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mercoledì 19 giugno 2019

UN VOCABOLO NORRENO PER INDICARE LA CASACCA: KǪSUNGR

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

kǫsungr (m.), giacca senza maniche 

Come di consueto, l'ortografia usata dall'autore è di tipo moderno e il lemma è scritto kösungr

Questi versi sono tratti dalla Haralds saga Sigurðarsonar (Saga di Harald figlio di Sigurd): 

Ferk í vánda verju;
verr nauð of mér snauðum,
kǫsungr fær víst í vási
vǫmm - en þat vas skǫmmu;
endr vas hitt, at hrunði
hringkofl of mik inga,
gǫgl bǫ́rut sik sára
svǫng - en þat vas lǫngu.


"Indosso una giacca grezza;
difende me, misero, contro il pericolo,
la camicia si è certo rovinata nella fatica, 
e ciò è stato di recente;
fu prima, che il cappuccio ad anello
del re cadde intorno a me,
le papere delle ferite* si mossero affamate;
ma ciò fu molto tempo fa."


*kenning per "corvi"

Salta subito agli occhi che si tratta di una voce entrata nell'antica lingua nordica da Oriente. Anche da noi in Italia si una voce del tutto simile: casacca.

La parola italiana casacca è ritenuta una semplice variante di cosacca, significando alla lettera "veste del cosacco" (vedi dizionario Treccani). In russo si avrebbe una forma analoga: казаки́н (kazakin) "veste del cosacco", da каза́к (kazák) "cosacco" (variante коза́к). L'origine ultima del nome dei Cosacchi è dal turco quzzak "nomade, avventuriero" (trascritto anche come kazak). Dalla stessa radice deriva l'etnonimo Kazakh, a sua volta origine del nome della relativa nazione, il Kazakhistan. Resta però un fatto: l'autorevole Treccani non fornisce alcuna chiara informazione sui percorsi culturali che hanno diffuso questa parola da Oriente a Occidente.

In inglese esiste cassock "tonaca", che indica la veste del monaco. A dispetto del singolare slittamento semantico, l'origine è sempre la stessa, dal turco. Con ogni probabilità il vocabolo è giunto alla Perfida Albione attraverso il francese medio casaque (XVI secolo).

Un'altra ipotesi sull'origine di queste famiglie di parole indicanti la tipica veste lunga è quella che le riconduce all'arabo kazagand "giacca soffice" (termine chiaramente non coranico), a sua volta importazione dal persiano kazhagand, analizzabile come un composto di kazh "seta grezza" e agand "ripieno (di stoppa)". Questa etimologia è consultabile su Etymonline.com.

Torniamo ora alla forma norrena e facciamo alcune considerazioni. Non mi pare che kǫsungr possa derivare direttamente dal medio francese casaque, che ha un aspetto fonetico molto diverso. La forma persiana kazhagand sembra a me la sorgente immediata più verosimile. Se la derivazione da me ipotizzata fosse confermata, dovremmo trarne due conclusioni: 

1) Il nome della casacca si deve a una paretimologia già in russo;
2) La parola norrena, di origine persiana, deve essere separata dai corrispondenti nelle lingue romanze, che vengono invece dal russo: è stata importata molto prima, visto che era già usata nel XIII secolo. 


Ormai è molto difficile, se non impossibile, ricostruire i dettagli di prestiti lessicali come quello discusso; in ogni caso si comprende che i portatori di parole orientali in Islanda e in Scandinavia dovettero essere proprio i Variaghi che militavano a Bisanzio come guardie dell'Imperatore.  

sabato 2 giugno 2018

PERCHÉ IL NOSTRATICO NON FUNZIONA?

Il nostratico è un'ipotetica macrofamiglia (o superfamiglia) linguistica, che include molte famiglie di lingue endemiche dell'Eurasia. Il suo nome è stato costruito a partire dall'aggettivo latino nostras "della nostra terra" (confronta anche nostrates "i nostri compatrioti" e nostratim "secondo i nostri costumi", "a modo nostro"). Per i non addetti ai lavori, spiegherò in modo semplice il concetto, rimandando al Web per approfondimenti. A partire dalle lingue indoeuropee attestate, i linguisti sono stati capaci di ricostruire il loro ipotetico antenato. Il problema a questo punto era stabilire l'origine di questa protolingua indoeuropea e quali sarebbero i suoi rapporti con altre protolingue, ad esempio con quella ricostruita a partire dalle lingue uraliche. Così a qualcuno è venuto in mente di ricostruire un antenato comune per un certo numero di famiglie linguistiche. Ancora oggi, molti si oppongono a questo concetto per motivi politici e ideologici. C'è addirittura chi è andato in marasma e ha esclamato: "Sarebbe terribile se fosse vero!". Se non vado errato, questa perla si deve all'ineffabile Larry Trask. Non va nascosto che per molti antisemiti è inaccettabile pensare che la lingua delle antiche genti indoeuropee possa avere anche solo l'origine di una sillaba in comune con le lingue afroasiatiche, a cui appartiene la lingua ebraica. In questo ambiente si annoverano i più acerrimi nemici della linguistica nostratica: l'origine dell'indoeuropeo dalla Terra Cava e da Vril è ritenuta più accettabile.

L'idea di una parentela a lungo raggio tra l'indoeuropeo e altre famiglie linguistiche si ritrova già agli inizi del XX secolo negli studi del danese Holger Pedersen, che propose una macrofamiglia cui diede il nome di nostratico (danese nostratisk, tradotto in America come Nostratian, forma che non ebbe successo). Questo embrione di nostratico includeva l'indoeuropeo, l'uralico, l'altaico e l'afroasiatico. Così scriveva il Pedersen nel lontano 1903:

«Grønbech considera possibile (p. 69) che la parola turca per "oca" possa essere presa a prestito dall'Indo-Germanico (Osm. kaz, Yak. xās, Chuv. xur). A parer mio ci sono tre possibilità riguardo a questa parola: coincidenza, prestito e parentela. Si deve tenere in conto anche quest'ultima possibilità. Moltissimi ceppi linguistici in Asia sono senza dubbio imparentati con quello Indo-Germanico; questo forse vale per tutte quelle lingue che sono state caratterizzate come Uralo-Altaiche. Sarebbe come unire tutti i ceppi linguistici imparentati con l'Indo-Germanico sotto il nome di "lingue Nostratiche". Le lingue Nostratiche occupano non solo un'area molto vasta in Europa e in Asia, ma si estendono anche fino all'interno dell'Africa; perché le lingue Semito-Camitiche sono secondo me senza dubbio Nostratiche. Riguardo alla prova della parentela delle lingue Nostratiche, non solo si deve tenere lontano tutte le etimologie delle radici e in generale tutte le frivolezze etimologiche, ma in generale non ci si deve preoccupare di accumulare una massa di materiale. Ci si dovrebbe piuttosto limitare alla considerazione razionale di una serie di pronomi, negazioni, in parte anche numerali che possono essere tracciati attraverso molti ceppi linguistici (in Turco sono reminiscenti dell'Indo-Germanico la negazione -ma, -mä e la particella interrogativa iniziale di parola m, il pronome interrogativo kim, il pronome di prima persona män, la terminazione verbale della 1. sing. -m, 1. plur. -myz, -miz e l'uscita -jin della 1. sing. dell'"ottativo," che ricorda molto il congiuntivo dell'Indo-Germanico [con gli affissi ottativi -a-, -ä-], il pronome di 2. sing. sän [cfr. l'uscita verbale IdG. -s], la formazione causativa con -tur- [cfr. IdG. -tōr nomen agentis; il causativo Indo-Germanico sembra anche come se fosse derivato da un nome d'agente del tipo φορός], i nomina actionis come Orkh. käd-im "che veste," diversi numerali numerals: Orkh. jiti "7," jitm-iš "70," [con j = IdG. s come in Proto-Turco *jib- "avvicinare"; Osm. jyldyz "stella": la parola Indo-Germanica per "sole"; jat- "giacere": la parola IdG. per "sedere"]; Proto-Turco bǟš "5" [con š = IdG. -que; cfr. Osm. piš- "essere cotto," IdG. *pequeti "cuoce"] etc., etc.). Resisto alla tentazione di entrare nella questione più in dettaglio.» 

Per motivi ideologici e politici, questa idea di Pedersen fu attaccata vigorosamente e cadde presto nell'oblio. Riemerse soltanto nei primi anni '60 in Unione Sovietica, quando il semitologo Aharon Dolgopolskij e lo slavista Vladimir Illič-Svityč la ripresero indipendentemente (si conobbero soltanto nel 1964). Il loro lavoro fu senz'altro titanico: raccolsero tutto ciò che era stato pubblicato in Europa occidentale sui tentativi di ricostruire una macrofamiglia che rendesse conto delle origini dell'indoeuropeo, a partire dai lavori di Alfredo Trombetti sulla monogenesi delle lingue umane. Non fu di certo facile dare forma sistematica a tante ricostruzioni di diversi autori. Tra le ipotesi considerate si possono citare la macrofamiglia indo-uralica di Björn Collinder e Holger Pedersen, la macrofamigia uralo-altaica di Martti Räsänen, la macrofamiglia indo-semitica di Holger Pedersen, Piero Meriggi e Luigi Heilmann. Dolgopolsky e Illyč-Svityč, lavorando separatamente, conclusero che esistevano indizi fondati per la ricostruizione di una macrofamiglia, a cui fu dato il nome di nostratico già usato da Pedersen. Le lingue incluse nel nostratico dai due autori sono le seguenti: 

1) Lingue indoeuropee
2) Lingue uraliche
3) Lingue altaiche
4) Lingue kartveliche (caucasiche meridionali)
5) Lingue camito-semitiche (oggi denominate afro-asiatiche)

In seguito Illyč-Svityč fece un'aggiunta:

6) Lingue dravidiche 

A quanto mi pare di intendere, gli studi dei due sovietici si svolsero in condizioni catacombali di completa assenza di comunicazioni col mondo esterno, forse per terrore che qualche commissario politico potesse giudicarli contrari all'ortodossia. Fatto sta che il linguista Vladimir Dybo riuscì comunque a venirne a conoscenza. Osservò il lavoro dei nostratisti e per qualche anno evitò di interferire, sembra per "conservare la purezza dell'esperimento". Poi, nel 1964, fece sì che Dolgopolsky e Illyč-Svityč finalmente si incontrassero. Ebbe così inizio una collaborazione che durò fino al 1967 - anno della morte di Illyč-Svityč. Da allora sono successe molte cose. Dolgopolsky è migrato in Israele e nuovi accademici si sono aggiunti al progetto, che ha preso il nome di Nostratic Workshop. Da allora le conoscenze sono progredite notevolmente.

Riporto il link a una pagina dell'Università di Cambridge che permette di consultare e scaricare il Nostratic Dictionary di Aharon Dolgopolsky (Terza edizione) : 


Mi rendo ben conto che non è affatto curato nella forma. Si presenta come magma vulcanico non fruibile, senza cura alcuna per le necessità del lettore. Un groviglio di sigle, simboli non convenzionali, tutto fuorché agevoli. Migliaia di vocaboli sono buttati assieme in giganteschi crogioli, senza alcuna esposizione sistematica.

The Tower of Babel (An International Etymological Database Project) è un progetto altamente meritorio che si prefigge di ricercare parentele a lungo raggio tra le famiglie linguistiche del mondo intero. Il suo fondatore è stato Sergei Starostin, attivo nel Web fin dalla metà degli anni '90. Tra i suoi collaboratori possiamo citare suo figlio George e quello stesso Vladimir Dybo che tanta parte ha avuto nel progresso degli studi nostratici. Il lavoro di questi studiosi ha dato vita a un database liberamente accessibile che contiene le protoforme ricostruite di numerose famiglie linguistiche, con migliaia di radici e di etimologie (per quanto ve ne siano di discutibili). Lo studioso è defunto nel 2005, ma la Scuola di Mosca continua la sua opera. Questi sono gli atenei che partecipano all'impresa:

The Russian State University of the Humanities (Center of Comparative Linguistics)
The Moscow Jewish University
The Russian Academy of Sciences (Dept. of History and Philology)
The Santa Fe Institute (New Mexico, USA)
The City University of Hong Kong
The Leiden University

Questo è il link dell'homepage del progetto: 


Queste sono le lingue incluse nella macrofamiglia nostratica da Sergei Starostin e dai suoi collaboratori: 

1) Lingue indoeuropee
2) Lingue uraliche
3) Lingue altaiche
4) Lingue kartveliche (caucasiche meridionali)
5) Lingue dravidiche
6) Lingue eschimo-aleutine
7) Lingue paleoartiche (
Čukotko-Kamčatke) 

Questo è il link al database delle lingue nostratiche:


Questo è il link alla pagina che comprende tutti i database (anche relativi a macrofamiglie non nostratiche): 


La macrofamiglia nostratica è chiamata anche eurasiatica da questi autori. Le lingue afroasiatiche sono considerate una macrofamiglia sorella del nostratico, anziché un suo ramo derivato. L'ipotetica protolingua da cui sarebbero derivate le lingue nostratiche (o eurasiatiche) e le lingue afroasiatiche è denominata boreano. La sua ricostruzione è considerata approssimativa.

L'ipotesi nostratica ha sostenitori anche al di fuori della Russia. Il linguista americano Allan R. Bomhard, nato a New York nel 1943, è senza dubbio uno dei massimi nostratisti oggi viventi. Le sue opere sono consultabili e scaricabili liberamente nel suo account su Academia.edu. Tra queste c'è il suo fondamentale e imprescindibile A Comprehensive Introduction to Comparative Nostratic Linguistics, disponibile sia in quattro volumi separati che in un file unico. L'aggiornamento è costante: l'autore carica spesso nuove versioni. La terza edizione è apparsa nel 2018.


Rispetto a Starostin, Allan Bomhard utilizza una diversa nomenclatura. Chiama lingue eurasiatiche quelle che gli autori russi chiamano nostratiche, mentre chiama nostratico l'antenato comune delle lingue eurasiatiche e di quelle afroasiatiche. Inotre include nel novero delle lingue nostratiche anche la lingua sumerica e la lingua etrusca: una scelta a dir poco controversa che avremo modo di discutere diffusamente in un'altra occasione. Sergei Starostin, per contro, non considera il sumerico e l'etrusco, preferendo collegare quest'ultimo con le lingue nord-caucasiche, ipotesi che reputo condivisibile. Va però detto che gli autori della Scuola di Mosca hanno conoscenze abbastanza scarne sulla lingua etrusca.

Critiche

Come mai ci sono tante divergenze nella collocazione di diverse famiglie all'interno del nostratico? Molto semplice: è ignota la distanza tra i vari rami della macrofamiglia postulata, proprio come sono ignoti i processi di glottogenesi.

Non sono state ricostruite singole protolingue, ad esempio il proto-indouralico a partire dal proto-indoeuropeo e dal proto-uralico, allo scopo di risalire poi da queste fino a una protolingua comune. Nonostante Dolgopolsky e Illič-Svityč si siano avvalsi di lavori in cui si postulavano protolingue come l'indo-uralico e l'indo-semitico, si hanno forti dubbi sul fatto che queste opere includessero ricostruzioni sistematiche. Si veda l'estratto dell'opera di Pedersen da me riportato in questa sede per comprendere il tenore di questi tentativi, per il vero piuttosto rudimentali. L'ideologia comune a tutti i nostratisti sembra essere questa: ritenere tutti i rami della macrofamiglia nostratica (o eurasiatica) come se fossero equidistanti e prodotti da una semplice scissione di una protolingua, così come le lingue romanze si sono formate a partire dal latino volgare. Inutile dire che le cose sono ben più complesse. 

Si ha l'impressione che la metodologia usata dai nostratisti sia sempre top-down anziché bottom-up. Quando la ricostruzione di una protolingua è top-down, l'artefice postula che varie lingue abbiano un'origine comune, tenta di costruire le protoforme a partire dal proprio intuito prendendo un certo numero di radici assonanti e di affissi delle lingue attestate, quindi cerca delle corrispondenze fonetiche regolari. Quando la ricostruzione di una protolingua è bottom-up, l'artefice parte dalle lingue attestate e da queste risale a singole protoforme. Se riesce a trovarne in gran numero, se le corrispondenze fonetiche sono regolari e se l'eliminazione dei prestiti non presenta gravi difficoltà, è riuscito nel suo intento di trovare l'origine comune delle lingue studiate.

La metodologia bottom-up dovrebbe sempre essere usata in qualsiasi ricostruizione di una protolingua. Ogni tentativo di ricostruzione top-down è viziato dall'ideologia e votato al fallimento. 

Si noterà che anche la distanza tra le lingue nostratiche più vicine è eccessiva. Per questo motivo, tale è l'abisso che separa le singole lingue derivate, che il nostratico ricostruito non ha molto senso: è come se fosse "appiattito".

C'è però qualcosa di ancora più importante. Le ricostruzioni disponibili della protolingua nostratica non possono essere utilizzate per riconoscere la natura di lingue di dubbia affiliazione e per comprendere i dettagli del loro sviluppo. 

Prendiamo il caso dell'etrusco. Se fosse una lingua indoeuropea, come molti ancora si ostinano a pretendere, l'avremmo già pienamente compresa da molto tempo. Avremmo afferrato da un pezzo le corrispondenze fonologiche e potremmo comprendere vocaboli problematici senza far ricorso al metodo combinatorio. Potremmo persino prevedere un certo numero di parole del lessico di base a partire dalle protoforme indoeuropee e dalle leggi fonetiche dedotte: ci azzarderemmo a ricostruire il nome della ruota, del giogo, del maiale, del bue, etc. Questo non avviene affatto. Quando comprendiamo un vocabolo finora oscuro, ad esempio dal contesto combinatorio o da evidenze esterne, ci salta subito all'occhio che non saremmo mai riusciti a indovinarlo, a prevederlo. Quando, con ottimi argomenti, Giulio Facchetti giunge alla conclusione che marza (attestato sulla Tegola di Capua) significa "piccolo maiale" (secondo me semplicemente "maiale"), il risultato spiazza ogni indoeuropeista. C'è ancora un problema di non poco conto. Anche il nostratico di Bomhard ci serve a poco. Il suo potere di illuminare il lessico etrusco è ben scarso! 

Nei lavori dei nostratisti non è analizzato per origine il lessico delle singole protolingue comparate, non sono eliminati i prestiti, non è considerato minimamente il sostrato. Per Dolgopolsky come per Starostin e per Bomhard, è indoeuropeo tutto ciò che è attestato anche come hapax in ogni singola lingua indoeuropea. Tutti prendono queste forme e le proiettano nel passato all'infinito, senza tener conto della loro possibile origine da lingue parlate prima dell'imporsi delle lingue indoeuropee. 

Per fare un esempio, ho visto il proto-uralico *śilmV- "occhio" confrontato con il greco στιλπνός (stilpnós) "splendente", che in realtà è un vocabolo pre-greco. Così l'isoglossa, se anche fosse valida, sarebbe tra proto-uralico e pre-greco (non IE), non tra proto-uralico e proto-indoeuropeo! Questo fatto complica non poco le cose. C'è troppa distanza persino tra il proto-indoeuropeo e il suo supposto parente più prossimo, il proto-uralico. Non è chiaro se le isoglosse siano prestiti o se siano termini ereditati da una protolingua.

Ci sono conflitti anche dove non dovrebbero essercene da tempo. Lo stesso indohittita, antenato delle lingue indoeuropee proprie e delle lingue anatoliche, non è stato ricostruito bene, o in ogni caso materiale non è facilmente reperibile. Non solo. Si rimarcano alcune divergenze significative tra diversi rami dell'indoeuropeo, che rendono difficile la ricostruzione di una protoforma comune. Non si riesce a ricostruire una protoforma compatibile che possa spiegare tutti gli esiti. Prendiamo le seguenti coppie di protoforme, la prima tipica delle lingue IE occidentali, la seconda delle lingue indiane (sanscrito, pracriti e derivati):

*eg'o:(m) / *eg'hom "io" (pron. I pers. sing.) 
*dak'ru- / *ak'ru- "lacrima"
*k'erd- / *g'hṛd- "cuore"

A complicare le cose, le lingue iraniche (antico persiano, avestico e derivati) hanno forme che potrebbero anche risalire a *eg'om "io" e a *g'ṛd- "cuore" (senza aspirazione), dal momento che le consonanti *g' e *g'h sono entrambe diventate *zCome rendere coerenti questi dati? Come si spiegano simili divergenze? Come comprendere quali erano i fonemi d'origine, se gli output storici sono tanto disomogenei?

Esiste una poesia famosa in nostratico ricostruito, composta da Vladimir Illič-Svityč:

K̥elHä wet̥ei ʕaK̥un kähla
k̥aλai palhA-k̥A na wetä
śa da ʔa-k̥A ʔeja ʔälä
ja-k̥o pele t̥uba wet̥e

La lingua è un guado nel fiume del tempo,
ci porta alla dimora dei nostri antenati;
ma non vi potrà mai giungere,
colui che ha paura delle acque profonde.

Vediamo che la parola per dire "acqua" è assai simile al proto-uralico *wete- (cfr. finlandese vesi "acqua", pl. vedet). Si capisce che la protoforma uralica ha avuto un ruolo importante nella ricostruzione, più di quella indoeuropea, che presenta suffissi ed è più complessa. Eppure secondo me ci sono indizi sul fatto che la forma proto-uralica sia un antico prestito. Il proto-uralico potrebbe benissimo essere un complesso creolo! 

Per concludere, non sono scettico sull'ipotesi nostratica. Ritengo tuttavia che le sue attuali formulazioni siano inadeguate e che si rendano necessari studi ben più approfonditi. Le lingue non sono blocchi monolitici da incastrare come mattoncini del Lego.

lunedì 12 febbraio 2018

CONTRO L'ALINEISMO

Quando la Scienza viene meno ai propri princìpi per asservirsi alla politica, diventa all'istante Pseudoscienza. La trasformazione è drammatica e irreversibile. La Pseudoscienza può essere paragonata a un albero infestante che produce frutti mostruosi quanto nocivi: non ne sortirà mai nulla di buono, neppure per puro caso. Se a diffondere idee pseudoscientifiche è un pazzoide senza titolo alcuno, che delira senza sosta sui Rettiliani, si tende a non dare troppo peso alla cosa. Tanto si tratta per l'appunto di un pazzoide, spesso senza arte né parte, del tutto privo di qualsiasi traccia di istruzione e di cultura scientifica. Ai tempi di Carlo Cotenna c'era un individuo bizzarro che girava Milano in bicicletta, cercando di diffondere la sua grande scoperta, riassumibile in una frase stringata: "La Terra è piatta". Veniva deriso da tutti, anche dai più ignoranti popolani. Cosa dire invece quando a formulare teorie assurde e contrarie ai dati di fatto è un luminare? Questa è una cosa terribile, un funesto portento di questi tempi degeneri. Provate a immaginarvi uno studioso, parte del mondo accademico, con un curriculum da far paura e la conoscenza di una gran mole di informazioni, che si mette a costruire a tavolino una teoria assurda quanto il terrapiattismo o l'antivaccinismo, diffondendola poi con grandi mezzi tra le genti. Forse non lo sapete, ma cose simili accadono davvero.

Un esempio di teoria pseudoscientifica diffusa da un accademico di fama è quella che va sotto il nome di Continuità Paleolitica, escogitata dal linguista Mario Alinei. Non si tratta di uno sconosciuto. Non è nemmeno un rubicondo cronista sportivo come David Icke o un terrapiattista friggitore di psilocybe. Nato a Torino nel 1926, Alinei è professore emerito all'Università di Utrecht, dove ha insegnato per molti anni (1959-1987). Fondatore della rivista Quaderni di Semantica, è stato presidente dell'Atlas Linguarum Europae presso l'Unesco assieme ad Anton Weijnen dell'Università di Nimega. È autore di numerosissime pubblicazioni ed è un'autorità nel campo della dialettologia. Per rendersene conto basti guardare la sua bibliografia, facilmente reperibile nel Web. A quanto sono riuscito ad apprendere, Alinei fu un pioniere dell'uso del computer nella linguistica. Il dialettologo serbo Pavle Ilić ha dichiarato che "Alinei è uno tra i non numerosi linguisti europei che già negli anni '60 erano desiderosi e capaci di applicare i risultati delle innovazioni tecnologiche allo studio del linguaggio". Le cose hanno assunto una svolta improvvisa e sorprendente quando il luminare torinese si è ritirato, nel 1996. A partire da quella data, si è messo a produrre una mole immensa di lavori tutti incentrati sull'idée fixe dell'origine delle lingue indoeuropee nell'Europa del Paleolitico Superiore. Secondo la sua teoria, ogni lingua e soprattutto ogni dialetto di origine indoeuropea dell'Europa attuale sarebbe stato parlato senza interruzione e in forma riconoscibile fin dall'epoca più remota, anteriore addirittura alla fine dell'ultima glaciazione. In pratica, la protolingua indoeuropea risalirebbe a Homo erectus!

Prendiamo per esempio il lombardo, ben rappresentato dal dialetto di Milano. Secondo Alinei, le sue caratteristiche sarebbero già state presenti prima ancora della rivoluzione agricola, prima ancora della comparsa dell'aratro. Così, immaginiamo che con una macchina del tempo, senza muovermi nello spazio, io arrivi da un cacciatore-raccoglitore del Leptolitico e lo apostrofi così: "Ti, balabiòtt, va a dà via i ciapp e càghes adòss!". Ebbene, a quanto pare il glottologo continuista è assolutamente certo che sarei capito alla perfezione e che il cavernicolo mi risponderebbe: "Tel rüzzi denter in del cü, sacrament d'un'òstia!". Il tutto con una bestemmia inconcepibile prima di Cristo. La cosa travalica talmente i confini del ridicolo che ci sarebbe da considerarla una barzelletta. Che non sia una vana facezia lo dimostra il fatto che la reazione del mondo scientifico a queste scempiaggini è stata a dir poco flaccida. Così è riportato in Wikipedia: "Questa sua (e di pochi altri studiosi e accademici) visione della storia delle lingue e dei "dialetti" d'Europa contrasta con quella "corrente" ed è rifiutata dalla maggior parte dei linguisti storici “tradizionali”." Diabole! Un giudizio blandissimo, di un'incredibile tolleranza!

Tutto ciò che non conocorda con i dogmi alineisti, viene semplicemente rimosso, passato sotto silenzio come se non fosse mai esistito. Così sono fatte scomparire moltissime lingue parlate in epoca antecedente alla diffusione del latino. Le loro attestazioni scritte non rilevano. Le lingue italiche sono ritenute inesistenti! Le lingue celtiche sono ritenute inesistenti! Intere masse di antroponimi ben dcumentati, che non collimano con l'idea di Alinei, non vengono nemmeno menzionati! Dove questa strategia non riesce, come nel caso della lingua etrusca, che non può semplicemente esser fatta sparire nel Nulla, ecco che viene ridefinita. Siccome nell'Europa centrale esiste un'unica isola non indoeuropea, l'Ungheria, ecco che l'etrusco viene dichiarato ungherese! Gli Etruschi vengono considerati una naturale propaggine dei Magiari, nonostante questi ultimi siano migrati nelle loro attuali sedi in epoca medievale! I dati della lingua dei Rasenna vengono fatti a pezzi e rimontati a piacimento, ovviamente per essere confrontati con l'ungherese contemporaneo proiettato nella preistoria, con tanto di prestiti da lingue slave e altaiche! Del resto le lingue uraliche e quelle altaiche sono confuse e vengono affermate le equazioni Magiari = Turchi e Turchi = Etruschi! Non dovrebbe sorprendere che Alinei in Ungheria sia ritenuto un eroe nazionale, al punto che le sue baggianate sull'etrusco-ungherese sono addirittura strombazzate come una "scoperta". Una tattica semplicissima, comprensibile da tutti. E che dire dei Baschi e della loro enigmatica lingua? Semplice: sarebbero migrati da Marte in epoca recentissima!

Se si risapesse cosa penso della perniciosa opera di Alinei, subito qualcuno si inalbererebbe urlando allo scandalo. "Luminare giudicato da un blogger!", esclamerebbero. La cosa molto probabilmente non avverrà, anche perché i miei scritti non li legge quasi nessuno, li pubblico soltanto per diletto mio e di pochissimi altri. In ogni caso il problema sussiste. Se qualcuno osa insorgere contro un'idea palesemente falsa e dannosa diffusa da uno studioso, viene ritenuto "arrogante" e "intollerante", il più delle volte da gente che non ha alcuna competenza nel campo in questione. Il mondo accademico è malato, è come se fosse affetto da una grave forma di morbo di Alzheimer che ne corrode il senno.

Questo però non è tutto. Esistono propagandisti attivissimi, a cui possiamo ben dare il nome di alineisti militanti, che cercano di diffondere con ogni mezzo la teoria della Continuità Paleolitica nei social network e nei forum. Dovunque ci sia una discussione su un argomento sensibile, arrivano prontamente. Hanno tutte le caratteristiche di una setta di fanatici. Sono tutti uguali e scrivono tutti le stesse identiche cose. Mettono il massimo impegno nel catechizzare i presenti, riportando lunghi papiri con gli enunciati delle dottrine di Alinei. Come se si trattasse di una gemma di inestimabile valore, ecco che forniscono l'url del sito del loro signore e mentore, denominato Continuitas. Ogni volta che avviene questa operazione, parlano di tale portale con estrema deferenza, con frasi del tipo "Questo è il loro sito" (dei continuisti), con tono sacrale, come se si aspettassero che i presenti si mettessero a prostrarsi in adorazione. A ogni minima obiezione, sommergono gli interlocutori con scritti lunghissimi senza né capo né coda, pieni di deliri e di paralogismi. Non ascoltano e pretendono di avere la parola soltanto loro. I loro argomenti sono di questo tenore: "Risalendo al passato c'è sempre unità, quindi le teorie di Alinei sono giuste". Il fatto che andando indietro nella storia di diverse lingue si arrivi a una protolingua comune, da ricostruirsi con fatica, non implica affatto che si possano prendere lingue viventi per proiettarle immutate nel Paleolitico! 

Adesso vediamo un po' di capire quale sia l'origine di questi partigiani delle teorie di Alinei. Evidente come la luce del sole è il fatto che a muoverli siano basse motivazioni politiche. La politica è una brutta bestia e soprattutto ha risorse da spendere per le sue finalità squallidissime. Riporto il commento di un navigatore, Tom Sawyer, apparso su un thread politico come risposta a un missionario alineista: 

"il problema pero’ e’ che questa teoria non e’ accettata dalla comunita’ scientifica, mentre viene esaltata (per motivi politici) in ambienti che non hanno niente a che fare con la scienza. puo’ darsi che alinei sia un genio incompreso, e puo’ darsi che no. qui nessuno e’ un esperto di linguistica comparata, di glottologia, di archeologia ecc., e quindi la questione resta in sospeso. quel che NON resta in sospeso e’ che l’ estrema destra russa utilizza questa teoria per motivi, diciamo cosi’, poco nobili. idem per l’ estrema destra slovena. idem per l’ estrema destra veneta. il motivo e’ chiaro: tutti questi gruppi vedono in questa teoria un buon argomento per opporsi all’ immigrazione, oppure per avanzare rivendicazioni territoriali. io non ho niente contro alinei. ma se questa teoria (che e’ ancora ampiamente da dimostrare, per quel che ho capito) viene utilizzata in questo modo dai gruppi di cui sopra, allora siamo di fronte ad un uso strumentale della scienza, che andrebbe condannato senza riserve. da alinei per primo."

Tutto è molto chiaro. A foraggiare è nientepopodimeno che Putin. Al tiranno russo interessa aumentare con ogni mezzo l'entropia in Europa, e a questo scopo profonde capitali ingentissimi. Tom Sawyer non può avere che un vago sentore di quanto le idee di Alinei distino dalla realtà delle cose, ma di certo ha una grande capacità intuitiva. Purtroppo mostra un po' di ingenuità quando dice che lo studioso dovrebbe condannare per primo l'uso strumentale della Scienza. Il fatto è che la Continuità Paleolitica non è affatto Scienza. Parrebbe (il condizionale è d'obbligo) costruita proprio perché la politica possa farne un uso strumentale.

Rimando a quest'altro mio post sull'argomento:

venerdì 7 luglio 2017

NOTE SUL LAVORO DI BLENCH O IL LIVELLAMENTO LINGUISTICO

Non posso fare a meno di pronunciarmi su alcune perigliose idee di Roger Blench (Kay Williamson Educational Foundation), espresse nel suo lavoro Language levelling challenges all mathematical methods of language classification, ossia Il livellamento linguistico sfida tutti i metodi matematici di classificazione linguistica. Lo scritto può essere consultato e scaricato gratuitamente in formato di bozza al seguente url: 


Tutto ciò che Blench riporta a proposito di singoli casi ad esplicazione del fenomeno del livellamento linguistico è rigorosamente esatto. Se in un territorio vi è una varietà di lingue parlate, capita che per un mutamento demografico, politico o religioso, una di queste lingue, all'inizio parlata in un ambito locale, riesca ad imporsi ben oltre i suoi confini d'origine, estendendosi su tutto il dominio in questione. Questo processo porterà infine all'estinzione di tutti o di quasi tutti gli altri idiomi parlati in precedenza. Per questo motivo il mutamento descritto prende il nome di livellamento linguistico. In alcuni casi, delle lingue scomparse non ci resta alcuna traccia, altre volte rimangono residui vari come ad esempio isole alloglotte o testimonianze scritte. 

Blench fornisce diversi esempi di livellamenti avvenuti in epoca storica o preistorica, aggiungendo alcune considerazioni sulle cause più probabili.

1) Causa: Autorità politica centralizzata     
Esempi: Proto-sinitico, mongolo, malgascio 
 

L'Impero di Gengis Khan ha promosso il dialetto chiamato Khalkh, che ha fatto scomparire tutti gli altri. L'Impero Cinese ha imposto nell'arco della sua storia plurimillenaria un'unificazione linguistica. Verso il 200 a.C. c'è stato un collo di bottiglia che ha eliminato le varietà precedenti. La Rivoluzione Comunista ha semplicemente completato ciò che era stato iniziato dal Primo Imperatore. Per quanto riguarda il Madagascar, si noterà la sua sorprendente uniformità linguistica, a dispetto del fatto che il suo popolamento austronesiano risale a 1500-2000 anni fa: il responsabile di questo livellamento è il clan dei Merina, detentore del potere assoluto sull'isola.
 

2) Causa: Espansione di una lingua franca   
Esempi: Berbero
 

Le lingue berbere attualmente parlate discendono da una lingua franca usata all'epoca dell'Impero Romano, che fece scomparire le varietà più antiche. Il collo di bottiglia è collocato verso il 200 d.C., all'epoca di Settimio Severo, in cui il limes romano in Africa raggiunse la sua massima estensione e ci furono profonde innovazioni: domesticazione del dromedario, introduzione dell'aratro, incremento del commercio dovuto alla richiesta di nuove merci. In seguito, come conseguenza delle invasioni dei Vandali e degli Arabi, la lingua franca dei Berberi ha cominciato a diversificarsi.
 

3) Causa: Dominanza culturale    
Esempi: Lingue Pama-Nyungan in Australia
 

La maggior parte delle lingue australiane è riconducibile a un'unica protolingua, denominata Pama-Nyungan. Soltanto nel nord si sono conservate lingue non appartenenti al phylum Pama-Nyungan. A quanto si è potuto accertare, il livellamento deve essere avvenuto all'incirca 4000 anni fa. Ritengo per certo che tale evento, che deve aver portato alla perdita di un immenso numero di lingue, sia stato soltanto l'ultimo di una lunga serie.
 

4) Causa: Mezzi di comunicazione di massa
Esempi: Diffusione dell'inglese nel mondo 
 

Stiamo vivendo questo processo ai nostri giorni e le sue manifestazioni ci sono così ben note da non necessitare approfondimenti in questa sede.

Pur lodando la disamina dei fatti elencati da Blench, non sono tuttavia condivisibili le sue assunzioni di base, che peccano di grave mancanza di logica e sono contaminate dalla politica. Basti analizzare questi passaggi:

"From the sixteenth century, when large catalogues of the languages of the world begin, attempts accelerated, using a quasi-genetic framework, although often without explicit justification." 

E ancora: 

"What, however, was the point of such classifications? Why not just list languages alphabetically, or by region? Classification is something that particularly appeals to middle-aged white males, and can be of the same genre as categorising tracks on an iPod or knowing an unsettling amount about train timetables (Masters 2011). Often, as in the biological sciences, justifications for classification have followed significantly later than the exercises themselves."

Dunque Roger Blench nega alla radice ogni classificazione delle lingue. Solo per fare un paio di esempi della portata delle sue affermazioni, egli nega che sia possibile tracciare l'origine e la parentela delle lingue germaniche, romanze, semitiche e via discorrendo. Per lui affermare che l'arabo e l'ebraico sono lingue imparentate è qualcosa di "privo di giustificazione", a dispetto dell'immensa mole di studi che dimostrano il contrario. Non contento di professare queste inconsistenze, ecco che Blench si rivela un astioso seguace dell'isterica Hillary Clinton, dal momento che accusa di razzismo e di sessismo chiunque non corrisponda ai propri schemi ideologici. Quando un accademico tira fuori l'espressione "middle-aged white males", possiamo star certi che appartiene a quella congrega di buonisti radical shit e autorazzisti che di questi tempi infestano l'Occidente.

In sostanza lo schema del ragionamento portante di Blench è il seguente:

Le lingue subiscono livellamento => Non ha senso studiare la parentela genetica delle lingue => Le lingue non hanno origine genetica.

Peccato che questo sia un marchiano esempio della fallacia logica denominata non sequitur. Appurato che le lingue subiscono livellamenti nel corso della loro storia e che moltissime si estinguono, nostro compito è quello di ricostruire come questi processi sono avvenuti, non negare l'esistenza di qualcosa che è un dato di fatto.

mercoledì 8 marzo 2017


L'ISOLA DI PASCALI

Titolo originale: Pascali's Island
Paese di produzione:
Gran Bretagna, Italia
Lingua: Inglese
Anno:
1988
Durata:
96 min
Colore: Colore
Audio: Sonoro
Genere: Drammatico, spionaggio
Regia: James Dearden
Soggetto: Barry Unsworth
Sceneggiatura: James Dearden
Fotografia: Roger Deakins
Musiche:
Loek Dikker
Interpreti e personaggi:
    Ben Kingsley: Basil Pascali
    Charles Dance: Anthony Bowles
    Helen Mirren: Lydia Neumann
    Kevork Malikyan: Mardosian
    George Murcell: Herr Gesing
    Nadim Sawalha: Pasha
    Stefan Gryff - Izzet Effendi
    Vernon Dobtcheff - Pariente
    Sheila Allen - Mrs. Marchant
    T. P. McKenna - Dr. Hogan
    Danielle Allen - Mrs. Hogan
    Nick Burnell - Chaudan
    Giorgos Oikonomou - Ribelle greco
    Alistair Campbell - Capitano
    Ali Abatsis - Ragazzo nel bagno
    Brook Williams - Ufficiale turco
    Joshua "Josh" Losey - Soldato turco 
    Nick Karagiannis - Ragazzo in chiesa
Doppiatori italiani:
    Riccardo Cucciolla: Basil Pascali
    Gino La Monica: Anthony Bowles
    Serena Spaziani: Lydia Neumann

Trama:

La vicenda si svolge nel 1908, nella piccola isola egea di Nisi. Il territorio è un avamposto dell'Impero Ottomano, che ormai è un colosso dai piedi d'argilla destinato a un ineluttabile tramonto. L'ambiente è a dir poco turbolento. I ribelli greci preparano l'insurrezione, mentre rappresentanti di potenze europee tramano per spartirsi i resti dell'Impero in sfacelo. Basil Pascali è un bizzarro individuo che abita in quell'avamposto da vent'anni, facendo da guida ai turisti e svolgendo incarichi come interprete. La sua vera attività consiste tuttavia nello spiare i locali, inviando poi al Sultano resoconti che non hanno mai avuto un singolo riscontro. Lo stipendio dell'informatore arriva regolarmente, ma immutato dall'inizio, senza il benché minimo aumento, cosa che desta in lui grande frustrazione. A un certo punto arriva sull'isola l'inglese Anthony Bowles, che afferma di essere un archeologo e di avere intenzione di effettuare importanti scavi. Pascali, che lo reputa un agente dei ribelli greci, gli offre i suoi servizi di interprete e di mediatore con il Pascià - vedendosi appioppata ogni responsabilità in caso di insolvenza dell'inglese. Bowles è un galletto che non perde tempo in preamboli: riesce a sedurre con facilità la bella pittrice austriaca Lydia Neumann, da tempo amata da Pascali, destando il lui bramosia di vendetta. Così l'informatore riesce a intrufolarsi nella stanza del sedicente archeologo, scoprendo alcuni reperti falsi. Folle di gelosia, rivela le sue scoperte al Pascià. Come conseguenza soldati, i soldati colgono in un'imboscata notturna Bowles e la Neumann e li uccidono senza esitare. A questo punto gli eventi precipitano, la rivolta dei Greci divampa, l'Impero Ottomano crolla e il futuro di Pascali si fa istante dopo istante più incerto. Mentre tutto gli sta crollando addosso, mentre il suo minuscolo universo è in procinto di implodere, l'unica cosa che il protagonista può fare è scrivere quasi per un automatismo da zombie il suo ultimo rapporto.      

Recensione:

Il film è stato tratto dall'omonimo romanzo dello scrittore inglese Barry Unsworth (1980), pubblicato negli States col titolo The Idol Hunter. Non ho letto il romanzo, ma da quanto si trova nel Web sulla sua trama, pare che sia stato trasposto accuratamente nell'opera di James Dearden. Il flusso della narrazione è introspettivo e inquietante in ogni dettaglio, ai confini del solipsismo. Sepsi dell'anima, come scrutare all'interno del cranio di un soggetto vivisezionato ed elucubrare sulle caverne scavate nella materia grigia dai fantasmi.  

Le origini di Pascali

C'è una cosa molto importante che va puntualizzata. Il protagonista, Pascali, porta un cognome di origine cristiana. Infatti proviene di certo da un precedente latino Paschalis, come il nome italiano Pasquale. Anche il suo nome, Basil, altro non è che il greco Basilios. Egli stesso chiarisce di essere figlio di una sfortunata ballerina inglese che si è persa nei perigliosi meandri dell'Impero Ottomano, il che spiega la stranezza del suo nome. Il personaggio è sicuramente il discendente di un cristiano convertito all'Islam. Se la sua famiglia paterna fosse stata islamica da molto tempo, l'informatore avrebbe avuto un nome ben diverso, caratteristico dei musulmani, come ad esempio Mehmet.

Una vita priva di senso

Pascali si ritrova imprigionato in un microcosmo asfittico che sembra non avere alcuna apertura verso l'esterno, nonostante sia visitato da non pochi europei - ma se anche fossero extraterrestri cambierebbe ben poco. Tutto è immobile e angosciante, come lo sarebbe essere imprigionati in un sogno che non è il proprio e da cui quindi non ci si può svegliare. Nella sostanza, l'informatore ottomano è l'Uomo Invisibile. Ad ogni sua azione non pare corrispondere alcuna reazione, come se fosse contenuto in una cella manicomiale dalle pareti di gomma, dove anche urlare con voce stentorea sarebbe inutile. Il Sultano che pensa di servire è inavvicinabile, come il Motore Immobile di Aristotele. Per la macchina burocratica che lo paga, Pascali è una nullità, una pedina talmente insignificante da essere considerata come un oggetto inanimato, dei cui sentimenti e delle cui aspettative non ci si può e non ci si deve preoccupare. Quello che l'uomo non sa, è che i suoi rapporti finiscono ogni volta al macero senza che nessuno li legga, in quanto ritenuti irrilevanti. Il suo stesso stipendio è dovuto alla pigrizia estrema dell'apparato burocratico: nessuno ha pensato di attivarsi per far cessare l'erogazione. 

Un Impero Ottomano ad alta gradazione alcolica

Quanto è sobria la Scandinavia odierna, tanto era ebbro l'Impero Ottomano, in cui gli uomini sfoggiavano il fez del color del sangue rappreso e trangugiavano damigiane di rakı, la tipica acquavite aromatizzata all'anice e alla menta, ottenuta distillando una varietà di ingredienti, tra i quali l'uva, le prugne, i datteri e le patate. Lo stesso Kemal Atatürk amava a tal punto quel liquore e tanto ne tracannò che il suo fegato finì cirrotizato. Tutto questo perché l'Islam dei Turchi era molto diverso dal radicalismo tanto di moda ai nostri giorni. L'anisetta e l'idromele erano utilizzati come surrogati del vino in non poche aree di fede maomettana. Sappiamo che il mercato degli alcolici era fiorente sotto la Sublime Porta, tanto che persino i religiosi bevevano di nascosto. Ogni tanto il Sultano si destava dal suo sonno e minacciava provvedimenti draconiani, ma il suo proibizionismo durava al massimo tre giorni. Tutto ciò è lontano anni luce dal rigore dei fanatici wahabiti che imperversano al giorno d'oggi. Così vediamo il protagonista Basil Pascali ordinare l'acquavite all'inserviente dell'hotel, con fare imperioso, battendo le mani: accorgendoci che è cosa normale e quotidiana anche tra genti tanto diverse, siamo tutti più sollevati.

Cose turche! 

Una volta alla settimana, Pascali si reca ai bagni e incontra un ragazzo. Forse qualche spettatore non l'ha capito, ma quel ragazzo è un eunuco che dietro compenso masturba e fa pompini. La cosa non deve stupire più di tanto. L'uso degli enunuchi come sfogo sessuale in quel contesto era la norma, mentre era molto difficile l'accesso al sesso femminile. Il mio sospetto, più che fondato, è che il protagonista del film abbia conosciuto soltanto le carezze dei castrati e che non abbia mai conosciuto nemmeno una volta le delizie femminili. Immaginate, se ci riuscite, una vita passata a sognare qualcosa di irraggiungibile, trovando ben vili e bassi surrogati in una realtà di uno squallore infinito. Nell'Impero Ottomano esistevano modi diversi per castrare un uomo. Era possibile rimuovere i testicoli ma non il pene, ottenendo gli eunuchi bianchi. Si poteva anche rimuovere il pene e lasciare i testicoli. In questo caso si ottenevano i cosiddetti eunuchi bruni, di una ferocia inaudita, che venivano usati come strumento di repressione. C'erano poi eunuchi privi sia del pene che dei testicoli: avevano soltanto il buco dell'uretra e per orinare dovevano servirsi di una cannuccia, con i connessi rischi di infezioni. Erano chiamati eunuchi neri. Altri sistemi, altamente rischiosi, consistevano nell'atrofizzare i genitali, spappolando i testicoli oppure torcendo i dotti seminali. Come ci si può attendere, nell'attuale contesto si tende a nascondere questi orrori e a censurarli, ma ancora agli inizi del XX secolo erano una realtà viva e vitale.

Amore non corrisposto

Non penso che esista un tormento più crudele dello spasimare per una donna che non vuole saperne. Parafrasando Cioran, possiamo dire che amare una donna significa proiettare infiniti su una creatura di una sconcertante finitudine. Deve essere una cosa terribile amare una donna alla follia, senza destare in lei alcuna emozione, per vedersela poi soffiare da un finto archeologo, un bellimbusto biondiccio che somiglia vagamente a Rocco Siffredi. Gli orrori dell'amore non corrisposto sono spinti all'estremo limite in questo film. Per la pittrice Lydia Neumann, Basil Pascali è soltanto un mucchietto di nulla, del tutto impossibile da considerarsi come un uomo. Talvolta finge di provare per lui un certo affetto, simile a quello che può essere provato per un canarino. Qualcosa di ancor più umiliante di un aperto rifiuto. L'informatore ottomano non capisce se la sua musa lo voglia intenzionalmente mortificare. Fatto sta che talvolta le parole di una donna possono ledere un uomo anche quando in apparenza sembrano inoffensive. Solo per fare un esempio, sentirsi chiamare "amico" da una donna è a parer mio cosa molto peggiore che essere insolentiti, perché "amico" è una parola che si traduce così: "per me tu non conti niente, in quanto non ti vedo come un uomo e non potrò mai vederti come un uomo". Anzi, possiamo stenografare il concetto traducendo "amico" con "non sei un uomo" o addirittura con "eunuco".


Le convulsioni del genetico

La spaventosa tensione provata dall'informatore ottomano sfocia infine in un terribile fatto di sangue e di morte. Egli spia la donna amata insieme col suo amante. Entrambi sono nudi e fanno l'amore. Questo fa emergere in Pascali un sentimento che non è semplicemente invidia, come le fatue genti potrebbero pensare, ma disperazione. È così: tutto inizia dalla constatazione della nullità della propria vita sessuale. Il genoma maschile spinge, perché il suo solo fine è l'accoppiamento con una femmina. Se questo non avviene, ne nasce una serie infinita di orrori. Per il genoma, chi non riesce ad accoppiarsi e a trasmettere la vita è un indegno di esistere. A niente servono le lubriche manipolazioni di un eunuco. Dalla constatazione della propria nullità, Pascali passa alla tenebra assoluta. In questo marasma ecco accendersi una fibra d'odio. Coloro che rinfacciano, pur senza saperlo, al fallito genetico la consapevolezza della sua nullità essenziale, diventano oggetti di questo odio funesto, che divampa fino a diventare assoluto, duro come il diamante e nero come l'Abisso. L'uccisione della pittrice e del finto archeologo inglese si consuma così, in un'atmosfera plumbea e annichilente. Un punto di non ritorno, che segna l'annientamento dell'intera esistenza.

Reazioni nel Web

A quanto pare, il film non ha entusiasmato il pubblico italiano. Ha avuto invece un certo successo nel mondo anglosassone. Non ho trovato nel Web significativi interventi in lingua italiana, anche se forse questo si deve al fatto che non ho cercato abbastanza. Consiglio una pagina che riporta alcune recensioni in inglese: 

giovedì 8 dicembre 2016

I VAMPIRI DI MEDVEGIA


Visum et repertum sul cosiddetto Vampiro o Succhiatore di Sangue, avvenuto a Medvegia in Serbia, sulla frontiera turca, il 7 Gennaio 1732.(1) 

Dopo essere stato trasferito nel villaggio di Medvegia (l'attuale città di Belgrado) il cosiddetto vampiro aveva ucciso alcune persone succhiando loro il sangue. Per questo motivo venni incaricato, su ordine dell'onorevole Comando Supremo, di fare piena luce sulla questione, unitamente ad alcuni altri ufficiali scelti, fra cui due medici subordinati. A seguito di questo, ho condotto e svolto la presente inchiesta presso la compagnia del capitano degli Stallath, il gruppo degli hayduks(2) (mercenari balcanici e fuorilegge arruolati, contrari al regime turco) Hadnack Gorschiz, il portabandiera e gli hayduk più anziani del villaggio. Tutti loro, concordemente, mi hanno testimoniato quanto segue. Circa cinque anni orsono, un hayduk di nome Arnod Paole si era spezzato il collo cadendo da un vagone. A proposito di quest'uomo, correva voce che per gran parte della sua vita, specialmente quando si trovava a Gossova nella Serbia turca, fosse stato perseguitato da un vampiro, fino a quando, per potersi liberare da quelle continue vessazioni, lui stesso non si era deciso a mangiare un po' di terra della tomba del vampiro e a succhiare del sangue. A un mese dalla sua morte, alcune persone avevano cominciato a lamentarsi del fatto che a loro volta erano minacciate dallo stesso Paole redivivo, timori quanto mai concreti dal momento che quattro di loro vennero trovati uccisi, si dice, da lui. Al fine di porre rimedio a questi fatti terribili, a quaranta giorni dalla sepoltura, su suggerimento dello stesso Hadnack, che già aveva avuto a che fare con fatti simili, la gente del posto aveva riesumato il suo corpo. Grande era stata la sorpresa di trovare un corpo pressoché intatto e nono corrotto e soprattutto con il viso tutto coperto di sangue che sembrava fresco, come se gli fosse uscito dagli occhi, dal naso, dalle orecchie e dalla bocca. Anche la bara e gli abiti erano sporchi di sangue. Le unghie delle mani e dei piedi erano cadute, ma avevano incominciato a crescerne delle nuove, al pari della pelle che in certi punti del corpo pareva rigenerata. Constatando da tutti questi indizi che Paole era dunque un vero vampiro, essi gli avevano conficcato un punzone di legno nel cuore - come era costume fare in questi casi - al che si era sentito il cadavere gemere e dal corpo era scaturito sangue abbondante. Poi lo avevano bruciato e nella bara avevano riposto soltanto le ceneri. Questo era stato fatto perché, secondo la tradizione, tutti coloro che venivano morsi e aggrediti da un vampiro erano costretti, loro malgrado, a diventare a loro volta vampiri. Per questo motivo pensarono di esumare anche le quattro persone che si diceva erano state uccise da Paole. Ma non era bastato, perché qualcuno aveva segnalato che il vampiro aveva contagiato anche del bestiame di cui si erano cibati in molti, per cui chissà quante persone erano diventate vampiri senza neppure saperlo; d'altro canto, in soli tre mesi, ben diciassette persone, vecchi e giovani, erano misteriosamente morte. Fra questi alcuni che non manifestavano alcuna malattia e che se ne erano andati nel giro di due o tre giorni, all'improvviso.

In aggiunta, l'hayduk Jovitsa riferisce che la sua figliastra, la giovane Stanacka, circa quindici giorni or sono era serenamente andata a letto, piena di freschezza e di vita, ma a un certo punto della notte si era destata, piangente e tremante, con un sussulto, gridando che il figlio di un altro hayduk di nome Milloe (un giovane che era stato sepolto solo nove giorni prima) l'aveva aggredita al collo per cibarsi del suo sangue. Da quel momento in avanti, oppressa da un peso terribile al petto, si era ammalata in modo gravissimo, peggiorando ora dopo ora, finché il terzo giorno era spirata, nel fiore della sua giovinezza. Davanti a queste dichiarazioni, quello stesso pomeriggio ci siamo recati nel cimitero del villaggio per scoperchiare le bare che l'anziano hayduk ci aveva indicato, al fine di esumare e sezionare i corpi dei defunti.

Ecco ciò che abbiamo trovato:

Una donna di nome Stana, di vent'anni, morta a seguito di un parto due mesi prima dopo tre giorni di sofferenza, la quale prima di morire aveva pubblicamente dichiarato di essere stata contagiata dal sangue di un vampiro - e con lei anche il neonato, morto subito dopo il parto e il cui corpo a causa di una sepoltura affrettata è stato in parte dilaniato dai cani selvatici - è anch'essa diventata un vampiro. Abbiamo trovato il suo corpo pressoché intatto e non corrotto. Sezionandolo, si è rintracciata in quella che i medici chiamano la cavitas pectoris una discreta quantità di sangue fresco extravascolare. Le cavità delle arteriae, come il ventriculus cordis sono apparse, come in genere accade, colme di sangue coagulato; mentre le viscere - intendo polmoni, fegato, stomaco, milza e intestino - erano fresche, come appartenenti ad un corpo vivente. L'utero, invece, risultava molto dilatato ed esternamente molto infiammato, placenta e lochia si erano mantenute al loro posto, anche se quest'ultima era completamente putrefatta. La pelle delle mani e dei piedi, con i resti delle unghie, era distaccata dal corpo, ma sotto si poteva notare non solo una fresca e nuova epidermide, ma anche una ricrescita di unghie nuove.

Una donna di nome Militsa, sessantenne, morta dopo due mesi di malattia, sepolta da oltre novanta giorni o forse di più. Nel corso dell'autopsia si è trovato molto liquido ematico nel petto, mentre le viscere sono risultate fresche come quelle del precedente caso. Tutti gli anziani hayduk presenti si sono meravigliati nel riscontrare un corpo ancora in carne e pressoché perfetto: meraviglia ancor più giustificata dal fatto che in vita l'avevano vista e conosciuta sin dalla gioventù come una donna segaligna e magra. Il fatto che nella bara, dopo tanto tempo, fosse addirittura ingrassata costituiva un evento davvero straordinario. Alcuni hanno fatto notare che la catena del vampirismo era iniziata proprio da lei, perché la donna si era cibata sovente della carne di quelle pecore che in precedenza erano state preda dei vampiri.

Un bimbo di circa otto anni, sepolto da circa novanta giorni, è stato trovato pure lui in condizioni di vampirismo.

Il figlio sedicenne di un hayduk, di nome Milloe, morto a seguito di una misteriosa malattia durata soltanto tre giorni, è stato dissepolto dopo essere stato inumato da oltre due mesi. Anche lui presentava evidenti segni di essere un vampiro.

Il diciassettenne Joachim, pure lui figlio di un hayduk, morto dopo tre giorni di sofferenze. Sepolto da due mesi e quattro giorni, alla dissezione si è rivelato un vampiro.

Una donna di nome Rischa, morta dopo dieci giorni di malattia, sepolta da circa sei settimane, è stata trovata col corpo in ottime condizioni, gran parte della carne ancora fresca e molto sangue presente non solo nel petto ma anche in fundo ventriculi. La stessa cosa per il suo bambinetto, morto a soli diciotto giorni cinque settimane prima.

In non peggiori condizioni è stata trovata una bambina di dieci anni, morta due mesi prima, il cui corpo è stato ritrovato completamente integro e incorrotto, con molto sangue fresco nel petto.

Anche la moglie di Hadnack è stata dissepolta con suo figlio. La donna è mancata settimane or sono, il figlio, di soli otto anni, ventun giorni prima. In questo caso ambedue i corpi sono stati ritrovati completamente decomposti e disfatti, pur essendo anch'essi seppelliti vicino e nella stessa terra e in bare del tutto simili a quelle delle altre persone che sono state scoperte essere vampiri.

Un attendente del caporale degli hayduk, di nome Rhade, un giovane di ventitre anni, morto dopo tre mesi di malattia, a cinque settimane dalla sepoltura è stato ritrovato completamente decomposto.

La moglie del portabandiera, assieme al suo bambino, sono stati trovati completamente decomposti.

Nel caso di Stanche, un hayduk di sessant'anni, morto da un mese e mezzo, si è riscontrata una buona quantità di sangue liquido, rintracciata, come negli altri casi, nel petto e nello stomaco. Il corpo rivelava evidenti segni di vampirismo.

Milloe, un altro hayduk di venticinque anni, rimasto sepolto per sei settimane nella terra, è stato pure lui ritrovato in condizioni di vampirismo.

Stanoicka (prima chiamata Stanacka), moglie di un hayduk, di ventitre anni, morta dopo tre giorni di malattia, sepolta da diciotto giorni. L'abbiamo ritrovata praticamente integra, con una carnagione vivida e rosea. Come si è già ricordato, essa venne vampirizzata da Milloe, il figlio dell'hayduk. Sul lato destro del volto, subito sotto l'orecchio sono evidenti dei segni bluastri come dei lividi lunghi come un dito (prova evidente che era stata aggredita da un vampiro). Nel momento in cui è stata estratta dalla bara, dal naso le è uscita una notevole quantità di sangue. Nel corso della dissezione anche in questo caso - come in molti di quelli già menzionati - ho constatato la presenza e non solo nella cavità pettorale, ma anche nel ventricolo del cuore. Tutte le viscere sono state trovate in ottime condizioni, la pelle del corpo integra e le unghie di mani e di piedi risultavano fresche.

Terminati questi esami, gli zingari del villaggio hanno spiccato il capo ai cadaveri dei vampiri riconosciuti e quindi li hanno bruciati accanto ai corpi gettando poi le ceneri nelle acque della Morava, mentre i corpi, normalmente decomposti, delle altre persone non risultate vampiri sono stati rideposti nelle bare e reinterrati. Di tutto questo io faccio attestazione, unitamente ai seguenti ufficiali medici di comprovata capacità che mi hanno assistito nelle operazioni di dissezione. Actum ut supra:

   L.S. Johannes Fluchinger(3), ufficiale medico di reggimento di fanteria dell'onorevole B. Fürstenbusch(4) (sic)
   L.S. J.H. Diesel, ufficiale medico del reggimento dell'onorevole Morall  
   L.S. Johann Friedrich Baumgarten, ufficiale medico del reggimento di fanteria dell'onorevole B. Furstenbusch (sic).

I sottoscritti attestano che tutte le osservazioni che gli ufficiali medici del reggimento dell'onorevole Furstenbusch (sic) hanno con tanta meticolosità rilevato in fatto di vampiri - trovando concordi nelle loro annotazioni anche altri medici - sono in tutto e per tutto veritiere e ogni aspetto è stato esaminato, osservato e constatato in nostra presenza. A conferma di quanto scritto seguono qui in calce, le nostre firme autografe, da noi medesimi siglate, addì 16 gennaio 1732 in Belgrado.

   L.S. Buttener(5) (sic), tenente colonnello del reggimento dell'onorevole Alexandrian
  L.S. J.H. von Lindenfels, ufficiale del reggimento dell'onorevole Alexandrian.

Alcune osservazioni 

Il testo in questione è stato pubblicato in più post sul blog Esilio a Mordor sul finire dell'anno 2006. Ricordo che all'epoca aveva riscosso un certo successo tra i lettori. La narrazione aveva stupito non poche persone, qualcuno addirittura ne era entusiasta perché gli sembrava di viverla come in un film. Erano cose che su Splinder accadevano, prima che i lettori si rarefacessero fin quasi a scomparire. Pensandoci sono invaso da una grande tristezza. Il Visum et repertum si può trovare su numerose pagine nel Web, come ad esempio questa: 


La fonte è Il grande libro dei misteri irrisolti, di Colin Wilson e Damon Wilson. La presente traduzione italiana non è stata fatta direttamente dal testo originale in tedesco, ma dalla sua versione in inglese, probabilmente dallo stesso traduttore del libro degli Wilson, Franco Ossola. Ho riportato il testo tal quale, aggiungendovi soltanto il titolo e lasciando i refusi, che ho etichettato con (sic)

Il rapporto è stato stilato da cinque coscienziosi ufficiali dell'Impero Austriaco, di cui tre erano medici. Si noterà che questi ufficiali non hanno riportato cose riferite e contaminate da mitologemi, ma soltanto quello che hanno visto con i propri occhi. Difficile liquidare lo scritto come mera superstizione. L'esperienza degli ufficiali medici in fatto di autopsie era grande: difficilmente avrebbero potuto essere ingannati, giungendo per qualche ubbia a definire "sangue" un qualche tipo di liquame d'altra natura che avessero trovato nei cadaveri indecomposti. Si noterà poi che i fatti sono avvenuti nel Secolo dei Lumi, nel caso a qualche lettore venisse in mente di bofonchiare qualcosa sul cosiddetto "oscurantismo medievale".  La spiegazione più razionale che si trova è questa: alcuni cadaveri sono stati sepolti in un terreno ricchissimo di salnitro, che ne ha favorito la conservazione, mentre altri, privi di tale apporto minerale e collocati in un terreno molto umido, hanno finito col putrefarsi in tempi molto rapidi. Certo, questo non spiega il sangue. Si deve ammettere, comunque la si metta, che la lettura del documento di Fluchinger è in grado di procurare una certa inquietudine anche alle menti più lucide.  

Note

(1) Il titolo non si trova nel documento riportato nel libro degli Wilson. 
(2) Il termine serbo-croato hajduk /'χaɪ̯du:k/ si traduce con "bandito, brigante" e deriva dall'ungherese hajdúk, plurale di hajdú "fante". Questo vocabolo sembra connesso con hajtó "abigeo", a sua volta dal verbo hajt- "piegare", di origine uralica. Il termine hajtó potrebbe essere stato preso a prestito dal turco come haidut "fante ungherese", poi tornato nella lingua d'origine per effetto boomerang. Nel testo in tedesco questo vocabolo è scritto heyduck. Il suffisso -s del plurale riportato nel testo in italiano è incongruo e non è ripetuto: è dovuto al traduttore, che deve essere partito da una traduzione inglese. Il testo in tedesco non ne mostra ovviamente traccia.
(3) Il cognome è riportato come Fluchinger anche nel testo originale, tuttavia si trova attestato anche con le varianti Fluckinger e Fl
ückinger. Non si tratta dunque di corruzione da parte del traduttore. Non sono chiare le motivazioni delle oscillazioni ortografiche riscontrate.
(4) Nel testo originale si usa una forma aggettivale Fürstenbuschl. (abbreviazione di Fürstenbuschlich), derivata dal cognome Fürstenbusch, riportato male dal traduttore. Che questi non abbia alcuna dimestichezza con la lingua tedesca è palese; forse l'Umlaut era stato tralasciato già nella traduzione inglese.
(5) Il cognome vero è Büttener. Ancora una volta manca l'Umlaut. 

martedì 25 ottobre 2016

LA CADUTA DEI GREUTUNGI - TERZO CANTO

Titolo: Drus Griutunge 
Titolo tradotto:
La Caduta dei Greutungi 
Lingua: Gotico
    Note: Gotico rivitalizzato (conlang neogotica)
Traduzione: Inglese
Genere: Poesia epica
Autore: Sconosciuto
Nazionalità dell'autore: Inglese
Autori del backup: Comunità Odinista Spagnola 
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TERZA PARTE 

Þridjo fitja – Fitt III 

Sildaleiko
warþ sauþs þizai naht,
iþ hlautatains
taiknida hreiþa,
þauhjabai ni windhun
witans ufkunþedun. 

Wondrous went the offering that night, and the lot that fell betokened a storm, though the wise could sense no wind.

“Ga-u-hva-saihvis, guma, gangan
jah and gang skewjan,
waihts unkunþos,
aiþþau wairans aufto?
Mildeis auk rudniþ
jah mairqus warþ
suns seljaizos
sunnons broþar.” 

“Doest thou see ought, friend, stepping, upon the way walking, strange beings, or men perhaps? For all reddened grows the gentle brother, and clouded suddenly, of the kindly sun.”

“Ik glaggwo ni wait,
hva and gang skewjan,
waihts unkunþos
aiþþau wairans, gasaihva;
iþ þugkeiþ mis,
ei þiuda farai
ufar þaurp jah hugs
jah faur þiudaahva,
fulk faiknaswinþ
jah funs badwos.” 

“I know not clearly what upon the way walking, strange beings, or men, I see; but it seems to me that a nation fares over field and acre and down by the great river, a host mighty in malice and keen for conflict.”

Ussandiþ was waurd
in swartai naht.
Uhtwo swe azgons
austaþro qam.
Iþ dauþudiups
drunjus haurne
jah þuthaurne
hausiþs was goljan
þana dag domis
ana Danapris staþam,
gaizagrewata mel
ana Gutþiudai,
hveila hardja
hilmis jah brunjons. 

Then word went out in black night. Dawn like ashes approached from the east. Deep as death, the din of horns and trumpets was heard to greet that day of judgement on the banks of the Dniepr, a spear-grey hour in Gothland, a hard hour of helm and byrnie.

Ubuþ-þan-wopida wair
ana waddjau baurgs,
Ibra sa junga
(sah was Alisins sunus):
“Mel ist nu gamunan,
þizeei at midau sworum.
Hveits auk skildus
skulds ist usgildan.
Und gibom gunþja
usgildan skulum.
Baugans berum
bairhtans ana armim,
daroþuns at dauhtai.
Niu gadaursum,
þan hiuhma atist
her ana wanga,
fulk unfraisan
jah faurhtjando?
Galaisidedum faurhtjan uns
filusna manne.
Uldinis usdreibam
arbjans us landa!” 

Now out cried a man, Ibra the young, on the fastness wall (He was Alisa’s son.): “It is time now to recall those oaths which we swore at mead-drinking. Shining shield must be repayed. For gifts we must pay with war. Bright rings we have borne on our arms, spears to a feast. Do we not dare when a multitude is present here upon the plain, a force untried and fearful? Many men have we taught to dread us. Let us drive Uldin’s heirs from the land.”

Iþ Audika qaþ
(Arans galesun sik.)
hauhai stibnai
jah faura harja raiþ:
“Afdumbn, Ibra,
alajunga þign!
Nis frasta mais.
Waitei þu þuk froknjana mant?
Hvana, dwala, ahjis,
þanei usdreiban mageis? 

But Audika said (Eagles gathered.) in a loud voice, and rode before the host, “Be thou silent, Ibra, warrior so young! Thou art yet no more than a boy. Perhaps thou thinkest thyself brave? Whom, fool, doest thou imagine that thou might drive out?

Gahaftidedun sik auk Hunim
hairizans markos.
Balþs Balambair
miþ seinaim brandam qam;
weisa jains uf waddjau
ana wigja nu sitiþ
miþ muldai wigis
jah miþ minþiladrupam.
Waldands ist þeins wulfeins
woþs allandjo;
nist þata fulgin
fairhvje barnam.
Þana kaldan ni karist
kaisar þeina.
Maurþrida Meringans
managizans, þau Huneis.
Jai, hveits skildus
skulds ist usgildan,
jah und gibom gunþja,
usgildan skulum,
jah ingibam,
und andi nu.” 

For the dukes of the border have joined the Huns. Bold Balamber with his blades has come, sits now beneath thy walls, yon chief upon charger with the grime of the road and the foam of the bit. Thy wolvish master is mad entirely; it is well known to all the sons of men. That cold kaiser cares not for thee. He has murdered more of us than have the Huns. Aye, shining shield must be repayed, and for gifts war we must pay, and for poisons now, to the last penny.”

Iþ is anduh-hof,
airls af waddjau:
“Hva unsis kara
aiþþau Amalingans,
þauhjabai gutane gulþ
uswok gairnein þus,
aiþþau sijai afmarzeins
uta ana markom?
Hlohjada ik haldis,
þatei ana hilmam nu
hairus meins skal singwan,
hairznakasa gatairan,
jah þatei rigke meins gais
skal ribja bitan,
jah þatei untriggweins
jus nimiþ allai laun. 

But the other retorted, warrior from the wall, “What concern is it of ours, or of the Amalings, though Gothic gold has stirred thy greed, or treachery out upon our borders be? Rather it gladdens me that my sword on helms shall sing and shatter brain-pots, and that my spear is to bite men’s ribs, and that ye all shall receive the reward for your disloyalty.”

Þanuh Audika qaþ,
unfaurhts haluþs,
handugs jah haþusnutrs,
du harjatugin:
“Ni wesun swaleika
waurda attins,
þan weis air uhtwon
usiddjejum
us alþeis baurg,
Alisins, geza.
Nist liufs imma
allwalda þeins,
fram þammei snuza seina
uf snaiwa gafalh
jah barnis barn
ana bel gawarft.
Nih gairnida gunþjos
gutane kindins;
fraiwis ju Gautis
faurstasseis gadraus,
sagjis sarwe laus,
sis silbin usqam.
Faura naht, niþjis,
skal ana nawihaiþjai
hugihus haluþs,
hauhhairt kolnan. 

Then quoth Audika, fearless fighter, wise and war-shrewd, to the general: “Such were not father’s words when we came yesterday in the dawn early from old Alisa’s stronghold. Thy supreme ruler is not dear to him since he laid his daughter-in-law to rest beneath the snow and thou didst cast his grandson upon the pyre. Nor did the governor of the Goths wish for war; the overlord of Gaut’s seed has already fallen, a defenceless man, took his own life. Before night, kinsman, even thy proud hero’s thought-house must, upon this heath of corpses, cool.”

Iþ Ibra hloh,
aifr waurd usbar:
“Balþs warst nu, broþar,
jah bredaba hva.
Hvar wast, þan usqemum
qenai þeinai
jah biþe frasta in fon,
frumabaura, ik atwarp?
Hilms gulþahrudans
ni sat ana haubida im.
Ni unþaþlauhun þan þo,
nih gaþliuham weis.” 

But Ibra laughed, answered sharply: “Bold hast thou become, brother, and rather suddenly. Where wast thou when we slew thy wife, or when I cast thy child, firstborn, into the fire? No gilt helm sate upon their heads. They fled not then, and nor shall we.”

“Jus þan,” sa qaþ, “airlos
allai gadauþniþ,”
modags manna
ana marhis baka,
jah meki uslauk,
maiþm fadreinais,
þanei Uzdagais
ufar unþjos þaka
(blindans gailida wulfans)
du waihjon atbar,
iþ Botareþs
ufar þo brugja, sei draus.
Þata was wulþags wair.
Nist wigs ibuks. 

“Then all ye doughty ones,” he said, “shall die,” wrothful rider, and drew his sword, that heirloom which Uzdagais bore over the wave’s thatch (He gave cheer to the blind wolves.) to battle, and Botareth over the bridge that fell. That was a fine man. There is no way back.

“Ga-nu-riqizjadau himins strelom
Humilins magiwe!
Inreiradau grundus jah gang
jah all gawi hrussam,
hveitaim jah swartaim
ana harjawiga!
Fraweitam þan þans walisans
afar wintruns swa filu!
Agja aitreina,
Iuþins laiba,
brand meinana þana fairnjan,
bloþis þaurseiþ;
maiþms melafaihs
mannanhun freideiþ.
Managa tagra
ni drausja du muldai in þis.” 

“So let the heavens be blotted with the bolts of Humila’s boys. Let the ground quiver, and the roads and the whole country, with our steeds, the white and the black on the highway. Let us then avenge those dear ones after so many winters. This envenomed blade, heirloom of Iutha, my ancient brand, thirsts for blood; that inlaid gift, none will it spare. Not many tears shall I let fall to earth on that account.”

Ni andhof sprauto,
iþ qaþ bi spedistin,
Ibra sa junga,
jah ask undgraip:
“Jai, wairþan magun
waurda þeina.
Wai þan unsis!
Wai Griutungam!
Hvaþro gahabam hairurigk
hardjana swe Unwen,
hvaþro þana ibnan
Airpamarhin,
Ansilin aiþþau Analin
aiþþau Austragutin?
Ins ni aiw saihvam;
eis ni aiw qimand,
þande airþa wisiþ
jah iuphimins.
Unsara auk usliþun allai
þai iusistans,
iþ aflifnand mans ainai
þai minnistans. 

He was not quick to reply, but quoth at last, Ibra the young, and seized his spear, “Indeed they may come to pass, these words of thine. Woe then to us! Woe to the Greutungs! Where shall we find a swordsman tough as Unwen, where Erpamarha’s equal, Ansila’s or Anala’s or Ostrogotha’s? We shall never see them. They will never come, so long as Earth lasts and High Heaven. For the best of us are all gone, and only the least will remain.

Jah wairþam wainah kuni,
wratonds, asnjos,
waurpanai du windam
wulþaus lausai.
Nist nu þizos aldais qius
ainshun manne,
saei fulk unsar,
habaiþ frijata saihvan,
nih barna is
nih barna ize.
In silubr weis sijum
swa frabauhtai.
Wairþai þan ushahans hvazuh
(Halka unsara sigisa!),
saei frabugjiþ oþal
aljakunjaim.
Baugabrutja mik baþ,
ei þizai baurg witau.
Ik fairra ni mag.
Sa was auk frauja meins.”

And we shall become a wretched people, wanderers, hirelings, cast to the winds, without glory. There is none now living of this generation who will see our folk free, nor his offspring, nor theirs. Thus are we sold for silver. So let any man be hanged (In vain our victories!) who sells off our homeland to strangers. My chief bade me hold this fort. I cannot leave; he was my lord.”

Iþ Audika qaþuh,
aihv spauram haihaggw,
“Ik þuk nu faigjana wait,
funsana haljos.
Du þaim airizam ju
aha þeins hvairbiþ.
Hva daug filu maþljan?
Mais letam skildu
skafta andhafjan!
Swa, broþar, skal wisan;
bota nist dwaliþos.” 

But Audika said, spurred his horse, “I know now that thou art dead already and eager for thy grave. Thy mind wanders already to the ancestors. What use much talk? Rather let us have shield answer shaft. So shall it be, brother; there is no cure for foolishness.”

Rodida þan anþar
uzdakampja,
harjonds haswafahs
ana hahista:
“Sijaidu afhugidai?
Haurjamu þaurbum usdreiban,
sainjans du sakjon,
izwis us saliþwom ut?” 

There spake then another vanguard warrior, some grey-haired harrier on horseback: “Are ye bewitched? With fires must we needs drive you, slow to strife, from out of your halls?”

“Þaurfts nist izwis haurje,
unte ni gaþlahsnam weis.
Daroþjus dunjandau
faura daurom gardis.” 

“Of fires have ye no need, for we shall not be afrighted. Let darts rain down before the gate.”

Þlaigidedun þignos
þlainam in hansa.
Faura skarjai þairhskritun
skilduns askeis.
Gaizos gullun,
jah grewasnaga.
Gol gunþifugls,
swaswe gumans gadrusun. 

Combattants let fly their barbs into the company. Before the troop, ash-shafted javelins sheared through shields. Spears whirred through the sky. Greycoat howled. War-bird crowed as men fell.

Baurd bluggwan was
brunamma hairau,
iþ hilms haggwans,
haþuwastjos jah.
Hune haurnabugans
dishnupun hari in twa. 

Board was beaten with brown blade, and helm hewn; war-weeds also. The horn-bows of the Huns tore the host in two.

Rukun faura naht naweis
naqadai ana aidam;
anþarans ana airþai
arans nu distaurun,
falwans uf tunglam
swe timr skaban.
Hune wesun ana hallau
hleiþros stakidos.
Atsnewun du saliþwom
sagjos afar hildja,
iftumein uhtwon,
Airmanareikis. 

Before night bodies smoked bare on balefires; others now eagles upon the earth did rend, pale under the stars like shaved timber. The tents of the Huns were pitched upon the rock. Next day at dawn to the halls they hastened (fighters after the fray)of Ermanaric.

Þata was auk þiudans
þiuþeigosts gibom;
þata was auk hilmje
hindarweisosts.

For that was the king most kind in gifts; for that was the sliest of sovereigns.

Jah ussandiþ was waurd,
þatei wulfs gaswalt.
Galaubja, þammei waiht ni was
wulþrais mannhun,
biþe saiwala brigus
fralailot us brustim.
Himins alls huliþs
harjis stubjau.
Mulda marhe
þo mildjon falh
(Þatainei naus nauh ains.)
niþjon menins.
Drugkana afar drauhtin
ni warþ þamma daga strawohun.
Riurjai waurþun rigkos
ana rohsnai baurgs,
bi Merjan stain
jah faur Mairqjan widu,
bi Hailago hlaiw,
ana harjawiga,
þaurpa jah hugsa,
jah in þiudaahvai.

And word went out that the wolf was dead. I doubt that it mattered a whit to any wight when the monarch let go the life from his breast. Heaven all veiled with the dust of the host. Dust of horses hid the mild (Just one more corpse.) kinswoman of the moon. No wake was drunk that day for a lord. Fighters rotted in the fortress yard, by the Famous Stone and the Dark Forest, round the Holy Howe, on the highroad, field and acre, and in the mighty river.

Lang mel galiþan.

Long time ago.

Falkan ik gasahv þar frijana
fiþro ana anza.
Haubiþ sein þata blindo
is wandida jah hidre, jah jaind,
ufar falwiskai.
Ik gasatida fotu in wig.
Unþaþlauhun þiujos.
Þeihvo in airþai.
Framis ni wili harpo,
ei si hausjaidau.

A falcon I saw there, free of feathers on its beam. It turned its blind head now this way, now that, above the cinders. I put my foot to the road. The servants had fled. Thunder in the earth. The harp does not want to be heard further.

COMMENTI:

ni windhun "nessun vento": Una forma indefinita e poetica, costruita a partire da pronomi come ni ainshun, ni mannahun "nessuno".

fulk "schiera" (n.): Termine di ottima tradizione germanica, non è direttamente documentato nei testi in lingua di Wulfila, ma è attestato negli antroponimi dei Burgundi, di lingua germanica orientale come i Goti.

austraþro "da Est": Una forma avverbiale di moto da luogo, da austr "Est, Oriente", col suffisso -þro che si trova in numerose altre occorrenze.

dauþudiups "profondo come la morte": Un composto poetico, da dauþus "morte" e diups "profondo".

daroþuns "dardi" (acc. pl.); daroþjus "dardi" (nom. pl.): Forma ricostruita su ottime basi, cfr. antico inglese daroð, antico alto tedesco tart, norreno darraðr.

Uldinis "di Uldin" (gen.): Antroponimo unno, attestato come nome di un predecessore di Attila. Nella lingua altaica degli Unni significa "Prospero", "Felice". La migliore trascrizione in gotico sarebbe a parer mio Uldein /'uldi:n/; la forma originale doveva essere tronca: /ul'din/

Hunim "agli Unni" (dat.): La forma gotica ricostruita è huns /hu:ns/ "unno", pl. huneis /'hu:ni:s/, con vocale tonica lunga.

Balambair "Balamir": Antroponimo unno, attestato come nome di un predecessore di Attila. La pronuncia gotica è /'balambɛr/. Nella lingua altaica degli Unni significa "Il Più Feroce". La trascrizione in gotico è ottima; dagli scritti di Iordanes si evince che vigeva anche la forma Balameir /'balami:r/. Le forme unne originali erano tronche: /balam'bɛr/, /bala'mir/, /bala'mur/.

rigke "dei guerrieri" (gen. pl.); hairurigk "spadaccino" (acc.): Il vocabolo ricostruito rigks "uomo, guerriero" è corradicale dell'anglosassone rinc "uomo, guerriero" e del norreno rekkr id.

airls "guerriero" (nom. sing.); airlos (nom. pl): Ricostruirei questa forma come airils con la variante airuls (cfr. il nome degli Eruli, scritto Heruli con una h- spuria). La forma proposta dall'autore è basata sul norreno jarl "conte", che tuttavia a parer mio viene da un più antico erilaR (attestato in iscrizioni runiche) con una precoce sincope. 

uzdakampja "guerriero dalla punta aguzza"Un antroponimo composto dal vocabolo ricostruito uzds "punta aguzza"; il secondo membro è stato ricostruito sulla base del norreno kapp "battaglia, contesa" (< *kamp-), antico alto tedesco camph "pugna" (tedesco moderno Kampf). Dal derivato *kampjan- derivano l'anglosassone cempa e l'antico alto tedesco cempho "campione". L'origine ultima è il latino campus.

harjonds haswafahs "saccheggiatore dalla chioma grigia": È evidente la natura di harjonds, participio presente di harjon "devastare, fare guerra" (norreno herja), derivato ricostruito del ben attestato harjis "esercito", di ottima tradizione germanica. Il composto è formato da haswa- "grigio" (norreno hǫs) e da fahs "criniera, chioma" (norreno fax).

Airmanareikis "di Ermanarico" (gen.): Nome del glorioso sovrano dei Goti di cui Iordanes descrive le epiche gesta. Sottomise un immenso numero di genti, giungendo ad imporre il proprio dominio a popoli remoti come i Mari e i Mordvini. L'antroponimo deriva da airmana- "immenso, enorme" e da reiks "sovrano". Corrisponde al norreno Jǫrmunrekr. Nella lingua degli scaldi il prefisso jǫrmun- era ancora vitale; da esse è stato formato anche il nome del Serpente del Mondo, Jǫrmungandr.

Uzdagais "Giavellotto Appuntito": Un antroponimo composto dal vocabolo ricostruito uzds "punta aguzza" e da gais "giavellotto" (gen. gaizis, nom. pl. gaizos), ben attestato nell'antroponimia. Corrisponde al norreno Oddgeirr.

Falkan "un falco" (acc.): La parola di origine latina, da falco: (gen. falco:nis) si trova in norreno come fálki, con la regolare declinazione debole. Se devo essere franco avrei preferito che fosse usato il termine germanico nativo, che in gotico è ricostruito come habuks (gen. habukis, dat. habuka, acc. habuk; cfr. norreno haukr): il verso suonerebbe Habuk ik gasahv þar frijana