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giovedì 6 agosto 2020

UN GERMANISMO PRECOCE IN LATINO: MELCA 'LATTE AROMATIZZATO CAGLIATO CON ACETO'

I Sardi chiamano merca un formaggio ottenuto da latte di pecora salato. Google ci fornisce qualche utile informazione su questo latticino: "Si presenta in forma di piccoli parallelepipedi del peso di circa 150 - 300 g. A lunga conservazione, veniva usato dai pastori nei lunghi inverni trascorsi lontano dalle proprie case. Viene impiegato in Sardegna per realizzare i culurgiones e una gustosissima minestra." 
Secondo la maggior parte delle fonti reperibili nel Web gli ingredienti sono soltanto due: latte ovino acido e cagliato, sale. Questo latte acido viene ottenuto aggiungendo caglio di agnello o di capretto (giagiu) al latte appena munto. Una fonte che non riesco più a reperire parlava invece di un miscuglio di latte fresco e di latte acido; forse si tratta di un'informazione distorta, in cui per latte acido si intende proprio il caglio. 
Questa merca è tipica del Nuorese, in particolare della zona di Ogliastra e della Barbagia. Non deve essere confusa con un'altra merca, che è invece un piatto a base di muggine, tipico dell'Oristanese (si tratta di un semplice caso di omofonia). 
Sicuramente si tratta di preparazioni antichissime. Si potrebbe pensare a una derivazione dal nome cananeo del sale (cfr. ebraico melaḥ "sale"), forse qualcosa come *melḥa "salata". Secondo questa interpretazione, tanto la merca ottenuta dal latte acido salato quanto il muggine salato avrebbero proprio il sale come elemento caratterizzante comune. Questo è senza dubbio possibile, ed è la tesi sostenuta da Giovanni Fancello. 
 

Lo stesso autore interpreta melca come "latte cagliato", in parziale contraddizione con quanto prima sostenuto, e riporta quanto segue: 

"In Sardegna il latte cagliato, tipica pietanza dei pastori ormai in disuso, assume diversi nomi a secondo della zona, con piccole  varianti nella preparazione: merca, melca, mer’a, preta, preta purile, frughe, frue, frua, cazadu, giuncata, migiuratu, gioddu, giagada.
 
A questo punto è necessario riportare un fatto sorprendente: in latino è documentata la parola melca, che indica un preparato di latte cagliato con aceto e aromatizzato con vari ingredienti, tra cui il pepe e il garum (la ben nota e pestilenziale salsa di pesce). In pratica doveva essere una specie di budino, secondo altri uno yogurt, molto popolare già in tempi abbastanza antichi. Il famosissimo cuoco Marco Gavio Apicio (vissuto a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.) ci fornisce una sintetica ricetta nella sua opera De re coquinaria libri decem. Si trova nel libro VII (Polyteles, ossia "cibi prelibati"), cap. XI, Dulcia domestica et melcae
 
Melcas: cum piper et liquamen, vel sale, oleo et coriandro. 
 
Si nota subito un'incoerenza grammaticale, oltre all'assenza di ogni menzione dell'ingrediente principale, il latte. La preposizione cum regge l'ablativo: Apicio non avrebbe scritto "cum piper et liquamen", ma "cum pipere et liquamine". L'ablativo lo ritroviamo più avanti (sale, oleo et coriandro), ma unito al segmento precedente da vel "o".  
Qualche editore ha così emendato la lettura, in modo tale da renderla grammaticalmente corretta: 

Melcas: cum pipere et liquamine, vel sale, oleo et coriandro. 

Mi domando se sia lecito procedere in questo modo. Si scopre che in passato erano diffuse letture corrotte, in cui i dotti cercavano di risolvere in vario modo un termine a detta loro incomprensibile, dando origine a forme fantomatiche come "mel castum" o "mel caseum". Forse i sistemi di Ivan il Terribile li avrebbero spronati a fare di meglio! Non è finita. Si trova anche un'altra lettura, seppur meno comune: 
 
Melca: Lac acidum, piper et liquamen, mel, sale, oleo et coriandro.

Sembrerebbe ben più verosimile: "Latte acido, pepe e garum, miele, con sale, olio e coriandolo". C'è però un problema di non poco conto. Dopo approfondite ricerche, ho scoperto che nel 1910 uno studioso, Janko, ho proposto di emendare Melcas: cum piper et liquamen in Lac acidum, piper et liquamen, sostuendo anche vel con mel. Quindi sparirebbe melcas dal testo, nonostante la presenza di melcae nel titolo del capitolo. C'è anche un'ulteriore difficoltà. Qualcuno - non si sa chi - ha pensato di sintetizzare la lettura di Janko e quella tradizionale, sommandole e dando origine a Melcas: Lac adicum, piper et liquamen. Questa lettura sincretica ha una discreta diffusione nel Web e si trova anche in alcuni libri. Ha un'origine che è evidentemente memetica, così deve essere rigettata. 

Fortunatamente esistono diverse altre attestazioni del vocabolo, come mostrato da Isabella Andorlini nel suo lavoro Edizioni di papiri medici greci (2018, Le Monnier).

A pagina 62 del suddetto testo si legge che la prima attestazione di melca compare in  un  testo  poetico del  I  d.C., che appare sull'affresco  dell'Antiquarium  Comunale di Roma:

Priapus  /  ...  ea  melca  datur

Sia Columella (4 d.C. - 70 d.C.) che Plinio il Vecchio (23 d.C. - 79 d.C.) parlano del proficuo uso dell'aceto per cagliare il latte, utilizzando la parola greca oxygala (alla lettera "latte acido") per indicare il prodotto chiamato melca da Apicio. 
 
Quindi ci viene fornita dalla Andorlini un'altra informazione importante: il termine melca compare nell'opera del medico Galeno (129 d.C. - 201 d.C.). Queste sono le citazioni:  

ἐν οἷς ἐστι καὶ ἡ μέλκα, τῶν ἐν Ῥώμῃ καὶ τοῦτο ἓν εὐδοκιμούντων ἐδεσμάτων, ὥσπερ καὶ τὸ ἀφρόγαλα· τοῖς δ' αὐτοῖς τούτοις καὶ τὰς ψυχρὰς κατὰ δύναμιν ὀπώρας ὁμοίως ἀποψύχων ἐδίδουν·
(De methodo medendi libri XIV, vol. VII) 
 
καὶ σικύου δὲ καὶ πέπονος οὐ πολὺ προσενέγκασθαι τηνικαῦτα, καὶ μηλοπέπονος, ἔτι τε τῶν πραικοκίων ὀνομαζομένων ἢ Περσικῶν ἐγχωρεῖ, καθάπερ γε καὶ τῆς καλουμένης παρὰ Ῥωμαίοις μέλκης ἐψυχρισμένης, ἀφρογάλακτός τε καὶ τῶν διὰ γάλακτος ἐδεσμάτων, ὁποῖόν ἐστι καὶ τὸ καλούμενον ἀργιτρόφημα· καὶ σῦκα δὲ ὁμοίως ψυχρὰ καὶ κολόκυνθαι τοῖς οὕτω διακειμένοις ἐπιτήδειοι.  
(De rebus boni malique suci, vol. VI) 
 
Secoli dopo, Antimo (511 d.C. - 534 d.C.) scrive nella sua opera De observatione ciborum epistula
 
oxygala vero graece quod latine uocant melca (id est lac) quod acetauerit. 
 
Essendo vissuto alla corte di Teodorico il Grande, Re degli Ostrogoti, oltre che tra i Franchi, ad Antimo era chiaro che la parola melca doveva avere la sua origine in una lingua germanica e avere il significato originale di "latte" - mentre Apicio e Galeno non sembravano consapevoli della natura straniera del termine.  
 
Alcune note etimologiche  
 
Non ci sono dubbi sull'origine germanica di melca, come procedo a dimostrare. In altre parole, si tratta di un germanismo precoce in latino, molto anteriore alle migrazioni conosciute come "invasioni barbariche"
 
Si capisce subito che la radice di melca è la stessa del verbo latino mulgeō, mulgēs, mulsī, mulctum, mulgēre "mungere"; per motivi fonologici non può tuttavia trattarsi di una parola latina nativa. Deve essere giunta a Roma da una lingua indoeuropea con  ben precise caratteristiche. Non può provenire dal greco, che ha il verbo ἀμέλγω (amélgō) "mungo", chiaro parente del latino mulgeō. La protoforma indoeuropea ricostruita è *(a)meleg'-.
 
Vediamo che melca non può essere un prestito dal celtico, sempre per via del suo consonantismo.
 
Antico irlandese: 
    mligim "io mungo"
    do-om-malg "io munsi" 
    mlegun "mungitura" 
    melg n- "latte" 
    bó-milge "del latte di mucca"
    mlicht, blicht "latte" 
Gallese: 
    blith "lattante"  
 
Può soltanto trattarsi di un prestito da una lingua germanica, su cui ha agito la legge di Grimm, che trasforma il fonema indoeuropeo /g/ in /k/

Protogermanico: *meluks "latte"
Gotico di Wulfila: miluks "latte" 

A tutti sono ben noti alcuni esiti della forma protogermanica: basti pensare all'inglese milk e a tedesco Milch.
 
Gli studiosi russi, come Sergei Starostin, hanno optato per una scelta a mio avviso non condivisibile, spinti da una bizzarra forma di nazionalismo. Visto che il protoslavo ha *melko "latte", donde deriva il russo молоко (molokó), con una consonante sorda /k/ come quella del germanico, esistono due alternative: 
 
1) La forma protoslava è un prestito da una lingua germanica o da altra lingua IE non identifica con /g/ > /k/;
2) La forma protoslava proviene da una radice IE diversa da *(a)meləg'- e postulabile come *melk-
 
I russi sostengono la seconda soluzione, fittizia e politicizzata, giungendo all'assurdo di ritenere nativo il termine melca di Apicio. Vediamo chiaramente che il protoslavo *melko "latte" non è parte del lessico ereditario, essendo un prestito. Non significa nulla il fatto che non si riesca a tracciare storicamente questo prestito. Il fatto che i dettagli siano andati perduti non significa che si debba ricostruire una radice protoindoeuropea fantomatica. Vediamo anche che melca ha l'aspetto di una parola latina come gangster ha l'aspetto di una parola dell'idioma di Dante.  
 
Conclusioni 
 
Il vocabolo sardo merca, indicante il noto latticino acido, deve essere il naturale esito di un germanismo precoce giunto da Roma e molto anteriore la dominazione dei Vandali. Non è quindi possibile considerarlo, come si potrebbe pensare a prima vista, un prestito dal germanico orientale. Come è giunta la melca a Roma? Forse non lo sapremo mai, ma sono convinto che si tratti del frutto di una complessa serie di interscambi culturali tra il mondo germanico e quello romano. Non dimentichiamoci che i mercanti romani frequentavano i Germani, portando loro vino e altri prodotti. Non è improbabile che in questo ambito sia nato e si sia diffuso un nuovo tipo di latticino.

domenica 14 giugno 2020

 
LA BALLATA DI STROSZEK

Titolo originale: Stroszek
Lingua originale: Tedesco, inglese americano, turco 
Paese di produzione: Germania Ovest
Anno: 1976 
Durata: 115 min
Rapporto: 1,66:1
Genere: Drammatico
Regia: Werner Herzog
Soggetto: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Produttore: Willi Segler
Casa di produzione: Werner Herzog Filmproduktion, ZDF,
    Skelling Edition
Fotografia: Thomas Mauch
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Musiche: Chet Atkins, Sonny Terry
Interpreti e personaggi:
    Bruno S.: Bruno Stroszek
    Eva Mattes: Eva
    Clemens Scheitz: Scheitz
    Wilhelm von Homburg: Il pappone biondo coi baffi 
    Burkhard Driest: Il pappone dai lineamenti duri
    Alfred Edel: Il direttore del carcere
    Clayton Szalpinski: Clayton, il meccanico grossolano
    Ely Rodriguez: L'aiutante indiano del meccanico
    Scott McKain: Scott 
    Bob Evans: Bob Evans
    Yücsel Topcugürler: Il prigioniero turco
    Al: Il camionista pappone energumeno (non accreditato) 
    Ralph Wade: Il banditore starnazzante 
    Der Brave Beo: Beo
Traduzioni del titolo: 
    Inglese: Stroszek. A Ballad
    Francese: La Ballade de Bruno

Trama: 
Siamo in una Berlino gelida, violenta e ostile. Bruno Stroszek è un musicista di strada che è stato appena scarcerato dopo aver scontato due anni di reclusione. È un uomo ingenuo, timido, autistico, disadattato. Il direttore della prigione teme che possa tornare a delinquere e lo mette in guardia, con incalzante paternalismo, intimandogli di evitare di bere. Bruno se ne frega e si reca subito nel bar che frequentava prima di finire in prigione. Riallaccia i rapporti con Eva, una giovane prostituta angariata da due papponi particolarmente molesti. Bruno invita Eva ad andare a vivere con lui, dato che l'eccentrico signor Scheitz, il simpatico vecchietto che era suo vicino, gli ha conservato l'appartamento. Purtroppo l'autismo impedisce all'infelice protagonista di capire che deve chiudere sempre a chiave la porta di casa, così i papponi fanno più volte irruzione, bullizzandolo in modo feroce. Anche Eva non sembra essere molto capace di difendersi: finisce più volte massacrata di botte e sottoposta a umiliazioni indicibili. Si presenta presto un'occasione per fuggire da una simile realtà degradante. L'anziano signor Scheitz intende emigrare nel Wisconsin per andare a vivere dal suo nipote Clayton, così invita Bruno ed Eva ad andare con lui. I soldi per il viaggio non sono un problema: la ragazza si prostituisce a un gruppo di turchi e riesce a racimolare la somma necessaria per i biglietti. I tre giungono così a New York, dove noleggiano un'auto e procedono verso la loro destinazione. La dimora di Clayton si trova in una prateria desolata e glaciale, in un paese di nessuno, nel nulla in mezzo al niente. Nessuno parla tedesco: l'unico ricordo della lingua avita coltivato dal ramo americano degli Scheitz consiste nella parola Willcommen, ossia "benvenuto", scritta su un cartello, con la -c- anziché con la -k-. Nonostante le difficoltà di comunicazione, tutto sembra mettersi al meglio. Bruno lavora come meccanico nell'officina di Clayton assieme a un assistente indiano, mentre Eva trova impiego come cameriera in un fast food, dove riesce presto ad apprendere l'inglese. La coppia abita in una specie di camper, ottenuto accendendo un mutuo presso una banca. Il problema è la cronica carenza di soldi: i magri salari non sono sufficienti per pagare le rate. Presto Eva torna a prostituirsi per far fronte alle spese, ma a un certo punto si stanca della sua vita con Bruno e se ne va assieme a due spaventosi energumeni, un cowboy tarchiato e un colossale gorilla biondiccio. I pagamenti cessano di colpo, così il camper viene requisito e finisce all'asta. Bruno e il signor Scheitz, abbandonati da Clayton e animati dalla forza della disperazione, tentano una maldestra rapina. L'anziano finisce catturato dai poliziotti, mentre Bruno per pura coincidenza riesce ad allontanarsi indisturbato. Ormai è completamente solo e procede verso il tragico epilogo: porrà fine alla sua esistenza di miseria e di dolore facendosi esplodere il cranio con una fucilata. 
 
 
Recensione:
Quando mi sono imbattuto per la prima volta in questo film, mi trovavo in un periodo di particolare afflizione. Così l'ho avviato e sono rimasto abbattuto dalle prime sequenze, tipiche del genere carcerario. In me è sorta una grandissima angoscia e ne ho subito interrotto la visione. Per lungo tempo mi sono obliato della pellicola, decidendomi a recensirla soltanto dopo diversi anni. Un giorno finalmente ho guardato questo capolavoro, che si è rivelato un immenso tesoro e mi ha offerto moltissimi spunti di riflessione. Spero che gli eventuali lettori perdoneranno la natura erratica e contorta delle mie elucubrazioni, ma sento un bisogno insopprimibile di esprimerle. Molti anni fa vidi un film sulla mafia siciliana, nei cui dialoghi spiccava un detto: "A Palermo quando si è soli si muore". Non soltanto a Palermo! Dovunque sulla faccia di questo pianeta, quando si è soli si muore. Non si ha nessuno, si rimane isolati. Quando si ha bisogno non si può chiedere aiuto a nessuno. Così si dura soltanto il tempo necessario al corpo per conservare qualche capacità di smaltire l'entropia accumulata dall'usura del tempo. Poi ci si ammala in modo grave, non si trova sostegno, si deperisce e si muore. Nella solitudine più assoluta. Si rimane sulla propria poltrona, stecchiti per un infarto o per un ictus, a imputridire. Oppure ci si pianta una pallottola nel cranio. La vita di Bruno Stroszek è così, non troppo diversa dalla mia. Mentre scrivo queste righe, mi rendo conto di essere come lui e di tendere allo stesso identico epilogo, ineluttabilmente. Per questo ho amato il film di Herzog e mi sono sentito vicino al sofferente protagonista. 
 
La tragedia dell'incomunicabilità  
 
Bruno Stroszek è una monade, un'entità entelechiana che non conosce possibilità di comunicazione con l'universo esterno. Ma esiste poi davvero un universo esterno? No. Non esiste affatto. L'essere senziente è come un astro eternamente solitario nell'Abisso del Nulla. Non è definito un "fuori", non ha nemmeno senso chiedersi se qualcosa si possa estendere oltre i confini dell'autocoscienza. Esiste però una misteriosa forza ostile e reattiva, che si oppone ad ogni atto di volontà del senziente, in modo sistematico.  
 
La grande domanda  

Angoscioso è l'interrogativo di Bruno: 
 
"E adesso la grande domanda. Tutti gli amici mi hanno aspettato, ma questo è il mio migliore amico. L'unico. Dove finiranno tutte queste cose, quando Bruno sarà morto? Dove finiranno? Che ne sarà dei miei strumenti? Che ne sarà? Esiste qualcuno che può rispondermi?" 

Conosco la risposta, ma è troppo orribile per poter essere formulata.


Un presagio funesto 
 
Il cortile è come un tetro pozzo scavato in un gigantesco blocco di cemento. Nelle pareti compatte si aprono finestre simili a quelle di un carcere, mancano soltanto le sbarre. Bruno si siede vicino a una fila di bidoni dell'immondizia, dispone di suoi strumenti musicali e annuncia di voler cantare una dolce storia d'amore, perché non è più solo, ora vive con Eva. Comincia così a suonare una ballata popolare, interpretandola in modo originale e divertente. La canzone si intitola Sabine war ein Freuenzimmer, ossia "Sabine era una cameriera" (in altre versioni il nome è diminutivo: Sabinchen). Il testo parla di una ragazza virtuosa che serviva il suo signore con fedeltà, finché un giorno giunse un giovane uomo da Treuenbrietzen (una cittadina vicino a Berlino), che di mestiere faceva il calzolaio. Un adoratore, un proletario, specifica Bruno. Innamorato di Sabine, il calzolaio riesce a sedurla. C'è però un problema: egli è dedito alle bevande inebrianti. Trangugia grandi quantità di birra e di liquori, facendo fatica a trovare i soldi necessari per alimentare a dovere questa passione. Quindi cerca il denaro alla compagna. Trovandosi sempre più in difficoltà, la ragazza finisce col deviare dalla sua onestà: permette al calzolaio di introdursi nella casa del suo padrone. Il malfattore ruba sei cucchiai d'argento, nascondendoli in tasca. Dopo 18 settimane, l'accaduto viene alla luce del sole. Bruno omette il finale truculento in cui il calzolaio finisce sgozzato, limitandosi a dire che il padrone derubato caccia Sabine dalla sua casa. Non mi pare che si possa definire "una dolce storia d'amore". Sembra piuttosto un canto portentoso, che contiene in sé l'annuncio della tragica fine del protagonista. 

Questo è il testo cantato da Bruno, non troppo dissimile da quello di Claire Waldoff:

Sabine war ein Frauenzimmer,
Gar hold und tugendhaft.
Sie diente immer treu und redlich
Bei ihrer Dienstherrschaft.

Da kam aus Treuenbrietzen
Ein junger Mann daher.
Der wollte gern Sabine besitzen
Und war ein Schuhmacher.

Sein Geld hat er ganz versoffen
In Schnaps und auch in Bier,
Da kam er zu Sabine geloffen
Und wollte welches von ihr.

Sie konnt ihm keines geben,
Denn keines stahl zur Stell
Da stahl er von ihrer Dienstherrschaft
Sechs silberne Blechlöffel.

Da schon nach langen achtzehn Wochen
Da kam der Diebstahl raus.
Da jagte man mit Schimpf und Schande
Sabine aus dem Haus. 
 
La pronuncia di Bruno è abbastanza peculiare (molti direbbero "dialettale"). Solo per fare qualche esempio, immer suona ümmer, mentre geben suona come se fosse scritto kiepe /'ki:pə/. Interessante la pronuncia "francesizzata" di Schuhmacher e Blechlöffel, con l'accento sull'ultima sillaba per fare la rima.
 
Ecco la parte omessa (dal testo di Claire Waldoff):

Sie rief: "Verfluchter Schuster,
Du rabenschwarzer Hund!"
Da nahm er sein Rasiermesser
Und schnitt ihr ab den Schlund.

Ihr Blut zum Himmel spritzte,
Sabinchen fiel gleich um.
Der böse Schuster aus Treuenbrietzen,
Der stand um ihr herum.

In einem dunklen Loche
Bei Wasser und bei Brot,
Da hat er endlich eingestanden
Die grausige Moritot.

Und die Moral von der Geschichte:
Trau keinem Schuster nicht!
Der Krug, der geht so lange zu Wasser,
Bis daß der Henkel bricht!

Der Henkel ist zerbrochen,
Er ist für immer ab,
Und unser Schuster muß nun sitzen
Bis an das kühle Grab! 

 
Interessante questo documento antropologico del pregiudizio verso i calzolai, che in Germania dovevano essere considerati intoccabili come i Dalit in India. Mi ha sempre affascinato il Lumpenproletariat tedesco, in cui confluivano resti di antichi popoli maledetti, tribù criminali, assassini e cannibali! Forse Herzog ha voluto rimuovere questi versi sommamente lividi e macabri perché poco consoni all'annuncio di un amore.  
 
 
Una signorina a cui piace fare l'amore 
 
Comprensibilmente, una prostituta non ama considerarsi tale. A dispetto dell'evidenza dei fatti, non ama per niente essere etichettata in questo modo abietto. Così Eva si considera semplicemente come una signorina a cui piace fare l'amore. In questo modo si presenta ai turchi arrapati, che si accalcano su di lei, bramosi di fare una gangbang spermatica. Quando il film herzoghiano fu fatto, la parola escort non era ancora nell'uso corrente. Nessuno avrebbe mai immaginato che un giorno in Italia sarebbe stato effettuato un esperimento antropologico, con un esito tremendo, devastante: la puttanizzazione di massa. A Eva sarebbe piaciuta molto l'idea portante del Satiro di Hardcore. Secondo una simile visione del mondo, ogni ragazza dovrebbe considerarsi come un'intelligente imprenditrice in grado di gestire il proprio corpo per elevarsi nella scala sociale, guadagnando cospicui proventi in modo facile e piacevole. Divertendosi.  
 

Bruno, l'America e il III Reich 
 
Tirate le somme della sua misera esistenza, il protagonista arriva alla conclusione che in realtà gli Stati Uniti sono ancora più disumani del III Reich - realtà da lui provata sulla propria pelle da bambino e non certo evocata per sentito dire. Una conclusione che potrà anche apparire sconcertante, non ci sono dubbi, eppure merita di essere presa in seria considerazione. 
 
Tu ritieni che gli squadristi d'assalto fossero demoni? Ma almeno erano demoni che capivano la tua lingua! Tu in America ti troverai tra demoni incapaci di capire la tua lingua! Parleranno una lingua che non potrai mai apprendere e sarai dannato, come un uomo nudo abbandonato nella tundra! Sarai schiacciato da una pressa, preso tra gli ingranaggi e ridotto a tritume di carne e di schegge ossee. I demoni che non capiscono la tua lingua rideranno di te, perché ai loro occhi sarai meno di un escremento. Così scoprirai che la loro democrazia può essere peggio delle afflizioni che ti ha elargito il Reich!   

Woody Allen ebbe a dire che se fosse nato in Polonia sarebbe stato trasformato in gas illuminante, o qualcosa del genere. Non ricordo l'esatta battuta. Il senso era quello, in ogni caso. Così egli benediceva l'America, che lo avrebbe salvato da un destino tanto crudele. Ma se non fosse stato un prospero Figlio di Ashkenaz, se fosse stato come Bruno Stroszek, sarebbe finito in modo egualmente misero nella Terra dei Liberi. Sarebbe stato soltanto una carogna abbandonata in un immondezzaio. Nessuno avrebbe pianto per lui. Nessuno lo avrebbe ricordato. 
 
Ecco un significativo dialogo tra Bruno ed Eva: 
 
Bruno (mostrando un groviglio): "Eva, questo l'ho fatto io per darti un'idea di quello che è la mia vita. Questo rappresenta Bruno. La sua vita maledetta. Tutti quanti gli uomini mi hanno sempre chiuso la porta in faccia. Tutti quanti, senza nessuna pietà. Ora sono in America. Doveva essere tutto più facile. Speravo una volta per tutte di trovare una sistemazione, di cominciare veramente a vivere. Niente. Ma da oggi Bruno non esiste, come se non fosse mai nato, mai venuto sulla Terra. Da oggi tu non mi riconoscerai più."
Eva: "Bruno, qui nessuno ti fa niente."
Bruno: "Oh, materialmente no. Moralmente sì.
Eva: "Ma cosa dici?"
Bruno: "Anche nei riformatori, le cosa andavano proprio come vanno qui. Se per caso tu facevi pipì a letto - allora c'erano ancora i nazisti - sai che facevano per risparmiare la corda per stendere? Ecco, costringevano il pisciasotto a tenere nelle mani il lenzuolo. Le braccia in alto e a sventolarlo nel cortile finché il lenzuolo non si fosse asciugato. E intanto alle sue spalle c'era una guardia con un grosso bastone e guai a chi abbassava le braccia o non sventolava il lenzuolo. E se cadevi a terra per la stanchezza avevi chiuso, quello ti ammazzava di botte."  
Eva: "Su, siediti."
Bruno: "Sì, sì, sì, d'accordo, mi siedo, mi siedo."
Eva: "E a te è successo?"
Bruno: "Sì, ma sapevo quello che mi aspettava. Oggi, oggi invece è molto diverso. Gli uomini non ti frustano più, non ti ammazzano più così, ma ti distruggono lentamente, con delicatezza. Ed è il modo peggiore! E io lo sento! Lo sento, lo avverto ancora di più. Chi lo sa che cosa mi riserva il futuro? Il carcere è sempre aperto!"
Eva: "Che cosa? Non capisco che vuoi dire."
Bruno: "Gia. Te lo ridico. Chi lo sa che cosa mi riserva il futuro? Il carcere è sempre aperto! Non siamo in Germania, qui. Qui bisogna stare attenti!"
Eva: "Ma Bruno, non essere così tragico."
Bruno: "Tragico? Tragico, non devo essere tragico. Quando un uomo è disperato, quando un uomo non ha più niente e ha bisogno d'amore, proprio allora non lo trova! Niente amore! Non devo più dormire con te perché tu hai deciso così. Devo dormire da solo buttato in un angolo, come una bestia!"
Eva: "Bruno, ascoltami, ti prego. Senti, io ho bisogno di stare sola, qualche volta."
Bruno (mostrando ancora il groviglio): "Sì, succede sempre così. Quando Bruno ha bisogno d'amore, succede sempre così. La sua donna gli dice sempre di no. Questa è la mia vita. Beh, se tu credi di farcela da sola qui in America, allora provaci. Sì, provaci!"
Eva: "Bruno, io vorrei tanto che tu capissi. Io ho bisogno di stare da sola, ho bisogno di una stanza tutta mia. Io non ho mai avuto una stanza tutta per me. Ne ho proprio bisogno. In fondo anche se... anche se noi due non dormiamo insieme, viviamo sempre sotto lo stesso tetto. Non vuol dire che non siamo più niente. Noi siamo noi, anche senza fare l'amore."
 
Le conclusioni sono inevitabili. "È stato un grosso sbaglio venire in America. Ti crolla di nuovo il mondo addosso. Tanto valeva che restassi dov'eri, in Germania." 
 
Il mimo erotico  
 
A un certo punto accade qualcosa di inaudito. Clayton, che somiglia un po' a Putin ma ha meno capelli, è in officina assieme al suo assistente e a Bruno, quando comincia a mimare nei minimi dettagli un atto sessuale. Ansimando ed ancheggiando simula un coito more ferarum, volgarmente detto "pecorina". Alla fine della sua esibizione, muove il pube come se stesse sparando getti di sperma in una vagina accogliente, da dietro. Non ci vuole una grande immaginazione per capire l'arcano: egli ha goduto dei favori carnali di Eva, tutta nuda, a gattoni sul pavimento, svuotando in lei i testicoli. Pieno di disprezzo per Bruno e per la sua passività, il meccanico lo irride con ferocia, esibendo davanti ai suoi occhi la rappresentazione scenica dell'atto consumato. Sa bene che il povero autistico non reagirà mai, neppure di fronte a una provocazione così spietata. Pensa che forse non arriverà nemmeno a ritenersi un cornuto, che non comprenderà nulla di quanto gli sta accadendo attorno. Eppure Clayton, che è un energumeno come i papponi, non sa che l'uomo da lui schernito capisce tutto benissimo, sentendo in sé un immenso dolore, perché ama quella ragazza che l'ha seviziato in modo atroce nello spirito. Bruno avrebbe voluto farla felice, mentre lei vuole essere schiacciata e maltrattata. Vorrebbe donarle qualcosa di prezioso, una gemma distillata dall'anima spremuta dagli eventi, un tesoro che lei reputa più spregevole delle feci lasciate cadere in una latrina.  
 
 
Lo Sceriffo di Paperopoli 

Nella vasta moltitudine degli autistici, siamo in molti ad avere gravi problemi di udito. Così Bruno Stroszek non è assolutamente in grado di distinguere i suoni della lingua inglese d'America, perché giungono ai suoi nervi acustici proprio come lo starnazzare delle papere. Già ebbi modo di dirlo: se per gli antichi Greci e Romani gli stranieri erano Barbari, perché le loro lingue suonavano alle loro orecchie come un indistinto bar-bar-bar, così per me gli Americani sono tutti Quaqueri (con tutto il rispetto possibile per i Quaccheri), perché quando parlano fanno quack-quack-quack come le anatre. Faccio una fatica immensa a capire quello che dicono. Immensa. Il genio di Herzog ha dato voce a questa mia angoscia esistenziale che per decenni ha minato la mia fiducia in me stesso e nelle mie capacità. Bruno ha appena perduto tutto. Il camper che era la sua casa è ancora lì, ma presto sarà portato via. Il tronfio sceriffo dirige l'asta e lo fa strepitando orrendamente in un megafono. Le parole anglosassoni che emette perdono istante dopo istante ogni parvenza di forma e di sostanza, fino a diventare un suono grottesco e incalzante, a metà tra il verso di un'anatra e un allarme. Atroce. Assolutamente atroce. Il signor Scheitz è distolto dai suoi vani studi sul mesmerismo animale e precipita di colpo nella dura realtà di un mondo fecale. Quello stesso mondo che presto lo stritolerà, riducendolo a pochi brandelli di carne e di ossa macinate dagli ingranaggi della legge. Pensando a questi orrori, mi pongo la stessa domanda che si pone il protagonista. Non sarebbe stato meglio se non si fosse gettato a capofitto in questa sciagurata impresa? Anzi, non sarebbe stato meglio se nessuno fosse emigrato, solo per essere inghiottito dalle fauci del Leviatano? 
 
Nessun ritorno è possibile. Bruno non potrà mai raggiungere la Germania. Chi non parla l'inglese americano (quello della Regina è utile quanto l'italiano o il tedesco) non può comunicare. Non può trovare lavoro. In una terra di assoluta deregulation, possono pagarti 50 centesimi per un'ora di lavoro, e devi ancora baciare loro le emorroidi perché ti danno la possibilità di guadagnare qualcosa. Se non ti sta bene, questo è un problema tuo. Non puoi dire: "Prendi il bastone e ammazza il padrone". Sei finito. E questa è l'America.   

 
Il teatrino lisergico dei polli 
 
Giustamente il finale di questo film è stato ritenuto una delle più feroci e taglienti critiche del modello americano mai apparse in tutta la Settima Arte. Il luogo è remoto, annidato in una valle boscosa. Vi si trova un Casinò gestito da Indiani. Un tempo erano fieri guerrieri, oggi sono biscazzieri. Gli Stati Uniti d'America, con tutta la loro retorica di civilizzazione, hanno assimilato e gangsterizzato numerose genti native di quella grante terra. Magari Uncas fosse stato davvero l'Ultimo dei Mohicani! I discendenti delle antiche tribù, spesso ridotti al meticciato, colpiti da etnocidio, si sono degradati. La gangsterizzazione e la puttanizzazione sono le due colonne portanti dell'ultraliberismo turbocapitalista. Una mostruosità che si irradia come l'Uno di Plotino, come un'abbacinante metastasi, fino a raggiungere anche i più infimi angiporti. A simboleggiare questo Fato di atrocità vediamo alcuni polli tormentati da luci psichedeliche e costretti da automatismi a una serie di movimenti innaturali. C'è persino un coniglio montato sul simulacro di un veicolo dei pompieri, intrappolato in quello che sembra un loop infinito di flash colorati, che penetrano nei nervi ottici fulminando le sinapsi!

Etimologia e pronuncia di Stroszek 

Il cognome del protagonista è di origine polacca, nonostante egli in un'occasione giuri e spergiuri di essere ungherese. Non è facile condurre approfondimenti etimologici. La parola strosz, che potrebbe essere la base del cognome, in polacco indica l'erbaccia da noi conosciuta col nome di ambrosia. Esistono tuttavia anche le parole stroszek e stroczek, tra loro molto simili. La prima è tradotta con "baccello", la seconda indica il fungo legnoso giallastro il cui nome scientifico è Serpula. La pronuncia polacca di Stroszek è /'stroʃek/: il digramma -sz- esprime lo stesso suono che in italiano è trascritto con sc- nella parola scena (mentre -cz- suona come c- nella parola cena). In tedesco si mantiene la pronuncia originale in quei distretti in cui c'è stata una grande presenza di immigrati polacchi, ma altrove è diffusa una pronuncia ortografica /ʃtros'tsek/, che è a dir poco orripilante. Il traduttore di Google è molto approssimativo e va stigmatizzato. Rende il polacco strosz con "ambrosia" senza spiegare il significato di quest'ultima parola e creando molte ambiguità. Bisogna allora ricorrere alla traduzione in inglese che dà "ragweed", senza dubbio il nome della detestabile gramigna fortemente allergenica. 
 
Scene memorabili

Clayton ha un dente marcio: in officina prende una tenaglia e se lo cava, senza urla di dolore, lamentandosi soltanto un po'. Poi si fa portare dall'indiano una lattina di birra, si risciacqua la bocca e sputa copiosamente.
Due bifolchi montano la guardia a un appezzamento, ciascuno guidando un trattore con una mano e reggendo un fucile con l'altra. Percorrono tutto il giorno lo stesso tragitto in loop infinito, guardandosi in cagnesco.  

 
Curiosità 

L'unica attrice professionista è Eva Mattes, che è stata la compagna di Herzog, avendone una figlia nel 1980. Da bambina ha doppiato Pippi Calzelunghe nella versione tedesca. Ha recitato per Werner Rainer Fassbinder diverse volte, comparendo due volte in film herzoghiani, oltre che nel documentario Kinski, il mio nemico più caro (1999). Era una bella ragazza, ma col passar degli anni è diventata gonfia e assai poco attraente. Un triste destino su cui invito tutti a meditare. 
 
Bruno S. (1932 - 2010), il cui vero cognome è Schleinstein (secondo alcuni S. sta invece der Schwarze "Il Nero") era realmente un autistico disadattato con esperienze di riformatorio e di carcere. Pittore e musicista autodidatta - suonava la fisarmonica e il pianoforte - era il figlio illegittimo di una prostituta. Per guadagnarsi da vivere fu costretto a lavori gravosi in fonderia, dove manovrava un carrello elevatore. Privo di esperienza cinematografica, nel 1974 interpretò L'enigma di Kaspar Hauser. Avrebbe dovuto interpretare anche il film Woyzeck (1979), ma Herzog gli disse all'ultimo che il ruolo era stato assegnato a Klaus Kinski. Siccome Bruno ci rimase molto male, il regista gli scrisse la sceneggiatura di Stroszek in un paio di giorni.     
 
L'attore che ha interpretato il pappone biondo con i baffi, Wilhelm von Homburg, era un famoso pugile che è stato incriminato, anni dopo aver girato il film, per reati molto simili a quelli descritti da Herzog. Lenocinio, violenze e simili amenità gangsterologiche. Era il Re di St. Pauli. Non appena l'ho visto, la sua figura mi ha subito ricordato quella di un Hurenwebel, l'Ufficiale delle Puttane che si trovava in ogni glorioso esercito di Lanzichenecchi. Aveva molte funzioni che potremmo definire di ordine pubblico; altre erano molto prosaiche ma altrettanto necessarie: grazie a lui i soldati avevano la possibilità di sfogare il proprio surplus seminale con una donna, ricevendone in cambio infezioni gonorroiche. Era riconoscibile dal gigantesco imbottimento inguinale, spesso ornato di campanelli!
 
Correva l'Anno del Signore 1980. Ian Curtis, il cantante dei Joy Division, si suicidò dopo aver visto questo film. Non fu capace di reggere la Grande Rivelazione: quella dell'insensatezza della vita umana!

venerdì 24 aprile 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI OK

Tutti conoscono la locuzione Okay, scritta anche OK, Ok, O.K., che è sinonimo di "va bene". Si è diffusa a partire dagli Stati Uniti d'America - e su questo tutti sono d'accordo - ma pochi si domandano quale sia la sua vera origine. Eppure sono stati scritte così tante pagine sull'etimologia di OK che non si potrebbe nemmeno riuscire a contarle: si farebbe prima a pesarle. Non c'è una sola opera dell'ingegno umano che possa davvero fornire una soluzione certa di questo annoso problema. Possiamo dire che siamo di fronte a una realtà ben definibile come pantano etimologico
 
Spiegazioni acronimiche 
 
In qualche modo è sempre stato dato per scontato che OK non sia una vera e propria parola di un linguaggio naturale, bensì una sigla o un acronimo, una specie di abbreviazione composta dalle iniziali di un nominativo o di una frase. Non per niente una variante diffusa è proprio O.K., con tanto di lettere puntate che sembrano dare conferma di questa idea, così radicata nell'immaginario collettivo. Non fa qindi specie che siano state elaborati molti tentativi ad hoc per individuare il nominativo o la frase all'origine della supposta abbreviazione. 
 
Tra gli snob di Boston nel XIX secolo erano in uso due passatempi abbastanza futili: la costruzione di acronimi e le gare di ortografia umoristica (certo, a Sodoma si divertivano di più). Così è opinione comune che nei salotti qualche bostoniano durante una serata frizzante passata a ideare "comical mispellings" se ne sia uscito a scrivere oll korrect (o addirittura orl korrect, ole kurreck) anziché all correct, e da qui sarebbe derivato direttamente l'acronimo OK. Non per niente la prima attestazione di OK risale al 1939 e compare proprio sul quotidiano The Boston Post. Altri esempi di inutili creazioni dei questi cervellotici idioti di Boston sono le seguenti:  NG "no go", OFM "our first man", GT "gone to Texas", SP "small potatos". A quanto pare è stato addirittura individuato un predecessore di OK: all right, scritto comicamente oll wright, fu quindi abbreviato in OW.
 
Quando ero al liceo ero afflitto da un insopportabile genialoide, un biondino effeminato e molesto, fanatico pierangelista, convinto di avere la spiegazione definitiva di ogni cosa. Questo individuo era più irritante di una cimice dei letti. Un giorno la professoressa di inglese gli chiese se sapesse da dove ha avuto origine la locuzione OK. Lui rispose con supponenza che si trattava di una sigla formata dalle iniziali del nome di un club politico, il cosiddetto Old Kinderhook, che in occasione delle elezioni presidenziali del 1840 sosteneva il candidato democratico Martin Van Buren. Tale politicante era nato proprio a Kinderhook, nello Stato di New York, cosa che aveva dato nome al club. Il biondino odioso ne era convinto e non ammetteva dubbi: OK era proprio il nome di un club politico. Lo sosteneva con lo stesso fervore da pasdaran con cui propugnava la cosmologia del Big Bang, l'evoluzionismo di Darwin o l'origine della coscienza nella biochimica del cervello. Il contraddittorio non era previsto. Il biondino non era un essere umano, era un gelido androide. Per fortuna l'insegnante espresse dubbi su questa storiella dell'Old Kinderhook, e non gli diede soddisfazione, preferendo la teoria della derivazione di OK dalle iniziali di oll korrect
 
Il mondo accademico ritiene che le due spiegazioni appena riportate siano anche le più probabili. Quando un utente digita in Google la chiave di ricerca "OK etimologia", il motore mette in bella mostra un riquadro che riporta la storiella dell'Old Kinderhook e della candidatura di Van Buren alle presidenziali del 1840. La chiave di ricerca "OK etymology", in ingelse, fornisce un risultato simile ma più esteso e con anche un riferimento a orl korrect, postulando un'interferenza: l'abbreviazione di Old Kinderhook si sarebbe imposta sfruttando la popolarità della preesistente abbreviazione bostoniana di orl kurrect. Per molti è ragionevole che sia andata proprio così. Questo non toglie che siano state formulati molti altri tentativi di penetrare i misteri dell'OK. Sembrano tutte abbastanza stravaganti e surreali. Nella migliore delle ipotesi presuppongono storielle fabbricate a bella posta dal nulla. 

1) Greco: Ὅλα Καλά (ola kalá) "tutto bene"
Si suppone che la siglia fosse usata dagli immigranti greci nei telegrammi per limitare le spese; secondo altri sarebbe stata usata dagli insegnanti nella correzione dei compiti degli studenti; secondo altri ancora il suo uso sarebbe nato tra i marinai greci.
2) Russo: очень хорошо (očen' khorošó) "molto bene"
Si suppone che questa fosse un'esclamazione usata dagli scaricatori di porto ucraini a Odessa per segnalare che il caricamento delle merci era andato a buon fine. Ne sarebbe quindi derivata una sigla da scrivere sulle casse.  
3) Tedesco: ohne Korrektur "senza correzione" 
Si suppone che la sigla fosse usata dagli insegnanti nella correzione dei compiti; forse diffuso dalle minoranze germanofone del Texas? 
4) Tedesco: Ober Kommando "Alto Comando"
L'abbreviazione sarebbe nata tra i contingenti militari Assiani utilizzati dall'Impero Britannico per reprimere la Rivoluzione Americana. Oggi si scriverebbe piuttosto Oberkommando. Non manca chi suppone che OK stia invece per Oberst Kommandant, "colonnello in comando". La semantica è piuttosto forzata.  
5) Inglese: Order Received "ordine ricevuto", con la lettera R letta male come K.
L'errore sarebbe di lettura stato commesso un commesso nero semianalfabeta in una fattura di vendita, ma a quanto pare si tratta di una storiella inventata di sana pianta dallo storico Albigence Waldo Putnam.
6) Inglese: opposto di KO, abbreviazione di knockout.
Si presuppone l'origine della sigla nel gergo del pugilato, secondo l'idea che invertendo le lettere di una parola o di una siglia se ne invertirebbe magicamente anche il significato.
7) Inglese: cattiva lettura di 0k "zero killed", ossia "nessun ucciso"
Si tratterebbe di una specie di contrassegno usato dai militari americani per segnalare che una battaglia o una missione di combattimento si era conclusa senza nessuna perdita.
8) Inglese: Open Key "comunicazione aperta", ossia "pronto a trasmettere" 
Si presuppone l'origine della sigla nel gergo dei telegrafisti. Questa storiella sarebbe nata da un equivoco a partire da un telegramma in cui O.K. sta verosimilmente per oll korrect
9) Inglese: outer keel "chiglia esterna"
La sigla OK N° 1 sarebbe stata usata dai costruttori di navi dallo scafo di legno per contrassegnare la prima trave che doveva essere posata.
10) Inglese: King's Observatory "Osservatorio del Re" 
La siglia, a dire il vero KO, sarebbe comparsa sugli strumenti di precisione certificati dall'Osservatorio, che aveva sede a Richmond, nei pressi di Londra (la costruzione esiste ancora ma è una dimora privata). Questo KO era scritto in modo bizzarro, coi caratteri sovrapposti, tanto da essere letto erroneamente OK.   
11) Francese: au courant "al corrente", "consapevole di qualcosa" 
In una poesia dell'umorista Charles Godfrey Leland compare il personaggio di Hans Breitmann, immigrato tedesco semicolto, che avrebbe scritto male le iniziali della locuzione francese, dando origine a O.K. 
12) Latino: Omnis Korrecta (secondo altre fonti Omnes Korrecta) "tutta corretta" 
La sigla sarebbe stata usata dagli insegnanti nella correzione dei compiti degli studenti. Questa proposta di spiegazione è comparsa sul quotidiano The Vancouver Sun. I casi sono due: o l'autore non conosceva bene il latino, oppure presupponeva che la locuzione si riferisse a un sostantivo femminile sottinteso. Forse sarebbe stato meglio un neutro plurale, omnia correcta. La K si deve a una grafia fantasiosa come si è visto in altri casi simili.  
 
Sono assai numerosi i tentativi di ricondurre OK alle iniziali di qualche personaggio, reale o fantomatico, vissuto in passato. In genere si tratta di politici, ufficiali, funzionari o altre persone che si occupavano di controllare qualche tipo di merce apponendovi le proprie iniziali, di compilare elenchi o di firmare documenti. A parer mio si tratta di trovate ridicole, in ogni caso riporto quelle di cui sono venuto a conoscenza:  

i) Otto Kaiser, industriale tedesco che avrebbe apposto le proprie iniziali alla merce destinata all'imbarco, allo scopo di certificarla.
ii) Onslow e Kilbracken, parlamentari inglesi che avrebbero apposto le proprie iniziali alle proposte di legge da loro revisionate.   
iii) Orrin Kendall, produttore di biscotti e fornitore del Dipartimento di Guerra dell'Unione durante la Guerra Civile: su ogni biscotto ci sarebbero state le sue iniziali.
iv) Otis Kendall, controllore di merci nel porto di New York: su ogni cassa ispezionata avrebbe apposto le proprie iniziali.
v) Old Keokuk, capo degli Indiani Sawk, avrebbe siglato i trattati con O.K., dalle iniziali del suo nome.
 
Spiegazioni non acronimiche 
 
I Choctaw e i Chickasaw parlavano la stessa lingua. Nella lingua di questi popoli non esisteva un verbo in grado di tradurre "to be" dell'inglese (corrispondente a esse in latino). Si ovviava a questa carenza utilizzando una parola enfatica okéh, traducibile con "(è) così" o con "(è) vero", che concludeva ogni frase. La frase "l'indiano Choctaw è un buon compagno" si traduce con hattak upeh hoomah chahtah achookmah okéh (alla lettera "uomo corpo rosso Choctaw buono è così"). Il Generale Andrew Jackson abitò tra i Choctaw, quando ancora non era famoso, e deve aver sentito spesso pronunciare la parola in questione. Potrebbe quindi averla adottata come parte del proprio linguaggio colloquiale, mantenendo questo costume una volta diventato Presidente degli States. Questo è ciò che pensava William S. Wyman. Secondo un altro studioso, William H. Murray, l'origine di OK sarebbe sempre Choctaw, ma deriverebbe piuttosto da un'altra forma verbale: si hoka, traducibile con "sono io" o con "questo è ciò che ho detto". Si noterà che la forma riportata come okéh da Wyman oggi viene trascritta come okii e suona verosimilmente /o'ki:/.  
 
Nella lingua dei Lakota hoka hey significa "su, andiamo!" e traduce l'inglese "let's go!" o "let's do it". La pronuncia non è molto dissimile da quella dell'inglese americano OK e la semantica non è incompatibile. A proposito della locuzione Lakota, si menziona un singolare fraintendimento. Cavallo Pazzo (Tashunka Witko), che fu un valorosissimo condottiero degli Oglala, usava incoraggiare i suoi guerrieri con la frase "Hoka hey, oggi è un buon giorno per morire!" (in inglese "Hoka hey, today is a good day to die!"). Ebbene, negli States molti hanno creduto che la seconda parte della frase fosse proprio la traduzione di hoka hey, cosa che non corrisponde al vero. La frase originale in Lakota è "Nake nula wauŋ welo!", la cui traduzione accurata è "Sono pronto per qualunque cosa accada!" Certo, il succo del discorso è lo stesso. 
 
Nella lingua degli Wolof dell'Africa Occidentale (Senegal) waw-kay significa "sì, certo" ed è formata a partire da waw "sì" e dalla particella enfatica -kay. Le forme riportate non sono trascritte secondo l'ortografia anglosassone come potrebbe pensare a prima vista: c'è chi scrive waaw anziché waw, evidentemente la pronuncia è /wa:u/, /wa:u'kai/. La particella -kay si trova anche in axakay "sì", dove -x- è una forte aspirazione. Credo quindi che sia frutto di un fraintendimento la trascrizione "fonetica" uou-key che compare spesso nei siti web in italiano, venendo tra l'altro descritta come "Bantu". Una forma assai simile, waw-key, è considerata Bantu anche in siti web in inglese, anche se non ho potuto trovare la necessaria documentazione. Una forma simile al Wolof waw-kay si trova invece nella lingua dei Mandingo, ma con una fonetica forse più adatta a spiegare l'inglese OK: o ke "certo", "è così". Queste forme africane sarebbero state portate in America per via del traffico di schiavi. Trovo molto interessante notare che una forma kay "sì, certo", spesso scritta 'kay come se fosse derivata da un precendente okay, si trova nel linguaggio afroamericano: "Kay, massa, you just leave me, me sit here, great fish jump up into da canoe, here he be, massa, fine fish, massa; me den very grad; den me sit very still, until another great fish jump into de canoe;..." (J. F. D. Smyth, A Tour in the United States of America, 1784). 

Riporto una serie di altre proposte etimologiche non fondate su acronimi:  
 
1) Francese: aux quais "ai moli", au quai "al molo"
2) Francese: Aux Cayes "A Cayes", essendo Les Cayes una città di Haiti da cui si importava il rum. 
3) Francese: o qu'oui "certo che sì" 
4) Occitano: oc "sì". La parola sarebbe stata introdotta da coloni giunti nella Lousiana. 
5) Latino: hoc est "questo è" (usato come affermazione). La locuzione sarebbe stata diffusa a partire dal linguaggio degli studenti. 
6) Finlandese: oikea "corretto, giusto", ma anche "destro", proprio come accade nella semantica dell'inglese right. Esempio: se oli oikea vastaus "era una risposta corretta". Secondo le ricostruzioni degli uralisti questa parola deriva dal protofinnico *oikeda, a sua volta dal proto-finnopermico *wojketa
7) Scots: och aye (pron. /ox 'eɪ/, /oχ 'eɪ/) "oh sì". Non esistendo in inglese americano una consonante aspirata /x/ o /χ/ questa sarebbe stata adattata come una semplice occlusiva /k/. Nel Web in italiano la locuzione viene erroneamente attribuita al gaelico, ma si tratta di un errore. Lo scots è una lingua anglosassone come l'inglese. 

Mi sono imbattuto anche nel tentativo di ricondurre OK a una formula magica greca (di origine egiziana), ὤχ, ὤχ (okh okh), usata per scacciare le pulci. Credo che la proposta etimologica sia una pura e semplice burla.
 
Old Kinderhook e Old Kindersly  
 
C'è anche un altro O.K. negli Stati Uniti d'America, che nulla ha a che vedere con quello di cui stiamo trattando. Si tratta del famoso O.K. Corral, nei pressi di Tombston (Arizona), dove nel 1881 avvenne una sparatoria tra i fratelli Earp, sostenuti dal pistolero Doc Holliday, e la banda dei Cowboys. Questo microtoponimo deriva a quanto pare dall'abbreviazione di Old Kindersly Corral, a sua volta dal nome del primo proprietario di quel luogo desolato (corral significa "recinto"). Certo, non esiste alcuna connessione con OK "va bene", ma trovo bizzarra l'assonanza tra Old Kindersly e Old Kinderhook. Questo dimostra se non altro l'immensa diffusione della mania acronimica in tutto l'immenso territorio degli Stati Uniti, tanto da trovarsene esempi anche nelle zone più inaccessibili. 
 
Conclusioni  
 
A parer mio si salvano soltanto due ipotesi, che posso considerare decenti e abbastanza probabili: quella dell'origine dal Choctaw e quella dell'origine africana. Come terza possibilità potrei pensare al Lakota, anche se non mi convince del tutto. Il problema è che non riesco a decidere. Non possiedo tuttavia alcuna certezza definitiva. Troppo forte è il rumore di fondo. Rigetto senz'altro gli acronimi, le sigle e simili. Sfido chiunque a trovarmi uno straccio di prova materiale a favore di tali contorte fabbricazioni, tipo una trave con la scritta OK N° 1, una cassa con le iniziali di Otis Kendall, un documento militare che riporti il codice 0k e via discorrendo.

giovedì 16 aprile 2020

L'IDROMELE: ALCUNE CONSIDERAZIONI FONOLOGICHE, ETIMOLOGICHE E SEMANTICHE

L'uso della parola idromele "bevanda alcolica fermentata dal miele" è tutto sommato problematico, come possiamo capire indagandone l'etimologia, in apparenza lapalissiana. Questo perché il termine greco antico ὑδρόμελι (hydrómeli) è sinonimo di μελίκρᾱτον, μελίκρητον (melíkrāton, melíkrēton), che indicava un miscuglio di acqua e miele, non fermentato, oppure un miscuglio di latte e miele offerto alle potenze degli Inferi e parimenti analcolico. Si tratta di un composto formato a partire da ὕδωρ (hýdōr) "acqua" e da μέλι (méli) "miele". L'accento cade sulla terzultima sillaba, perché l'ultima è breve, e nella lingua greca è la quantità dell'ultima sillaba a regolare la posizione dell'accento - a differenza della lingua latina, in cui la posizione dell'accento è regolata dalla quantità della penultima sillaba. 
 
La parola greca ὑδρόμελι, importata tra i Romani, scritta hydromeli e pronunciata /(h)i'dromeli, hy'dromeli/, poteva indicare anche la bevanda fermentata alcolica: ha subìto quindi uno slittamento semantico. Sarebbe utile poter accedere a una documentazione più approfondita, ma questo non è poi tanto facile. Dobbiamo notare una cosa importante: si tratta di un prestito dotto, che non fu mai accolto nella lingua del volgo e che a quanto ne so non ha mai lasciato esiti in nessuna lingua romanza. Se sarò smentito da qualche romanista che ha più dimestichezza di me con l'immensa mole di dati dell'enorme numero di varietà romanze, ben venga, ma ho ragione di credere che ciò non accadrà mai. Anche in greco moderno ὑδρόμελι indica la bevanda alcolica. Si tratta di un vocabolo tratto dall'antichità, non di un'eredità passata attraverso la genuina usura del volgo. In altre parole, appartiene alla Katharevousa, la lingua nobile. Lo si comprende all'istante, dato che nella lingua popolare, l'acqua è chiamata νερό (neró). Tra l'altro, in Grece esiste tuttora un'interessante produzione di idromele. 
 
In italiano, per ragioni etimologiche e per una pronuncia ortografica (dedotta cioè a partire dalla forma scritta letteraria senza cognizione alcuna della metrica originaria), dalla forma sdrucciola idròmele a un certo punto si passò a quella piana, idroméle, che è da considerarsi di uso generale. Questo ha creato problemi a non finire. La gente più incolta non comprende il significato della parola idromele e confonde l'augusta bevanda col sidro. La prima reazione di un analfabeta alla menzione dell'idromele e alla spiegazione di come viene preparato dal miele, è sempre di stupore: troppo forte è l'idea preconcetta di una derivazione dalle mele per via della terminazione. Alcuni addirittura tendono ad ipercorreggere la parola e a pronunciare *idromiele nel tentativo di ripristinare un'etimologia comprensibile. Inutile dire che questo *idromiele è assolutamente erroneo, cosa che noto usando l'asterisco. Eppure questo ipercorrettismo esiste e resiste. Ricordo di aver letto da giovane un fumetto in cui Ercole, venutosi a trovare a New York, in un ristorante chiamava i camerieri "schiavi" e diceva di preferire di gran lunga l'idromele alla coca cola. Il punto è che il fumettista aveva scritto la parola con una -i- di troppo.  

 
Anche se si tratta di un'impresa vana, andrebbe proposto un nobile neologismo dalle ottime basi etimologiche, che appianerebbe ogni controversia e farebbe sparire ogni dubbio: MEDO "idromele", tratto direttamente dal celtico (gallico): è attestato come medu, di genere neutro, mentre la variante maschile medus si trova come prestito nel tardo latino delle Gallie. Questo elemento Medu- è alla base dell'antroponimo gallico Medugenos "Nato dall'Idromele", attestato anche in celtiberico come MEZUKENOS e in ogamico come MEDDOGENI (al genitivo) - oltre che nell'etnonimo Medulli, che designava un popolo alpino. Nella Lusitania sono attestati i Medubrigenses, il cui nome deriva dal toponimo celtico *Medubriga "Città dell'Idromele". Nelle lingue celtiche medievali e moderne si hanno le seguenti forme, tutte dalla stessa radice protoceltica: 
 
antico irlandese: miḋ "idromele" (genitivo meḋo)
        meḋḃ "ebbro"
  irlandese moderno: miodh "idromele" 
medio gallese: medd "idromele"
       meddw "ebbro"
  gallese moderno: medd "idromele"
bretone: mez "idromele"
cornico: medh "idromele"
 
Famosa è la dea irlandese Me "Ebbra", il cui nome deriva dal protoceltico *Medwā, sostantivazione dell'aggettivo *medwos "ubriaco (di idromele)". Nella regione della Loira esiste un fiume che era chiamato Meduana, il cui nome deriva da quello della stessa divinità adorata nell'antica Irlanda precristiana.

Il sostantivo antico irlandese è di genere neutro e punta a una ricostruzione protoceltica *medu, ma esistono anche attestazioni di genere maschile, che puntano a una ricostruzione protoceltica *medus. La forma gallica di genere maschile, passata in latino, è attestata nella Epistula Anthimi uiri inlustris comitis et legatarii ad gloriosissimum Theudoricum regem Francorum de obseruatione ciborum  (VI secolo): 

Ceruisa bibendo uel medus et aloxinum quam maxime omnibus congruum est ex toto, quia ceruisa, quae bene facta fuerit, beneficium prestat et rationem habet, sicut et tesanae, quae nos facimus alio genere. tamen generaliter frigida est.
Similiter et de medus bene factum, ut mel bene habeat, multum iuuat. 
 
E ancora, più avanti nello stesso testo, troviamo una menzione dell'idromele, assieme a una preziosa testimonianza sull'intolleranza al lattosio tra i Franchi: 
 
De lactibus uero sanis hominibus; si quis crudos lactis uult bibere, mel habeant admixtum uel uinum aut medus; et si non fuerit aliquid de istis poculis, sale mittatur modicum, et non coacolat intus in hominibus; nam si purum acceptum fuerit, aliquibus coacolat intus in epar et in stomachum et solet grauiter laedere. Si tamen, quomodo mulgitur, contra calidum bibitum fuerit, si taliter, non nocet. 
 
L'autore di questo trattato, Antimo, era un medico di Bisanzio, che il Teodorico il Grande (454 - 526), Re degli Ostrogoti, inviò come rappresentante alla corte dell'omonimo Teodorico (485 - 534), Re dei Franchi e figlio di Clodoveo, della dinastia dei Merovingi. Vediamo che il vocabolo medus in questo testo non può essere un prestito dal gotico, che aveva senza dubbio *midus, con diverso vocalismo (vedi sotto). A rigor di logica potrebbe essere un prestito dalla lingua germanica dei Franchi. Notiamo però che la bevanda a base di miele non è stata inventata dai Franchi: era già ben nota ai Galli e diffusissima. Vediamo che la birra è designata col termine celtico (cisalpino) ceruisa. Anche la parola aloxinum è di origine celtica e designava una bevanda aromatizzata con assenzio: ha la stessa radice dell'inglese ale "birra" (anglosassone ealu, ealo, genitivo ealoþ). Assumo quindi che medus sia un elemento del sostrato/adstrato celtico. Il Glossario di Vienne ci testimonia che una forma tarda di gallico era senz'ombra di dubbio ancora parlata al tempo dei Franchi: la parola caio "recinto" è glossata con "breialo siue bigardio"
 
Questo nome dell'idromele, che risale alla radice indoeuropea *medhu-, si trova nelle lingue germaniche: 
 
protogermanico: *miðuz "idromele" 
norreno: mjǫðr "idromele"
   islandese moderno: mjöður "idromele"
   faroese: mj
øður "idromele"
   antico svedese: miödher, mioþer "idromele"
   svedese moderno: mjöd "idromele" 
   antico danese: mioth, miøth, møth "idromele"
   danese moderno: mjød "idromele"
antico alto tedesco: metu "idromele"
   medio alto tedesco: mete, met "idromele"
   tedesco moderno: Met "idromele"
antico sassone: medu "idromele"
   medio basso tedesco: mēde, medde "idromele"
   basso tedesco (Vestfalia): mia "idromele"
antico frisone: mede "idromele"
  frisone occidentale: mea "idromele"
medio olandese: mēde "idromele"
  olandese moderno: mede, mee "idromele"
antico inglese: meodu, meodo, medo "idromele"
   medio inglese: mede, methe(1) "idromele"
   inglese moderno: mead /mi:d/ "idromele"
   scots: mede, meid "idromele"
gotico: *midus "idromele"(2) 

(1)La variante methe si deve a influenza norrena.
(2)La forma gotica è stata presa a prestito dal lituano: midus "idromele". 
 
Torniamo dunque al greco antico. Nella lingua di Omero si trova un vocabolo discendente dall'indoeuropeo *medhu-, che non era usato altrove: μέθυ (méthy), di genere neutro, genitivo μέθυος (méthyos), tradizionalmente tradotto con "vino" o con "bevanda inebriante". Il significato originale doveva essere quello di "idromele", ma già in epoca classica questa conoscenza era andata perduta. Il navigatore massaliota Pitea (380 a.C. circa - 310 a.C. circa), che visitò la regione costiera della Norvegia, paese denominato Thule (Θούλη), affermò che le popolazioni locali facevano uso di una bevanda inebriante prodotta dal miele e dal grano, ma non usò il termine μέθυ per designarla. Se questa bevanda fosse stata conosciuta all'epoca dai Greci, non avrebbe destato grande sorpresa scoprire che era prodotta dalle genti di Thule. Il caso è davvero curioso. Sappiamo per certo da prove archeologiche che l'idromele era prodotto in epoca omerica e persino che c'era la consuetudine di aromatizzarlo col rosmarino. A quanto pare la bevanda antichissima è stata gradualmente abbandonata a causa della concorrenza del vino  d'uva, che ha finito col soppiantarla. Quando in seguito l'idromele alcolico è stato riscoperto, ha dovuto ricevere un nome nuovo.    

La radice *medhu- ha dato discendenti in molti altri rami della famiglia indoeuropea, ma sarebbe impossibile fare una trattazione dettagliata in questa sede, tanto complesso è l'argomento. Questi sono alcuni dati relativi alle lingue indoarie e iraniche: 
 
sanscrito: madhu "miele; vino"
romaní: mol "vino"
protoiranico: *madu "miele; vino" 
   avestico: maδu "vino (d'uva)"
   antico ossetico (scitico): mud "miele"
   battriano: μολο (molo) "vino"
   curdo settentrionale: mot "melassa"
   medio persiano: may "vino"
   persiano moderno: mey "vino"*
   harzani: mat "sciroppo denso, melassa"
   azero (dialetto di Urmia): mazow "sciroppo d'uva con acqua"
 
*Parola della lingua letteraria. 
 
Gli Sciti bevevano idromele e lo chiamavano mud, come il miele. Tra la maggior parte delle altre genti iraniche è subentrato una specie di tabù verso il miele, così l'antico nome dell'idromele è passato a indicare il vino d'uva. 

Persino in arabo esiste la parola maδi "vino bianco frizzante", importata direttamente dal medio persiano (prima della scomparsa della dentale intermedia); deve essere un termine colloquiale o tecnico. Sorprende la vastità del lessico enologico tra gli Arabi, con buona pace della loro religione che ha un cattivo rapporto con l'ebbrezza. 
 
In tocario B abbiamo due diverse parole: mīt "miele" e mot "bevanda inebriante". La prima parola tocaria, mīt, ha avuto un'enorme diffusione, dando origine al cinese antico 蜜 mit "miele" (cinese attuale , usato in composti come 蜂蜜 fēngmì "miele", 蜜蜂 mìfēng "ape da miele"). Dal cinese antico, mit "miele" è giunto nel giapponese divenendo mitsu "miele", e in coreano divenendo mil "miele". La seconda parola tocaria, mot "bevanda inebriante", è un prestito da una lingua iranica, con ogni probabilità il sogdiano (mwδ, mδw "vino", pron. /muð/). 
  
Anche nelle lingue baltiche e in quelle slave i discendenti di *medhu- sono ben attestati e fiorenti. Questo è un quadro delle lingue baltiche:  
 
lituano: medùs "miele"*
lettone: medus "miele; idromele"
letgallo: mads "miele"
antico prussiano: meddo "miele" 
 
*C'è anche midus "idromele", che è un chiaro prestito dal gotico. 
 
Questo è un quadro sintetico delle lingue slave
 
antico slavo ecclesiastico: медъ (medŭ) "miele"
russo: мёд /mjot/ "miele"; "idromele"
ucraino: мед /med/ "miele"; "idromele"
polacco: miód /mjut/ "miele", miód pitny "idromele"* 
ceco, slovacco: med "miele", medovina "idromele"
bulgaro: мед (med) "miele"
serbo, croato: ме̑д, mȇd "miele"
macedone: мед (med) "miele"
sloveno: méd "miele" (mẹ̑d in ortografia tonale)

*Ricordo un articolo su un vecchio quotidiano cartaceo, che parlava di una cooperativa comunista e di "miele da bere" importato dalla Polonia (hanno tradotto alla lettera miód pitny). Forse i trinariciuti non conoscevano la parola idromele o non la volevano usare per qualche loro ubbia. 

Un notevole prestito slavo in rumeno è mied "idromele" (parola del linguaggio popolare).
 
Alla luce di quanto esposto, vediamo che l'uso del neologismo MEDO in italiano restaurerebbe un'ottima tradizione, avendo un fondamento storico ineccepibile. Inoltre porrebbe fine agli inveterati fraintendimenti di cui abbiamo già discusso. Alla Festa Celtica in Val Veny, i Taurini vendono un eccellente idromele di loro produzione: ogni anno mi piazzo davanti alla loro bancarella per abbondanti libagioni. Ebbene, non sarei più costretto a sentire decine di visitatori continuare con la baggianata dell'associazione tra l'idromele e queste cazzute fantomatiche mele! 
 
Il cognome Idromele 

In Italia esistono i cognomi più bizzarri. Ve ne sono alcuni tra i più notevoli che traggono origine da nomi di bevande. Tra questi abbiamo Vino, Birra, Acquavite, Amaro, Liquori, Spiriti, Rum, Sambuca, Gin e Sidro. Come documentato dal sito www.gens.info, il rarissimo cognome Idromele è presente in due soli comuni, il primo in Piemonte, non lontano da Tortona, e il secondo nei pressi di Roma.