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lunedì 30 settembre 2019

UN FALSO GERMANISMO: LA PAROLA 'BIONDO'

L'etimologia della parola biondo è incerta, checché se ne dica. Il Vocabolario Treccani riporta a questo proposito uno stringato commento: [da una radice *blund-, prob. germ.]. Simili proposte di un'origine germanica si trovano ancora di recente (Nocentini, 2010) e sono ben radicate nella tradizione. Sappiamo che si tratta di un vocabolo diffuso nelle lingue romanze, che sembra aver avuto il suo centro di diffusione nel territorio gallico. Le prime attestazioni in italiano risalgono al XIII secolo. Questo troviamo nella lingua d'oïl e nella lingua d'oc: 

Francese antico: blontz, blonz (forma obliqua blont, blunt
Provenzale antico: blons (forma obliqua blon

Lo spagnolo blondo è un evidente articolo d'importazione. In sardo abbiamo brundu "biondo", in genere ritenuto di introduzione tarda dalla Spagna, anche se avrei qualcosa da obiettare a riguardo.  

Il latino tardo *blundus, ricostruibile dai dati a disposizione, non è in ogni caso attestato. Piaccia o no, nessuna delle lingue germaniche conosciute possiede un vocabolo *blund col senso di "biondo" o di "giallo", che possa essere l'antenato diretto della forma tardolatina in questione. Certo, in inglese si trova blond "biondo", ma si tratta di un prestito dal francese, introdotto nel XVII secolo. Per giunta, la parola era sentita fino a non molto tempo fa come straniera, tanto che si usa tuttora la forma blonde "bionda" (variante antiquata blounde), con indicazione del genere femminile. Allo stesso modo in tedesco esiste l'aggettivo blond "biondo", che però non è affatto nativo, essendovi giunto dalla Francia. Non vi è alcuna prova che sia esistita nalla lingua dei Franchi la parola *blund "biondo", "giallo". Errano quindi coloro che danno per assodata questa etimologia. Il protogermanico *blundaz, ricostruito deduttivamente per spiegare le forme attestate nelle lingue romanze, è soltanto una futile speculazione: la sua natura è in ultima analisi fantomatica. 

Confutazione dell'origine anglosassone 

In antico inglese esistono due interessanti parole: il composto blonden-feax "dai capelli grigi" e il verbo beblonden "tinto". Il verbo d'origine di queste forme sarebbe il raro blandan "mescolare", che nel dialetto della Mercia suonava blondan. Così abbiamo anche blanden-feax per blonden-feax. Il participio passato beblonden avrebbe il significato originario di "mescolato" e sarebbe dunque passato ad acquisire il senso di "screziato", quindi "grigio" o "tinto". In norreno abbiamo blandinn "mescolato", attestato anche col senso di "confuso": ad esempio si usa questo vocabolo parlando di un colono che credeva sia in Cristo che in Thor, essendo molto confuso nelle cose della fede. Non esiste però nell'antico nordico nessuna menzione di un uso per indicare un colore. C'è un problema di non poco conto. Le forme anglosassoni citate hanno la vocale originale -a-, essendo -o- uno sviluppo successivo. La vocale -o-, che ha un suono aperto [ɔ], si è prodotta in epoca così tarda da non poter spiegare le forme romanze, che partono invece da un suono chiuso, reso con -u- in tardo latino e sviluppatosi in [o] in italiano.

La vera origine ligure della parola 

Esiste un toponimo ligure di estremo interesse nella Tabula alimentaria di Veleia che contiene proprio la radice che ci interessa:  si tratta di Blondelia. Questi sono gli estratti del testo in cui compare: 

[OBLIGATIO 5 / I]

   item l [1, 75] fund(um) Calidianum Licinianum, pag(o) s(upra) s(cripto), vico Blondelia, adf(inibus) Antonio Sabino et Calidio Prisco - 

Traduzione:

[IPOTECA 5 / I]
   e pure [1, 75] il fondo Calidiano Liciniano - che si trova nel distretto succitato, nella circoscrizione Blondelia, e confina con le proprietà di Antonio Sabino e di Calidio Prisco -

E ancora: 

[OBLIGATIO 21 / IV]

C(aius) Calidius Proculus prof(essus) est
   praed(ia) rustica (sestertium) CCXXXIII (milibus) DXXX n(ummum):  
   accipere deb(et) (sestertium) / XVI (milia) CCCXXXVIII n(ummum) et obligare
   fund(um) paternum, in Veleiate pag(o) Albense, / <vicis>
Blondeliae <et> Seceniae adf(inibus) Calidio Vero et Antonis Vero et Prisca, quem / professus est (sestertium) XCIV (milibus) DC (nummum):
    in (sestertium) VIIII (milia);


Traduzione: 

[IPOTECA 21 / IV]
Caio Calidio Proculo ha dichiarato
    proprietà agrarie per un valore di 233.530 sesterzi:
    deve ricevere 16.338 sesterzi e ipotecare
    il fondo ereditato dal padre - che si trova nel distretto Albese del territorio veleiate, nelle circoscrizioni Blondelia e Secenia, e confina con le proprietà di Calidio Vero e degli Antoni, Vera e Prisco -, che egli ha dichiarato per un valore di 94.600 sesterzi:
   riceve 9.000 sesterzi;



Il toponimo Blondelia significava "Terra Gialla", "Terra Ocra". Si noti che nello stesso documento è citato anche il f(undum) Glitianum Roudelium (sempre nel distretto Albese). Roudelium significava proprio "Terra Rossa". Le denominazioni tratte dal colore del terreno erano assai comuni nell'antichità. Il mistero è stato quindi svelato. Il ligure *blondos "giallastro" ha dato in latino tardo *blundus, donde derivano l'italiano biondo e le altre forme romanze. Già il Devoto a suo tempo aveva classificato questo vocabolo come "leponzio", intendendo evidentemente "ligure", sfidando così l'imperante ipotesi germanica.

Deliri dei romanisti 

Nessun senso pur elementare di ritegno alberga tra i romanisti, che hanno cercato di ricondurre il latino tardo *blundus a forme del latino più antico. Così alcuni di loro hanno scritto in preda alla demenza, affermando che *blundus sarebbe una "pronuncia popolare" di flāvus "biondo" - ovviamente senza avere idea di come una simile distorsione si sarebbe potuta produrre. Altri ancora, ignari persino dell'esistenza di lingue diverse dal latino, hanno costruito una forma artificiosa *albundus, facendola derivare chissà come da albus "bianco" e pensando che possa aver dato *blundus per "corruzione popolare". Dispiace constatare che gli autori di simili aberrazioni non siano stati deportati in Siberia e lasciati perire nudi nella tundra.

venerdì 16 agosto 2019

ALBIGESI E ALBANESI

Com'è risaputo, le genti del mondo chiamano i Buoni Uomini e i Credenti usando molte denominazioni, tra cui una delle più note ed usate è Albigesi. Ad esempio, la funesta guerra di sterminio bandita da Innocenzo III contro la Linguadoca è chiamata crociata contro i Catari e gli Albigesi. Il funesto pontefice romano voleva sradicare i suoi ex correligionari dalla società umana, emanando un Decreto di Estinzione che non è mai stato revocato: così come gli Israeliti hanno tuttora il comandamento di estinguere la stirpe di Amalek, allo stesso modo è ancora incluso nei canoni della Chiesa Romana il comandamento di annientarci, dovunque noi siamo, anche se tutto ciò che ci resta è un'idea. Il nome Albigesi è stato attribuito in modo prevalente ai Buoni Uomini e i loro Credenti per tutto il XIX secolo e buona parte del XX. Eppure non si tratta di una definizione teologica, bensì geografica. 

Come fa notare il Duvernoy, l'origine del termine Albigesi risiede nella lingua del Paese di Oïl, dove era uso comune chiamare in questo modo l'intera popolazione della Linguadoca. In particolare l'aggettivo si riferisce alla città di Albi, che in epoca antica era chiamata Albiga. Pars pro toto. Si pensa che il toponimo sia di origine ligure, anteriore all'arrivo dei Celti: è derivato da una radice *alb- che indica l'altura, la montagna, e che si ritrova non soltanto nel nome delle Alpi, ma anche in quelli di città come Alba Longa. A conferma dell'uso geografico dell'epiteto, sono stati chiamati Albigesi non soltanto i Buoni Uomini e i loro Credenti, ma anche i Valdesi, che non aderiscono certo all'Entendensa de Be. Non sono rare le menzioni di autori del XVIII e del XIX secolo riguardanti i Valdesi, descritti erroneamente come discendenti di Albigesi. Ancora oggi alcuni integralisti cattolici sono convinti dell'origine catara del Valdismo soltanto perché alcune comunità di Credenti Catari hanno trovato scampo nelle Valli Valdesi in Piemonte, permanendovi a lungo. 

Altro significativo problema è quello dell'origine del termine Albanese, che in Italia indicava coloro che professavano il Dualismo Assoluto della Chiesa di Dragovitsa - ad esempio la comunità di Desenzano. Secondo alcuni tale epiteto sarebbe semplicemente derivato dal nome di un Vescovo chiamato Albano, ma va detto che di un tale prelato dualista non si trova alcuna traccia sicura nelle cronache. Resta ad illuminarci come un faro il Compendio scritto da Giovanni di Lugio, che afferma in una frase: "i Veri Cristiani che a giusto titolo sono chiamati Albanesi"

Jean Duvernoy nota: "Se si trattasse di un appellativo di convenzione derivato da una località oppure da una persona, ormai dimenticata, "a giusto titolo" (recto nomine) non avrebbe senso. Quale sinonimia può esserci tra "veri cristiani" e "albani o albanesi"? Se, invece, Albanenses è la forma italiano di Albigesi, come non vedere dei veri cristiani in coloro che si richiamano ai martiri dell'immenso massacro?" (maiuscole e minuscole sono dell'autore).

Altre ipotesi più stravaganti ipotizzano che il termine Albanesi sia derivato da Alba, in Piemonte, oppure dall'Albania. Secondo i dati del sito Gens Labo, il cognome Albigese, inequivocabile, è presente in due soli comuni, uno i Friuli e uno in Campania. Un cognome Albigesi, altrettanto sicuro, si trova nei pressi di Torino. 

domenica 16 giugno 2019

UN VOCABOLO NORRENO PER INDICARE UN TIPO DI FOCA: ORKN, ERKN, ØRKN

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

orkn (n.), tipo di foca 

Si trovano anche le seguenti varianti:  

erkn (n.),
ørkn (n.). 


Le corrispondenti forme ricostruite in protogermanico sono le seguenti: 

*urkanan
*urkinan 


La prima delle protoforme riportate spiega la variante orkn, mentre la seconda è senza dubbio all'origine delle due forme che mostrano l'Umlaut palatale, ørkn e erkn, essendo la forma con vocale /e/ una mera semplificazione fonetica di quella con vocale bemollizzata /ø/

Ci sono stati alcuni deboli tentativi etimologici per spiegare queste voci enigmatiche e antichissime, a parer mio tutti vani, grotteschi o insidiosi.

Alcuni reputano che l'origine sia l'antico inglese orc "demonio", che viene dal latino Orcus "Averno, Regno dei Morti; Dio degli Inferi" (e per metonimia "morte"), a sua volta prestito dal greco Ὅρκος (Horkos). Il teonimo ellenico indica il figlio di Eris, una divinità che si credeva punisse il falso e gli spergiuri. Si tratta di uno sviluppo semantico che si riscontra anche nell'italiano orco "gigante, mostro". La traduzione della parola greca ὅρκος, supposta origine del corrispondente teonimo, è "oggetto su cui si giura". L'etimologia ultima è a mio avviso sconosciuta; l'associazione al giuramento potrebbe anche essere dovuta a una paretimologia. 

Coloro che sostengono l'origine della parola norrena orkn "tipo di foca" dall'antico inglese orc "demonio", "Inferno", potrebbero addurre a giustificazione dello slittamento semantico il fatto che i pinnipedi erano di fatto ritenuti sinistri e funesti già in epoca pagana. Con l'arrivo del Cristianesimo, questa opinione si sarebbe addirittura rafforzata. Gianna Chiesa Isnardi accenna a fatti davvero singolari: i cavalieri del re cristiano Olaf Tryggvason uccidevano foche e trichechi ritenendoli manifestazioni del Demonio. Si gettavano contro i pingui animali infilzandoli con le lance e finendoli a colpi di mazza o di scure, per la gioia dei moderni animalisti. Lascio ai miei detrattori la fatica di sfogliare il seminale volume dell'autrice in questione, I miti nordici, per trovare la citazione esatta (non colorita come la mia descrizione, ma comunque evocativa di stragi e mattanze).

La prima cosa che può venire in mente a un lettore è la parola italianissima orca, che indica il ben noto cetaceo, chiamato in inglese killer whale, alla lettera "balena assassina". Certo, una foca non è un'orca, ma entrambi sono senza dubbio mammiferi acquatici. Hanno qualcosa in comune.  

In latino abbiamo il seguente interessante vocabolo:  

orca (f.)
1) orcio, barile, giara
2) bussolotto per i dadi
3) orca, cetaceo


Secondo i romanisti, il significato 3) proverrebbe dal significato 1) per metafora, come se l'orca fosse un grosso recipiente rigonfio, data la sua forma. Essi sostengono anche che alla base di questa parola ci fosse l'idea dell'Ade come di un immenso animale inghiottitore. Anche per l'amatissimo Popolo Eletto, l'Oltretomba, chiamato Sheol, è una specie di animale inghiottitore non dissimile da un mostro marino. Certo, tutto è molto tirato per i capelli - cosa che è la norma nel mondo concettuale degli accademici. 

Il latino orca nel senso di "barile" è una parola giunta a mio avviso dall'etrusco: si tratta in sostanza di una variante della seguente: 

urceus (m.)
1) orcio, brocca
2) boccale


Con l'aggiunta di un suffisso in nasale abbiamo questo derivato: 

urna (f.)
1) brocca, orcio
2) scrigno
3) urna elettorale
4) urna funebre
5) unità di misura per liquidi (circa 13 litri)


Ricostruiamo queste forme etrusche indicanti tipi di vasi:

*urce 
*urcna
, *urχna


Una forma urcna è attestata realmente in falisco, una lingua italica molto affine al latino. Si tratta di un chiaro prestito dall'etrusco. In greco antico troviamo poi anche ὔρχα e ὔρχη "giara", senz'altro della stessa identica origine. Nobili ingegni come il Trombetti già ai tempi del Duce ipotizzavano che questi vocaboli traessero la loro origine da una radice "mediterranea" che ritroviamo anche nel basco ur "acqua". L'orcio e l'urna dovevano essere in origine dei vasi potori, atti a contenere l'acqua.

Resta ora da capire quale sia la vera origine di orca nel senso di "cetaceo", che è il corrispondente più probabile e diretto del norreno orkn "tipo di foca". In greco esiste ὄρυξ (óryx) "grosso pesce", di origine pre-ellenica, che potrebbe avere qualche connessione. E se si trattasse di una "bestia acquatica", proprio come l'orcio e l'urna sono "vasi dell'acqua"? Sarebbe suggestivo. Forse un giorno recupereremo tutti i dati necessari a determinare una volta per tutte la genealogia di questa famiglia lessicale! 

Nel mondo anglosassone ci sono accademici, per tradizione poco attenti al vasto ginepraio dei sostrati preindoeuropei presenti in greco e in latino. Le idee che coltivano costoro sono molto più prosaiche delle mie: credono che il latino Orcus sia giunto dal latino fino all'antico irlandese, entrando poi direttamente in norreno all'epoca delle scorrerie vichinghe. Il punto è che in antico irlandese orc ha tutt'altro significato, che mi accingo a illustrare nel seguito.

La questione delle connessioni col mondo celtico insulare è in ogni caso particolarmente importante, perché già i Vichinghi avevano usato la parola orkn "tipo di foca" per fornire un'etimologia facilmente comprensibile e diretta del toponimo Orkn-eyjar "Orcadi", alla lettera "Isole delle Foche". Dobbiamo però notare che il toponimo era già noto nell'antichità classica come Orcades. Per l'appunto, le Orcadi.

In antico irlandese abbiamo le seguenti voci, di origine indoeuropea:

orc "maiale"
     < protoceltico *orkos < IE *pork'os
   
(cfr. latino porcus)
orc "salmone"
     < protoceltico *orkos < IE *pork'os
    (cfr. greco antico πέρκη "tipo di pesce di fiume, perca") 


La forma orc "salmone" ha un parallelo notevole anche in antico ligure nell'idronimo Porcobera "Polcevera", alla lettera "che porta trote".  La perdita della labiale *p- indoeuropea è un tipico carattere celtico, presente già nelle più antiche attestazioni delle lingue di quel tipo - e per contro assente in ligure.

Conclusioni: 

Capiremo qualcosa di più quando si potrà diradare la nebbia che ricopre il panorama delle lingue preindoeuropee che precedettero il latino, il greco, il celtico e il germanico. Spero ardentemente che quel giorno arriverà presto!

lunedì 18 febbraio 2019


LA CORONA DI FERRO

Titolo originale: La corona di ferro
Paese di produzione: Italia
Anno: 1941
Lingua: Italiano
Durata: 97 min
Dati tecnici: B/N
Rapporto: 1.37:1
Genere: epico, fantastico, avventura
Regia: Alessandro Blasetti
Soggetto: Alessandro Blasetti, Renato Castellani
Sceneggiatura: Corrado Pavolini, Guglielmo Zorzi, Giuseppe
      Zucca, Alessandro Blasetti, Renato Castellani
Casa di produzione: E.N.I.C.
Distribuzione in italiano: E.N.I.C.
Fotografia: Václav Vích, Mario Craveri
Montaggio: Mario Serandrei
Musiche: Alessandro Cicognini (direzione orchestrale di
      Pietro Sassoli)
Scenografia: Virgilio Marchi
Costumi: Gino Carlo Sensani
Interpreti e personaggi
    Gino Cervi: Re Sedemondo di Kindaor, padre di Elsa
    Massimo Girotti: Arminio / Licinio, padre di Arminio
    Elisa Cegani: Elsa / madre di Elsa, regina di Kindaor
    Luisa Ferida: Tundra / Kavaora, madre di Tundra
    Rina Morelli: la vecchia del fuso
    Osvaldo Valenti: Eriberto
    Paolo Stoppa: Trifilli
    Primo Carnera: Klasa, il servo di Tundra
    Umberto Silvestri: Farkas
    Stelio Carnabuci: Re Artace
    Amedeo Trilli: un re al torneo
    Renato Navarrini: ministro del re della Rosa
    Giorgio Gentile: il re della Rosa
    Ugo Sasso: Artalo
    Piero Pastore: Sestio
    Vittoria Carpi: sposa di Artalo
    Satia Benni: la vedova
    Dina Perbellini: nutrice
    Maurizio Romitelli: Arminio da piccolo
    Rossana Rocchi: Elsa da piccola
    Pietro Germi: Cavaliere
    Mario Ersanilli
    Antonio Marietti
    Umberto Sacripante
    Ada Colangeli
    Jolanda Fantini
    Giovanni Stupin
    Adele Garavaglia
    Gemma D'Ambri
    Perla Martinelli
    Adriano Micantoni
    Alda Perosino
    Mario Mazza
    Giovanni Stupin
    Piero Carnabuci
    Renato Karninski
    Lino Bears
Doppiatori originali
    Augusto Marcacci: Licinio
    Gualtiero De Angelis: Arminio
    Lauro Gazzolo: Eriberto
    Giovanna Scotto: nutrice
Titoli tradotti:
    Inglese: The Iron Crown
    Francese: La Couronne de Fer
    Spagnolo: La Corona de Hierro
    Portoghese: A Coroa de Ferro
    Russo: Железная корона
    Norvegese: Sagnet om jernkorset
    Ungherese: Vaskorona
Premi: 
   Coppa Mussolini al miglior film italiamo (alla Mostra
   internazionale d'arte cinematografica di Venezia, 1941)

Trama:
Siamo in un'epoca di grande decadenza, in cui le tenebre avvolgono la terra dopo il crollo del potere imperiale di Roma. Volendo propizare la pace nell'Occidente devastato da incessanti conflitti, l'Imperatore di Bisanzio invia al Papa la Corona di Ferro, forgiata con un chiodo della crocefissione di Gesù. La spedizione giunge in Italia, nel regno di Kindaor, dove si è appena conclusa una terribile guerra che ha visto Licinio trionfare su Artace. Il vincitore vuole offrire allo sconfitto una pace onorevole, ma ecco che il proprio fratello Sedemondo, pieno d'odio e avido di potere, gli trafigge il cuore con un giavellotto, usurpandone prontamente il regno. Il popolo di Artace è condannato alla schiavitù. Non contento di questi crimini, Sedemondo intercetta la spedizione con la Corona di Ferro alle gole di Natersa, un luogo insidioso in cui l'arciere Farkas stermina la scorta bizantina. La reliquia però sprofonda nel terriccio e il sovrano non riesce a recuperarla. A questo punto Sedemondo, che attraversa una foresta, viene ammonito da una misteriosa vecchia filatrice, che gli profetizza la rovina a causa degli atti sacrileghi di cui si è macchiato. Così descrive la nemesi dell'usurpatore fratricida: gli sarebbe nata una figlia, che avrebbe amato alla follia il figlio maschio del fratello ucciso, fino a morirne. Nel frattempo la moglie di Sedemondo ha dato alla luce una femmina, Elsa, che viene scambiata con Arminio, il figlio della moglie del defunto Licinio. I due vengono cresciuti come fratello e sorella. Tutto fila liscio per un po', ma alla fine il re di Kindaor scopre l'inganno. Così Sedemondo colpisce con la sua vendetta: fa rapire Arminio da un servo, che ha l'ordine di abbandonare il bambino nella Valle dei Leoni, per poi passare dalle gole di Natersa. Tornato nel bosco dalla vecchia filatrice, il sovrano la sfida, millantando di aver vinto il Fato. La Norna gli cancella la memoria ed egli è incapace di ricordare cos'è accaduto ad Arminio. Per scongiurare ogni pericolo di inveramento della profezia dell'incesto, decide di condannare Elsa ad essere segregata nella reggia, che fa chiudere al mondo esterno con tre cancelli concentrici. Vent'anni dopo, Sedemondo bandisce un grande torneo, a cui parteciperanno principi di tutte le nazioni, il cui vincitore sposerà Elsa. A questo punto un terremoto apre un passaggio nell'isolata Valle dei Leoni. Arminio, che è cresciuto con le fiere, esce dal suo microcosmo durante l'inseguimento di un cervo. Ritrovatosi all'esterno, per la prima volta in vita sua vede altri esseri umani. Si imbatte in Tundra, la figlia di Artace, trovandola molto attraente. Questa comprende l'ingenuità del giovane, così lo incita a partecipare al torneo e a darle sostegno nella ribellione del suo popolo contro il tirannico Sedemondo. Appena Arminio giunge nella capitale del regno, le cose si complicano. Incontra Elsa, che si fa passare per la propria serva. Com'è ovvio, se ne innamora subito, mettendosi così in una situazione insostenibile con Tundra. Dopo una girandola di colpi di scena e di intrighi, ecco che tutto precipita verso il drammatico finale. Elsa, giunta alle gole di Natersa, si frappone tra l'esercito di Sedemondo e quello degli insorti. Colpita da una freccia scoccata dall'arco di Farkas, viene inghiottita da una voragine prodigiosa che spacca la terra separando i contendenti, mentre la Corona di Ferro ritorna alla luce. Accade così che la pace viene restaurata. Arminio e Tundra si sposano e regnano su Kindaor, in cui al contempo trionfa il Cristianesimo. 



Recensione:
Il film di Blasetti è stato proiettato al Cineforum Fantafilm dell'amico Andrea "Jarok" Vaccaro il 18 dicembre 2006. Non ho potuto essere presente. Avevo visto questa pellicola quando ero un marmocchio e mi era rimasta impressa. Ho poi avuto occasione di rivederla a molti anni di distanza. Blasetti ha fuso in un immenso calderone ogni sorta di mitologema mediterraneo e nordico, aggiungendovi gli ingredienti più impensabili. Si trova proprio di tutto: Tarzan, Robin Hood, il Milione di Marco Polo, Edipo Re, le fiabe di Andersen e via discorrendo. Per impedire al racconto di andare alla deriva in un mondo di pura fantasia, sono stati fissati alcuni riferimenti storici: l'Imperatore di Bisanzio, il Papa, il Cristianesimo e per l'appunto la Corona di Ferro. Non si bada troppo all'anacronismo e all'inverosimiglianza, travalicando non di rado il confine del pacchiano e del grottesco. Il sovrano dei Tartari, con un tipico nome alto tedesco, Eriberto (Heribert), veste gli abiti più implausibili. I Burgundi sono presentati come nobiluomini della Francia medievale; per giunta il principe di tale nazione è un po' effeminato. Che dire poi della Valle dei Leoni? Si sa, sono ben celebri i leoni autoctoni nel Friuli e nel Trentino. Vero è che in epoca storica esistevano ancora leoni in Grecia e nei Balcani, ma l'idea di una colonia di grandi felini in Italia settentrionale mi sembra esilarante. Detto questo, La corona di ferro rimane un pilastro della filmografia fantasy del XX secolo. 



La furia di Goebbels 

Questo si tramanda, che Joseph Goebbels poté assistere alla proiezione del film mentre si trovava a Venezia nel 1941. Durante lo spettacolo il gerarca perse le staffe e tuonò contro il regista: "Con simili idee, in Germania sarebbe finito immediatamente al muro!" (devo recuperare l'originale in tedesco dell'invettiva). Tale fu l'influenza del giudizio del nazionalbolscevico di Rheydt, anche nella Germania postbellica, che il titolo del film di Blasetti non fu mai tradotto in tedesco!
Ora siamo costretti a porci un inquietante interrogativo. Cosa aveva davvero turbato il Diavolo Zoppo al punto di fargli perdere le staffe, facendo fare una ben misera figura al Reich Millenario? Era davvero un'astratta idea pacifista, a malapena percettibile nell'opera di Blasetti, a farlo imbestialire? Oppure la colpa è da attribuirsi a qualche personaggio ritratto in modo impietoso e lontanissimo dagli stereotipi fisici e morali dell'eroe germanico? Qualcosa che contrastava con le caratteristiche del perfetto membro della NSDAP? Forse non sapremo mai a quale minuto della proiezione scattarono le ire del Ministro della Propaganda. La mia supposizione - spero che non sia considerata una chiacchiera da enoteca - è questa: egli fu turbato dall'accostamento di un eroe di nome Arminio a Tarzan e a tutto l'immaginario scimmiesco che il nome burroughsiano si portava dietro. L'epopea germanica contaminata da suggestioni africane, negroidi! Blasetti mostrava le bizzarrie più impensabili e nemmeno un Sigfrido biondo. Però, se così fosse stato, l'uomo che arringava le folle a Norimberga avrebbe dovuto guardare se stesso, per prima cosa. Riporterò a questo punto un paio di versi composti dall'impavido Ernst Röhm, che non temeva nulla e che fu sempre franco con tutti. 


Lieber Gott mach mich blind, 
dass ich Goebbels arisch find! 

Mio Dio, rendimi cieco,
affinché possa credere che Goebbels sia ariano!
 


Peccato che nelle scuole italiane di queste cose alquanto interessanti non si faccia la benché minima menzione. 


Eriberto o la germanizzazione dei Tartari  

Eppure sono convinto che qualcosa di positivo Herr Goebbels nel film di Blasetti lo avrebbe facilmente trovato, se soltanto fosse stato più collaborativo. Forse gli rodeva ancora il fatto di essere stato costretto a lasciare l'amante. Fatto sta che il sovrano dei Tartari, come già accennato, porta un nome germanico. Il regno di Kindaor, chiaramente germanico, è menzionato come la più potente nazione dell'intero globo terracqueo. Ai tempi dei cosiddetti regni romano-barbarici l'etnonimo dei Tartari (in realtà Tatari) non era conosciuto nei territori che furono dell'Impero Romano d'Occidente: si sarebbe parlato semplicemente di Unni. Se il regista avesse etichettato Eriberto come Re degli Unni, la sua opera avrebbe avuto un punto di contatto in più con la realtà storica - per quanto labile. In fondo anche il glorioso nome di Attila proviene dalla lingua dei Goti e significa "Piccolo Padre". Proprio come il soprannome di Stalin.

Etimologia di Kindaor 

Il toponimo Kindaor non ha origini germaniche. Sembra invece derivare da una lingua celtica. La protoforma è ricostruibile come *Kuno-tauros, ossia "Montagna dei Cani", essendo *tauros un elemento del sostrato ligure che emerge ad esempio nel nome dei Taurini e della loro antica capitale, Taurasia. Si presuppone un'evoluzione tipica delle lingue celtiche della Britannia: *Kuno-tauros > *Kyn-dawr > Kindaor. In antico irlandese, nel linguaggio poetico, "cane" (gen. con; pl. coin) significa anche "lupo" e "guerriero". La stessa semantica la troviamo nell'antica Iberia, nel nome dei Conetes, che compare anche nel toponimo Conimbriga (oggi Coimbra).  Ho a questo punto una domanda. Poteva il regista del film spingersi a una simile comprensione del nome da lui inventato? Ho i miei dubbi. Tuttavia mi piace trovare un senso profondo anche nelle figure confuse delle piastrelle del bagno e del marmo dei pavimenti. Distillo conoscenza dalla pareidolia. Il bello è che ne escono spesso cose verosimili, compatibili con quanto possiamo dedurre dei tempi antichi.

Etimologia di Sedemondo 

Questo antroponimo maschile è schiettamente germanico. Deriva da una protoforma *Siðu-munduz e significa "Difensore del Costume". Si confronti ad esempio il norreno siðr "costume, tradizione", che ha la stessa radice. Nelle fonti in latino, se fosse documentato, il nome del Re di Kindaor sarebbe stato reso come Sidimundus o Sidimund. La forma Sedemondo presenta indizi di sviluppi romanzi, cosa che non deve stupire. Blasetti fu ispirato, non ci sono dubbi! Anche se la lingua di Wulfila era per lui un libro chiuso, creò come se la conoscesse.    

Etimologia di Tundra 

Questo antroponimo femminile ha una perfetta corrispondenza in norreno: Thóra. Deriva chiaramente dal teonimo protogermanico *Þunraz "Thor, Dio del Tuono", con l'applicazione di un suffisso femminile della declinazione debole:  *Þunro:n. Il significato soggiacente dovrebbe essere "Simile a Thor" o "Figlia di Thor". Il bello è che l'aspetto fonetico di Tundra è compatibile proprio con un tardo sviluppo della lingua dei Goti. Naturalmente il regista non avrà conosciuto la lingua di Wulfila o il norreno, non avrà avuto nozione alcuna di filologia germanica: a lui interessava più che altro suggerire l'immagine di una donna fredda e crudele, evocata dal nome dato alla steppa siberiana (di tutt'altra etimologia, è ovvio). 

Etimologia di Artace e di Artalo

Sappiamo che Artace è il nome di un eroe del popolo dei Dolioni. Viene menzionato soltanto nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. L'etimologia non è poi così chiara, indizio a parer mio sufficiente ad attribuire l'antroponimo al sostrato pre-ellenico. Questo nome è stato utilizzato da Michael Ende nel suo capolavoro La Storia Infinita: tutti conoscono Artax, il cavallo del prode Atreyu. Nel contesto del film di Biasetti, Artace avrà invece un'origine diversa. Trovo suggestivo far derivare il nome del sovrano sconfitto da Licinio dalla radice protoceltica *arto- "orso" (gallico Arto-, antico irlandese art, gallese arth). Allo stesso modo anche Artalo avrà la stessa etimologia, che poi è la stessa del mitico Artù: cambiano soltanto i suffissi.  

Etimologia di Klasa 

Il servo di Tundra, interpretato dal possente Primo Carnera, ha un nome di chiara etimologia germanica, compatibile con la lingua dei Goti: Klasa. Significa "Splendente". La radice protogermanica è *glasan "ambra; vetro". La stessa che ha dato l'inglese glass e il tedesco Glas "vetro". La terminazione maschile in -a, tipica della declinazione debole, caratterizza questo antroponimo come gotico, senza possibilità di errore. Per quanto riguarda la consonante sorda iniziale di Klasa, non è poi un gran problema. Nel gotico di Crimea abbiamo attestato criten "piangere", che corrisponde al gotico di Wulfila gretan "piangere". La possibilità di un'incipiente rotazione consonantica è da considerarsi.

Etimologia di Kavaora 

Questo nome deriva da una elaborata kenning, a cui non è stato facile risalire. Nella lingua di Kindaor, il termine poetico kavaor deve significare "sangue", alla lettera "mare dei corvi". In un'iscrizione runica scandinava leggiamo nā-seu "mare dei cadaveri", ossia "sangue". Esiste anche hrafn-vín "vino dei corvi", ossia "sangue", formato sempre a partire dallo stesso concetto antichissimo. La voce protogermanica *kawo:, *kajo: indica un uccello augurale (antico inglese cēo "gracchio corallino"; antico alto tedesco kaha, kāa, "cornacchia"; medio olandese cauwe "taccola"), mentre *auraz significa "palude; mare" (antico inglese ēar "mare, oceano"; islandese aur "palude"). Ecco spiegato il kindaoriano kavaor, necessario presupposto di Kavaora "Sanguinaria".

Etimologia di Natersa 

Il fatale toponimo Natersa è soltanto in apparenza impenetrabile. In realtà ha un'etimologia chiarissima. Significa "Deserto dei Cadaveri". In gotico abbiamo naus "cadavere" e nawis "morto" (agg.). In norreno l'equivalente è nár "cadavere" (< *nawiz). La seconda parte del toponimo è chiaramente connessa col gotico þaursus "secco" (pron. /θɔrsus/) e col norreno þerra "seccare, essiccare" (< *þers-). La radice è di chiara origine indoeuropea e la troviamo anche nelle parole italiane terra, torrido e torrone. Resta però il fatto che questo composto mirabile non collima alla perfezione con quanto conosciamo delle lingue germaniche. Con ogni probabilità Natersa è un toponimo indeuropeo di sostrato, ma in ogni caso pregermanico, preromano e preceltico. 

Etimologia di Farkas 

L'antroponimo mi ha tormentato per giorni, dato che non riuscivo in alcun modo a trovare un'etimologia soddisfacente. In realtà la spiegazione è quasi lapalissiana. Non è altro che il gotico wulfiliano *farhs "porcello", dal protogermanico *farxaz. Da questa stessa radice abbiamo il tedesco Ferkel "maialino" e l'inglese farrow "cucciolata di maialini". Si tratta evidentemente di un soprannome infantile, poi conservato dal soggetto in età adulta. Secondo il mio parere, l'uscita -as del nome dell'arciere blasettiano è data dalla vocalizzazione di una vocale indistinta (Schwa) che doveva servire a rendere pronunciabili certi gruppi consonantici complessi. Possiamo immaginare che nel gotico di Kindaor -as sia l'esito del gotico Wulfiliano -s preceduto da consonante.  Per quanto riguarda la consonante -k-, è l'esito dell'indurimento della più antica aspirata -x-, dovuto alla rotica precedente (confronta la forma tedesca).

Elementi di gotico kindaoriano 

Così possiamo azzardarci a ricostruire alcune voci del gotico di Kindaor: 

alkas "tempio pagano"
markas "stallone"
ulfas "lupo"
urmas "serpente" 


Le forme accusative singolari saranno prive di uscita sigmatica: 

alk "tempio pagano"
mark "stallone"
ulf "lupo" 

urm "serpente"

L'uscita in -us nel gotico di Wulfila, in gotico di Kindaor è realizzata come -os:

medos "idromele"
sedos "costume, tradizione"


La forma accusativa perde il sigmatismo:

medo "idromele"
sedo "costume, tradizione"

Con un po' di buona volontà e di tempo, potremmo fornire la traduzione di numerosi testi. 



La Vecchia del Fuso 

Non possono sussistere dubbi. La Vecchia del Fuso, che annuncia al re Sedemondo di Kindaor la rovina, è senza dubbio una delle Norne. Anzi, sintetizza i caratteri di tutte e tre le Norne, che in norreno sono chiamate Urðr, Verðandi e Skuld. Infatti conosce le cose del passato e quelle del presente, oltre a predire il futuro. Una notevole figura del paganesimo nordico in un contesto come quello di Kindaor, in cui le antiche credenze si mescolano di continuo con la nuova religione di Cristo. Segnalo a questo punto un fatto assai curioso. Lessi su un sito nel Web, ora a quanto parre scomparso, che il nome della norna Verðandi sarebbe stato adattato in tedesco come Urgand, in modo tale da evitare la cacofonica forma *Urdand. La cosa mi pare ora assai strana. Nondimeno mi beai in questo errore, che pure attribuivo a una creazione artificiosa e romantica a partire dalla forma norrena: ero consapevole che non si trattasse di una genuina eredità del protogermanico. Arrivai al punto di attribuire a questo teonimo Urgand il nome degli Urgandisti, descritti da alcuni come una setta satanica, mentre altri li reputano un gruppo razzista legato a una tifoseria calcistica. Compreso che si trattava di un errore, faccio notare che il nome degli Urgandisti (che forse sono soltanto fantomatici) permane di origine ignota.  


Kindaor e il Cristianesimo 

Ambiguo e strano è il rapporto dei personaggi del film con il Cristianesimo. Arminio, che cresce tra i leoni senza mai aver contatto con altre persone per tutta la sua gioventù, ricorda il segno della croce dalla sua infanzia e lo fa ogni mattina al sorgere del sole. Non è consapevole del vero significato del gesto, che reputa una forma di saluto all'astro diurno al suo levarsi sui monti. Un significato pagano. Eppure Arminio ricorda dalla sua infanzia che tutti si segnano, perché evidentemente questo avveniva alla corte di Sedemondo già un ventennio prima. Tundra invece è puramente pagana, non battezzata e ignara della stessa esistenza del segno della croce, che ha visto compiere ad Arminio per la prima volta. Ne prova subito un certo disagio e una sorta di paura subliminale. Eppure alla fine, per diventare regina di Kindaor e sposarsi con Arminio, accetterà il battesimo.

Sadismo estremo

La cosa che più lasciò in me il segno quando vidi per la prima volta il film fu la ferocia inumana di Sedemondo, che istigava il fanciullo Arminio a bucare con uno spillo gli occhi degli uccellini per farli cantare. All'epoca non capivo nulla di incesto, profezie fosche e corna, così pensai che Sedemondo rinnegasse il bambino e lo condannasse alla Valle dei Leoni perché non aveva voluto torturare i volatili di nido. Pensai che quella fosse una sorta di mostruosa "prova di virilità", un rito di iniziazione, il cui fallimento condannava l'iniziando ad essere espulso dalla società. Poi appresi che l'aberrante costumanza di bucare gli occhi agli uccellini è tuttora molto diffusa in Veneto e altrove.  



Altre recensioni e reazioni nel Web 

Riporto nel seguito un interessante e notevole intervento, apparso sul sito Filmtv.it

Strullata fantasy di Blasetti, che continua ad essere sopravvalutata fino ai giorni nostri. Con una trama insulsa e quasi irraccontabile, Blasetti sembra voler fondare una mitologia pagana-italica-fascista, sulla scorta del film "I Nibelunghi" di Fritz Lang, che tanto era piaciuto a Hitler e Goebbels. La reazione del ministro tedesco per la propaganda si concretizzò nel dichiarare che se un regista tedesco avesse realizzato un'opera simile sarebbe stato messo al muro. Il film, cavallo di battaglia di intere generazioni di cinema parrocchiali, si regge sulle interpretazioni di bravi attori quali Gino Cervi, Luisa Ferida (bellissima), Elisa Cegani (allora legata al regista), e un Massimo Girotti atletico, che recita una parte a metà strada tra Sigfrido e Tarzan. Ma anche gli attori, tra i quali si notano il povero Osvaldo Valenti e il campione di pugilato Primo Carnera, possono fare ben poco per salvare un film citrullo come questo. È da notare, ancora una volta, che il regista ha la libertà di mostrare un personaggio femminile a seni nudi, possibilità che, nel dopoguerra cattocomunista, il cinema italiano si scorderà per almeno vent'anni.  
(sasso67) 

Il buon sasso67 non lo specifica, ma non è difficile immaginarlo: Blasetti ebbe notevole libertà nel mostrare seppur di sfuggita un bellissimo paio di morbide tette, che nel dopoguerra furono orrendamente censurate dai bacchettoni pinzocheri cattocomunisti. Tra i fautori della censura c'erano quegli stessi baciapile che pure continuarono a proporre La corona di ferro nei cinema delle parrocchie. Quelle ghiandole mammarie sublimi, tagliate come i seni di Santa Rosalia in ogni oratorio, per molti anni, con crudele lama di carnefice! Mentre questo avveniva, i preti abusavano senza freno alcuno di bambini e bambine, facendosi passare i giovanissimi sotto l'abito talare e convincendoli con turpe plagio che gli atti fellatori fossero una forma di eucarestia. Queste cose non devono essere dimenticate mai, fino al Giudizio. 

domenica 7 gennaio 2018


I RE DI TARTESSO E LA NASCITA
DELL'INGIUSTIZIA SOCIALE

Forse non tutti sanno di quale terra gloriosa era figlio il grande filosofo stoico Seneca. La Turdetania, parte della Betica, ora nota come Andalusia, era stata un tempo la sede di una civiltà millenaria che purtroppo ci ha lasciato poche vestigia. Tartesso ne era il centro culturale e politico, quella stessa città rifulgente di ricchezze di ogni sorta che è citata anche nell'Antico Testamento con il nome di Tarshish: gli antichi Israeliti vi giungevano per fare commercio e ne importavano beni di lusso, soprattutto metalli come l'argento, lo stagno e il piombo. Nell'antichità le genti della Spagna si dividevano in molti popoli dalle lingue diverse: c'erano i Celtiberi, che parlavano un idioma di tipo celtico, i Lusitani, che avevano una lingua indoeuropea preceltica, i Vasconi e gli Aquitani, il cui idioma era l'antenato dell'odierno Basco, oltre naturalmente agli Iberi, la cui lingua non indoeuropera era diversa dal Basco e tuttora quasi del tutto incomprensibile(1). I Tartessi erano più antichi di tutti questi popoli, e già nel secolo VI a.C. erano probabilmente già scomparsi come entità etnica. Non erano Indoeuropei ed erano già stanziati in loco molto prima dell'arrivo degli Iberi(2). Nessuno ha mai potuto capire la loro lingua, anche se sono state ritrovate molte iscrizioni(3). La sola cosa che si sa con una certa probabilità è che BARE NABE KEENTI dovrebbe significare "in questa tomba giace"(4). Gli Autori ci dicono che in quel centro commerciale della Turdetania fossero custodite tavole che riportavano leggi vecchie di ben settemila anni. Esistevano anche cronache storiche che parlavano degli antichi regnanti. Quel poco che possiamo conoscere sull'argomento va sotto il nome di Mitologia Tartessa.

È riportato che dopo la sconfitta dei Titani regnava su Tartesso il grande Gargoris(5) della stirpe dei Cureti, detti anche Cuneti, inventore dell'apicoltura. Egli diede all'umanità due immensi doni: la dolcezza del miele e l'ebbrezza dell'idromele che se ne imparò a ricavare. Il suo nome potrebbe essere in qualche modo collegato con quello di Gerione, che gli Autori ritengono il capostipite dei Tartessi.
Questo ci dice Giustino (II d.c.):
"Saltus vero Tartessiorum, in quibus Titanas bellum adversus Deos
genisse proditur, incolere Curetes, quorum rex vetustissimus Gargoris mellis colligendi usus primus invenit", ovvero "Nei boschi dei Tartessi, nei quali i Titani osarono muovere guerra agli Dei, abitavano i Cureti, il cui re antichissimo, Gargoris, per primo scoprì il modo di raccogliere il miele."
Si dice che il sovrano fece la sua scoperta in un modo molto strano: rinvenne dei
ricchissimi favi prodotti da api che avevano nidificato nella carcassa putrescente di un bue. Questo fatto è denso di significati simbolici, in quanto il migliore tra gli alimenti era ricondotto nella sua formazione a un processo di sfacelo nel corpo di un animale che era ritenuto sacro.

Il successore di Gargoris si chiamava Habis. A cominciare dalla definizione della parentela di questa stirpe vi sono stranezze non trascurabili: non ci si deve stupire se qualcuno definisce Gargoris padre di Habis e qualcun altro afferma che fosse suo nonno, perché egli era entrambe le cose. In altre parole, Gargoris aveva concupito carnalmente sua figlia e l'aveva ingravidata, cosicché era sia padre che nonno del bambino. Le cose andarono così, a quanto ci viene riferito. Una volta che Gargoris capì che sua figlia era incinta di un suo figlio, fu colto da un'immensa vergogna e la fece rinchiudere in un recesso appartato. Quando partorì, un uomo forte prese il bambino e lo portò al nonno-padre, che subito decise di metterlo a morte. Così ordinò che fosse abbandonato alle fiere perché lo sbranassero, ma quando mandò un servo per controllare trovò che il bambino godeva di ottima salute. Gli animali selvatici lo avevano nutrito con il loro latte. Allora lo fece gettare su una via di transito dei buoi affinché lo calpestassero e lo riducessero in poltiglia. Con grande stupore le bestie lo evitarono con cura, deviando dal loro cammino.
A questo punto Gargoris stabilì che il bambino fosse gettato ai cani,
che di certo l'avrebbero sbranato. Invece non accadde nulla. Era come se il piccolo fosse protetto da forze soprannaturali che impedivano alle fiere di nuocergli. Man mano che questi strani fatti accadevano, l'ira del sovrano cresceva e il suo cuore si colmava di crudeltà. Così decretò che lo scomodo infante fosse fatto dato in pasto ai maiali. Tuttavia ancora una volta si salvò, come Daniele nella fossa dei leoni. Neppure la precipitazione in mare da un burrone sortì gli effetti sperati: il figlio-nipote di Gargoris galleggiava allegramente come una barchetta. Alla fine fu lasciato nella foresta, in mezzo agli animali selvaggi. Non dovette faticare troppo a sopravvivere, perché una cerva gli permetteva di poppare il latte dai suoi capezzoli. In questo modo il giovane crebbe fino a diventare un ragazzo robusto. Un giorno i cacciatori di Gargoris lo videro e lo catturarono con una rete. Lo portarono nella reggia come dono. Quando Gargoris lo vide, riconobbe sul suo corpo i segni della regalità, verosimilmente dei tatuaggi che gli erano stati fatti poco dopo la nascita. Così, preso dai sensi di colpa per le persecuzioni terribili che gli aveva ingiustamente inflitto, si decise alla fine ad accoglierlo come proprio figlio. Lo chiamò Habis (Habidis secondo altri testi), nome il cui significato tramandato è "Colui che si è perso"(6). Habis imparò a parlare e quando il nonno-padre morì ebbe il Regno di Tartesso per sé.
La sua grandezza, è riportato, fu tale che tutti seppero per certo che
egli era stato salvato da un'infinità di pericoli per poter regnare per volontà degli Dei. Egli portò alle genti sottoposte al suo dominio doni molto innovativi.
Legando due buoi a un ramo adunco, inventò quasi per caso l'aratro,
seguendo una strana fantasia ispiratagli da chissà quali potenze soprannaturali. Con l'aratro venne quindi l'agricoltura, che permise alle genti di avere nuove fonti di cibo e di moltiplicarsi. Inventò le leggi e con esse sottomise i popoli, codificando ogni minimo dettaglio delle vite dei singoli. Stabilì che ognuno dovesse rifiutare la caccia e nutrirsi unicamente dei frutti dei campi, in odio verso gli stenti che egli stesso era stato costretto a subire quando viveva come un selvaggio. Con queste innovazioni introdusse anche ogni sorta di iniquità. Impose così le distinzioni tra classi sociali, decretando che i nobili dovessero essere mantenuti dal lavoro duro e servile di masse di schiavi afflitti senza possibilità di miglioramento sociale.
È spesso menzionata un'opera su questi due remoti sovrani, detta
Tragicommedia di Gargoris e Habis(7), il cui autore non è però specificato; non solo non si riesce a trovare alcun riferimento valido, ma tutto sembra far pensare che il testo sia andato perduto. Pare che si trattasse di una satira caustica del sistema di vita predatorio delle classi alte che sarebbe di certo piaciuta a Mikhail Bakunin e a Karl Marx. 

A parte le notevoli inconsistenze del mito di Gargoris e Habis, che dovrebbero saltare subito all'occhio (come l'uso dei buoi prima dell'aratro), il racconto insiste su un aspetto non da poco: la connessione di causa-effetto tra la scoperta dell'agricoltura e l'introduzione della diseguaglianza sociale nel mondo. Molti studiosi sono concordi sulla sostanziale democrazia paleolitica, che conosceva soltanto capi concepiti come primi inter pares. La necessità di cacciare per sopravvivere rendeva preziosi il contributo di tutti, e si sa per certo che già tra gli uomini di Neanderthal gli invalidi, i malati e gli anziani erano curati. Con la possibilità di ottenere una migliore nutrizione e accumulare eccedenze, molte cose sono cambiate in modo radicale: han fatto la loro comparsa la tirannia, la proprietà terriera, il lavoro servile e insostenibile, lo sfruttamento, la gonorrea, la carie. Mentre la leggenda tartessa ha come protagonisti di questi mutamenti due sovrani maschi, sembra che nella realtà la Rivoluzione Neolitica sia stata causata e portata avanti dalle donne. Le società del Neolitico erano a privilegio femminile. Mi scuso se semplifico un po' troppo un problema davvero complesso, ma la cosa ha un suo fondamento logico. La donna ha scoperto la semina, ha osservato a lungo come pianticelle utili germogliassero dai rifiuti e potessero essere coltivate. La donna ha spinto l'uomo a ottenere una posizione sociale migliore. La sua spietata ambizione opera sempre e rende la vita come un dente cariato. Il motore di tutto ciò è il più banale che si possa immaginare: la chiusura delle cosce femminili in caso di rifiuto del maschio a cooperare. Si possono fare alcuni esempi significativi. Con l'agricoltura è nato il concetto di prestito. "Queste piantine ci danno il cibo", disse la donna all'uomo, "Non devi perdere il tuo tempo ad andare a caccia, devi vivere con gli occhi sempre rivolti al suolo e con la schiena curva": era nato il lavoro. L'uomo, ingenuo, prestava le sementi ai vicini, accontentandosi di avere in cambio una parte del raccolto, finché la donna gli disse che doveva chiedere più dell'intero raccolto: era nata l'usura. "Devi avere di più e lottare per ottenere ciò che ti chiedo, o non avrai da me cosa che ti piaccia", disse la donna all'uomo: era nata l'avidità, era nato il ricatto. Una volta realizzato questo stato di cose, divenne naturale, divenne ineluttabile: ogni tentativo di vivere al di fuori della società sarebbe stato sempre più inaccessibile. Un sistema fatto apposta per far sì che chi si ribella non possa procacciarsi cibo sufficiente, deperisca e finisca così col morire ed essere dimenticato. Ci avrebbe pensato il Potere della Vagina a rendere eterne queste sofferenze, a permettere il trasmettersi del regno, della dominazione e della schiavitù. Un carissimo amico mi ricorda sempre che le donne stesse sono vittime di questi perversi meccanismi di iniquità, ma ciò non cambia la sostanza delle cose. Ogni piaga sociale ha la sua origine ultima nell'accoppiamento, nell'unione tra i sessi. Il maschio coglione bramoso che cade vittima della femmina dispensatrice usuraia: ecco il motore del progresso. Lo stesso affermarsi del patriarcato non fu che una vendetta illusoria: l'essere che ha il potere di mettere al mondo figli ha il potere assoluto, e anche i più valorosi guerrieri furono servi della vulva. Nessun dubbio quindi che se pure Gargoris e Habis non furono semplici parti della fantasia al pari di Ercole e di Wotan, dovettero essere soltanto burattini di donne ambiziose e malvagie che i Tartessi hanno per buona decenza depennato dalle loro cronache.

(1) La lingua iberica è con ogni probabilità un lontano parente del basco, come provato dalle concordanze dei numerali - nonostante il parere di molti accademici politicizzati. (2) Le infiltrazioni celtiche dovettero essere importanti: il primo re storico di Tartesso fu Arganthonios (670 a.C. - 550 a.C.), il cui nome è eminentemente celtico (< arganto- "argento").
(3) In tutto i testi sono più di novanta; ci sono inoltre antroponimi non indoeuropei e non iberici incorporati in iscrizioni latine. Questi sono caratterizzati da una fonetica davvero bizzarra (es.
Candnil, Icstnis, Ildrons, Insghana).
(4) John T. Koch ha ipotizzato che le iscrizioni siano redatte in una lingua celtica con segni di evoluzione precoce. Le sue tesi sono tuttavia assai opinabili, come avremo modo di approfondire in altra sede. In ogni caso, è possibile che nelle iscrizioni sia presente materiale onomastico di origine celtica.  
(5) Per l'antropoonimo Gargoris è stata proposta un'etimologia celtica: deriverebbe da gargo- "feroce" e da -rīx "re". Resta il fatto che il vocalismo di -rīx sarebbe anacronistico. 
(6) Il nome è di chiara origine semitica, con ogni probabilità fenicia. La forma ricostruita è /Ɂa'bi:d/, si confronti l'ebraico 'ābēd "perduto". La stessa parola esisteva anche in punico, varietà tarda del fenicio, ma il dominio di Cartagine su Tartesso risale al 500 a.C. circa ed è dubbio che possa aver contribuito al formarsi del mito. 
(7) Marco Giuniano Giustino ci fa un riassunto dell'opera di Pompeo Trogo, sulle cui fonti ultime ben poco si può dire.

sabato 13 maggio 2017

IL NOME DEGLI AUSCI DELL'AQUITANIA NON HA CONNESSIONE CON EUSKARA 'LINGUA BASCA'

Diversi autori, tra cui André Martinet, hanno sostenuto come punto fermo il paragone tra il nome degli Aquitani Ausci e l'endoetnico dei Baschi, Euskaldunak, che deriva da Euskara, Euskera "lingua basca". A un certo punto questa conoscenza è stata data per acquisita. Eppure è fallace e si può dimostrare la sua inconsistenza con argomenti oltremodo solidi.

Il nome degli Ausci significa "Orientali", è da IE *aus- "sorgere del sole, oriente", radice antichissima che troviamo nel latino aurora /au'ro:ra/ "sorgere del sole"auster "vento di Mezzogiorno", oltre che nel gotico austr "oriente". L'etnonimo aquitano sopravvive nel toponimo francese Auch /ɔʃ/ (per ascoltare la pronuncia vai all'mp3), considerato l'unica parola di quella lingua in cui /ʃ/ finale è scritto come -ch senza una -e finale. A mio avviso ne esistono altri esempi: ne avevo trovato uno che purtroppo non mi sono segnato e si è disperso nei miei banchi di memoria stagnante. La forma ricostruita è chiaramente *auskos "orientale". A parer mio questa denominazione è attribuibile alla varietà linguistica indoeuropea preceltica, ma potrebbe benissimo appartenere a qualche forma poco nota di celtico.    

Sono stati tentati raffronti con il nome dell'antica città di Osca (oggi Osca in catalano, Huesca in castigliano), ma anche con il torrente Oscara, oggi chiamato Ouche. Si tratta di false etimologie da rigettare senza indugio, dato che in esse non si ha traccia di dittongo /au/. La vocale tonica di Osca era senza dubbio breve, come mostrato dalla sua evoluzione nello spagnolo Huesca: cfr. focu(m) > fuego; fonte(m)fuentelocu(m) > luego, etc.

Il termine Euskara "lingua basca" deriva invece dal proto-basco *enuskala e la sua antica nasale intervocalica ci è attestata nella forma enusquera (registrata da Garibay, vedi anche Trask per la discussione). Il termine è da analizzarsi come *enu-s-kala e ha la stessa radice di dio "dice", che ha la variante diño e discende da una protoforma *d-ino < *da- + -inau-, dove da- è il prefisso verbale di III persona (singolare e plurale) del verbo presente. La stessa radice si trova in forme più complesse come diñaust, diñost, diost "mi dice"; "gli dico, le dico". La nasale mediana non poteva essersi già dileguata in epoca antica: sappiamo che nella lingua aquitana era conservata, mentre è scomparsa in epoca medievale nei prestiti dal latino e dal protoromanzo. Per quanto riguarda il suffisso -kara < -*kala, si trova anche in erdera "lingua straniera", ma senza la consonante occlusiva iniziale; il primo elemento di tale composto è in questo caso di oscura origine: non si tratta di erdi "mezzo, metà" (per la semantica, cfr. latino barbarus semisermo), visto che entra come primo membro dei composti con la forma ridotta ert-.

mercoledì 12 aprile 2017

LA LINGUA SOROTAPTICA

Sorotaptico. Mai a una lingua fu dato nome tanto infelice. Fu Joan Coromines (aka Corominas) ad avere questa idea assai discutibile, formando la denominazione dalle parole greche soros "urna funeraria" e thaptos "sepolto". In realtà le iscrizioni in questo idioma furono trovate nella località oggi nota come Amélie-les-Bains-Palalda (in catalano Banys d'Arles), in quello che era il territorio dei Sordoni (Sordones) e che oggi è la regione della frontiera franco-spagnola denominata Linguadoca-Rossiglione. Per l'esattezza furono rinvenute nei pressi di una fonte salubre chiamata Lo Gros Escaldador nel XIX secolo e oggi sono "scomparse", o per meglio dire sono state occultate dalla setta massonica degli archeologi, più incline all'annientamento e alla riscrittura del passato che alla sua conservazione e al suo studio oggettivo. I reperti in questione, che dovrebbero risalire al II sec. a.C., non hanno nulla di funerario e di sepolcrale: lo sgraziato nome inventato da Coromines si riferisce alla Cultura dei Campi di Urne, che egli immaginava collegata agli autori dei reperti. Si tratta di invocazioni a una serie di divinità, e tra queste le Ninfe. Si noterà che genti di quei distretti erano denominate Liguri nell'antichità. Questa singolare testimonianza, di cui in Italia praticamente nessuno parla, mostra numerose parole latine relative al linguaggio religioso, ma anche parole che non sono latine e neppure celtiche. Si tratta di una lingua indoeuropea pre-celtica, con /a/ e /o/ distinte, da attribuirsi ai Liguri, come la lingua dei Lusitani, che pure è da essa distinta. Magari parlare di lingua ligure ispanica orientale anziché di lingua sorotaptica sarebbe auspicabile. Fornisco quindi il testo nell'unica trascrizione reperibile nel Web, conservando U e V distinte, anche se a rigor di logica avremmo dovuto usare soltanto V. Per maggior chiarezza è stato aggiunto un trattino dove le parole vanno a capo, mentre le parentesi vuote () indicano una separazione mancante. 

Ia

KANTAS NISKAS
ROGAMOS ET DE-
P(R)ECAMUS VOS OT
SANETE NON LERANCE (E) DE-
US ET NESCA PETEIA
ET ELETA
NESCA SLA(T)
SNUKU-
AS M(E)

Ib

NISCA ET
KILITIUS
NETAT(E)
VLATE AC
SRUET(E)
POSQE(MOS)

II

NISKAS AQUIFERAS
ROGAMUS
SSULTIS NUMENA
SRUET VELDE()LA-
RES SNUQUAI
AUTETE
CUMAS
MAX(I)M(I)

III

RE NUMENE MAXIMI EFLAVERE
ILLIUS SSROES SNUQUAI PANTOVIE SRUID
AGETI NET LAVOKRIOS
S ACA()POSIMA ATXILIAIA
S NISKAS CATIONTS AXI(LIAIAS)
NESCA EVOSTRI IO
NETATI NOS IO
CHIRULE (E)XKIGKI

IV

DEMETI
ITOM(IC)E
...
...
SSULTIS
FLOINCSON
TEIK(ETE)

V

KANTAS NISCAS
ALALIKIOS
AXO(N)IAS
INSTOQDE
VOLTAS
OSISMI E DEOS
KLUEN PSAXE
DEMETIM IMP(ETRIO)
LERANKE
NK

VI

AXILII(S)
DEAUBS
AXSONIS

VII

DOMNAS
NISKAS ROG(A)-
MOS ET DE(PRE)-
CAMUS
DINAS
NN

VIII

(RO)GO VOS

Riporto ora la pessima traduzione in spagnolo fatta da Coromines, anche perché non ne esiste un'altra nel Web e non mi è stato possibile reperire il lavoro originale dell'autore catalano, Els ploms sorotàptics d'Arles (1976). Spero che non mi si accuserà di essere irrispettoso se faccio notare che la traduzione è stata fatta da cani e che nel complesso fa abbastanza schifo. Piena di lacune, tralascia tutto ciò che è scomodo e di difficile spiegazione. Le incoerenze grammaticali non mancano. Eccola: 

Ia: "Santas Ninfas, os rogamos y os exhortamos por nuestra sanación; oh dios Lerano y Ninfa Peteia y Ninfa Eleta, ninfa..."
Ib: "Oh ninfa y [dioses] asociados, guiadnos, regidnos y providenciadnos os pedimos"
II: "Ninfas Acuáticas os rogamos, por favor deidades providenciadnos Velde, Lares y Snuquai quitadnos los tumores"
III: "Los grandes númenes mayores han exhalado [encima mio] sus chorros; ninfas Pentovias providenciad !; ninfas obrad sobre las lavativas; providencia Madre Poderosa Axiliaia,
providencia Ninfa Eterna; limpianos Chirule ..."
IV: "Demeti Itomicos .... por favor brillad ..."
V: "Santas Ninfas caminad por diferentes aguas, girad [vuestro destino para conmigo]; oh dios Osi<s>mi, limpiad mis lagañas (cataratas ?); Demeti favoreceme Lereno"
VI: "A las acuosas diosas acuáticas !"
VII: "Señoras ninfas os rogamos y os exhortamos ..."
VIII: "os ruego"

Si noterà anche che questa versione non include le interpretazioni dei teonimi, lasciati nella lingua originale.

Questo è un piccolo vocabolario, sempre tratto dal lavoro di Coromines, a cui per amore della Scienza ho apportato alcune revisioni, integrazoni e aggiunte, traducendo in italiano la parte in spagnolo: 

AC "e"
   < lat. ac

ACA "madre"
    Cfr. lat. Acca La:rentia.

AGETI "conduce"
   < IE *ag'-. Cfr. latino agere "condurre", la cui radice è comune al celtico.

ALALIKIOS "altre, differenti"
   Cfr. lat. alius, la cui radice è comune al celtico (gallico allos, attestato nei graffiti di La Graufsenque e allo- nel nome degli Allobroges) e al germanico (*aljaz "altro").

AQUIFERAS "Portatrici di Acqua"
   < lat. Aquiferae, con desinenza nativa -as.

AUTETE "rimuovete, togliete" (imp. pl.) 
   < IE *aut- "vuoto; solo" 
   Coromines traduce in spagnolo "*quitad-nos", "*fundid-nos" o "*eliminad-nos". Sarà che sono a corto di risorse, ma non mi riesce di focalizzare bene l'etimologia del vocabolo, la radice che riporto è l'unica spiegazione - seppur poco convincente - che ho trovato alla traduzione dell'accademico. 

AXILIAIAS "Dea delle Acque"
ATXILIAIA "Dea delle Acque" 
AXILIIS "ricche di acque" (dat. pl.)

   < IE *aps- (vedi AXONIAS).
La forma AXILIIS dovrebbe avere un dativo pl. in -IS di tipo latino. La grafia con -TX- potrebbe essere un errore di trascrizione. 

AXONIAS "acque"
AXONIS "delle acque"
   < IE *aps-, con un esito /ks/ < /ps/ affine a quello del celtico. I dettagli morfologici non sono chiarissimi.

CATIONTS "con, assieme a"
   Interessante e ragionevole, ma oscuro a sufficienza. Piuttosto che a una radice IE valida, lo associerei a lat. cate:na e caterva, a loro volta da una radice etrusca *cat-, *caθ- "mettere assieme". Pokorny ricostruisce IE *kat- "mettere assieme", aggiungendo materiale dal celtico e dal germanico, ma come gran parte delle radici con /a/, resta il fortissimo sospetto di un'origine ultima non IE. Scarse sembrano le possibilità di una connessione con IE *kom (donde lat. cum, con-) tramite una forma *kṇt- - tutt'altro che pacifica - di cui non si riuscirebbe a spiegare nella lingua in analisi la scomparsa completa della nasale (ci aspetteremmo piuttosto *kant-).

CHIRULE (teon.)
L'origine di questo lemma è al momento sconosciuta.

CUMAS "tumori"
   Forse < IE *kumb-, nel senso di "sporgenza". Un vero peccato che la spiegazione di Coromines non sia disponibile, così supplisco come posso. 

DEAUBS "alle Dee"
    Notare l'introflessione della vocale del suffisso.

DEMETI "Oscurità" (teon. voc.)
DEMETIM "Oscurità" (teon. acc.)
   Si confronti il nome dei Demetae, popolazione britannica. La denominazione sopravvive in Galles, dove la provincia di Dyfed deriva il suo nome da un precedente *Demetija:. Nonostante i tentativi fatti per spiegarlo, questo nome ha resistito a lungo. Non può venire dal gallese defaid "pecora" (all'epoca suonava /da'matija:/) e neppure da dwfn "profondo" (all'epoca suonava /'dubnos/ o /'dumnos/). Non è plausibile nemmeno una provenienza da IE *dem- "costruire" (proto-germanico *timran "legname"), che non porterebbe a specificare un senso compiuto. La radice corretta è invece IE *dhem- "fumare", che ha dato origine all'antico irlandese dem, glossato da Pokorny come "schwarz, dunkel", ossia "nero, oscuro".    

DEUS "dio"
E DEOS "o Dei"
    < lat. deus. Si noti il vocativo plurale in -os, certamente nativo.

DINAS "divine"
   < IE *din-. Esiti molto affini sono stati presi a prestito dall'etrusco: Tin(i)a "Giove", tin- "giorno"

DOMNAS "signore"
    < lat. dominae, con desinenza ligure del pl. f. -as (identica a quella gallica).

EFLAVERE "esalarono"
   < lat. effla:ve:re "esalarono", III pers. pl. (da effla:re "esalare"). 

EVOSTRI "eterna"
  < IE *aiwo-. Si noti il suffisso femminile -i, di particolare arcaismo. 

EXKIGKI "girare in cerchio"
    Cfr. gallico Excingo-ri:x "Re del Cerchio". Con ogni probabilità un prestito dal gallico.

FLOINCSON "splendore, fulgore"
   < IE *bhel-, *bh(e)leg- "splendere", o l'affine IE *bhleig- "brillare". Se dobbiamo essere sinceri, la formazione della parola non è chiarissima. Notevole la presenza di una /f/ iniziale, un esito decisamente contrario alla fonetica del celtico. 

ILLIUS "di lei"
   < lat. illius.

IMPETRARE "guadagnare il favore degli Dei"
IMPETRIO "guadagno il favore degli Dei"
    < lat. impetra:re. Notare che la forma impetro si trova invece con una -i- di troppo: IMPETRIO. 

INSTOQDE "camminate"
    Forma dalla morfologia a dir poco oscura e tortuosa. Potremmo essere di fronte a un errore di lettura. Forse è uno strafalcione per *INSTOIGDE e l'origine è da IE *steigh- "camminare"? Non avendo a disposizione il testo originale, dobbiamo astenerci da ulteriori considerazioni. 

IO "che"
    Pronome relativo IE, cfr. lusitano IOM "che"

ITOMICE (teon. voc.)
    Al momento non si riesce a trovare una possibilità anche remota di interpretazione e di etimologia. Non per nulla questo lemma è escluso dal vocabolarietto di Coromines.

KANTAS "splendenti"
   < IE *kand-
   N.B. Coromines traduce con "sante", riconducendo la parola a IE *kwent- (meglio sarebbe scrivere *k'went-), cosa che per motivi fonetici non è ammissibile. Il parallelo più logico è col tema celtico canto- "canuto" (es. l'antroponimo Cantosenus; bretone antico cant, glossato "canutus"), attestato nell'onomastica gallica, verosimilmente <  *kandido- per contrazione. 

KILITIUS "associati"
   Coromines assume che sia da un IE *kei- "mettere assieme". L'etimologia sarebbe a prima vista accettabile, ma a quanto pare la radice era *kwei-. Non va poi nascosto che non è chiarissima la formazione della parola. Più probabilmente sarà dal pronome dimostrativo IE *k'e(i)-, come lat. ce:terus "l'altro". Tra "la Ninfa e gli (Dei) associati" e "la Ninfa e gli altri (Dei)" cambierebbe poco.

KLUEN "purificare"
   < IE *k'lowə- "pulire" Cfr. lat. cluere "purificare". La radice è passata anche in etrusco, dove abbiamo il sostantivo cleva "purificazione" e il toponimo Clevsins- "Chiusi".

LARES "Lari"
   < lat. La:re:s

LAVOKRIOS "scaturigine, fonte"
   < IE *low-, *lowə- "lavare" 
Cfr. lat. lava:re. Il suffisso indica che è un lemma nativo.

LERANCE, LERANKE "Dio Pino" (voc.)
   Si tratta di un nome di sostrato pre-IE, dalla stessa radice del basco leher, ler "pino", da cui deriva anche il teonimo aquitano Leherenno (dat.). 

MAXIMI "Massimi, i più grandi"
  < lat. maximi.

NET "su, sopra"
   Riporto la proposta di Coromines, precisando che l'etimologia non è delle più chiare. Forse un derivato di IE *en- "in" a partire da una sua variante *nei-,
*ni- con un'estensione in dentale che in origine doveva avere un valore direzionale. 

NETATE "guidate" (imp. pl.)
NETATI "guida" (III pers. sing.)
   < IE *ne:i-. Anche in gallico, in celtiberico e in antico irlandese troviamo la stessa estensione in -t-

NISCA, NESCA "Ninfa"
NISKAS "Ninfe"
   Si tratta di un prezioso elemento del sostrato pre-IE. Cfr. basco neska "ragazza".

NON "noi" (acc.)
   < IE. *no:-. Per la desinenza cfr. lusitano -N in VEAVN "giovani donne"

NOS "noi" (acc.)
   < lat. no:s. Si vede chiaramente che la morfologia è quella latina. La somiglianza con la forma nativa deve avere facilitato il prestito di intere formule. 

NUMENA "divinità" (pl.)
NUMENE "divinità" (morfologia oscura) 
   Cfr. lat. nu:mina "nume". Non è del tutto certo che sia un prestito dal latino, anche se è altamente probabile.

OSISMI "Sommi Dei"
   Questa voce ricorda il nome del popolo celtico degli Osismi, stanziato in quella che è attualmente chiamata Bretagna. L'etnonimo dovrebbe, come la parola sorotaptica, provenire da un aggettivo *ouksis(a)mos "sommo"

PANTOVIE (teon.) 
   Forse da IE *peta- / *pta:- "allungre", anche se la semantica è piuttosto nebulosa. Cfr. lat. pandus "curvo, ricurvo" e pate:re "essere aperto, aprirsi".

PETEIA "Impetuosa"
   < IE *pet- "cadere"
   Stessa radice del latino petere "attaccare, andare contro", che troviamo anche nel lusitano PETANIM.

POSIMA "potentissima"
   < IE *poti- "signore". Cfr. lat. potissima "potentissima".

POSQEMOS "chiediamo"
    Cfr. lat. poscimus < *por-sk-. Non è chiaro si si tratti di un lemma nativo simile o di un prestito.  

PSAXE "cispi"
   Coromines non ha fornito spiegazione alcuna alla sua traduzione. Sarà per mia incapacità, ma il lemma mi pare impenetrabile.

RE "beni, ricchezza"
   Cfr. lat. res "cosa". A differenza della parola latina, la voce sorotaptica ha l'aria di essere di genere neutro.

ROGAMOS "chiediamo"
ROGO "chiedo"
   < lat. roga:mus. 

SANETE "sanateci" (imp. pl.)
   < lat. sa:na:re, con coniugazione indigena.

SLATE "sanate, calmate" (imp. pl.)
   La radice SLA-, comune al celtico (es. irlandese antico slán "sano"), è la stessa del latino salu:s, gen. salu:tis "salute" e di  salve: "in buona salute".  

SNUKUAS "fluente, che scorre"
SNUQUAI "fluente, che scorre" (dat.)
   < IE *snew- "nuotare; correre"
La formazione pare piuttosto stravagante, ma non sembrano esserci molte alternative.

SRUET "fluisce"
SRUETE "fluite" (imp. pl.) 
SRUID "dal flusso" (abl.)
SSROES "del flusso" (gen.)
  
  < IE *srew- "scorrere, fluire" N.B. Coromines traduce con "providenciar", ossia "favorire", con ogni probabilità è un uso idiomatico.

SSULTIS "se volete" 
   < lat. si vultis. L'acquisizione di questa forma colloquiale indica un alto grado di penetrazione della lingua latina.  

TEIKETE "date, concedete" (imp. pl.)
   < *teik- "avere buon esito"
   Nelle lingue baltiche questa radice è giunta a significare "dare, offrire". Così immagino che FLOINCSON TEIKETE si debba tradurre con "concedete lo splendore", quindi "brillate". Quanto si trova nel Web non aiuta molto a charire le cose e ho dovuto fare tutto da solo.

VELDE "veggente"
   < IE *wel- "vedere". La radice si trova nel latino vultus "volto" e nel celtico (antico irlandese filis "vide"; gallese gweled "vista"). Si trova anche nel nome della famosa profetessa germanica Veleda

VLATE "governate" (imp. pl.)
   < IE *walə- "essere forte". Cfr. latino vale:re "essere forte". La radice è presente anche in celtico (es. antico irlandese flaith "signoria" < *wlatis; gallese gwlad "terra, paese" < "*principato").

VOLTAS "girare"
   < IE *welw- "torcere, attorcigliarsi"
La radice è la stessa del latino volvere "volgere, voltare". La morfologia non è chiarissima, forse si tratta di un nome di azione. Si noti la somiglianza della forma sorotaptica con l'esito italiano del latino volgare *volu:ta:re, ossia voltare, donde il sostantivo volta è stato retroformato.

VOS "voi" (acc.)
  < lat. vo:s. Si tratta di un prestito. 

Si noterà che in Italia non ho trovato nessuno che si occupi di questo argomento, che pure è a parer mio così importante. Nel Web tutto ciò che si trova è il testo trascritto, la traduzione di Coromines e il glossario dello stesso; non sono riuscito a reperire nessun lavoro originale. Questo è il commento dell'utente Gastigarra, trovato sul forum Bardulia in Yahoo! Groups:

"Choca que unos textos de una lengua indoeuropea desconocida no hayan tenido, por lo que parece, ningún eco en la indoeuropeística. En fin, el lusitano con sus, creo que tres, breves textos ha generado un número importante de páginas, aunque sea debido principalmente a su naturaleza discutida, pero otra lengua que se supone ofrecería importante información de la situación lingüística en la Europa occidental, y queda enterrada sin mayor comentario."

A parte il fatto che il lusitano è messo appena un po' meglio del sorotaptico in quanto a considerazione accademica, resta da chiedersi cosa abbia spinto la consorteria frammassonica a seppellire questi documenti. A me pare, se devo esser franco, che i testi in questione non abbiano in sé alcun contenuto scandaloso o sconvolgente: sono soltanto reliquie dell'antica religione politeista locale, che era in vigore all'epoca di Roma antica. Chi potrebbe usarli per recare danno a qualcuno? Chi potrebbe credere, ai nostri giorni, che le fonti montane abbiano in sé un'essenza in forma di bellissima ragazza? Al massimo, se anche tra le genti si diffondesse questa devozione arcaica, il risultato principale sarebbe quello di vedere torme di energumeni aggirarsi intorno alle sorgenti in cerca di un pompino.