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giovedì 6 agosto 2020

UN GERMANISMO PRECOCE IN LATINO: MELCA 'LATTE AROMATIZZATO CAGLIATO CON ACETO'

I Sardi chiamano merca un formaggio ottenuto da latte di pecora salato. Google ci fornisce qualche utile informazione su questo latticino: "Si presenta in forma di piccoli parallelepipedi del peso di circa 150 - 300 g. A lunga conservazione, veniva usato dai pastori nei lunghi inverni trascorsi lontano dalle proprie case. Viene impiegato in Sardegna per realizzare i culurgiones e una gustosissima minestra." 
Secondo la maggior parte delle fonti reperibili nel Web gli ingredienti sono soltanto due: latte ovino acido e cagliato, sale. Questo latte acido viene ottenuto aggiungendo caglio di agnello o di capretto (giagiu) al latte appena munto. Una fonte che non riesco più a reperire parlava invece di un miscuglio di latte fresco e di latte acido; forse si tratta di un'informazione distorta, in cui per latte acido si intende proprio il caglio. 
Questa merca è tipica del Nuorese, in particolare della zona di Ogliastra e della Barbagia. Non deve essere confusa con un'altra merca, che è invece un piatto a base di muggine, tipico dell'Oristanese (si tratta di un semplice caso di omofonia). 
Sicuramente si tratta di preparazioni antichissime. Si potrebbe pensare a una derivazione dal nome cananeo del sale (cfr. ebraico melaḥ "sale"), forse qualcosa come *melḥa "salata". Secondo questa interpretazione, tanto la merca ottenuta dal latte acido salato quanto il muggine salato avrebbero proprio il sale come elemento caratterizzante comune. Questo è senza dubbio possibile, ed è la tesi sostenuta da Giovanni Fancello. 
 

Lo stesso autore interpreta melca come "latte cagliato", in parziale contraddizione con quanto prima sostenuto, e riporta quanto segue: 

"In Sardegna il latte cagliato, tipica pietanza dei pastori ormai in disuso, assume diversi nomi a secondo della zona, con piccole  varianti nella preparazione: merca, melca, mer’a, preta, preta purile, frughe, frue, frua, cazadu, giuncata, migiuratu, gioddu, giagada.
 
A questo punto è necessario riportare un fatto sorprendente: in latino è documentata la parola melca, che indica un preparato di latte cagliato con aceto e aromatizzato con vari ingredienti, tra cui il pepe e il garum (la ben nota e pestilenziale salsa di pesce). In pratica doveva essere una specie di budino, secondo altri uno yogurt, molto popolare già in tempi abbastanza antichi. Il famosissimo cuoco Marco Gavio Apicio (vissuto a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.) ci fornisce una sintetica ricetta nella sua opera De re coquinaria libri decem. Si trova nel libro VII (Polyteles, ossia "cibi prelibati"), cap. XI, Dulcia domestica et melcae
 
Melcas: cum piper et liquamen, vel sale, oleo et coriandro. 
 
Si nota subito un'incoerenza grammaticale, oltre all'assenza di ogni menzione dell'ingrediente principale, il latte. La preposizione cum regge l'ablativo: Apicio non avrebbe scritto "cum piper et liquamen", ma "cum pipere et liquamine". L'ablativo lo ritroviamo più avanti (sale, oleo et coriandro), ma unito al segmento precedente da vel "o".  
Qualche editore ha così emendato la lettura, in modo tale da renderla grammaticalmente corretta: 

Melcas: cum pipere et liquamine, vel sale, oleo et coriandro. 

Mi domando se sia lecito procedere in questo modo. Si scopre che in passato erano diffuse letture corrotte, in cui i dotti cercavano di risolvere in vario modo un termine a detta loro incomprensibile, dando origine a forme fantomatiche come "mel castum" o "mel caseum". Forse i sistemi di Ivan il Terribile li avrebbero spronati a fare di meglio! Non è finita. Si trova anche un'altra lettura, seppur meno comune: 
 
Melca: Lac acidum, piper et liquamen, mel, sale, oleo et coriandro.

Sembrerebbe ben più verosimile: "Latte acido, pepe e garum, miele, con sale, olio e coriandolo". C'è però un problema di non poco conto. Dopo approfondite ricerche, ho scoperto che nel 1910 uno studioso, Janko, ho proposto di emendare Melcas: cum piper et liquamen in Lac acidum, piper et liquamen, sostuendo anche vel con mel. Quindi sparirebbe melcas dal testo, nonostante la presenza di melcae nel titolo del capitolo. C'è anche un'ulteriore difficoltà. Qualcuno - non si sa chi - ha pensato di sintetizzare la lettura di Janko e quella tradizionale, sommandole e dando origine a Melcas: Lac adicum, piper et liquamen. Questa lettura sincretica ha una discreta diffusione nel Web e si trova anche in alcuni libri. Ha un'origine che è evidentemente memetica, così deve essere rigettata. 

Fortunatamente esistono diverse altre attestazioni del vocabolo, come mostrato da Isabella Andorlini nel suo lavoro Edizioni di papiri medici greci (2018, Le Monnier).

A pagina 62 del suddetto testo si legge che la prima attestazione di melca compare in  un  testo  poetico del  I  d.C., che appare sull'affresco  dell'Antiquarium  Comunale di Roma:

Priapus  /  ...  ea  melca  datur

Sia Columella (4 d.C. - 70 d.C.) che Plinio il Vecchio (23 d.C. - 79 d.C.) parlano del proficuo uso dell'aceto per cagliare il latte, utilizzando la parola greca oxygala (alla lettera "latte acido") per indicare il prodotto chiamato melca da Apicio. 
 
Quindi ci viene fornita dalla Andorlini un'altra informazione importante: il termine melca compare nell'opera del medico Galeno (129 d.C. - 201 d.C.). Queste sono le citazioni:  

ἐν οἷς ἐστι καὶ ἡ μέλκα, τῶν ἐν Ῥώμῃ καὶ τοῦτο ἓν εὐδοκιμούντων ἐδεσμάτων, ὥσπερ καὶ τὸ ἀφρόγαλα· τοῖς δ' αὐτοῖς τούτοις καὶ τὰς ψυχρὰς κατὰ δύναμιν ὀπώρας ὁμοίως ἀποψύχων ἐδίδουν·
(De methodo medendi libri XIV, vol. VII) 
 
καὶ σικύου δὲ καὶ πέπονος οὐ πολὺ προσενέγκασθαι τηνικαῦτα, καὶ μηλοπέπονος, ἔτι τε τῶν πραικοκίων ὀνομαζομένων ἢ Περσικῶν ἐγχωρεῖ, καθάπερ γε καὶ τῆς καλουμένης παρὰ Ῥωμαίοις μέλκης ἐψυχρισμένης, ἀφρογάλακτός τε καὶ τῶν διὰ γάλακτος ἐδεσμάτων, ὁποῖόν ἐστι καὶ τὸ καλούμενον ἀργιτρόφημα· καὶ σῦκα δὲ ὁμοίως ψυχρὰ καὶ κολόκυνθαι τοῖς οὕτω διακειμένοις ἐπιτήδειοι.  
(De rebus boni malique suci, vol. VI) 
 
Secoli dopo, Antimo (511 d.C. - 534 d.C.) scrive nella sua opera De observatione ciborum epistula
 
oxygala vero graece quod latine uocant melca (id est lac) quod acetauerit. 
 
Essendo vissuto alla corte di Teodorico il Grande, Re degli Ostrogoti, oltre che tra i Franchi, ad Antimo era chiaro che la parola melca doveva avere la sua origine in una lingua germanica e avere il significato originale di "latte" - mentre Apicio e Galeno non sembravano consapevoli della natura straniera del termine.  
 
Alcune note etimologiche  
 
Non ci sono dubbi sull'origine germanica di melca, come procedo a dimostrare. In altre parole, si tratta di un germanismo precoce in latino, molto anteriore alle migrazioni conosciute come "invasioni barbariche"
 
Si capisce subito che la radice di melca è la stessa del verbo latino mulgeō, mulgēs, mulsī, mulctum, mulgēre "mungere"; per motivi fonologici non può tuttavia trattarsi di una parola latina nativa. Deve essere giunta a Roma da una lingua indoeuropea con  ben precise caratteristiche. Non può provenire dal greco, che ha il verbo ἀμέλγω (amélgō) "mungo", chiaro parente del latino mulgeō. La protoforma indoeuropea ricostruita è *(a)meleg'-.
 
Vediamo che melca non può essere un prestito dal celtico, sempre per via del suo consonantismo.
 
Antico irlandese: 
    mligim "io mungo"
    do-om-malg "io munsi" 
    mlegun "mungitura" 
    melg n- "latte" 
    bó-milge "del latte di mucca"
    mlicht, blicht "latte" 
Gallese: 
    blith "lattante"  
 
Può soltanto trattarsi di un prestito da una lingua germanica, su cui ha agito la legge di Grimm, che trasforma il fonema indoeuropeo /g/ in /k/

Protogermanico: *meluks "latte"
Gotico di Wulfila: miluks "latte" 

A tutti sono ben noti alcuni esiti della forma protogermanica: basti pensare all'inglese milk e a tedesco Milch.
 
Gli studiosi russi, come Sergei Starostin, hanno optato per una scelta a mio avviso non condivisibile, spinti da una bizzarra forma di nazionalismo. Visto che il protoslavo ha *melko "latte", donde deriva il russo молоко (molokó), con una consonante sorda /k/ come quella del germanico, esistono due alternative: 
 
1) La forma protoslava è un prestito da una lingua germanica o da altra lingua IE non identifica con /g/ > /k/;
2) La forma protoslava proviene da una radice IE diversa da *(a)meləg'- e postulabile come *melk-
 
I russi sostengono la seconda soluzione, fittizia e politicizzata, giungendo all'assurdo di ritenere nativo il termine melca di Apicio. Vediamo chiaramente che il protoslavo *melko "latte" non è parte del lessico ereditario, essendo un prestito. Non significa nulla il fatto che non si riesca a tracciare storicamente questo prestito. Il fatto che i dettagli siano andati perduti non significa che si debba ricostruire una radice protoindoeuropea fantomatica. Vediamo anche che melca ha l'aspetto di una parola latina come gangster ha l'aspetto di una parola dell'idioma di Dante.  
 
Conclusioni 
 
Il vocabolo sardo merca, indicante il noto latticino acido, deve essere il naturale esito di un germanismo precoce giunto da Roma e molto anteriore la dominazione dei Vandali. Non è quindi possibile considerarlo, come si potrebbe pensare a prima vista, un prestito dal germanico orientale. Come è giunta la melca a Roma? Forse non lo sapremo mai, ma sono convinto che si tratti del frutto di una complessa serie di interscambi culturali tra il mondo germanico e quello romano. Non dimentichiamoci che i mercanti romani frequentavano i Germani, portando loro vino e altri prodotti. Non è improbabile che in questo ambito sia nato e si sia diffuso un nuovo tipo di latticino.

martedì 4 agosto 2020

UN IMPORTANTE VOCABOLO VANDALICO IN SARDO: GRISARE 'ECLISSARE'

Nel corso dei miei studi solitari ho scoperto che oltre al verbo grisare "schifare", in sardo esiste anche un omofono (o quasi omofono) grisare "eclissare". Questo vocabolo merita di certo qualche considerazione. 
 
Informazioni di estremo interesse si trovano sul dizionario online di lingua e cultura sarda (Ditzionàriu in línia de sa limba e cultura sarda), della Regione Autonoma della Sardegna: 
 
 
grisài, aggrisare, crisare, grisare 
traduzione italiana: cambiare colore; eclissare; mutare, oscurarsi 
sinonimi in sardo:
   nau mescamente de su Sole e de sa Luna; 
   fàere iscuru, giare prus paga lughe candho Terra e Luna che 
   arresurtant unu ananti de s’àteru e si faent umbra; 
   iscumpàrrere, coment'e cuandhosi, essire de sa vista, fintzes 
   serrare is ogos; 
   assicare, aumbràresi, salargiare; 
   nau de animale fémina, sentire de angiare; 
incrisare, irgrisire / aclisare 
citazioni:
1) candho l'ant a cantare "A porta ínferu" paris si ant a grisare sole e luna prontu abberindhe sa porta Lucíferu! 
2) si est grisada sa luna e no apu pótziu isparai a sirboni, a s'orbetu. 
3) oh tempus, fis tandho e ses como chena acamu, debbadas ti apo pessighidu, ma tue, lascinosu che colora, ti ses grisadu!
(F. Murtinu)
4) su fumu grisat su colore asulu de s'aera.  
5) sos ojos as grisadu e as lassadu trummentos in sos coros.  
grisau ti fiast, chi no ti apu biu prus? 
6) is brebeis si funt grisadas comenti ant biu a margiani. 
7) una note sos anzones in s'annile si sunt grisaos e su pastore at pessau chi fit mariane.
proverbi: 
onzi cadhu lantadu a sa sedha si grisat 
glossa francese: assombrir, éclipser 
glossa inglese: moon darkening
glossa spagnola: obscurecerse el sol o la luna, obscurecer
glossa tedesca: sich verfinstern 

L'origine è chiaramente germanica e risale per l'esattezza alla dominazione dei Vandali, la cui lingua era una varietà di germanico orientale, proprio come il gotico di Wulfila.

Protogermanico:
      *uz-gri:s(j)anan "diventare grigio, oscurarsi"
Corrispondente atteso nel gotico di Wulfila:
      *uzgreis(j)an /uz'gri:s(j)an/ "diventare grigio, oscurarsi"

La preposizione uz- deve aver lasciato tracce alterate nelle forme sarde incrisare, irgrisire, aclisare
 
Si coglie subito l'allusione al mito del sole e della luna divorati da lupi mostruosi. Per maggiori dettagli sulla radice protogermanica, rimando a un altro mio contributo alla Scienza: 
 
 
Confutazioni delle tesi dei romanisti: 
Il vocabolo sardo in questione non può essere un derivato dell'italiano eclissare o un'eredità diretta di un latino tardo eclipsare (eclypsare), per via della sibilante semplice, che non può essere un esito del gruppo consonantico -ps-. Si noterà che la forma verbale eclipsare non sempbra appartenere all'Antichità classica, che conosceva soltanto il grecismo eclipsis /e'kli:psis/, prestito dotto dal greco ekleipsis. Nel Glossarium mediae et infimae latinitatis (Du Cange et al.) sono forniti ulteriori dettagli: 
 

domenica 2 agosto 2020

UN IMPORTANTE VOCABOLO VANDALICO IN SARDO: GRISARE 'SCHIFARE'

Nella Cloaca Maxima di Facebook mi sono imbattuto in un flame il cui argomento era il formaggio sardo chiamato casu marzu, caratterizzato da infestazione di larve della mosca Piophila casei, avvezza a frequentare i cadaveri. L'amica Lina S., nativa della Sardegna, difendeva il bizzarro prodotto gastronomico, affermando che i vermi in esso brulicanti sarebbero "fatti di formaggio" e del tutto innocui. In tono di sfida, citava il fatto che i pastori sardi sono notoriamente assai longevi. Il suo commento ironico era qualcosa come: "Hanno più di cent'anni e il casu marzu l'hanno sempre grisau, vero?" - quindi aggiungeva la glossa: grisau = schifato. Qualcosa in me si è illuminato. Ho infatti compreso che il vocabolo in questione è un residuo della dominazione dei Vandali, che in Sardegna è durata circa ottant'anni. Credo che sia una cosa importante farlo notare, alla faccia dei romanisti che vorrebbero cancellare ogni eredità germanica dalla faccia della Terra. Del celebre formaggio verminoso, eredità neolitica, parleremo in un'altra occasione.
 
Informazioni di estremo interesse si trovano sul dizionario online di lingua e cultura sarda (Ditzionàriu in línia de sa limba e cultura sarda), della Regione Autonoma della Sardegna: 
 
 
grisai, grisare, crisare 
traduzione: schifare, provare ribrezzo 
sinonimi in sardo:
   provare ischifu, abborrèschere, afeai, ascamare, aschiai,
   ghelestiare, ischifare, ispucire 
glossa francese: éprouver du dégoût
glossa inglese: to loathe 
glossa spagnola: sentir asco, repugnar 
glossa tedesca: verschmähen. 

Nel suo vocabolario, Spano riporta le forme meridionali grìsu "ribrezzo; paura" e grisòsu "che ha ribrezzo".

Non è difficile risalite all'etimologia genuina di questi vocaboli. 
 
Protogermanico:
      *gri:sanan
"essere atterrito;
provare orrore
Corrispondente atteso nel gotico di Wulfila:
      *greisan /'gri:san/ "essere atterrito; provare orrore"
 
Corrispondenti in germanico occidentale:
Antico inglese: 
       âgrîsan "rabbrividire; temere" 
Antico frisone:
       gryslic "spaventoso" 
Medio olandese: 
      grîsen "rabbrividire"
Medio basso tedesco: 
       grisen, gresen "rabbrividire"; greselîk "spaventoso"
 
Non ho trovato in giro brillanti idee dei romanisti, tali da poter fornire materia di discussione e di confutazioni, così concludo qui la mia trattazione.  

martedì 16 giugno 2020


L'IGNOTO SPAZIO PROFONDO

Titolo originale:
The Wild Blue Yonder
Lingua originale: Inglese
Paese di produzione: Regno Unito, USA, Francia, Germania
Anno: 2005
Durata: 81 min
Rapporto: 1.85:1 (16:9)
Genere: Fantascienza
Sottogenere: Pseudo-documentario
Regia: Werner Herzog
Soggetto: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Produttore: Andre Singer, Lucki Stipetić
Produttore esecutivo: Christine Le Goff
Casa di produzione: Werner Herzog Filmproduktion, West
     Park Pictures, Tetra Media
Distribuzione in italiano: Fandango
Fotografia: Henry Kaiser, Tanja Koop, Klaus Scheurich
Montaggio: Joe Bini
Musiche: Ernst Reijseger, Mola Sylla, Cuncordu e Tenore de
     Orosei
Interpreti e personaggi:
    Brad Dourif: L'alieno
    Donald Edward Williams: Astronauta (comandante)
    Ellen Baker: se stessa, come astronauta (fisico)
    Franklin Chang-Diaz: se stesso, come astronauta (fisico)
    Shannon Lucid: se stessa, come astronauta (biochimico)
    Michael McCulley: se stesso, come astronauta (pilota)
    Roger Diehl: se stesso, come matematico
    Ted Sweetser: se stesso, come matematico
    Martin Lo: se stesso, come matematico
Traduzioni del titolo: 
     Spagnolo: La salvaje y azul lejanía
     Russo: Далёкая синяя высь
Colonna sonora: 
    CD: Requiem for a dying planet 
    Contenuti:  
    1. Intro Dank Sei Dir Gott
    2. Dank Sei Dir Gott (di Georg Friedrich Haendel, cantato
         da Emmi Leisner)
    3. Longing For A Frozen Sky
    4. A Una Rosa
    5. Libera Me, Domine
    6. In Search Of A Hospitable Place
    7. Sanctus
    8. Bad News From Outer Space
    9. Su Bolu 'E S'Astore
   10. Mura/Ballu Turturinu
   11. Song Of The Desert
   12. Kyrie 
Premi e riconoscimenti:
Premio FIPRESCI, vinto il 5 settembre 2005 alla 62ª Mostra del cinema di Venezia.

Sinossi: 
Il film, suddiviso in dieci capitoli, inizia narrando l'angosciante storia di una civiltà aliena nata nella galassia di Andromeda e costretta a migrare dal proprio pianeta, l'Ignoto Spazio Profondo (The Wild Blue Yonder), reso inabitabile da una violenta glaciazione. È una storia costituita dai fallimentari tentativi intrapresi da questi extraterrestri allo scopo di comunicare e di avere rapporti commerciali con gli umani della Terra. 
 
I. Requiem per un pianeta morente
     (Requiem for a dying planet)  
II. I Padri Fondatori alieni
    (The alien Founding Fathers) 
III. Riesaminato il mistero dell'UFO di Roswell 
    (The Roswell UFO mystery re-examined)
IV. Missione oltre i limiti
      (Mission to the Outer Fringes)
V. La morte di un sogno
      (The death of a dream) 
VI. La matematica del trasporto caotico 
      (The mathematics of chaotic transport) 
VII. I misteri dello Spazio Profondo
      (Mysteries of the Blue Yonder) 
VIII. Utopia della colonia ideale
      (Utopia of the ideal colony) 
IX. Il tunnel del tempo 
     (The tunnel of time) 
X. La vera storia del loro ritorno 
     (The true story of their return) 
 
Come ci spiega l'alieno, il relitto trovato a Roswell era una sonda della sua civiltà. Riesaminato dopo 50 anni, il manufatto ha dato origine a una contaminazione batterica e a una pandemia contenuta a stento. Questo ha portato la NASA ad inviare nello spazio un equipaggio con l'incarico di trovare un nuovo pianeta abitabile, una casa per il genere umano. Scelta acuta e intelligente, proprio come quella dei benestanti fuggiti da Milano durante la peste descritta dal Manzoni. Dopo vani tentativi di esplorazione dello spazio vicino, come per incanto la nave spaziale viene ghermita da una distorsione spaziotemporale e finisce proprio nella galassia di Andromeda, sul pianeta d'origine degli alieni - ormai disabitato e ridotto a una palla di ghiaccio. L'equipaggio perfora questa crosta glaciale, tuffandosi nel sottostante oceano di elio liquido (sic!). Trovano meduse, alghe e altri organismi mucillaginosi, quindi fanno della nave la loro dimora per qualche anno. Quindi decidono di tornare sulla Terra, perché nemmeno il pianeta oceanico può offrire ospitalità duratura a un'umanità di esuli. Utilizzando la distorsione spaziotemporale, credono di viaggiare per soli 15 anni. In realtà ci mettono ben 820 anni. L'umanità nel frattempo ha abbandonato la Terra servendosi di stazioni spaziali. Il pianeta, diventato un Parco Nazionale, è ricoperto di foreste e sprofondato nella preistoria. 
 

Recensione: 
Questo non è un film di facile assimilazione. Ho dovuto vederlo due volte per comprenderlo ed apprezzarlo appieno. Spicca l'estrema povertà dei mezzi utilizzati. In pratica, il regista ha saldato svariati filmati di repertorio della NASA e di esplorazione subacquea antartica - questi ultimi opera di Henry Kaiser e girati nelle acque dell'Isola di Ross. Anche le interviste agli scienziati sono reali, per quanto siano state impiegate dando loro un significato molto diverso da quello originale. Per questo moltivo, una parte della critica cinematografica ha ritenuto "inaccettabile" questa pellicola. Spiccano alcune incongruenze marchiane, sesquipedali, che nulla tolgono al lirismo dell'opera. Ad esempio, l'ammaraggio di un astronauta americano viene presentato dal regista come se fosse il recupero di un alieno venuto dall'Ignoto Spazio Profondo. Eppure la tuta non ha affatto l'aspetto di essere di produzione aliena, tanto che mostra la bandiera degli USA su una manica. La stessa forma degli esuli si presenta come indistinguibile dalla nostra, nonostante provengano da un ambiente tanto diverso. Come avrebbero fatto ad adattarsi? A questo mistero non viene fornito neppure un abbozzo di risposta. Stupisce l'assoluta mancanza di contenuti propri nelle genti dell'Ignoto Spazio Profondo, come se si fossero assimilate interamente alla lingua inglese e agli usi della Terra dei Coraggiosi, perdendo ogni memoria della loro cultura d'origine. Un'amnesia poco credibile, anche postulando il progressivo scemare delle capacità mentali degli alieni, a cui pure il narratore fa allusione: se anche fossero diventati dementi, come avrebbero fatto ad apprendere una nuova lingua e un nuovo mondo di informazioni? Abbondano le contraddizioni logiche. In uno dei suoi interminabili monologhi, il narratore afferma che l'allevamento di animali domestici è stato il primo peccato del genere umano, avvenuto nel Neolitico. Il nome dato a questa grave colpa è "sedentarietà". Infatti dall'allevamento e dall'agricoltura deriva la fondazione di villaggi e grandi città, con tutto il degrado che ne consegue. L'allevamento di cani non è invece un peccato, perché tali intelligenti carnivori aiutano l'uomo nella caccia quando è nomade. Bene, sono d'accordo. Però l'esule cosmico non spiega come avrebbe fatto la propria civiltà ad uscire dal Paleolitico e ad arrivare a viaggiare tra le galassie. L'elogio ecologico dell'umanità di cacciatori e raccoglitori stride con i tentativi degli alieni di installare sulla Terra una città e di integrarsi nell'economia e nella politica delle sue nazioni.  

 
Un pianeta antifisico 

L'Ignoto Spazio Profondo (in inglese The Wild Blue Yonder, alla lettera "Il Blu selvaggio laggiù") dovrebbe essere un mondo oceanico fatto di acqua e ghiacciato in superficie a causa di un'improvvida era glaciale. Quando gli astronauti terrestri raggiungono la superficie candida di questo mirabile globo e ne perforano la superficie, l'oceano viene descritto dal narratore come un'atmosfera composta di elio liquido. L'elio è un gas nobile, inerte, incolore e insapore, non tossico, che si presenta allo stato liquido a temperature inferiori a -268,91 °C (si consideri che lo zero assoluto è -273,15 °C). È una pura e semplice assurdità pensare che in simili condizioni gli astronauti possano nuotare allegramente servendosi di tute da subacqueo. Le condizioni di un modo sarebbero vicine alla Morte Termodinamica, non si vedrebbero certo organismi gelatinosi nuotare allegramente. In fondo non è un problema eccessivo. I pianeti antifisici sono molto comuni nella tradizione fantascientifica. Iniziamo col gigantesco pianeta Kobol, che i Mormoni ritengono la sede di Dio (dotato a loro detta di un corpo fisico), per continuare con il celeberrimo Trantor, nato dalla fantasia di Isaac Asimov. Cosa c'è di più assurdo di un mondo ricoperto interamente da una città di metallo compatto, in barba a un'amenità chiamata "conduzione del calore"? Nella realtà, una costruzione simile sarebbe inconcepibile, eppure Trantor ha incantato intere generazioni di lettori di fantascienza, in nome di un trucchetto conosciuto come "sospensione dell'incredulità". Se si ammette un pianeta abitabile come Trantor, non si faranno troppe storie per la creazione di Herzog! 
 

L'Involuzione delle Specie 
 
Gli alieni partiti dall'Ignoto Spazio Profondo hanno subìto nel corso dei secoli un processo di degradazione cognitiva, che li ha portati a diventare sempre più incapaci e sconnessi dalla realtà. Pare proprio che sia un processo entropico ineluttabile che colpisce tutte le specie intelligenti. Prima si accende la fiammella dell'Intelligenza, che permette di accedere alla Conoscenza e ai suoi frutti. Poi accade che l'Intelligenza cominci a scemare e a mostrare sintomi di degrado, sempre più gravi. Alla fine, si arriva alla demenza generalizzata. Herzog ci mostra i desolanti risultati di questo corrosivo processo. Gli alieni avevano in mente di costruire sulla Terra una città grande e potente come Washington D.C., proprio nel territorio degli States. Una seconda Washington, con tanto di Pentagono, Congresso, Campidoglio, Corte Suprema e via discorrendo, che doveva diventare un centro commerciale di importanza mondiale. Cosa sono riusciti a realizzare? Una specie di discount in cui nessuno andava, situato in un crocicchio nel bel mezzo del deserto. Il sito istituzionale che avrebbe dovuto oscurare il Campidoglio era un piccolo edificio fatiscente alla confluenza di due stradine polverose. 
 
Questa è la traduzione in italiano del passaggio, tratta tra i sottotitoli: 
 
"Sapete, i nostri bis, bis, bis, bis, bis, bisnonni erano degli eccellenti scienziati, ma il viaggio era lungo e noioso. E quando arrivammo qui, centinaia e centinaia e centinaia di anni dopo, eravamo diventati degli incapaci."  

Questa è l'originale in inglese d'America: 
 
"You know, our great-great-great-great-great-great-great-great grandfathers were fine scientists, but the journey was long and boring and when we got here, hundreds of hundreds and hundreds and hundreds and hundreds of years later, those of us who arrived here just... sucked."
 
La pronuncia è allucinante: quella lunga successione di "great-great-great-great" suona come il verso di un papero: GWÈ GWÈ GWÈ GWÈ! Si noterà anche l'anodina "traduzione" di "just... sucked" con "eravamo diventati degli incapaci". Mancava il coraggio di tradurre correttamente con "facevamo schifo".  
 
Una fisica surreale  

Herzog cerca in tutti i modi di fornire una descrizione plausibile di come gli astronauti siano riusciti a raggiungere l'Ignoto Spazio Profondo. Non ci riesce, credo per via del fatto che ignora i princìpi della Relatività di Einstein. Uno scienziato di origine orientale, forse coreana, si lancia in una presentazione dal sapore New Age, in cui si propone di sostituire lo schema delle orbite dei pianeti del sistema solare con un labirinto neolitico come quello che si trova nella cattedrale di Chartres. Ha in testa una grande confusione. Secondo lui, se si raggiunge il punto lagrangiano L1 del sistema Terra-Luna e si imbocca la giusta "autostrada spaziale", si finisce comodamente su altre stelle o addirittura in un'altra galassia, a velocità superluminali! Per spiegare la distorsione del tempo nel viaggio di ritorno degli astronauti si invocano addirittura gli universi paralleli. Tuttavia sarebbe stato più facile postulare i cunicoli spaziotemporali detti wormholes (connettono regioni remote dell'Universo) e la presenza di una grande massa come quella di un buco nero gigante (la dilatazione temporale gravitazionale rallenta lo scorrimento delle lancette degli orologi).
 
    
Un equivoco linguistico 

Mentre le meduse passano accanto agli esploratori in pinne subacquee, una voce canta in una lingua dalla sonorità semitica, molto affine a quella dell'arabo. Lì per lì ho pensato che fosse un canto in punico conservato miracolosamente dai Tenores sardi, anche se la cosa pareva abbastanza inverosimile. Tempo fa mi è stato detto che in Sardegna ci sono persone capaci di scagliare maledizioni servendosi di formule in una lingua antica, ma non ho avuto mai la possibilità di visionarne i testi. Ovviamente c'era la possibilità che si trattasse di una lingua inventata di sana pianta, di una specie di grammelot semitico, messo a punto per dare l'impressione di una lingua ignota di origine aliena. Il punto è che una simile creazione non è poi così immediata e facile. Poi ho scoperto che il canto è in lingua Wolof. Una lingua reale, dunque, parlata in Senegal, ma anche in Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Mali e Mauritania, per un totale di quasi 5,5 milioni di locutori. Mola Sylla, che ha contribuito alla colonna sonora del film, è per l'appunto un cantante senegalese, i cui testi sono proprio in lingua Wolof. 
 
 
Cantu a tenore 

Il cantu a tenore (ossia "canto a tenore") è uno stile di canto corale polifonico, originale ed autoctono, tipico della Sardegna e in particolare dell'impervia Barbagia. In lingua sarda è chiamato anche su tenore, su cuncordu, su cussertu (su cuntzertu), su cuntrattu, su cantu a proa, s'agarropamentu. Spesso si parla di Tenores sardi, ma tale locuzione non è così semplice come potrebbe sembrare a prima vista. Infatti in sardo la parola tenore è già un plurale collettivo, che indica l'insieme di coloro che cantano in un gruppo. Ciascuno dei cantanti è detto boche "voce". Il plurale sigmatico Tenores indica i diversi gruppi che praticano il cantu a tenore. Si tratta senza dubbio di un'eredità antichissima, a parer mio preromana. Si ipotizza che questa forma di canto, tipicamente pastorare, sia nato dall'imitazione dei suoni della Natura. Così secondo alcuni su bassu (il basso) imita il muggito di un bue, sa contra (il contralto) imita il belato di una pecora, sa mesu boche (la mezza voce) imita il verso dell'agnello, mentre la voce dell'uomo è quella del solista, sa boche. Si notano sorprendenti somiglianze tra il cantu a tenore e il xöömej, un canto difonico tipico delle genti di Tuva, in Siberia, ai confini con la Mongolia. Secondo le tradizioni tuvane, il xöömej sarebbe nato dall'imitazione dei suoni della steppa: l'acqua che scorre, il trotto dei cavalli, il sibilo del vento. Lo scopo sarebbe stato quello di acquisire la forza degli spiriti degli elementi naturali. Tutto ciò è di estremo interesse e merita approfondimenti. 
 
 
Utopie e contenuti profetici 
 
Anno del Signore 2005. Tempi non sospetti. Greta Thunberg poppava ancora il latte materno: sarebbero passati anni prima del manifestarsi dei prodromi della sua condizione isterica di attivista convulsionaria. Ebbene, Werner Herzog aveva ben chiare le condizioni terminali del nostro pianeta malato, infestato dal parassita Homo sapiens, e sognava la palingenesi, il ripristino di una purezza edenica. Così ci parla del ritorno degli astronauti dall'Ignoto Spazio Profondo, mostrandoci l'immagine di un imponente acrocoro che sorge dalla foresta pluviale facendo scaturire impetuosi ruscelli dai fianchi: 
 
"Quando sono tornati, 820 anni dopo, la Terra non era più abitata. Era diventata un Parco Nazionale. L'atterraggio è avvenuto su questo altopiano, perché non c'erano più aeroporti, città, ponti, dighe, soldi, banche, tempo e vita. Era tornata alla sua bellezza originaria. Era di nuovo preistorica. E questo è il suo aspetto..." 
 
All'epoca non si sospettava che una pandemia avrebbe fatto la sua irruzione nel mondo, introducendo una discontinuità di portata storica. Eppure Herzog in qualche modo lo presentiva. Così ha immaginato la comparsa di un morbo alieno e ha preconizzato draconiane misure di contenimento. Ricordiamoci che il tanto strombazzato Contagion di Steven Soderbergh (2011), esaltato in modo fanatico da molti fantascientisti, non mostra nulla di simile a un lockdown e all'imposizione generale delle mascherine. Altra cosa prevista dal regista è il delirante titanismo di Elon Musk. A un certo punto si vede infatti uno scienziato che dice mirabilia della colonizzazione spaziale prossima ventura, teorizzando addirittura un pendolarismo tra il lavoro nelle miniere asteroidali (come se fosse una barzelletta!) e le vacanze sulle spiagge assolate della Terra.   

Nostalgia di Klaus Kinski 
 
L'interpretazione di Brad Dourif mi ha convinto che Herzog lo abbia scelto nel tentativo estremo di trovare qualcuno capace di ricordare, seppur vagamente, il mitico Klaus Kinski. Celebre come protagonista di Qualcuno volò sul nido del cuculo (Miloš Forman, 1975), Dourif è comparso anche in Dune (David Lynch, 1984), dove ha interpretato la parte di Piter DeVries, l'astuto consigliere del Barone Vladimir Harkonnen. Nel 1988 lo vediamo impegnato in Mississippi Burning - Le radici dell'odio (Alan Parker), dove rivestiva i panni di uno sceriffo affiliato al Ku Klux Klan: era un enfant terrible che prendeva a sganassoni le donne, spezzava il collo ai gatti, inveiva contro Martin Luther King chiamandolo "Martin Luther King Kong", etichettava i progressisti come "leccanegri" e vomitava sul pavimento una decina di litri di birra dopo un colossale binge drinking. È poi stato l'odiosissimo Grima Vermilinguo nel kolossal Il Signore degli Anelli: Le due Torri (Peter Jackson, 2002). È nato a Huntington in West Virginia nel 1050. Il suo nominativo esteso è Bradford Claude "Brad" Dourif. Il cognome, rarissimo, è di origine francese. L'origine più probabile è da dou "del" (dialettale per du) e rif "ruscello" (dialettale per ruisseau). Dovrebbe pronunciarsi /du'Rif/, ma negli States la pronuncia è stata bizzarramente adattata in /'dɔ:rɪf/. Ha la stessa origine il cognome Durif (anche scritto Duriff in America), come pure l'italiano Delrio. Quello che Herzog voleva era un attore grintoso e dal sembiante truce, che potesse dare l'impressione di essere chiaro di capelli, quasi albino o leucistico. In realtà le chiome di Dourif erano semplicemente ingrigite dall'età. 
 
Curiosità 
 
Quando chiedevano a Herzog dove avesse girato questo film, lui faceva il faceto e diceva che le riprese erano avvenute sulla galassia di Andromeda. 

Il titolo originale, Wild Blue Yonder, è stato ispirato dall'inno dell'Aviazione Militare degli Stati Uniti d'America (The U.S. Air Force Song). Ecco il testo originale in cui compare la locuzione (Verse I): 
 
Off we go into the wild blue yonder,
Climbing high into the sun;
Here they come, zooming to meet our thunder,
At 'em boys, Give 'er the gun! (Give 'er the gun, now!)
Down we dive, spouting our flame from under
Off with one helluva roar!
We live in fame or go down in flame. Hey!
Nothing'll stop the Army Air Corps! 
 
(helluva roar = hell of a roar)

A un artista geniale bastano poche parole per dar forma a un mondo! 
 
Herzog è rimasto folgorato dalla visione di alcuni filmati nell'archivio della NASA a Pasadena (California). Così ha detto: "C'è qualcosa di straordinario in alcune agenzie governative come la NASA. Hanno un insito senso di poesia, nessuno ci crederebbe, ma è così. E la gentilezza e il supporto che hanno dato al mio progetto erano totalmente inaspettati e senza precedenti". I filmati in questione erano stati registrati durante la missione dello Space Shuttle STS-34 del 1989, che aveva il compito di lanciare la sonda Galileo.

La squallida imitazione del Campidoglio esiste davvero e si trova a Niland, in California, proprio all'intersezione tra Niland Avenue e la East Main Street. In pratica quel luogo è un immondezzaio. La sua desolazione è insostenibile. Farebbe inorridire persino i Rom valacchi di condizione più umile.   
 
Lo stranissimo altopiano su cui avveniene l'atterraggio degli astronauti si trova in Venezuela: è il Monte Roraima. Fa subito venire in mente l'acrocoro descritto ne Il mondo perduto di Sir Arthur Conan Doyle (1912). 
 
Cineforum fantafilm 
 
Il film è stato proiettato il 19 febbraio 2007 al Cineforum Fantafilm dell'amico Andrea "Jarok" Vaccaro. Purtroppo non ho potuto essere presente e ho visto il film molti anni dopo, sullo schermo del portatile, in inglese americano con i sottotitoli in italiano. Solo ora vengo a sapere che in occasione della proiezione si è tenuto un dibattito sul tema dell'esistenza degli extraterrestri, a cui ha partecipato il professor Elio Sindoni, che ricordo bene dall'epoca dell'università. Cosa che ignoravo, è l'autore di un libro sul tema: Esistono gli extraterrestri? (Il Saggiatore, 1997). È stato pubblicato nello stesso anno in cui ho conseguito la laurea! Avrò cura di procurarmi il volume, di leggerlo e di recensirlo.
 
Altre recensioni e reazioni nel Web 
 
Questi sono alcuni interventi della critica: 
 
"Una piccola ed ecologica Odissea nello Spazio per comprendere che il cinema può essere filosofia e comunicazione dello stato delle cose."
(Pino Farinotti) 
 
"<Herzog> si perde oggi in un misticismo laico ed approda alle soglie del tempo armato di un velleitarismo filosofico, che cerca di mascherare la sua smisurata ambizione fingendo di raccontare, male, una vicenda fantascientifica che si poteva sbrigare con mezzi convenzionali. Ma Herzog, forte della sua incrollabile fiducia nei propri mezzi, ci offre uno sconnesso semidocumentario, tecnicamente inaccettabile, le cui ambizioni non sembrano né poche, né piccole. Ma è come fotografare Dio con una vecchia polaroid."
(Il Giornale) 
 
"Si segue abbacinati e coinvolti, si ringrazia il cinema che, quando è gestito da un Poeta vero, può approdare a risultati unici, del tutto estranei a tutto quanto di solito, anche i suoi autori maggiori, riescono a proporci."
(Gian Luigi Rondi, Il Tempo) 
 
Il navigatore piernelweb ha scritto su Mymovies.it:

"Per molti versi "l'ignoto spazio profondo" è un film prodigioso. Dal genio di Herzog un'esempio (sic), credo senza precedenti, di cinema sperimentale che prende forma da immagini e filmati di altra fonte che divengono agli occhi dello spettatore, per manipolazione del regista tedesco, tutt'altro. Un mix di sequenze spaziali (di provenienza Nasa) subacque e aeree surreali e di impressionante bellezza accompagnate dalla voce narrante dell'alieno Brad Dourif e dalla musica "senza tempo" dei Tenores di Orosei. L'Odissea nello spazio di Herzog in diversi momenti è pesante come un macigno, nella sua lentezza ed allucinazione ma nel complesso assume la forma di una portentosa fantascientifica fiaba ecologica di grande impatto emotivo. E' incredibile come con pochissimi mezzi si possa fare dell'ottimo cinema." 

lunedì 18 maggio 2020

IL MISTERO DELL'OSFAGARTA

Anni fa mi sono imbattuto nel bizzarro portale dell'Istituto Italiano di Coproterapia (ICC) di Roma, ospitato su Blogspot. "La coproterapia è una disciplina naturale che consiste nell'immersione del corpo in una vasca di feci umane calde, o nella loro somministrazione per bocca" (cit.). In un post dell'ICC, che ora sembra essere irreperibile, si parlava di coprofagia in relazione alla scienza gastronomica e si descriveva la pajata romana come una preparazione culinaria fecale. Cosa abbastanza sensata, vista anche l'autorevole opinione di Alberto Sordi, che nel film Il marchese del Grillo (Mario Monicelli, 1981), definiva i rigatoni con la pajata in un modo abbastanza crudo: "merda". In buona sostanza si tratta di intestino tenue di vitello da latte, non privato del chimo (che è il latte digerito) e da usarsi per fare una salsa con cui condire la pasta. È ben nota la scena in cui il Sor Marchese inizia a questa conoscenza misterica la splendida francesina, Olimpia. 
 
 
 
Orbene, accanto alla pajata il blog menzionava un altro piatto di origine fecale, ben più enigmatico. Il suo nome è OSFAGARTA. Secondo le scarne spiegazioni che erano fornite, l'osfagarta sarebbe in tutto e per tutto simile alla pajata, ma preparata con intestino di agnello anziché di vitello. Nel blog non erano indicate fonti convincenti, né alcuna nota etimologica dello stravagante vocabolo. Si accennava soltanto a un certo professor A. Veneziano, che avrebbe condotto uno specifico studio sull'interessante materia gastronomica. Il nome A. potrebbe stare per Alberto, Aldo, Adolfo, Agostino e via discorrendo. Non si ha informazione alcuna sul nominativo completo. A conti fatti, in Google non è emerso proprio un bel nulla su questo fantomatico studioso. Dopo una lunga ricerca, sono riuscito a ritrovare il testo che cercavo, servendomi della Macchina del Tempo di Internet (Wayback Machine). Non l'ho trovato nel blog dell'ICC, ma in un sito di Altervista che lo menzionava. Riporto il reperto: 
 
 
"La paiata e l’osfagarta  (ci ricorda A. Veneziano N.d.r.)  sono solo alcuni dei molteplici piatti a base uro-fecale tipici della cucina Italiana.  Nella nostra alimentazione (continua A. Veneziano N.d.r.)  ci sono sempre stati dei piatti con ingredienti  uro-fecali. Il problema è che nella maggior parte dei casi il “donatore” non è umano, cioè le feci provengono da animali di allevamento. Il che comporta il rischio di contrarre malattie di origine bovina (nel caso della paiata) e ovina (l’osfagarta) e riduce al minimo le proprietà benefiche dell’assunzione." 
 
L'autore del testo, humanfailure, si augura quindi l'introduzione di piatti a base di sterco umano!

"Feci e urina devono quindi provenire da un “donatore” umano. Per chi non lo sapesse ricordiamo che è vietata la vendita di escrementi di origine umana (non a caso si usa il termine “donatore”)." 

Tutta la faccenda ha l'aria di essere un fake. Tuttavia si ricorda che anche un fake deve avere un'origine, non può essere scaturito dal Nulla. 
 
All'inizio avevo pensato a una contrazione del latino ovis "pecora", al genitivo, con la consonante finale fossilizzata. Anche se os- per ovis sembrava verosimile dal punto di vista tecnico, la cosa mi è subito sembrata assurda, irreale, così mi sono destato dalla fantasia. La seconda parte del composto resisterebbe ad ogni tentativo di analisi. Come dare un senso a -fagarta? La formazione non si spiega in alcun modo, la terminazione -arta permane oscurissima e priva di paralleli. Siamo di fronte a una parola impenetrabile. Non si riesce a trovare nessuna informazione che ci possa permettere di far penetrare un po' di luce in tenebre tanto fitte. In tutto il Web, prima che mi occupassi della questione, non esistevano altre menzioni della parola. Non si è trovata alcuna citazione utile in Google Books o nei forum.

Ho persino provato con un sito di anagrammi. Questi sono i risultati della ricerca:
 
Target = osfagarta
[sfata fasta] [gora agro]
[strafa sfrata] ago
[stara sarta rasta] foga
grafo asta
[targa grata] sofa
[targa grata] fa so
[targa grata] sa fo
[sfato fasto] [gara agra]
[gastro argots] afa
[gasato agosta] fra
sagrato fa
forata gas
[sorga sargo] [fata afta]
[trago targo grato argot] fa sa
[sagra ragas] fato
sfoga [tara rata atra]
[sfara farsa] [toga gota]
[gara agra] sta fo
[gara agra] sto fa
saga tra fo
[tara rata atra] gas fo
foga tra sa
[gora agro] sta fa
[toga gota] fra sa
[atro arto] gas fa
fra ago sta
 

Non se ne cava nulla. Vano è stato anche un tentativo di ricorrere a Quora, il social in cui tutti possono porre domande su qualsiasi argomento, ottenendo risposte che qualche volta possono essere sensate. Proprio come in Facebook, gli utenti facevano una ricerca, si imbattevano nella menzione dell'osfagarta sul blog dell'Istituto Italiano di Coproterapia e in Altervista, dando per scontato che l'informazione fosse fidedigna e riproponendola ad infinitum.
 
L'amico Marco Ajello propendeva per un'origine sarda, cosa che anche a me in un primo momento pareva abbastanza verosimile. Questa è la sua interessante considerazione:
 
"Forse in Sardegna... guarda lì che fine ha fatto la parola ovis." 
 
E ancora: 
 
"ovis come genitivo mi sa che sia la strada più percorribile... anche se poi i mutamenti son singolari."
 
Così gli avevo risposto: 
 
"Forse è davvero così, ma non ho trovato traccia del misterioso vocabolo nel dizionario online di Rubattu; inoltre la presenza di un nesso /sf/ è ostica. Il sardo ama già poco il suono /f/. Un problema terribile è il silenzio dei motori di ricerca: non restituiscono nemmeno una menzione del vocabolo oltre a quella descritta. Come mai? Non si dovrebbe trovare un sito con frasi del tipo "sono andato a mangiarmi l'osfagarta", etc. Nulla. Com'è possibile che una forma così singolare, se davvero esistente su suolo italico, non abbia mai attirato l'attenzione degli studiosi? Se invece è una parola di una lingua non romanza, dovrebbe comunque trovarsene traccia da qualche parte.
 
E ancora: 
 
"Si potrebbe fare un esperimento antropologico. Girare per le osterie di Roma ordinando un piatto di osfagarta. Immagino l'espressione turbata e irosa dei pingui tavernieri. Deve essere un ambiente difficile. Ricordo che anni fa sono entrato in una pizzeria. Tutti si rivolgevano a me in inglese. Quando ho detto loro di essere di Milano, mi hanno guardato straniti come se avessi detto di venire da Betelgeuse!"
 
Va detto che all'epoca non era nemmeno indicizzata da Google la domanda che avevo fatto su Quora. Questa dunque è la seconda teoria formulata da Marco Ajello:  
 
"Altre ipotesi: un articolo? Oppure osfag- è proprio il nome dell'intestino dell'animale. O una qualche preposizione (come eso-fago)." 
 
In effetti, la cosa appariva più convincente di una contorta derivazione da ovis. In altre parole l'osfagarta sarebbe quello che in italiano chiameremmo *ESOFAGATA. Anche se non conosco nessun esito romanzo del latino oesophagus (dal greco oisophágos, formato da oísein "portare" e da phageîn "mangiare"), non sarebbe impossibile l'evoluzione volgare della parola in *OSFAGU, da cui si giungerebbe a un derivato collettivo *OSFAGATA. La semantica non crea troppi problemi: non dobbiamo credere che i parlanti di una forma di protoromanzo avessero la conoscenza dei moderni medici. Uno slittamento di significato da "esofago" a "primo tratto dell'intestino tenue" non dovrebbe dare grosse difficoltà. La ritrazione dell'accento, da esòphagus a *òsfagu non è impossibile: in fondo conosciamo un italiano antico stàrlogo, variante di astròlogo. Già, tutto questo sembra molto chiaro. Il termine greco oisophagos è attestato già in Aristotele; la forma latina sembra molto più tarda. In inglese compare oesophagus nel XIV secolo; in italiano compare esofago nel XV secolo. Non sono affatto sicuro che sia possibile postularne l'esistenza in protoromanzo. Si dovrebbe pensare che la nostra *ESOFAGATA sia ben più recente. Permane poi un problema di non poco conto: come spiegare la consonante rotica in OSFAGARTA
 
Anche su Quora un utente mi aveva risposto sostenendo la diretta derivazione di esofago (Juan Luis Pedrosa: "magari la parola de partenza sia "esofago"?"). Ormai mi ero quasi convinto. In un modo o nell'altro si doveva trattare di una derivazione abbastanza recente di *ESOFAGATA e al diavolo la rotica di troppo! Come un moscone nel cervello, qualcosa di subliminale mi infastidiva e ogni tanto riemergeva dal pelo dell'autocoscienza, allertandomi. 
 
L'amica Fabiana Cilotti ha scoperto una bizzarra assonanza nel nome del fiume Osfago, citato da Tito Livio, chiedendosi dove si trova questo corso d'acqua. Questa è la citazione in latino: "Movere itaque ex Pluvina Romani, et ad Osphagum flumen posuerunt castra". Così rispondevo: "Il fiume Osphagus è in Macedonia. Bizzarramente il correttore automatico di Google cerca di convertirne il nome in Esophagus."
 
A distanza di tempo, ho riletto l'intera conversazione su Facebook (un thread piuttosto caotico) e la mia attenzione è caduta su una proposta etimologica alternativa, sempre formulata da Marco Ajello: 
 
"Penso anche a "oxen" (buoi) inglese". 
 
Non ero stato particolarmente entusiasta di questa ipotesi ingegnosa, tanto che avevo risposto così:

"Però l'intestino usato è ovino, non bovino. Inoltre resta in ogni caso un residuo -fagarta che sfugge ad ogni analisi, come se provenisse da una lingua di Vega o di Altair." 
 
Adesso credo che potrebbe essere verosimile. Il residuo -fagarta potrebbe benissimo essere nient'altro che l'inglese faggot, fagot, un derivato diretto dell'italiano fagotto. Attualmente negli Stati Uniti d'America, questa parola indica soprattutto un omosessuale passivo, proprio a causa del riferimento gergale all'intestino, usato come cavità sessuale. Qualche pastore protestante ha come motto "God hates faggots", o qualcosa del genere. Esistono poi significati diversi di questa parola, come "fascina di legna da ardere", ma la cosa è irrilevante, trattandosi di sviluppi secondari. Trovo invece di un estremo interesse, il fatto che in Scozia la parola faggot sia usata per indicare una preparazione gastronomica fatta con lo stomaco di animali macellati. Si potrebbe dunque azzardare un percorso etimologico e semantico credibile. Presuppongo un composto OX FAGGOT, alla lettera "fagotto di bue", usato da qualche italo-americano per indicare la pajata romana. La pronuncia di questo OX FAGGOT in broccolino (gergo italo-americano di Brooklyn) sarebbe qualcosa come OSFAGAATA. L'ipercorrezione in OSFAGARTA, dati i problemi di pronuncia delle consonanti rotiche in inglese, sarebbe plausibilissima. Un oste romano che in una taverna avesse udito OX FAGGOT pronunciato come OSFAGAATA, OSFAGARTA, ne avrebbe tratto il vocabolo. Questo deve essere accaduto a Roma quando la pajata di vitello era proibita per via dell'epidemia di encefalopatia spongiforme di Creuzfeldt-Jacob (volgarmente detta "morbo della vacca pazza"). A causa di questo inconveniente poco piacevole, il taverniere romano serviva ai clienti un succedaneo della pajata, ottenuta da intestino di agnello. Si potrebbe anche pensare che il taverniere in questione fosse originario della Sardegna: nell'isola esiste la tradizione di produrre un formaggio a partire dal latte semidigerito dagli agnelli, estraendolo dal loro stomaco durante la macellazione. Il visitatore americano, probabilmente di Brooklyn, non si era avveduto della cosa, pensando di mangiare rigatoni con la pajata di bovino. Così ha chiamato il piatto OSFAGARTA e in qualche modo la cosa è finita su Internet.