in -s, nomi formati col suffisso -ation pronunciato -éscion, etc.). Vi si trovavano anche tracce di ispanismi maccheronici. Riporto un certo numero di vocaboli e di locuzioni:     

appiovrare "abbordare una ragazza" 
arrapation "eccitazione sessuale" 
arterio "un vecchio" (pl. arterios)
burghino "paninaro" 
cagacazzo "chi importuna le ragazze" 
cagare il cazzo "importunare"
cannare "sbagliare" 
centenari "i genitori"  
centra "cazzotto"
cesso "brutto" 
che calfort "che cavolo" 
ciàina "comunista" (dall'inglese China)
cinese "comunista" 
cinghiale "individuo rozzo; non paninaro" 
cinghio = cinghiale (pl. cinghios)
classica catrambogia "cosa incomprensibile" 
    esempio: 
    non ci capisco una classica catrambogia "non ci capisco 
    un cazzo"
company "la compagnia" 
compilation "un insieme, una serie"
cucador "scopatore, macho" (pl. cucadores)
cuccare "fare sesso con una ragazza" 
Curma "Courmayeur"  
everyday "sempre"
falchettare "puntare una ragazza" 
fiocinare "prendere qualcosa" 
floppy "fiasco, fallimento"
fuori di melone "impazzito"  
gallata "idea geniale"
gallo "paninaro di successo" 
galloso "figo" 
gino "ragazzo inesperto, sfigato" 
Gran Gallo "capo paninaro"
grano "denaro" 
grippare "afferrare qualcosa; afferrare qualcuno" 
ingrippare "coinvolgere" 
kissettini "bacini" 
kissettoni "bacioni" 
lager "scuola"
libidine "godimento, piacere" 
    esempi: 
    libidine mongola "grande godimento";
    è una libidine, mi si rizza "è un piacere immenso" 
manzire "fare sesso con una ragazza" 
mazzulare "massacrare di botte" 
mazzulatore "picchiatore" 
megagalattico "gigantesco, immenso" 
meucci "telefono" 
mezza gamba "50.000 lire" 
must "dovere" 
    esempio: 
    è un must "è un dovere" 
naa "no" 
non me ne sdruma un drigo "non me ne frega un cazzo" 
okappa "in regola" 
pacco "inganno, bidone" 
paccoso "uno che fa i bidoni" 
pan-look "look paninaro"
panozzo "panino; paninaro" 
preppy "ragazza"
ramboso "tosto" 
ruotare "andare in giro in moto"  
sapiens "i genitori"
schizzare al brucio "muoversi velocemente"
sfitinzia "ragazza" 
slacciare "rompere" 
    esempio: 
    ti slaccio la faccia, tamarro!  
slandra "vulva, figa; ragazza"
smerigliare il gargarozzo "mangiare"  
squallor "male"  
    esempio:
    l'andazzo oggi è uno squallor "oggi va male" 
squinzia = sfitinzia  
storia tesa "lite"
suggellare lo zillo con la slandra "fare sesso con una ragazza"
tacchinare "puntare una ragazza, fare la corte" 
tamarrata "cosa da tamarro"
tamarro "individuo rozzo; non paninaro" 
tarocco "falso, imitazione" 
tarro = tamarro 
Timbe "le Timberland" 
troppo giusto "buono, in" (indica approvazione)
troppo scarso "non buono" (indica disapprovazione)
truzzo "individuo rozzo" 
truzzolone "pseudo-paninaro" 
una cifra "tanto" 
una gamba "100.000 lire" 
very arrapation "sexy" 
very original "originale"  
volpinata "cosa molto furba" 
volpino "furbo"

Come si può notare, alcune di queste parole sono tuttora di uso corrente e nessuno ne sospetta l'origine (es. pacco, tarocco, cagacazzo, cesso). Il verbo cuccare si è indebolito e viene spesso glossato come "rimorchiare, conquistare; pomiciare"; c'è persino qualche ingenuo che lo traduce con "fare colpo". All'epoca era decisamente più hard (per dire di aver cuccato, un gallo doveva ottenere almeno un rapporto orale). Altre parole e locuzioni sono cadute in un oblio profondo e nessuno si sognerebbe più di usarle (es. classica catrambogia). 
Molti si chiedono se si parlasse davvero così. Ebbene sì, c'erano molti chi lo faceva. Per quanto possa sembrare incredibile, ci sono persone che affermano di non ricordare termini essenziali come sfitinzia, attribuendoli a distorsioni e caricature cabarettistiche dello stesso Braschi (Sam Arko, 2007). In netto contrasto, c'è invece chi afferma di usare ancora questi termini nella conversazione familiare. Se devo essere franco, credo che Verdoia, che parla tuttora in questo modo, sia più attendibile degli scettici.     

 
La Milano da bere (e da annusare) 
 
L'espressione "Milano da bere" è l'ennesima trovata del linguaggio dei giornalisti. È usata per descrivere certi ambienti opulenti della metropoli lombarda degli anni '80, in cui fortissimo e pervasivo era il potere del Partito Socialista Italiano di Craxi - quello stesso milieu in cui si formò Berlusconi. Queste erano le caratteristiche salienti del contesto:  
1) percezione di benessere diffuso; 
2) rampantismo arrivista e opulento ostentato dai ceti sociali emergenti; 
3) immagine "alla moda".
(Fonte: Wikipedia). 
La locuzione Milano da bere ha avuto origine da uno pubblicitaria dell'Amaro Ramazzotti (Mignani, 1994; Santolini, 2008). Non si tiene però conto di una cosa importante. Alla Milano da bere era associata in modo indissolubile una Milano da annusare. Era il regno dei proboscidati che aspiravano un pregiato alcaloide peruviano. Nei loro cervelli nevicava sempre. Combinandosi questo alcaloide con l'alcol, nei loro fegati erano sintetizzati ingenti quantitativi di cocaetilene. Qual era il rapporto dei paninari con la droga e con l'alcol? Senza dubbio era odiatissima l'eroina, che era la droga dei tamarri. Si dice che si beveva a malapena e che la bamba fosse così costosa da essere fuori dalla portata (Verdoia, 2013). Pure so per certo che molti se la potevano permettere e che era assai diffusa, oltre al fatto che alcuni galli erano bevitori. "Nasce ed impazza la tv privata di Berlusconi, piena di programmi che mostrano una società laccata, imbrillantata. In questo clima di festini alla moda, pieni di Vip televisivi, non può che prendere piede una droga come la cocaina che, diversamente dalle droghe più utilizzate negli anni '70, che servivano ad aprire le porte della percezione, serve per aumentare le prestazioni, non ingrassare, essere falsamente sempre in prima linea" (Meroni et al., 2012). Se la Milano da bere è ormai un ricordo, la Milano da annusare esiste tuttora. 
 
Paninari e yuppies 
 
Gli yuppies erano i giovani rampanti, nella cui vita esisteva soltanto il lavoro ai fini dell'arricchimento personale. Erano ben distinti dai paninari, nonostante qualcuno li considerasse i loro fratelli maggiori. Gli yuppies producevano ricchezza, i paninari la consumavano come rampolli viziati della borghesia medio-alta. La differenza tra le due subculture non avrebbe potuto essere più grande, pur coesistendo nello stesso habitat metropolitano. Condividevano pochi valori, nonostante esista nell'immaginario collettivo l'idea di una comunanza di Weltanschauung tra yuppies e paninari, fomentata da alcuni film ambientati nella Milano da bere. Possiamo citare Yuppies - I giovani di successo (Carlo Vanzina, 1986) e Yuppies 2 (Enrico Oldoini, 1986), in cui i protagonisti si esprimono in paninarese (es. troppo giusto "buono", troppo scarso "non buono", è una gallata "è un'idea geniale"). Puramente paninaro, senza traccia alcuna di yuppismo, è invece Italian Fast Food, diretto da Lodovico Gasparini nel 1986. In questo film Enzo Braschi interpreta il capo paninaro conosciuto come Gran Gallo, che lotta perennemente contro una gang di punk. Non è affatto sicuro che un paninaro potesse metamorfosare in uno yuppie una volta diventato più maturo. 

 
Strane contraddizioni
 
Più volte è stato notato che i paninari ostentavano ricchezza, eppure in diversi casi si ispiravano a modelli di vestiario proletari, tipici di operai, boscaioli e contadini. La differenza sostanziale è che si trattava di indumenti costosissimi, essendo firmati. Un outfit tipico era costituito da giubbotto Moncler imbottiti di autentico piumino d'oca, pantaloni Levi's 501, scarpe Timberland, cintura El Charro, camicia Armani. Innumerevoli erano gli oggetti-feticcio. La stessa dieta dei paninari non era affatto sofisticata: era composta principalmente da panini con hamburger. Non esisteva a quei tempi la tirannia degli chef, con le loro porzioni da Lillipuziani meno nutrienti di una particola e i loro ingredienti selezionatissimi fatti pagare a peso d'oro. I paninari andavano nei fast food come Burghy in Piazza San Babila e "si smerigliavano il gargarozzo con una compilation di panozzi", come dicevano nel loro interessante e peculiare gergo. A quei tempi ero tanto ingenuo da pensare che i paninari si chiamassero così perché sembravano giganteschi panini deambulanti. Tutto nasceva da un equivoco. A Seregno i Moncler erano omologati e quasi tutti di un color arancione che li faceva assomigliare alla parte esterna del tipico pane molle usato dagli anglosassoni per preparere gli hamburger. In realtà c'erano Moncler di vari colori, anche viola o verdi, fluorescenti - e non c'erano soltanto i Moncler. Un'altra strana contraddizione la vedo nell'uso della lampada. Non era raro imbattersi in paninari che coltivavano il malsano costume di abbronzarsi sottoponendosi a irradiazione con i raggi UVA fino ad esibire una pelle più scura di quella di molti africani. Eppure ricordo bene che a Seregno molti di questi abbronzati ostentavano un razzismo a dir poco virulento. Mi fu persino riferito di un gallo che abusò della lampada a tal punto da sviluppare una neoplasia cutanea. 
 
La massima espansione del Paninarismo   

Ricorderò sempre che nei lontani anni del liceo, mentre ci si stava preparando a una gita scolastica a Monaco di Baviera, c'era chi temeva di trovare i paninari imperversanti nella città tedesca. "No! I panini a Monaco!", esclamavano alcuni miei compagni di classe. Poi quando andammo a Monaco, non vedemmo nemmeno un singolo Moncler (Monti, 1985). Si dice spesso che la massima espansione del Paninarismo si realizzò di lì a poco, nel 1986. L'evento determinante fu proprio la pubblicazione di un singolo dei Pet Shop Boys intitolato Paninaro, avvenuta in quello stesso anno (Falchi, 2003). Il gergo paninaro entrò nell'uso corrente e si diffuse anche tra persone estranee al movimento. Ricordo un bottegaio dei Navigli che ebbe a dirmi: "Gesù era un gallo". Sempre nel 1986 nacquero fumetti come Paninaro, edito da Edifumetto di Renzo Barbieri (un numero arrivò a vendere ben 140.000 copie), e Cucador, edito da Garden Editoriale. Esistevano anche versioni per ragazze, come New Preppy, edito da Edifumetto. In questi fumetti il paninaro era presentato come un eroe metropolitano, senza nascondere le sue inclinazioni abbastanza violente. Non dimentichiamo che i galli erano spesso coinvolti in risse. Ricordo giornalini che esaltavano le storie tese con i tamarri e altri gruppi deprecati; anche gli studenti adepti di Comunione e Liberazione venivano aggrediti. Quando studiavo a Fisica, questi fanatici religiosi erano una piaga. Peccato che non giungessero un po' di paninari agguerriti a slacciare la faccia ai ciellini!
 
Le ragioni dell'estinzione dei paninari 
 
Ho discusso a lungo con i miei coetanei della subitanea scomparsa dei paninari. Conserverò sempre memoria di queste conversazioni. L'argomento mi ha sempre affascinato. Le tesi a questo riguardo sono poche e circostanziate. I paninari si sarebbero estinti per via di un'improvvisa riduzione dei prezzi del loro costosissimo outfit, dovuta a qualche speculazione dei produttori, oppure per via di un incremento della ricchezza della Nazione - cose che avrebbero reso gli acquisti accessibili a una platea più ampia (Gallo, 1993). La questione non sarebbe però stata soltanto economica: avrebbe contribuito in modo determinante l'enorme diffusione di prodotti farlocchi. Tra questi citiamo con i loro nomi gergali i giubbotti Fintcler (imitazioni del Moncler) e le scarpe Finterland (imitazioni delle Timberland). Quando queste contraffazioni resero difficile alla massa distinguere tra paninari autentici e pseudo-paninari, sarebbero scattati dirompenti meccanismi di estinzione tempestiva (Dionisi, 1988). Verso gli inizi degli anni '90 del XX secolo, i pochissimi superstiti del movimento si sarebbero all'improvviso votati ad altre mode, rilanciando i pantaloni a zampa di elefante; alcuni sarebbero addirittura confluiti nei cosiddetti maranza (Azzali, 1993). In genere il termine maranza è glossato come "teppista"; la cosa non deve sorprendere troppo, visto il passato rissoso di molti galli - anche se resta problematico l'aspetto tamarresco dei criminali di strada. 
Tutte queste ipotesi alla fine si dimostrano incapaci di spiegare l'accaduto. La realtà è infatti ben diversa: le ragioni della fine del Paninarismo vanno rintracciate in chi lo ha fabbricato.   

 
Paninari e neopaninari in Svizzera 
 
Ho trovato un documento nel Web sulla diffusione del Paninarismo a Berna. Ecco il testo, che risale al 1988, quando a Milano il movimento si era ormai esaurito: 
 
"Ciao Italia! Noi orsi* siamo per ora il nucleo più lontano dal Durango. Tenere alta la gloriosa reputazione paninara nella Bear-city sfiora l'impossibile, ma il Pan-look muore con noi. [...] Della lingua tedesca a noi non ce ne sdruma un drigo, perché usiamo un linguaggio troppo giusto!" 
 
*L'orso è il simbolo araldico della città di Berna. Risale alla Dea Artiona degli antichi Elvezi.  
 
Questo è il link al documento con l'interessante citazione, che è stato pubblicato nel 2018: 
 
 
Un accademico studioso di linguaggi giovanili, il professor Guido Petrojetta (Università di Friburgo), si occupò del caso. Notiamo che nel testo sopra riportato si trova il termine Durango, che nel gergo paninaro indicava l'Italia. Mi sono interrogato sulla sua esatta etimologia, pensando dapprima allo stato messicano di Durango, vista la passione che molti paninari avevano per i film western. Poi all'improvviso ho avuto l'intuizione. Proprio Durango era il nome di una rinomata marca di stivali amati dai paninari. La Penisola è anche chiamata Stivale, per via della sua caratteristica forma. Così da Stivale si è arrivati a Durango. Ho trovato nel Web diverse attestazioni di questo vocabolo gergale. Su Facebook e altrove è documentata la presenza di qualche seguace tardivo del movimento: 
 
"Siamo pochi e sparsi per tutto il Durango ma ci siamo ancora"
(cit., 2020)  

"e oggi l’Italia ha disimparato a giocare col linguaggio perché non scherza più, non vuole più essere un Durango stragallosissimo di Dio."
(cit., 2016) 

Gli autori di questi interventi non sarebbero superstiti degli anni '80, ma esponenti di una nuova generazione di paninari formatisi dalla riattivazione della moda, avvenuta verso il 2012 a Milano (Benazzo, 2018). In questo contesto si è avuto l'avvistamento di un paninaro a Basilea. Dalla sua intervista si hanno indizi della presenza di seguaci del movimento anche in Germania (Benazzo, 2018). Il paninaro scoperto a Basilea è discendente di immigrati milanesi, giunti in Svizzera negli anni '70 dello scorso secolo. Tecnicamente parlando è un neopaninaro. Si dovrebbe parlare di Neopaninarismo per indicare il movimento riattivato negli anni '10 del XXI secolo. Ecco il link al documento:
 
 
Come si vede, il Paninarismo arrivò ben oltre il Canton Ticino e il Neopaninarismo è poi giunto ad allignare in Germania, dovunque ci fossero discendenti di immigrati italiani. 
 
Testimonianze dell'estinzione del Paninarismo 

Era il 1987. Un anno luttuoso per la musica: aveva fatto la sua comparsa Jovanotti e alla radio non trasmettevano quasi più brani decenti. Mi trovavo a Milano, di ritorno dalle vacanze estive. L'aria che si respirava era cambiata. All'improvviso mi resi conto che i paninari non esistevano più. Non ne vedevo più nel centro di Seregno. Non ne vedevo più in stazione, né a Seregno né a Milano. Non ce n'erano nemmeno sul treno. Vero è che quasi nessun paninaro frequentava il corso di laurea in Fisica all'università di Via Celoria, ma ormai non se ne vedevano più nemmeno nelle facoltà umanistiche di Via Festa del Perdono, dove le sfitinzie abbondavano. Nell'ateneo dove studiavo e soffrivo, ricordo soltanto una tale Barbara Duncan, che vestiva con abiti firmati e che dava feste orgiastiche esclusive - a cui non ero certo invitato. Ero un reietto e un immondo paria già a quei tempi. L'attillata Barbara Duncan non resse molto a Fisica: il suo ambiente ideale era la Milano da annusare. Per il resto, essendo quell'infelice sede universitaria infestata dai ciellini, l'estinzione dei paninari non aveva portato grandi cambiamenti. Una cosa mi ha sempre stupito: la perfetta sincronia nell'abbandono di un costume che sembrava destinato a diventare universale. Era come se tutti i paninari si fossero messi d'accordo, in un tempo in cui Internet non esisteva, in cui non c'erano smartphone, lanciando un tam tam con l'ordine di smettere all'istante l'uso dei Moncler e delle Timberland. Assurdo! Eppure questa impressione è sempre rimasta in me fortissima (Moretti, 1987). Alcuni anni dopo, nel borgo montano di Malesco, situato nell'impervia Ossola, ho potuto vedere che i paninari erano ancora presenti. In quei distretti si è registrato un ritardo nell'estinzione del Paninarismo rispetto all'ambiente metropolitano milanese (Cazzaniga, 1994).
 
Rimozione, oblio e ritornanti
 
Nel 2012 mi sono imbattuto in L., una ragazza che si era da poco laureata al Politecnico di Milano. Mentre parlavamo del più e del meno, mi ha riportato il caso di un "paninaro" che era diventato un eroe rifiutandosi di pagare il pizzo ai mafiosi. Sono rimasto allibito. Dopo alcuni minuti di malintesi imbarazzanti da parte di entrambi, è emersa la realtà dei fatti: con "paninaro", L. intendeva il venditore ambulante di panini e ignorava del tutto che esistesse un'altra accezione della parola. Nel 1982, quando si videro i primi paninari al bar Al Panino di Piazza Liberty, L. al massimo era sperma nei testicoli di suo padre. A distanza di 30 anni da allora, l'esistenza del Paninarismo era stata addirittura rimossa a Milano. Se avessi parlato a L. degli Antitrinitari, degli Anabattisti di Münster o dell'Eretico di Lacchiarella, avrei anche potuto capire il suo stupore. Meno comprensibile è che una milanese trasecolasse nel sentir parlare di una subcultura tanto recente. Tanto più che proprio nel 2012 si era svolto un raduno di paninari in Piazza San Babila. Si trattava sia di superstiti degli anni '80 che di giovani neopaninari (Benazzo, 2018). Secondo altri erano soltanto rievocazioni nostalgiche organizzate ad arte (Canziani-Crivelli, 2015). In ogni caso ne concludiamo che Milano è vasta: una giovane sbarbina come L. poteva anche non conoscere ogni diverticolo della metropoli.  
 

Il Paninarismo come religione 

Nel 1986 negli ambienti paninari si parlava troppo di Dio. Lo si menzionava troppo. Il Gallo di Dio. Il Gallo Supremo del Dio Vivente. Il Dio Galloso. Il Durango di Dio. Qualcuno cominciava a credere in un destino ultraterreno per chi seguiva i precetti dall'abbigliamento griffato: la Grande Paninoteca Celeste, dove si cuccava senza sosta. Ancora un po' e si sarebbero circolate frasi come "Tu non sei veramente morto se credi nel Grande Gallo", "Il Grande Gallo ha creato l'Universo", "Ci attendono grandi viali celesti da percorrere in Zündapp". La subcultura giovanile stava diventando qualcosa di ipertrofico, correndo il rischio di svilupparsi in una nuova religione, il Gallismo. In fondo anche il Cristianesimo aveva aveva avuto inizi modesti all'epoca dell'antica Roma - forse proprio a partire da un esperimento antropologico (Atwill, 2005). Nessuno ne avrebbe saputo prevedere gli sviluppi. Dirò di più. Il Gallismo sarebbe stato la prima religione nella storia del genere umano con questa caratteristica: l'etica coincide con l'estetica. Posso immaginare l'accaduto e lo ricostruisco sotto forma di narrazione, anche se ovviamente non ne sono stato testimone. A Berlusconi non piacque quanto gli fu riportato, così decise di far cessare in modo subitaneo l'esperimento antropologico. Il Magnate di Hardcore non voleva derive religiose tanto destabilizzanti, non intendeva permetterle, quindi staccò la spina e pose fine al progetto. Interruppe i finanziamenti da un giorno all'altro. Diede ordini a Enzo Braschi di smetterla con le sue prediche paninaresche. Così fu inventata in fretta e furia una nuova pantomima guittesca per il comico: Braschi era stato chiamato alla leva militare e cominciò a interpretare il ruolo di una recluta ottusa, che sapeva quasi soltanto recitare il ritornello "gnornò", lapalissiana contrazione di "signor no". Domanda del caporale: "Sei macaco?" Risposta della recluta: "Gnornò!" I paninari furono colti dal terrore. Sapevano che li aspettava la naja, che non potevano sottrarsi agli obblighi militari e che sarebbe stata la fine della loro bella vita. Dopo una simile agonia, Drive In chiuse i battenti, nell'aprile del 1988. Così la religione paninara non poté svilupparsi. Fu estirpata sul nascere. I paninari superstiti non si ripresero dal colpo. Il fumetto Paninaro smise di essere pubblicato di lì a poco, nel 1989. Il servizio di leva non ebbe comunque lunga vita: fu abolito nel 2004, poco più di un decennio dopo gli eventi da me descritti. I boomerang hanno la strana capacità di tornare da chi li lancia, anche se è un multimilionario.
 
Il Neopaninarismo è un culto del cargo?

Non si può evitare di notare che il contesto in cui sono comparsi i neopaninari è profondamente diverso da quello degli anni '80 dello scorso secolo. Manca del tutto l'ottimismo, la fiducia in un futuro radioso. Allora perché qualcuno sta rievocando qualcosa che non ha attinenza con la nostra epoca inquieta? Forse il fenomeno neopaninaro è una forma di culto del cargo. Alcuni pensano questo: vestendosi come nei frivoli anni '80 e riportando in vita un'estinta identità di gruppo, ritorneranno l'abbondanza e la spensieratezza di quei tempi, per magia simpatica. Il Paninarismo è stato un esperimento antropologico, come abbiamo dimostrato. Il Neopaninarismo non è un esperimento antropologico: è un imprevisto.    
 
 
Violenza, religione, ingiustizia e morte  
 
Questa è la scheda tecnica della canzone dei Pet Shop Boys, che conserva traccia di quanto ho esposto sulle derive religiose del Paninarismo: 
 
Singolo: Paninaro 
Artista: Pet Shop Boys
Album: Suburbia
Anno: 1996 
Paese: Regno Unito 
Lingua: Inglese 
Genere: Synth pop 
Produttore: Pet Shop Boys 
Etichetta: Parlophone

Testo:

Passion and love and sex and money
Violence, religion, injustice and death
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh
Girls, boys, art, pleasure
Girls, boys, art, pleasure
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh
Food, cars, travel
Food, cars, travel, travel
New York, New York, New York
New York
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh
Armani, Armani, ah-ah-Armani
Versace, cinque
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh
Armani, Armani, ah-ah-Armani
Versace, cinque
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh
I don't like country-and-western
I don't like rock music
I don't like, I don't like rockabilly 
or rock 'n0 roll particularly
Don't like much really, do I?
But what I do like I love passionately
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh
You, you're my lover, you're my hope, you're my dreams
my life, my passion, my love, my sex, my money
violence, religion, injustice and death
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh
Don't like much really, do I?
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh
But what I do like I love passionately
Paninaro, Paninaro, oh, oh, oh

Ispirazione: 
 
"Eravamo a Milano a fare promozione, vedemmo dei ragazzi vestiti in modo curioso. Noi eravamo considerati alternativi. Loro sembravano più fan di Madonna o Wham! Ma ci arrivò l'ispirazione per un brano con un coro oh-oh che sembrava piacere tanto all'Italia in quel momento la intitolammo così".  
(Neil Tennant)
 
Il brano fu registrato nuovamente nel 1995, circa un decennio dopo l'estinzione del movimento. Gli fu dato un nuovo nome: Paninaro '95 e usato per promuovere l'album Alternative
 
La religione a cui alludono i Pet Shop Boys è il Gallismo, non certo l'agonizzante bigottismo dei vecchi o il rampante fanatismo di Comunione e Liberazione. La menzione della violenza consiste nell'ingigantimento delle tensioni tra paninari e gruppi ostili (punk, estremisti di sinistra chiamati Ciàina o cinesi, metallari, etc.). La menzione dell'ingiustizia fa riferimento all'ostentazione della ricchezza. E la morte? Mi sembra facile capirlo. Qualcuno a forza di fiutare sacchi di bamba ci sarà pure rimasto secco.
Secondo alcuni questa canzone contribuì ad esportare la moda persino in Albione. Secondo altre fonti era soltanto un'eco della subcultura giovanile italiana, che aveva raggiunto il Regno Unito come un tentacolo sporadico (Falchi, 2003). Sono abbastanza scettico sulla diffusione del Paninarismo in Albione a partire dal 1986, né mi risultano attestazioni di una sua presenza negli Stati Uniti. 
 
Riferimenti

Atwill, 2005: Caesar's Messiah
Azzali, 1993: comunicazione personale 
Benazzo, 2018: Spazio Sara (www.missprettysara.com
Braschi, 2017: Enzo Braschi, il Paninaro di Drive In: "Oggi mi occupo di indiani d’America e ufo", intervista su www.tvblog.it
Canziani-Crivelli, 2015: Raduno dei paninari a Milano: la generazione 'troppo giusta' degli anni '80, su Blasting News Italia (it.blastingnews.com)
Cazzaniga, 1994: comunicazione personale  
D'Agostino, 1985: Quelli della notte (programma televisivo di Renzo Arbore e Ugo Porcelli, trasmesso su Rai2).
D'Agostino, 2011: Gli anni dell'Edonismo Reaganiano, su La Stampa (www.lastampa.it), 6 febbraio 2011  
De Benedetti, 2015: La situazione è grammatica, Einaudi, 2015 
Dionisi, 1988: comunicazione personale
Falchi, 2003: cominicazione personale 
Gallo, 1993: comunicazione personale 
Leggeri, 2015: Trooooooppo scarsi!!! I Paninari a fumetti. (www.lospaziobianco.it)  
Meroni et al., 2012: Adolescenti di oggi e generazioni precedenti: Emo & Co., Rivista di psicoterapia relazionale: 35, 1, 2012, pag. 19 
Mignani, 1994: L'uomo che inventò la Milano da bere, su La Stampa (www.lastampa.it), 1 aprile 2008
Montanelli, 1979: I nonni del '68, su Il Giornale nuovo, 16 gennaio 1979
Monti, 1985: comunicazione personale 
Moretti, 1987: memorie
Sam Arko, 2007: Vero e falso dei paninari, thread su Narchive.com.
Santolini, 2008: L'uomo che inventò la Milano da bere, su La Stampa (www.lastampa.it), 1º aprile 2008 
Verdoia, 2013: intervista in Troppo giusto - Storia dei paninari italiani (www.vice.com)