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martedì 24 agosto 2021

ETIMOLOGIE ENOLOGICHE: IL CECUBO E L'ABBUOTO

Per molto tempo, il miglior vino dell'antica Roma è stato il cècubo (latino caecubum). Fin da quando ho sentito menzionare questa bevanda per la prima volta, mi sono interrogato sull'etimologia del suo nome. Mi sono anche reso conto che non esisteva una letteratura scientifica in grado di diradare le tenebre dell'ignoranza. Da quell'epoca sono cambiate molte cose e la possibilità di trovare informazioni interessanti si è accresciuta notevolmente. Ho quindi utilizzato il Web per cercare lumi. Questo riporta il celeberrimo Vocabolario Treccani: 
 
 
cècubo s. m. [dal lat. (vinum) Caecŭbum]. – Famoso vino che si produceva in età romana nel Caecubus ager, nel territorio di Fondi; il nome è stato ridato oggi a un vino rosso pallido prodotto nella stessa zona, spec. a Sperlonga.
 
Ecco. Appurate queste cose, peraltro già note da secoli, mi chiedo come sia possibile che nessuno abbia cercato di indagare più a fondo sull'etimologia del toponimo Caecubus ager, chiaramente connesso con l'oronimo Caecubi montes "Monti Cecubi", da cui derivò il nome della pregiata bevanda.

L'eccellente bevanda raggiunse il culmine della sua fama quando fu usata dal dal popolo di Roma per festeggiare la morte della povera Cleopatra, come documentato da un componimento di Orazio (Libro I, Ode 37). Questa è la parte che ci interessa:   

Nunc est bibendum, nunc pede libero
pulsanda tellus, nunc Saliaribus
ornare pulvinar deorum
tempus erat dapibus, sodales.

Antehac nefas depromere Caecubum
cellis avitis, dum Capitolio
regia dementis ruinas
funus et imperio parabat

contaminato cum grege turpium
morbo virorum, quidlibet impotens
sperare fortunaque dulci
ebria. ... 

Traduzione: 

O amici, ora bisogna brindare, ora bisogna battere la terra con il piede libero, era ora di ornare le immagini degli dei con cibi degli dei Salii.

Prima di ora non era lecito spillare il cecubo dalle cantine degli antenati, mentre una regina preparava folli rovine per il Campidoglio e per l'Impero

con un gregge di uomini turpi contaminato dalla perversione, sfrenata nello sperare qualsiasi cosa ed ubriaca per la dolce fortuna. ...

La storia del nobilissimo liquore di Bacco ebbe una brusca e inattesa fine, che è possibile leggere come un portento. Uno stravagante esperimento di geoingegneria voluto dal Divo Nerone ha portato alla perdita del cècubo. Siccome all'Imperatore dava sommo fastidio la persistente nebbiolina che gravava sull'area, decise di fare scavare un canale con lo scopo di aumentare la ventilazione. Altri affermano invece che egli cercasse di esumare un fantomatico tesoro appartenuto a Didone, sepolto in quei luoghi secondo una leggenda popolare. Fatto sta che l'imponente opera di scavo ebbe come conseguenza concreta una perdita irreparabile per Roma: l'ager Caecubus non diede più uve in grado di produrre ottimo vino. Dopo che la produzione cessò, rimase soltanto il vino che già stava invecchiando nelle cantine, menzionato ancora da Marziale. Sembra che tra le ultime persone ad averne bevuto, un secolo dopo gli scavi di Nerone, ci sia stato il medico Galeno.  

Un'etimologia popolare di Caecubus 

Secondo una leggenda di origine non chiara, Caecubus sarebbe stato un ipocoristico del nome del politico e letterato Appio Claudio Cieco (Appius Claudius Caecus), vissuto dal 350 a.C. al 271 a.C., che fu anche un militare e tra le altre cose rivestì le cariche di censore, console, dittatore. Egli aveva ricevuto il suo cognomen, Caecus "Cieco", a causa della sua effettiva cecità, attribuita dalla superstizione del volgo all'ira degli Dei, irritati dalle sue riforme religiose. Su quali siano in concreto queste riforme, il Web è diviso. Alcuni parlano di un'identificazione delle divinità greco-romane con quelle celtiche e germaniche - cosa che mi pare assai dubbia: nella Roma di quell'epoca l'idea di cosa fosse la Germania doveva essere abbastanza nebulosa. Altri parlano dell'assegnazione di alcuni riti del culto di Ercole a una famiglia diversa da quella che tradizionalmente li praticava. Anche questa informazione non l'ho potuta verificare. 
 

Secondo una storiella raccontata nel Web, la plebe avrebbe rumoreggiato nel vedere Appio Claudio Cieco nell'atto di bere avidamente il vino. I popolani avrebbero così commentato dicendo: "Caecus bibendum." A questa frase è stato attribuito il significato di "Cieco che beve". Così si sarebbe formato l'ipocoristico Caecubus. Il problema è che tale frase non è grammaticalmente corretta. In latino il cieco che beve può essere soltanto Caecus bibens. Se ammettessimo come vera questa spiegazione etimologica, la seguente trafila fonetica avrebbe portato a Caecubus partendo dal latino arcaico, quello parlato nel III-IV secolo a.C.:  

*Kaikos bibēns =>
*Caicus bibēns  => 
*Caecububs  => 
Caecubus  
 
Le forme declinate sarebbero state livellate per analogia. Quindi per il genitivo avremmo una trafila fonetica come questa: 
 
*Kaikei bibentis =>
*Caicei bibentis =>  
*Caecububuntis => 
*Caecubuntis
Caecubī, subentrato per analogia a Caecubu(b)s.  

Il passaggio da *Caicei bibentis a *Caecububuntis e quindi a *Caecubuntis si spiegherebbe con il tipico indebolimento delle sillabe atone in una fase del latino in cui l'accento cadeva sulla sillaba iniziale delle parole, prima che fosse regolato dalla quantità della penultima sillaba.

Mi rendo conto che tutto ciò sia a dir poco grottesco. Il Caecus bibendum riportato sistematicamente nei siti del Web è a dir poco sospetto e punta all'invenzione. Chi lo ha escogitato non era certo un latinista e non cita alcuna fonte antica.
Ecco una breve confutazione. Il gerundivo di bibere "bere" è bibendus e significa "che deve essere bevuto", "da bere". Non è possibile che la forma neutra bibendum concordi con Caecus, che è maschile, oltre al fatto che non significa "che beve". Così si dice Carthago delenda (est) "Cartagine deve essere distrutta", con un gerundivo femminile. Solo i metallari direbbero Carthago delendum o Caecus bibendum nel loro latino distorto. Se anche considerassimo bibendum come un gerundio, dovrebbe essere preceduto dal nome al dativo: Caeco bidendum, il cui significato sarebbe però "il Cieco deve bere". Nemmeno questa soluzione è soddisfacente per motivi semantici. 
 
 
bibendum 
 
1) accusativo del gerundio di bibō
2) accusativo maschile singolare del gerundivo (bibendus
     di bibō
3) nominativo neutro singolare del gerundivo (bibendus
     di bibō
4) accusativo neutro singolare del gerundivo (bibendus
     di bibō
5) vocativo neutro singolare del gerundivo (bibendus
     di bibō
 
Riporto il link a un compendio sull'uso del gerundivo e del gerundio in latino.  


Con ogni probabilità il mito del cieco che beve è soltanto una fabbricazione moderna. Il pacchetto memetico è stato diffuso nella Noosfera da una manciata di siti pubblicitari che hanno a che fare con il turismo enologico. La stessa narrazione ha tutte le caratteristiche dell'etimologia popolare.  

Abbiamo provato che la leggenda del Caecus bibens è nel migliore dei casi molto dubbia. Tuttavia, l'etimologia di ager Caecubus e di Caecubi montes è in ogni caso connessa con la stessa radice della parola latina caecus.  
 
 
caecus 
   femminile: caeca 
   neutro: caecum 
 
1) senza luce
2) cieco, che non vede 
3) mentalmente o moralmente cieco; accecato 
4) cieco, casuale, vago, indiscriminato, senza scopo 
5) senza germogli (termine botanico) 
6) invisibile, che non può essere visto 
7) che non può essere conosciuto, nascosto, segreto, oscuro  
8) che ostacola la vista, non trasparente, opaco 
9) che ostacola la percezione, oscuro, fosco; incerto, dubbio   


Proto-indoeuropeo: *kaikos "monocolo"
        (*kéh2ikos nella ricostruzione laringale)
   Proto-italico: *kaikos "cieco", "senza occhi" 
   Proto-germanico: *χaiχaz "monocolo" 
       Gotico: haihs "monocolo"
       Norreno: Hárr (epiteto di Odino) 
   Proto-celtico: *kaikos "cieco"; "monocolo" 
       Antico irlandese: cáech "monocolo"  
       Medio gallese: coeg "monocolo", "cieco" 
   Greco: καικίας (kaikías) "vento di Nord-Est"
         (lett. "che oscura il cielo")
   Proto-Indoario: *kaikaras "strabico" 
       Sanscrito: kekaraḥ "strabico" 
 
Cosa notevolissima, questa radice è documentata anche nell'onomastica etrusca. La mia idea è che fosse un prestito dal proto-italico.
 
Etrusco: 
1) Kaikna, Caicna, Keikna, Ceicna, Cecna (gentilizio)
=> Latino Caecina, Cēcina, Cēcinna (gentilizio); Caecinius (gentilizio).  
Caecina è anche un idronimo ben attestato (attuale Cècina, in Toscana centro-meridionale).
2) Ceice (cognomen): corrisponde al cognomen latino Caecus e al gentilizio Caecius;
Ceicesa "quello di Ceice" (patronimico).
Dai dati mostrati si deduce l'esistenza di questa radice:
kaik-, keik-, ceic- "scuro", "torbido".
Il fiume Cècina ha ricevuto questo nome per via delle sue acque torbide.  
 
Abbiamo anche alcune parole contenute nei glossari latini, che attribuirei all'etrusco per via dei peculiari suffissi: caecua, caecuba e caecuma "civetta". Ad esempio, nel Totius latinitatis lexicon di Egidio Forcellini (terminato nel 1761, prima edizione postuma nel 1771), leggiamo quanto segue:  
 
Caecua et Caecuma, noctua quae lucem fugit, Lex. Philol. 
 
Si capisce subito che caecua, caecuba e caecuma (anche senza dittongo, cecua, cecuba, cecuma) sono varianti di una stessa parola antica; interessante è constatare che sono glossate con noctua "civetta", un evidente derivato di nox "notte" (noctua a tempore noctis dicta, ci spiega Sesto Pompeo Festo). Si vede quindi che la radice che ha formato caecua e varianti, deve essere caec- "oscurità". 

Si menziona un'ulteriore variante: cicuma. Esichio riporta il vocabolo κικυμίς (kikumís), con lo stesso significato di "civetta". La scansione metrica sembra che fosse /ki:ky:'mis/ (vedi Henry George Liddell, Robert Scott, A Greek-English Lexicon, 1843), cosa del tutto inusuale per una parola greca; del resto Esichio non glossava soltanto parole greche e spesso non riportava la loro origine. Anche questa alternanza tra il dittongo -ae- e una vocale lunga -ī- sembra a dir poco strana. Esichio potrebbe aver reso on -i- una vocale chiusa dell'etrusco, derivata dal dittongo -ei-.  
 
W.M. Lindsay, nel suo lavoro Bird-names in Latin glossaries (1918), cita due possibili esiti romanzi: toscano di Lucca cuccumeggia e sardo cuccumeu, entrambi col senso di "civetta". Non fornisce ulteriori dettagli.  

 
Credo che quanto fin qui raccolto possa bastare.
 
Conclusioni 
 
A questo punto possiamo attribuire significati antichi e concreti:  
 
*Kaikubos = Nebbioso 
ager Caecubus = Campo Nebbioso 
Caecubi montes = Monti Nebbiosi 
 
In milanese la nebbia è chiamata scighéra: questa parola deriva da *caecāria, dalla radice di caecus. Questo perché la nebbia impedisce od ostacola la vista. Una semantica simile è all'origine del cècubo e la questione si può dire risolta. 
 
L'abbuoto 

I Wikipediani traducono il latino caecubum con abbuoto, che è il nome oggi dato a un vitigno coltivanto in Lazio e al vino che se ne ottiene, rosso e molto pregiato. Dobbiamo ricordare che anche usando la stessa uva che coltiviamo ancor oggi, gli Antichi avevano metodi di vinificazione molto diversi. A parer mio la traduzione è quindi da considerarsi impropria.
 
 
Abbuoto 
"Vitigno a bacca nera di origini remote, dalle cui uve in un passato remoto si produceva con molta probabilità il famoso Cécubo, più volte decantato da Orazio. Secondo quanto riporta il Drao (1934) – unico studioso a essersi occupato, per quanto ne sappiamo, di questo vitigno –, era originariamente coltivato nell’area pedemontana e collinare del comune di Fondi, in provincia di Frosinone. Agli inizi del Novecento fu descritto come vitigno italiano anche dagli ampelografi francesi Viala e Vermorel. Nulla si conosce circa l’etimologia del nome e dei sinonimi, il cui principale è Aboto; l’unica curiosità è che risulta sempre il primo vitigno di qualsiasi classificazione alfabetica, non solo italiana ma anche straniera. È stato iscritto al Registro Nazionale delle Varietà di Vite nel 1970." 


Qual è dunque l'etimologia di abbuoto? Ecco il responso dell'Oracolo di Google alla richiesta di maggiori informazioni sull'origine dello strano vocabolo: 
 
"Sull'etimologia non si hanno notizie certe, presumibilmente il nome deriva dalla vicinanza dell'area di origine, in particolare la zona di San Raffaele – Fondi, al lago di San Puoto. Molto probabilmente il termine “Abbuoto” proviene proprio dalla trasformazione del nome “San Puoto”." 
 
Il lago di San Puoto si trova nella pianura pontina a circa 3,5 chilometri da Sperlonga, in provincia di Latina. San Puoto deriva dal latino Sanctus Potitus. Il sinonimo San Potito è evidentemente una forma dotta. La possibilità più concreta è che il nome dell'abbuoto derivi direttamente da una formula di brindisi: a un certo punto "a Puoto!" è diventato "abbuoto!" per naturale evoluzione fonetica. Del resto, si nota che anche i Romani antichi brindavano con il caecubum abbandonandosi a manifestazioni di allegria e battendo selvaggiamente i piedi sul pavimento.
Ammettendo che l'antroponimo Potitus abbia dato oltre a Puoto anche *Pòto, si spiegherebbe all'istante la variante più rara e senza dittongo, abòto
 
Non bisogna confondere la denominazione del vino detto abbuoto con una parola omofona, usata nella stessa regione, che indica invece un tipo di involtino. Riporto giusto un paio di citazioni (i grassetti sono miei). 
 

"L’abbuoto viticusano (abbuot nel dialetto locale, cioè “avvolto”) è un insaccato di ovino cotto, a base di carne e frattaglie ovine, uova, peperoni dolci e peperoni piccanti, spezie, tipico di Viticuso, una piccolissima comunità montana della provincia di Frosinone a 825 metri sopra il livello del mare."


"L’abbuoto detto anche abbticchie sono involtini di interiora d’agnello è un piatto povero della cucina ciociara e del paese di Picinisco, ottenuto utilizzando le parti meno nobili dell’agnello: budella, frattaglie e trippa."    

venerdì 16 luglio 2021

ORIGINI LONGOBARDE DELLA GORGIA TOSCANA

Nel mio incessante peregrinare per gli antri del labirintico Web, mi sono imbattuto in un post sulla gorgia toscana, pubblicato sul sito Toscana Stato, aka Centro Studi Indipendentisti Toscani (motto: La Toscana non è Italia). Questo è il link:
 
 
Riporto le conclusioni del post, senza mutare nulla, nemmeno l'orrido uso della punteggiatura:

"Capire quale sia l’origine esatta della gorgia è compito estremamente arduo anche per i filologi più esperti . Possiamo dire però con buon grado di certezza che sicuramente non è un fenomeno di origine etrusca , anche se rimane una ipotesi altamente attrattiva ed affascinante per chiunque."

"E’ assai più logico , anche se purtroppo più prosaico , ipotizzare che la gorgia sia un fenomeno autoctono fiorentino , probabilmente nato in “reazione” alla sonorizzazione settentrionale, e che si è successivamente diffuso al resto della Toscana in seguito alla dominanza e al prestigio della città ." 
 
"L’ipotesi dell’origine germanica della gorgia rimane ancora poco suffragata di prove e rimane debole al pari dell’ipotesi “etrusca” , anche se ulteriori studi sarebbero auspicabili."
 
Questo è il commento che ho aggiunto al post: 

Buongiorno. Sono impegnato nella ricostruzione della lingua longobarda e in un tentativo di rivitalizzazione. Ho le prove dell'origine longobarda della gorgia toscana, che esporrò in dettaglio nel mio blog, http://perpendiculum.iobloggo.com. Il punto è questo: in qualche luogo abbastanza isolato una minoranza longobarda mantenne a lungo la sua lingua germanica con una rotazione consonantica estrema e perse del tutto le sonore /b/, /d/, /g/, desonorizzandole e spesso aspirandole. Poi adottò il romanzo locale, che possedeva /b/, /d/, /g/, oltre ad altri suoni. Si creò quindi una parlata nuova e dotata di gorgia. Poi questa si espanse nel corso dei secoli. Forse Dante poté morire senza saperne nulla. Quando la pronuncia di origine longobarda si diffuse, fu ritenuta un malcostume e fu tentata la sua eradicazione.
Si noterà che in etrusco le occlusive sorde erano fonemi diversi dalle aspirate, mantenendo capacità di contrasto in molti contesti fonetici, con buona pace di Pallottino. Data la singolare fonotattica della lingua, l'eliminazione di questa opposizione avrebbe prodotto gravi fraintendimenti.
Un saluto
Marco 

All'epoca il mio blog era ancora ospitato sulla fatiscente piattaforma Iobloggo, che nel frattempo si è estinta. Purtroppo il commento da me apposto sul sito del Centro Studi Indipententisti Toscani non è stato minimamente considerato. Non ha ricevuto alcun feedback, anche se a mio avviso il problema sollevato potrebbe essere degno di nota. In quanto a proclami, sono tutti bravi. Poi, se si tratta di indagare una questione importante, nessuno si impegna. Tante supposizioni, tutte superficiali. 
 
Mia intenzione è quella di fornire con questo mio minuscolo trattatello un tentativo di ricostruzione delle fasi di formazione della gorgia toscana. Credo che oltre alle tante chiacchiere fatte sull'origine etrusca o germanica di questo interessantissimo fenomeno, non sia mai stato tentato nulla di simile. C'è chi crede che la fonetica degli antroponimi longobardi toscani fosse dovuta alla gorgia della lingua romanza, cosa assurda anche solo a pensarsi. In realtà è tutto l'opposto: è la gorgia della lingua romanza che ha tutta l'aria di essere nata in qualche modo dalla fonetica della lingua dei Longobardi.
 
Fase I 
Livellamento tra antiche occlusive sonore e occlusive sorde in tardo longobardo toscano 

Si è completato un processo già in atto durante il Regno Longobardo e continuato anche in seguito, come documentato da numerosi antroponimi. Noi assumiamo che questo sia avvenuto in modo pervasivo in qualche comunità abitante in una zona sufficientemente impervia, in cui la lingua ha continuato ad essere in uso ancora in epoca molto bassa, successiva alla caduta del Regno, forse collocabile nel X-XI secolo. 
 
Questo è il prospetto dei mutamenti: 

/b/, /p/ > /pʰ/
/d/, /t/ > /tʰ/ (in sillaba finale anche /ts/, /s/)
/g/, /k/ > /kʰ/ 
 
/sp/ rimane /sp/
/st/ rimane /st/
/sk/ rimane /sk/  
 
Questi sono alcuni esempi, deducibili dal ricchissimo materiale antroponimico e da altre testimonianze (termini legali, etc.):  

GAIDA "punta di lancia" > CATA /'kʰa:tʰa/ 
GAIR "giavellotto" > CAR /kʰa:r/ 
GAND "demone" > CANT /kʰantʰ/ 
GAST "ospite" > CAST /kʰast/ 
GODES "di Dio" > COTES /'kʰɔtʰes/  
GUND "battaglia" > CUNT /kʰuntʰ/ 
LAIB "eredità", "erede" > LAP /la:pʰ/
LEUB "caro" > LEOP /leopʰ/ 
LIUT "popolo" > LIT /li:tʰ/, LIS /li:s
PLOD "sangue" > PLOT /pʰlo:tʰ/, PLOTZ /pʰlo:ts/ 
ROD "fama" > ROT /ro:tʰ/ 
THEUDA /'θeuda/ "popolo" > TEUS /tʰeus/
 
Persino il fonema /gw/ sviluppato dall'antico /w/ si è evoluto in /kw/, come documentato in alcuni antroponimi tardi, in attestazioni che sono spesso successive alla caduta del Regno dei Longobardi. Ecco alcuni esempi, tratti da Bruckner (1895): 
 
QUALDIPERTUS (anno 850) : WALDIPERTUS (anno 848), 
        GUALDIPERTUS (anno 765)
QUARNIPERTUS (anno 824) : UUARNEPERTUS (anno 885), 
        WARNIPERTUS (anno 823)
QUASCO (anno 848) : GUASCO, WASCO   
QUASPERT (anno 764) : GUASPERTUS (anno 812) 
QUESTO (anno 873) "Occidentale"  

Poniamo così che l'approssimante /w/, evoluta in /gw/ e in /kw/ in longobardo, sia poi divenuta /kʰw/ in tardo longobardo toscano:  

GUALD "bosco" > QUALT /kʰwaltʰ/ 
GUALDEMAN "intendente forestale" > QUALTEMAN 
     /kʰwaltʰeman/ 
GUARN "cauto" > QUARN /kʰwarn/ 
GUASCO "Basco" > QUASCO /kʰwasko/ 
GUEST "Occidente" > QUEST /kʰwɛst/ 

Completati questi mutamenti, non rimane nel tardo longobardo toscano alcuna traccia di consonanti occlusive sonore /b/, /d/ e /g/.  

Fase II 
Adozione della lingua romanza 
 
Si instaura il bilinguismo. Supponiamo che la lingua romanza adottata avesse già i caratteri dell'antico toscano. Per un certo periodo, il longobardo deve essere stato usato come memoria storica. La legge fonetica che ha reso sorde le occlusive sonore longobarde si è esaurita da tempo e non intacca le parole romanze. Non trasforma cioè il gallo in un callo
Prima conseguenza: le consonanti occlusive sorde /p/, /t/, /k/ del romanzo vengono adottate dai parlanti del tardo longobardo toscano come occlusive aspirate [pʰ], [tʰ], [kʰ].

pera /'pera/ > ['pʰera]
talpa /'talpa/ > ['tʰalpʰa]
toro /'toro/ > ['tʰɔro]
callo /'kallo/ > ['khallo] 
cane /'kane/ > ['khane] 
casa /'kasa/ > ['kʰasa]
corno /'korno/ > ['kʰɔrno]

Seconda conseguenza: le consonanti occlusive sonore /b/, /d/, /g/, che sono suoni nuovi (assenti nella lingua avita), vengono adottati tali e quali dai parlanti del tardo longobardo toscano.
 
bene /'bɛne/ > ['bɛne]
botte /'botte/ > ['bottʰe]
dente /'dɛnte/ > ['dɛntʰe] 
duro /'duro/ > ['duro]
gallo /'gallo/ > ['gallo]
grande /'grande/ > ['grande]
 
Anche la consonante fricativa interlabiale /v/ è un suono nuovo (assente nella lingua avita) e viene adottata tale e quale dai parlanti del tardo longobardo toscano.

vento /'vɛnto/ > ['vɛntʰo]
vero /'vero/ > ['vero]
vino /'vino/ > ['vino]

Fase III 
Decadenza e scomparsa del tardo longobardo toscano 
 
La lingua romanza viene a prevalere e la lingua avita di questa cominità si estingue fino ad essere completamente dimenticata. Resta una lingua romanza toscana che presenta consonanti occlusive aspirate [pʰ], [tʰ], [kʰ]
 
una casa [una 'kʰasa]
un cane [un 'kʰane] 
a ccasa [a k'kʰasa]
du' cani [du 'kʰani]
tre ccani [tre k'kʰani]
 
Fase IV  
Diffusione di questa parlata aspirata in territori sempre più estesi della Toscana 
 
Possiamo supporre che la diffusione della pronuncia aspirata delle consonanti sorde sia cominciata in un'epoca verosimilmente successiva a quella in cui visse Dante Alighieri (che non notò il fenomeno pur avendo competenze linguistiche notevoli per i suoi tempi). In ogni caso, non esistendo un'opposizione fonemica tra consonanti occlusive sorde aspirate e consonanti occlusive sorde non aspirate, è anche possibile che questo modo peculiare di articolare il toscano sia passato inosservato per lungo tempo. 

Fase V  
Evoluzione delle consonanti occlusive aspirate in fricative in posizione intervocalica anche sintattica 
 
Primo passaggio: le consonanti occlusive aspirate, quando si trovano in posizione intervocalica anche sintattica, evolvono in affricate. Così /pʰ/ diventa /pφ/; /tʰ/ diventa /tθ/; /kʰ/ diventa /kχ/.  
 
una casa [una 'kχasa]
un cane [un 'kʰane] 
a ccasa [a k'kʰasa]
du' cani [du 'kχani]
tre ccani [tre k'kʰani]
 
Secondo passaggio: le consonanti affricate evolvono in fricative. Così /pφ/ diventa /φ/; /tθ/ diventa /θ/; /kχ/ diventa prima /χ/ e quindi si affievolisce in /h/
Credo che sia molto importante notare che questa evoluzione non si applica in caso di raddoppiamento sintattico. 
 
 
una casa [una 'χasa]
un cane [un 'kʰane] 
a ccasa [a k'kʰasa]
du' cani [du 'χani]
tre ccani [tre k'kʰani] 

Ecco infine le forme moderne, proprio quelle che ci eravamo proposti di spiegare nel dettaglio:
 
una casa [una 'hasa] (gorgia)
un cane [un 'kʰane] (aspirazione)
a casa [a k'kʰasa] (aspirazione)
du' ccani [du 'hani] (gorgia)
tre ccani [tre k'kʰani] (aspirazione) 

Un processo simile ha colpito a questo punto anche le consonanti occlusive sonore /b/, /d/, /g/ intervocaliche, dando origine a fricative [β], [ð], [γ]. Inoltre le consonanti postalveolari /tʃ/ e /dʒ/ (assenti in longobardo) si sono rilassate in [s] e [ʒ]
 
libero ['liβero]
lago ['laγo] 
lodare [lo'ðare]
dice ['diʃe] 
facile ['faʃile]
fragile ['fraʒile] 
 
Si tratta di sviluppi interamente pertinenti alla lingua romanza, che si sono realizzati molto tempo dopo l'estinzione del tardo longobardo toscano. Questa ricostruzione sembrerebbe ineccepibile, dato che rende conto della situazione attuale. Tuttavia, tirando le somme dopo anni, non mi soddisfa del tutto. 
 
Problemi insoluti:  
 
1) Nei vernacoli toscani in cui è presente la gorgia, non si ha alcuna traccia di aspirazione quando la parola si trova all'inizio assoluto di una frase. Dobbiamo così supporre che in questa posizione si sia avuta una deaspirazione di [pʰ], [tʰ], [kʰ] in [p], [t], [k] dopo la scomparsa del tardo longobardo toscano. A questo punto potrebbe essere obiettato che la mia ricostruzione è troppo complessa per essere verosimile. 
2) Permane un immenso baratro cronologico tra le prime manifestazioni documentate della gorgia e qualsiasi possibile azione di sostrati, superstrati o adstrati. Non si riesce a trovare gli elementi necessari per localizzare quanto è avvenuto. Dove è iniziata questa bizzarria? Tramite quali percorsi si è propagata tra le genti? Al momento non si riesce a trovare una risposta precisa.  

Alcuni aneddoti ridicoli sulla gorgia toscana 

Ho un televisore inattivo. Non lo accendo da molto tempo. Non ho acquistato alcun decoder, così non posso ricevere alcuna trasmissione. Molti anni fa, quando quella macchinetta abominevole ancora funzionava, mi capitò di scanalare e di imbattermi in un programma abietto condotto da Amadeus. Questo showman cercava di imitare la gorgia toscana e procedeva come segue: sostituiva una consonante a cazzo nelle parole delle futili frasi che sciorinava senza sosta. Così a un certo punto la parola "andiamo" fu sostituita da un fantomatico e abnorme *andiaho!
In un filmucolo escrementizio diretto da Castellano e Pipolo, che si intitolava Il Burbero (1986), Adriano Celentano veniva a trovarsi a Siena nel bel mezzo del Palio. Così accadeva che un energumeno paccianesco gli si avvicinava e gli chiedeva con fare autoritario: "Sei dell'Oha?" (alludendo alla celebre Contrada dell'Oca). Così gli rispondeva Celentano, che si improvvisava contradaiolo bullesco: "Hazzo!", con tanto di gorgia in iniziale assoluta. 
In realtà la gorgia toscana non è ben compresa dai mass media, che l'hanno sempre interpretata in modo buffonesco, insensato, tanto per far ridere la gente. Trovo molto utili gli esempi riportati da Vieri Tommasi Candidi nel suo sito web, che invito a consultare per avere maggior chiarezza sulla questione. 
 

martedì 13 luglio 2021

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL RADDOPPIAMENTO SINTATTICO

Su Quora, social network deprecabile quanto deleterio, è comparsa tempo fa questa domanda: 
 
 
"Ho fatto" si pronuncia con un raddoppiamento fonosintattico (ho ffatto)? 

Questa è la risposta del conlanger Alessandro: 

Sì.

Ora so che tutti ti diranno il contrario. Il raddoppiamento fonosintattico non viene notato nemmeno da chi lo usa. Non esiste in molte regioni italiane. Non viene scritto e quindi quando viene notato è subito bollato come errato, anche perché come regola non è intuitiva.

Innanzitutto: il raddoppiamento fonosintattico è la regola per cui le parole tronche (e altre) fanno raddoppiare la consonante iniziale della parola successiva.

Si utilizza anche in italiano standard. Non è un difetto regionale.

E dato che “ho” è monosillabico e tonico, conta come parola tronca. Dunque la parola successiva raddoppia la propria consonante iniziale: quindi, “ho ffatto”.

 
Così ho replicato, usando il mio vero nome, Marco Moretti: 
 
Qui in Lombardia il raddoppiamento fonosintattico non si usa. Non solo: viene percepito come un difetto regionale. Rimane allo stato fossile soltanto in parole come “ovvero”, “eccome” e via discorrendo. L’italiano lombardo si è ormai separato dal toscano e nella competizione linguistica ha acquisito un maggior prestigio (es. anche Pippo Baudo lo usa e non ha mai detto “avvolte hoffatto”). Le lingue cambiano. Nuove varietà si evolvono e lottano tra loro. Alcune prevalgono, altre avvizziscono e infine muoiono. Le accademie, che venerano la lettera scritta e trascurano la lingua viva, non sono in grado di normare la fonetica, limitandosi all’ortografia, alla grammatica e al lessico. Non comprendono che le lingue si trasformano in continuazione. Quando si accorgono di qualcosa, è già troppo tardi. 
 
L'utente ha risposto così al mio intervento: 

Secondo me dovresti ascoltarti meglio: se non senti il raddoppio fonosintattico stai certamente staccando le parole [ˈɔ: ˈfatto]; a Milano [ɔˈffatto] non suona affatto innaturale, purché il raddoppio della f sia debole tanto quello della t. 

Pensava di avere a che fare con un parlante inconsapevole, incapace persino di distinguere i suoni. Così ho ribattuto: 

Negativo. So benissimo come pronuncio le parole: [ɔˈfatto] con [f] come in bifolco e non con [ff] come in affetto, e senza staccare le parole. Così se dico “porta la ciotola a Fido”, il nome Fido ha [f] come bifolco e non si confonde con affido. Come me fanno milioni di Lombardi. Chi usa il raddoppiamento fonosintattico viene riconosciuto subito ed è percepito come bizzarro. Un mio collega, ad esempio, lo usa, e si sente. Dice “porta la ciotola affido”, “avvolte hoffatto”, etc. Tutto ciò può piacere o non piacere, me ne rendo conto, ma i dati di fatto non cambiano. 
 
Aggiungo anche che il "raddoppio della t" di ho fatto non è "debole". Il raddoppio in questione è in piena regola. 
 
Questi sono alcuni altri esempi di contrasti o coppie minime nell'italiano settentrionale: 
 
ha colto è diverso da accolto
ha detto è diverso da addetto 
ha fatto è diverso da affatto 
ha posto è diverso da apposto 
a posto è diverso da apposto 
a Dio è diverso da addio  
a letto è diverso da alletto 
a mettere è diverso da ammettere 
o fendere è diverso da offendere 
 
Esiste anche un interressante doppione: 
 
O Dio! è sentito come diverso da oddio!, pur avendo lo stesso significato
 
Eppure capita che i fautori fanatici del raddoppiamento sintattico, che lo vorrebbero imporre come normativo, ignorino tutte queste evidenze tratte dalla lingua viva usata in Lombardia e altrove. Poi si manifestano navigatori che non comprendono la questione e attribuiscono il problema a una pretesa difficoltà nella pronuncia delle consonanti doppie. In genuino toscano si direbbe che sono bischeri. Bisogna però capire la pervasività del condizionamento scolastico e della tradizione popolare. Quello che voglio far presente è che non siamo di fronte a una difficoltà di pronuncia delle consonanti doppie. Come ho esposto sopra, in "ho fatto" e in "ha fatto", la consonante -tt- è regolarmente doppia anche nell'italiano lombardo, proprio come in quello toscano. Nessuno pronuncia un fantomatico *fato anziché fatto: è assurdo quanto grottesco anche solo pensare una cosa del genere. 
 
Come già ho accennato sopra in un  io intervento, in Lombardia si pronunciano correttamente con la consonante doppia moltissime parole derivate dal raddoppiamento sintattico e fossilizzate. Ne riporto pochissime a titolo di esempio: 
 
ovvero
davvero
nevvero 
neppure  
oppure 
ossia 
chicchessia
dapprima 
siccome 
siffatto 
suvvia 
evviva 
cosiddetto  
 
Interessante è la testimonianza del pugliese Antonio Natile, che riporta un fatto di grande importanza: 

Non so perché ma nel mio dialetto pugliese diciamo “ efatt, afatt, ofatt" per dire “ho fatto, hai fatto, ha fatto”, però quando parliamo italiano tutti dicono “offatto, affatto". Nel dialetto raddoppiamo solo dopo alcuni monosillabi, cioè “è, e, a, più e il che complemento oggetto” e dopo “qualche” e “ogni”; non raddoppiamo neanche dopo le parole che finiscono con la vocale accentata, tipo: perchè, libertà ecc… Eppure quando parliamo italiano imitiamo grossomodo i raddoppiamenti standard, aggiungendo però i nostri, come le b e le g ad inizio parola, oppure raddoppiando la prima consonante di parole come “merda, robe, qua, , più”. 
 
Come si vede, la situazione non è così uniforme come molti vorrebbero. Questi dettaglio sono poco studiati o non lo sono affatto. Eppure meriterebbero maggiore approfondimento. 
 
L'origine del raddoppiamento sintattico 
 
Qual è la vera origine del raddoppiamento sintattico? Un'opinione comune è che risalga al latino. Alcune parole monosillabiche (preposizioni, pronomi, numerali) che finivano in consonante, avrebbero mantenuto causato il raddoppiamento della consonante iniziale della parola seguente. L'utente Josef G. Mitterer, che ha notevoli competenze linguistiche, spiega in dettaglio questa evoluzione fonetica. A pubblica edificazione riporto in questa sede l'intervento:  
 
 
Il raddoppiamento fonosintattico (o geminazione fonosintattica) è, per così dire, "l'eco" delle consonanti finali latine che nello sviluppo verso l'italiano sono scomparse. È il caso, ad esempio, nelle parole

    AD > a
    AUT > o
    ET > e
    PLUS > più
    (EC)CU HOC > ciò
    TRES > tre
    ecc.

La scomparsa di queste consonanti finali ha causato l'allungamento della consonante successiva: AD CASA >
a [kk]asa, AUT MELIU > o [mm]eglio, TRES LIBRI > tre [ll]ibri ecc. Si tratta, dunque di un allungamento compensativo che restituisce la quantità dei suoni in questione. Che dalla scomparsa di un suono risulti l'allungamento di un suono adiacente non è certo un processo particolarmente raro, anche se, almeno nelle lingue indoeuropee, è più frequente l'allungamento compensativo delle vocali, cf., ad esempio dĭsmittere > dīmittere in latino o la cosiddetta 'i lunga' (langes i) tedesca nella cui grafia ⟨ie⟩ si rispecchia ancora il vecchio dittongo /iɛ̯/ che è passato alla vocale scempia, ma, appunto, lunga /iː/. 

La geminazione fonosintattica è simile all'assimilazione totale, il cui risultato è la sostituzione di due consonanti brevi con una consonante lunga: FACTU > fatto, DIXI (= DICSI) > dissi o anche, già in latino, *ad-capere > accipere, *sterla > stella ecc.

In italiano la geminazione fonosintattica non è solitamente rappresentata nella grafia. Se, tuttavia, una delle parole che la causano si è fusa con un'altra parola iniziante per vocale, il fenomeno è afferrabile pure nella scrittura: AUT PURE >
oppure, PLUS TOSTU > piuttosto, (IL)LAC DE UBI > laddove ecc.

È del resto interessante che la geminazione fonosintattica è tuttora
distintiva. In italiano, l'unico esempio che mi viene in mente è la coppia minima a Roma /arroma/ vs. aroma /aroma/. Sono molto più rilevanti gli esempi in napoletano, specie nel "neutro di materia" la cui geminazione risale alla /-d/ finale nel dimostrativo neutro latino ILLUD > o, opposto a ILLU > o: ILLUD FERRU > o ffierro 'ferro (in contesto generico), ILLU FERRU > o ferro 'il ferro (concreto, presente)'.
 
I romanisti non si sono realmente occupati dei dettagli dell'evoluzione delle forme verbali dal latino volgare alle lingue romanze. Faccio un esperimento e provo a ricostruire alcuni di questi passaggi, perduti quanto negletti dagli studiosi.  
 
habes "tu hai" > *habs (1) > hai
habet "egli ha" > *hapt > ha
facis "tu fai" > *fax > fai 
facit "egli fa" > *fact > fa
potes "tu puoi" > *pos > puoi
potest "egli può" > *post (2) > può
sapis "tu sai" > *saps > sai
sapit "egli sa" > *sapt > sa 
vadis "tu vai" > *vas > vai
vadit "egli va" > *vat > va
*vols "tu vuoi" (sostituisce il classico vis) > vuoi   
*volt "egli vuole" (sostituisce il classico vult) > vuole  
 
(1) La h- del verbo habere è puramente grafica. La indichiamo soltanto per motivi storici. 
(2) La forma italiana antica puote è invece regolarmente da potest
 
Sono incline a cercare di ricostruire forme dirette e plausibili per le parole concretamente usate nella lingua italiana. Mi rendo conto di pooter essere scambiato per un costruttore di arzigogoli.   

*habnunt "hanno" > hanno 
facere "fare" > *facre > fare 
*facnunt > fanno
dicere "dire" > *dicre > dire  

Queste sono alcune brevi frasi ricostruite: 
 
*hapt dictu > ha ddetto 
*hapt factu > ha ffatto 
quid dicit? > che ddice? 
*quid fax? > che ffai? 
*quid fact? > che ffa? 
 
In alcune varietà di toscano e in napoletano avviene questo sviluppo: 
 
quid est? > chedè? 
 
Nel Web c'è gente che prova un sincero orrore per questa locuzione vernacolare, che a voler ben vedere è più autentica dell'italiano "cos'è?", risalendo in modo diretto al latino volgare - anche se in italiano standard non la si può usare altrimenti la Crusca si arrabbia. 
 
Dante Alighieri ci riporta nel De vulgari eloquentia il caso di una frase comune della parlata romana della sua epoca: 
 
Messure, quinto dici? "signore, cosa dici?" 
 
quid tu dicis? > *quittu dici? > quinto dici?   

Si tratta di una dissimilazione, in cui la consonante raddoppiata -tt-, venutasi a creare per motivi sintattici, viene mutata in -nt-. Mi pare che questo caso sia una reazione al raddoppiamento sintattico e che non sia stato studiato praticamente da nessuno.  
 
Il raddoppiamento sintattico che occorre dopo ogni potrebbe spiegarsi facilmente: 
 
Omnes Sancti > Ognissanti  

A questo punto tutto sembrerebbe filare liscio. 
 
Alcuni problemi di non poco conto
 
Esistono numerosi casi in cui il raddoppiamento sintattico non può essere giustificato dall'assimilazione di un'antica consonante finale di parola alla consonante iniziale della parola seguente. 
 
1) Forme verbali monosillabiche di prima persona singolare 
Consideriamo questi semplici casi: 
 
*habeo "io ho" > *habjo > *hajo > *hao, ao > ho
*sapio "io so" > *sabjo > *sajo > sao > so
 
La forma sao è realmente attestata in uno dei primi documenti in una lingua romanza, i Placiti Cassinesi, in cui ricorre tre volte, in due testimonianzze registrate nel marzo del 960 e in una testimonianza registrata nell'ottobre del 963. Eccole:  
 
1) Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.
(Capua, marzo 960)

2) Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette.
(Sessa, marzo 960)

3) Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette parte sancte Marie.
(Teano, ottobre 963)

Si nota subito il raddoppiamento sintattico: sao cco "so che". Eppure non ci dovrebbe essere. Si possono avere nel mondo romanzo anche esiti diversi di habeo e di sapio, in cui la consonante labiale seguita da approssimante palatale si è evoluta in un'affricata: in napoletano abbiamo aggio "io ho" e saccio "io so". Non si ha alcuna consonante finale in nessuno di questi casi di prime persone singolari monosillabiche del presente indicativo. Eppure esse producono il raddoppiamento sintattico. Come mai? I romanisti pensano che si tratti di esiti dovuti all'analogia con la terza persona singolare. 
 
2) Il pronome  di seconda persona singolare 
Il pronome tu dà luogo a raddoppiamento sintattico, eppure non ha mai avuto una consonante finale. Per rendere conto della spiegazione dei romanisti, dovremmo ammettere che esistono due possibilità: 
i) L'analogia con altri monosillabi;
ii) Il fatto che tu nell'italiano potrebbe derivare da forme più complesse, come tumet o tupte "tu stesso": 
 
tumet > *tumt > tu
tupte > *tupt > tu
tupte facis > *tupt fax > tu ffai 
tupte sapis > *tupt saps > tu ssai  
 
Queste protoforme romanze sono talmente contorte che difficilmente le si potrà ritenere sensate.  
 
3) I prefissi intra-, contra-, sovra- / sopra- 
Esistono in italiano numerose formazioni in cui non esiste alcuna consonante latente che possa giustificare il raddoppiamento. 
 
intrattenere 
intrattenitrice 
contraddire 
contraddetto 
contraddittorio 
contrapporre 
contrapposto
contrapposizione 
contravveleno 
contravvenire 
contravvenzione 
sopraggiungere 
soprattutto
sovrannaturale / soprannaturale 
sovrapporre 
sovrapposto 
sovrapposizione  
 
4) Alcuni prestiti esotici 
La parola caffè genera raddoppiamento sintattico nel composto caffellatte. Si è arrivati al punto che in Lombardia bisogna scrivere caffellatte altrimenti la Crusca si arrabbia, anche se si pronuncia a tutti gli effetti caffelatte. Ebbene, caffè deriva dall'arabo qahwa, che non ha alcuna consonante finale. In un racconto fantasy di Fritz Leiber, La maledizione delle piccole cose e delle stelle (The Curse of the Smalls and the Stars, 1988), il caffè è chiamato kahved. Notevole la consonante finale, che però non ha alcun fondamento etimologico. In italiano si è formato un diminutivo cafferino, segno che è diffusa la credenza popolare in una derivazione di caffè da una fantomatica protoforma *caffèr. Anche il derivato caffettiera sembra essere dovuto alla credenza popolare in una derivazione di caffè da una fantomatica protoforma *caffèt. Probabilmente esistono anche altre parole entrate in italiano in epoca non troppo remota, che generano un raddoppiamento sintattico senza una valida giustificazione. 
 
Una soluzione alternativa 
 
Sono dell'idea che la teoria delle consonanti latine latenti potrebbe non essere una spiegazione completa e definitiva del raddoppiamento sintattico. Forse sarebbe più semplice una spiegazione fonologica, che riduce tutto a un fenomeno compensativo: 
 
sillaba tonica + consonante semplice seguente => 
sillaba atona + consonante raddoppiata 
 
Del resto, se i romanisti attribuiscono all'azione dell'analogia qualsiasi cosa che depone contro la loro teoria, non si può dire molto di sensato. Proviamo ad applicare il Rasoio di Occam, tanto caro ai fautori del riduzionismo! Sarebbe cancellata ogni macchinazione romanistica. All'istante. Il filosofo Karl Popper direbbe che le teorie dei romanisti non sono falsificabili, quindi nessuno ne potrebbe mai dimostrare la veridicità. Va anche detto questo: se si nomina Popper, tutti dicono che è una specie di liquido volatile venduto dai pusher, che è annusato soprattutto dai sodomiti passivi! Detto questo, parlerò sempre in italiano lombardo, come mi hanno insegnato i miei genitori (RIP), respingendo con sdegno e orgoglio il raddoppiamento sintattico! Gli accademici fautori della lingua normativa possono anche tenersi un sacchetto di merda.