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sabato 26 giugno 2021

LA CUCINA DELL'ANTICA ISLANDA

Anni fa, mentre mi trovavo in Valle d'Aosta, in una libreria mi imbattei in un interessante volume. Commisi l'errore di non acquistarlo. Ora è fuori catalogo e non si riesce a trovarlo facilmente.
 
La stirpe di Odino. La civiltà vichinga in Islanda 
Copertina flessibile – 28 febbraio 2012
di Jesse Byock (Autore), M. Federici (Traduttore) 

Questa è la sinossi (da www.goodreads.com):
 
"I primi coloni raggiunsero l'Islanda dalla Scandinavia e dalla Britannia vichinga alla metà del IX secolo e qui diedero vita a uno stato libero, indipendente e non gerarchico, che costituisce un unicum nella storia europea. Le strutture sociali, economiche, politiche e giuridiche, infatti, per quanto ispirate a quelle delle zone d'origine, dovettero essere modellate su una realtà geografica del tutto nuova, difficile e affascinante, e durarono con minime evoluzioni fino alla conquista norvegese del 1260, dando vita a una civiltà rurale, con una stupefacente cultura del diritto e un forte senso dell'onore.  
In questo libro, che il grande medievista Le Goff ha definito "splendido e affascinante", l'autore indaga l'Islanda indipendente in modo globale, facendo ricorso a molteplici tipologie di fonti, da quelle giuridiche a quelle archeologiche, e in particolare analizza le splendide saghe, capolavori letterari dai quali è possibile ricavare la più esatta descrizione di quello che voleva dire vivere nella "terra dei ghiacci" tra IX e XIII secolo." 
 
Leggendo lunghi brani dell'opera di Byock mentre ero nella libreria, sono rimasto particolarmente affascinato dai contenuti riguardanti le antiche tradizioni gastronomiche islandesi. 

Cibo acre! 
 
La fermentazione lattica e la putrefazione controllata erano i principali fondamenti della cucina nell'Islanda antica, fin dai tempi in cui era una nazione libera e pagana, ancor prima che il Cristianesimo venisse adottato tramite votazione in una fatidica riunione dell'Althing tenutasi nell'anno 1000.
Tutti sanno cos'è il latte acido: quando si lascia un cartoccio di latte fuori dal frigo, dopo alcuni giorni la massa grassa precipita e si separa il siero. L'odore della parte grassa è acre ed abominevole: ricorda lo smegma rappreso e irrancidito, ossia il prodotto di desquamazione dei genitali che ha assunto l'aspetto e le proprietà organolettiche del formaggio. Questo schifo immondo viene visto con disgusto e gettato via, nessuno saprebbe che farsene.
Nell'antica Islanda la parte sierosa era chiamata sýra (genitivo sýru; plurale sýrur) ed era usata per conservare i cibi. Il suo nome deriva dall'aggettivo norreno súrr che significa "amaro, aspro, sgradevole", dalla stessa radice protogermanica che ha dato l'inglese sour "acido" e il tedesco Sauer "acido". Questo sviluppo culinario non è stato importato dalla Norvegia, ma si è formato specificamente nell'Isola dei Ghiacci per via della carenza di sale - fattore che ha portato alla ricerca di diversi metodi per la conservazione dei cibi. Questo siero aveva una percentuale altissima di acido lattico! 
La procedura di conservazione era semplice. Si prendeva la carne bollita e la si lasciava macerare in un barile di sýra, dove subiva un processo di fermentazione che la trasformava in qualcosa che, per quanto possa sembrarci ripugnante al palato, poteva essere conservato a lungo e trasportato senza problemi in caso di necessità. Questo processo impediva alla carne di marcire e faceva sì che potesse conservarsi per tutto l'inverno. 
La parte grassa del latte acido, ricchissima di proteine, veniva ulteriormente coagulata in un latticino chiamato skyr (genitivo skyrs, dativo skyri) tramite l'introduzione dell'estratto delle membrane dello stomaco degli agnelli.
Mescolato alla sýra, questo skyr cagliato poteva essere agevolmente conservato in grandi recipienti interrati e bevuto quotidianamente. Ancora oggi è prodotto in Islanda lo skyr, ma il metodo di lavorazione deve essere migliorato rispetto a quello usato nell'antichità, come anche le sue proprietà organolettiche: chi lo ha assaggiato lo considera simile a un moderno yogurt denso.
Bere il latte fresco sarebbe stato considerato un lusso da quelle genti ruvide e indomite: soltanto i malati e i monaci ne bevevano in piccole quantità. Quasi nulla veniva mangiato se non era acido al punto giusto. Opportuni trattamenti di fermentazione e di putrefazione controllata trasformavano i prodotti bovini e quelli delle foche, e questi venivano trasportati e commerciati anche a grandi distanze dal loro luogo di produzione. Lo stesso burro non salato, conservato in barili, irrancidiva e andava anche oltre il rancido, subendo fermentazione e generando acido lattico in gran quantità, fino a cambiare del tutto le sue proprietà. Era il burro acido, ci cui gli occasionali visitatori dell'isola ci hanno lasciato descrizioni assai poco entusiastiche. Esistevano anche i salumi, come le salsicce e i sanguinacci, che contenevano moltissimo grasso ed erano fatti con carne bovina e di pecora. Gran parte del poco sale disponibile era usato per prepararle.   
 
Il formaggio e un aneddoto 
 
I coloni norvegesi hanno portato in Islanda l'arte di produrre il formaggio. Il nome norreno del formaggio è ostr (genitivo osts; plurale ostar).
 
Questo è il testo in norreno: 
 
Snorri Þorbrandsson var hressastr þeira brǿðra ok sat undir borði hjá nafna sínum um kveldit, ok hǫfðu þeir skyr ok ost. Snorri goði fann, at nafni hans bargst lítt við ostinn, ok spurði, hví hann mataðist svá seint. Snorri Þorbrandsson svaraði ok sagði, at lǫmbunum væri tregast um átit, fyrst er þau eru nýkefld. Þá þreifaði Snorri goði um kverkrnar á honum ok fann, at ór stóð um þverar kverkrnar ok í tungurǿtrnar. Tók Snorri goði þá spennitǫng ok kippði brott ǫrinni, ok eptir þat mataðist hann.  
 
Traduzione: 
 
Fra i figli di Thorbrand il più in gamba era Snorri; egli sedetta a tavola, quella sera, accanto al suo omonimo; ebbero per pasto latte acido e formaggio. Il godi Snorri rilevò che il suo omonimo mangiava svogliatamente il formaggio, e gli chiese perché si cibasse così lentamente. Snorri, figlio di Thorbrand, rispose dicendo che gli agnelli è difficile mangiare, se hanno un legaccio in bocca. Allora il godi Snorri lo tastò e trovò che una freccia stava confitta in gola fino alla radice della lingua; allora il godi Snorri prese una tenaglia e gli strappò via la freccia: dopo ciò quello prese a mangiare.
 
Per il testo completo della saga in norreno, riporto questo link: 
 
 
Per noi moderni è molto difficile immaginare l'estrema brutalità di quell'ambiente, la durezza di quelle fiere genti. Nel corso dei secoli la produzione di formaggio si è persa in Islanda, a favore di quella dello skyr. Non dobbiamo aspettarci qualcosa di simile al parmigiano, è ovvio. Gli antichi Germani conoscevano soltanto il formaggio a pasta molle, che non doveva avere una sapore eccellente. "Il formaggio era una cosa comune quando la terra fu colonizzata per la prima volta, ma non per molto. Il freddo e i vulcani hanno avuto un ruolo nella storia del formaggio islandese, per quanto assurdo possa sembrare. In una fase fredda, tutta la legna da ardere doveva essere utilizzata per riscaldare le case e non rimaneva nulla per ricavare il sale dall'oceano, fondamentale per la produzione del formaggio. Inoltre, le fasi fredde e le eruzioni vulcaniche non sono particolarmente favorevoli alle mucche." (Eirný Sigurðardóttir, 2017). La produzione casearia è stata reintrodotta negli anni '60 dello scorso secolo. Attualmente gli Islandesi si sono rivelati avidissimi di formaggio. 
 
 
Squali e cetacei 
 
Della cucina dell'epoca della colonizzazione dell'Islanda si conserva ancora ai nostri giorni il cosiddetto "squalo putrefatto", in islandese hákarl (pronuncia moderna /'haukhadl/, pronuncia norrena /'ha:karl/). Si prende una carcassa di squalo elefante (Cetorhinus maximus) o di squalo groenlandese (Somniosus microcephalus), la si eviscera e la si seppellisce in una fossa scavata nella spiaggia, avendo cura di ricoprirla di sabbia in modo tale da favorire i processi anaerobici di fermentazione. Durante i mesi che seguono, l'acido urico e altre sostanze tossiche vengono espulse. Si esuma poi la carcassa, macellandola, tagliando la carne in strisce sottili e sottoponendola ad affumicatura ed essiccazione. A questo punto è pronta per essere consumata.
Ha un odore intenso di ammoniaca, il gusto è quello di formaggio fortissimo tipico della carne putrefatta. Forse per via della somiglianza con i cadaveri, vi sono islandesi che si rifiutano di mangiarne. Il piatto è più che altro una curiosità che attrae i turisti. L'etimologia del ternime hákarl è abbastanza semplice: la parola, nota anche nella forma femminile hákerling, in norreno significava semplicemente "palombo" o "pescecane". Le radici che la compongono sono hár "palombo, pescecane; grigio", e karl "uomo". Del tutto infondata è l'opinione di coloro che attribuiscono alla parola un'origine onomatopeica, facendo credere che hákarl imiti il grugnito di disgusto di chi assaggia quella pietanza cadaverica.
La necessità di questo trattamento è dovuta al fatto che gli squali artici hanno carni tossiche che non possono essere consumate fresche, a differenza degli squali che popolano i nostri mari, che includono invece un gran numero di specie commestibili come il palombo (Mustelus mustelus), lo smeriglio (Lamna nasus), la verdesca (Prionace glauca), il gattuccio (Scyliorhinus canicula) - e persino il pesce martello (famiglia Sphyrnidae), la cui carne è mediocre e spesso spacciata per pesce spada (Xiphias  gladius) nelle mense italiane.
In epoca antica, allo stesso trattamento putrefattivo era sottoposta la carne di balena. Quando una balena si spiaggiava, veniva immediatamente macellata, anche se era già morta. Spesso accorrevano diverse famiglie sul luogo dello spiaggiamento, e ne sorgevano terribili liti per la spartizione della carne, fresca o passata che fosse. Durante questi alterchi ci scappava non di rado il morto e si originavano sanguinose faide che richiedevano l'arbitrato per essere risolte. La carne così bottinata veniva deposta nelle fosse e fatta decomporre in modo controllato, in modo simile a quello ancora usato per lo squalo putrefatto. 
 
Nella Saga dei Fratelli di Sangue (Fóstbrǿðra Saga), capitolo 7, Thorgils Masson e i suoi compagni scoprono che una balena che si è spiaggiata su una terra comune. Thorgeir Havarson e Thormod Bersason lo vengono a sapere a accorrono sul luogo dove Thorgils già sta macellando la carcassa del cetaceo, reclamando il possesso della carne, tutta o in parte. Ne sorge uno scontro furioso: Thorgils viene ucciso e Thorgeir viene bandito per omicidio. Ecco il testo in norreno:   
 
Víg Þorgils Mássonar ok sekð Þorgeirs

Um várit eptir fór Þorgeirr til Ísafjarðar, þangat sem skip þeira stóð uppi. Þar kom ok Þormóðr ok skipverjar þeira. Þeir fara norðr á Strandir, þegar þeim gaf byr.   Þorgils hét maðr, er bjó at Lækjamóti í Víðidal. Hann var mikill maðr ok sterkr, vápnfimr, góðr búþegn. Hann var skyldr Ásmundi Hærulang, fǫður Grettis. Hann var ok skyldr Þorsteini Kuggasyni. Þorgils var Másson. Hann fór ok á Strandir ok var genginn á hval þann, er kom á Almenningar, ok fǫrunautar hans.   Þorgeiri verðr eigi gott til fangs, þar sem hann var kominn. Berr honum engi hvalfǫng í hendr, þar sem hann var kominn, né ǫnnur gǿði.   Nú spyrr hann, hvar Þorgils var á hvalskurðinum, ok fara þeir Þormóðr þangat, ok er þeir kómu þar, þá mælti Þorgeirr: „Þér hafið mikit at gert um hvalskurðinn, ok er þat vænst at láta fleiri af njóta en yðr þessa gagnsmuna. Er hér ǫllum jafnheimolt.“   Þorgils svarar: „Vel er þat mælt. Hafi hverr þat, sem skorit hefir.“   Þorgeirr mælti: „Þér hafið mikinn hluta skorit af hvalnum, ok hafið þér þat, sem nú hafið þér skorit, ok vildum vér annathvárt, at þér gangið af hvalnum ok hafið þér þat, sem þér hafið af skorit, en vér þann hluta, er óskorinn er, eða hvárir at helmingi bæði skorinn ok óskorinn.“   Þorgils svarar: „Lítit er mér um at ganga af hvalnum, en vér erum ráðnir til at láta eigi lausan þann hlut fyrir yðr, er skorinn er, meðan vér megum á halda á hvalnum.“  Þorgeirr mælti: „Þat munuð þér þá reyna verða, hversu lengi þér haldið á hvalnum fyrir oss.“   Þorgils svarar: „Þat er ok vel, at svá sé.“   Nú herklæðast hvárirtveggju ok bjuggust til bardaga, ok er þeir váru búnir, þá mælti Þorgeirr: „Þat er vænst, Þorgils, at vér sǿkimst, því at þú ert fulltíði at aldri ok knáligr ok reyndr at framgǫngu, ok er mér forvitni á at reyna á þér, hverr ek em. Skulu aðrir menn ekki til okkars leiks hlutast.“   Þorgils segir: „Vel líkar mér, at svá sé.“   Mjǫk váru þeir jafnliða. Nú sǿkjast þeir, ok berjast hvárirtveggju. Þeir Þorgeirr ok Þorgils láta skammt hǫggva í milli, því at hvárrtveggi þeira var vápnfimr, en fyrir því at Þorgeirr var þeira meir lagðr til mannskaða, þá fell Þorgils fyrir honum. Í þeim bardaga fellu þrír menn af Þorgils liði. Aðrir þrír fellu af liði þeira Þorgeirs.  Eptir þenna bardaga fóru fǫrunautar Þorgils norðr til heraðs með miklum harmi. Þorgeirr tók upp allan hvalinn, skorinn ok óskorinn. Fyrir víg Þorgils varð Þorgeirr sekr skógarmaðr. Fyrir hans sekð réð Þorsteinn Kuggason ok Ásmundr Hærulangr.   Þeir Þorgeirr ok Þormóðr váru þat sumar á Strǫndum, ok váru þar allir menn hræddir við þá, ok gengu þeir einir yfir allt sem lok yfir akra. Svá segja sumir menn, at Þorgeirr mælti við Þormóð, þá er þeir váru í ofsa sínum sem mestum: „Hvar veiztu nú aðra tvá menn okkr jafna í hvatleika ok karlmennsku, þá er jafnmjǫk sé reyndir í mǫrgum mannraunum, sem vit erum?“   Þormóðr svarar: „Finnast munu þeir menn, ef at er leitat, er eigi eru minni kappar en vit erum.“   Þorgeirr mælti: „Hvat ætlar þú, hvárr okkarr myndi af ǫðrum bera, ef vit reyndim með okkr?“ 
Þormóðr svarar: „Þat veit ek eigi, en hitt veit ek, at sjá spurning þín mun skilja okkra samvistu ok fǫruneyti, svá at vit munum eigi lǫngum ásamt vera.“   Þorgeirr segir: „Ekki var mér þetta alhugat, at ek vilda, at vit reyndim með okkr harðfengi.“   Þormóðr mælti: „Í hug kom þér, meðan þú mæltir, ok munum vit skilja félagit.“   Þeir gerðu svá, ok hefir Þorgeirr skip, en Þormóðr lausafé meira ok ferr á Laugaból, en Þorgeirr hafðist við á Strǫndum um sumarit ok var mǫrgum manni andvaragestr. Um haustit setti hann upp skip sitt norðr á Strǫndum ok bjó um ok stafaði fyrir fé sínu. Síðan fór hann á Reykjahóla til Þorgils ok var þar um vetrinn. Þormóðr víkr á nǫkkut í Þorgeirsdrápu á misþokka þeira í þessu erendi:

   Frétt hefr ǫld, at áttum,
   undlinns, þás svik vinna,
   rjóðanda nautk ráða,
   rógsmenn saman gnóga.
   Enn vilk einskis minnask
   ǿsidýrs við stýri,
   raun gatk fyrða fjóna,
   flóðs nema okkars góða. 

 
Traduzione:  
 
Omicidio di Thorgils Masson e colpa di Thorgeir

La primavera successiva Thorgeir si recò a Isafjörd, dove era stata allestita la loro nave. Vennero anche Thormod e il loro equipaggio. Si dirigono a nord verso Strandir, non appena c'è un vento favorevole.  C'era un uomo chiamato Thorgils che viveva a Lækjamot nel Videdal. Era un uomo grande e forte, armato, un buon agricoltore. Era imparentato con Asmund Hærulang, il padre di Gretti. Era anche imparentato con Thorstein Kuggason. Thorgils era figlio di Mar. Andò anche a Strandir e lui e i suoi compagni si misero all'assalto di una che si era spiaggiata ad Almenningar. Thorgeir non ha avuto fortuna con la caccia nel luogo in cui si trovava. Non ha preso né balene né altre prede lì. Ora scopre che Thorgils sta per squarciare una balena, e lui e Tormod vanno lì. Quando arrivano, Thorgeir dice: "Sei stato impegnato a scuoiare la balena, ma era giusto lasciare più di quanto tu beneficiassi di questa utile cosa. Abbiamo tutti uguale accesso qui.'' Thorgils risponde: "È stato detto. Ciascuno di noi conserva ciò che ha scuoiato." Thorgeir disse: "Hai scuoiato gran parte della balena. Ora vogliamo che tu lasci la balena e tieni ciò che hai scuoiato, mentre noi prendiamo la parte che non è scuoiata, oppure ognuno di noi otterrà metà dello scuoiato e ciò che non è scuoiato. Thorgils rispose: "Non sono molto favorevole a lasciare la balena, e siamo determinati a non lasciare a te la parte che è stata scuoiata, finché possiamo difendere la balena". Thorgeir disse: "Allora devi dimostrare per quanto tempo puoi difendere la balena contro di noi." Thorgils risponde: "Va benissimo se deve esserlo." Ora entrambe le parti si armarono e si prepararono alla battaglia. E quando furono pronti, Thorgeir disse: "È molto ragionevole - Thorgils! - che noi due andiamo l'uno contro l'altro, perché tu sei un uomo adulto, forte e provato in battaglia, e vorrei cimentarmi con te ― e gli altri non devono prendere parte alla nostra faccenda." Thorgils dice: "Mi va bene così." Le due parti erano quasi ugualmente forti, e ora si stanno rivoltando l'una contro l'altra e stanno combattendo. Thorgeir e Thorgils non lasciarono passare molto tempo tra i tagli, perché erano entrambi abili con le armi, ma poiché Thorgeir era più adatto a ferire gli altri, Thorgils cadde per mano sua. In questa disputa caddero tre uomini della banda di Thorgils. Altri tre caddero nel gruppo di Thorgeir e Thormod. Dopo questa battaglia, i compagni di Thorgils andarono a nord e tornarono a casa dalla signoria con grande dolore. Thorgeir si impossessò dell'intera balena, scuoiata e non scuoiata. Thorgeir fu condannato al bando per l'omicidio di Thorgils. Furono Thorstein Kuggason e Åsmund Hærulang a farlo condannare. Thorgeir e Thormod trascorsero quell'estate a Strandir, e spaventarono tutta la gente del posto, e arrivarono ovunque come erbacce nei campi. Alcuni dicono che Thorgeir, quando la loro ferocia era al culmine, disse a Thormod: "Ora dove hai visto altri due uomini che erano forti e coraggiosi come noi, e che sono stati provati in battaglia allo stesso modo come noi?" Thormod risponde: "Se li cerchi, probabilmente ne troverai alcuni che non sono meno guerrieri di noi." Thorgeir disse: "Chi di noi pensi che vincerebbe se ci mettessimo l'uno contro l'altro?" Thormod risponde: "Non lo so, ma so d'altra parte che la tua domanda metterà fine alla nostra unione e comunità, in modo che non possiamo più essere seguiti." Thorgeir dice: "Non intendevo sul serio che dovremmo metterci alla prova l'uno con l'altro." Thormod disse: "Ci hai pensato da quando l'hai detto, e ora dobbiamo sciogliere la nostra compagnia". Così hanno fatto, e Thorgeir tiene una nave, mentre Thormod tiene più beni mobili e va a Laugabol. Ma Thorgeir ha trascorso l'estate a Strandir ed è stato un gradito ospite per molte persone. In autunno salpò la sua nave a nord di Strandir, visse lì e si prese cura dei suoi soldi. Poi andò a Reykjahola da Thorgils e vi rimase per l'inverno. Nell'assassinio di Thorgeir, Thormod allude in qualche modo al loro dispiacere in questa strofa: 
 
  Le notizie circolano da un secolo,
  accidenti, allora barare è un lavoro,
  mi sono divertito a governare
  abbastanza calunniatori insieme. 
  Ancora non voglio ricordare
  un animale eccitato contro il timone,
  davvero ho ottenuto l'odio degli uomini,
  per aver preso dalla marea il nostro bene. 
 
Per il testo completo della saga in norreno, riporto questo link:  

https://heimskringla.no/wiki/
Fóstbræðra_saga

 
Le saghe islandesi sono un inestimabile patrimonio di dati il cui studio accurato ci permette di conoscere in dettaglio la vita degli isolani. Purtroppo al di fuori del loro luogo d'origine non sembrano ottenere la considerazione che meriterebbero. Nella Eyrbyggja saga si specifica che in seguito all'introduzione del Cristianesimo, in Islanda non si digiunava. Non è difficile capire che pinnipedi e cetacei, per il solo fatto di vivere in ambiente acquatico, erano a tutti gli effetti considerati "pesci". Nel 1481, Papa Sisto IV confermò questa interpretazione, scrivendo un'apposita lettera al Vescovo di Skálholt, Magnús Eyjólfsson.   

Il bestiame islandese  

I coloni giunti dalla Norvegia in più ondate portarono con sé il loro bestiame: bovini, pecore, capre, cavalli, maiali, galline e oche. Nei primi tempi della colonia, i porci venivano lasciati liberi di grufolare nei boschi. Poi, quando fu chiaro che il bestiame suino produceva l'erosione del terreno, aggravata dalla deforestazione, il suo allevamento fu vietato per legge (Diamond, 2005). La stessa sorte del porco colpì anche il bestiame caprino, che pure aveva avuto un certo successo. Nonostante sussistano tuttora diversi toponimi correlati alla capra, questa finì con l'estinguersi. Prosperarono soltanto i bovini, principale e irrinunciabile fonte di latte, e gli ovini, che fornivano lana e carne. In una terra tanto isolata, la genetica degli animali domestici si è evoluta in modo molto peculiare rispetto ai loro simili del Nord Europa, soprattutto a causa della mancanza di incroci nel corso del secoli. Ad esempio, il latte delle vacche islandesi è molto più ricco di grassi rispetto agli altri paesi. 
 
Metodi di cottura delle carni 

I metodi di cottura erano arcaici, di certo ereditati dall'epoca antecedente alla divisione dei vari popoli germanici dalla loro matrice comune. Comune a tutti i Germani era l'arrosto, che consideva nell'infilzare la carne su uno spiedo, facendola cuocere a fuoco lento e sfruttando il grasso colante. In Norvegia l'arrosto era tipico delle classi elevate, ma in Islanda non sembra essere stato molto diffuso, anche per la mancanza di selvaggina adatta (ad esempio non c'erano cervi, cinghiali e orsi bruni). Un modo più comune quanto singolare per cuocere la carne consisteva nello scavare una buca, rivestirla di legna, riempirla d'acqua, poi fatta bollire tramite pietre incandescenti. Man mano che la cottura procedeva, se necessario potevano essere aggiunte altre pietre roventi. Nell'acqua erano messe a bollire erbe e spezie. Questo sistema arcaico era un tempo usato in tutta la Scandinavia pagana per preparare le carni delle vittime sacrificali durante il sacrificio, detto blót in norreno (genitivo blóts; plurale blót). Non è improbabile che la sua origine fosse addirittura anteriore all'adozione di una lingua indoeuropea da parte degli antenati dei Germani. Si noterà che i pastori baschi della Biscaglia, tra i gruppi più arcaici d'Europa, usavano questo sistema per far bollire il latte fino a tempi recenti e forse lo usano tuttora. Finché durarono i costumi pagani, i blót erano un'occasione per mangiare carne fresca, non lavorata. In seguito all'adozione del Cristianesimo, il consumo di carne fresca divenne molto raro: in genere si mangiava un montone o un agnello in occasione del Natale. 
Che dire dell'orso polare (Ursus maritimus)? Non sarebbe stato conveniente arrostirlo e banchettare con le sue carni? Ai tempi della colonizzazione l'orso polare scendeva raramente fino in Islanda: gli avvistamenti riportati sono pochissimi. Non era considerato commestibile. Probabilmente i primi Vichinghi che provarono a mangiarne uno finirono intossicati in modo gravissimo per via del fegato molto velenoso, pieno zeppo di vitamina A e in grado di uccidere facilmente. Gli Inuit sanno bene che non bisogna mangiare il fegato dell'animale, ma questa conoscenza non dovette essere compresa dai coloni.   
 
La carne di cavallo 
 
Quando l'Islanda adottò per legge il Cristianesimo, furono per qualche tempo conservate alcune reliquie pagane: il culto degli Dei in forma privata, l'esposizione infantile e il consumo di carne equina. In quella terra erano molto comuni i sacrifici di cavalli, finché fu in vigore il Costume Antico. Le carni dei nobili animali immolati venivano poi consumate nel corso dei banchetti dedicati alle divinità. Per contro, il Cristianesimo aborriva questi costumi e nutriva una forte avversione per la carne equina come cibo. Stando ai seguaci della nuova fede, tutta quella succulenta abbondanza sarebbe dovuta finire ai vermi, nella terra molle. Una quindicina di anni dopo l'adozione del Cristianesimo in Islanda, il fanatico Re Olaf II di Norvegia (995 - 1030) si interessò all'Isola dei Ghiacci e alla sua popolazione sofferente: volle sapere come la religione cristiana vi fosse osservata. Fu allora riferito al sovrano norvegese che nel frattempo tutti i resti della religione pagana erano stati aboliti in Islanda, compreso il consumo di carne di cavallo. Il Re Olaf ne fu molto rallegrato. Non va dimenticato che tra le inique leggi da lui emanate ve ne era una che vietava di mangiare la carne equina, comminando ai trasgressori la pena di morte. Gli Islandesi erano coraggiosissimi quando si trattava di impugnare le armi in faide e liti private, ma avvizzivano alla sola idea di affrontare i sovrani di Norvegia e le loro armate. Temevano oltre ogni misura l'interruzione dei traffici commerciali, da cui dipendeva l'esistenza stessa della colonia in un territorio tanto povero di risorse naturali. Sono comunque dell'avviso che avrebbero benissimo potuto resistere nella religione di Thor, evitando così di essere incatenati da quella di Cristo: invece cedettero per una serie di eventi sfavorevoli, perché non era giunta loro la voce della morte del Re Olaf Tryggvason, avvenuta proprio nell'anno 1000. Secondo alcuni era imminente una terribile guerra civile tra la fazione cristiana e quella pagana, e non ho ragione di dubitarlo. Un bagno di sangue sembrava imminente. Forse gli adoratori degli Dei avrebbero potuto farsi onore nella pugna e resistere anche al Re Olaf II, il figlio di Harald, e per giunta con grande facilità, permanendo nei costumi degli Avi. Tuttavia sul lungo periodo la sorte sarebbe stata per loro funesta, anche a causa del peggioramento del clima, che li avrebbe condannati a morire di fame senza aiuti esterni.     
 
Carni e uova di uccelli marini 

Un contributo molto importante al sostentamento delle genti dell'Islanda veniva da altri cibi che noi riterremmo abominevoli: gli uccelli marini e le loro uova.
L'abbondanza di gabbiani e delle loro uova in un luogo giustificò spesso l'insediamento di coloni, attratti dalla disponibilità di cibo. Venivano mangiati uccelli marini di ogni tipo, compresa la pulcinella di mare (Fratercula arctica). Ancora oggi il cuore della pulcinella di mare è ritenuto una ghiottoneria.   
Nel XIX secolo, i coloni stanziati nelle isole Vestmann avevano come unico cibo disponibile i salumi di uccelli marini, e a causa dell'insalubrità di una simile alimentazione le loro donne davano spesso alla luce bambini colpiti da tetano neonatale. Il nesso tra consumo di tale carne e la terribile malattia dei neonati è dimostrato dall'analisi di un'altra popolazione che aveva una dieta simile, quella dell'isola di Saint Kilda (gaelico Hiort). Tempo fa ho riportato un importante documento su questo tema, tradotto in italiano (forse per la prima volta), in un mio contributo intitolato Sulle malattie degli Islandesi. Questo è il link: 
 
 
Con mia grande sorpresa ho appreso che le uova del gabbiano comune (Chroicocephalus ridibundus), detto anche gabbiano dalla testa nera, sono tuttora molto ricercate in Inghilterra, dove costano di più di quelle di gallina per via della loro scarsità e delle notevoli difficoltà di raccolta, che dura soltanto 3 o 4 settimane ogni anno. Un singolo uovo di gabbiano può arrivare a costare fino a 8 sterline: è uno dei più dispendiosi ingredienti usati dagli chef britannici nelle loro preparazioni culinarie. È ritenuto un cibo di lusso. Senza dubbio l'uso alimentare che gli Inglesi fanno delle uova di questi volatili è un costume ereditato dai Vichinghi. Sono riuscito a trovare nel Web un blog che riporta informazioni molto interessanti. Questo è il link:
 
 
Cereali, polente e pane
 
I cibi più popolari nell'antica Islanda erano grossolani pastoni di cereali, specie di polente fatte di orzo o di avena. In norreno il nome di questo cibo è grautr (genitivo grautar; senza plurale). Nel dizionario di Zoëga la glossa inglese è "porridge". Scovazzi ha usato traduzioni più fantasiose, come "polenta di aveva" e "tritello d'orzo". Questo è un testo in norreno che menziona la pastosa preparazione (Eyrbyggja saga, capitolo 39):
 
Þeir fengu hǿgja útivist ok kómu við Hǫrðaland ok tóku þar útsker eitt. Þeir bjuggu þar mat sinn á landi. Þorleifr kimbi hlaut búðarvǫrð, ok skyldi gera graut. Arnbjǫrn var á landi, ok gerði sér graut; hafði hann búðarketil þann, er Þorleifr skyldi hafa síðan. Gekk Þorleifr á land upp, ok bað Arnbjǫrn fá sér ketil inn, en hann hafði þá enn eigi gerðan sinn graut, ok hrǿrði enn þá í katlinum, ok stóð Þorleifr yfir honum uppi. Þá kǫlluðu Austmenn af skipinu utan, at Þorleifr skyldi mat búa, sǫgðu hann mjǫk íslenzkan, ok kváðu hann slikt hafa fyritómlæti sitt. Þá varð Þorleifi skapfátt, ok tók ketilinn, en steypti niðr grautinum Arnbjarnar; sneri á brott síðan. Arnbjǫrn hélt á þvǫrunni, ok laust með henni til Þorleifs, ok kom á hálsinn; þat var litit hǫgg, en með þvi at grautrinn var heitr, þá brann Þorleifr á hálsinum.
 
Traduzione:
 
Ebbero una navigazione favorevole, giunsero a Hördaland e approdarono in un'isola rocciosa. Essi prepararono a terra il loro pasto. Thorleif Kimbi fu sorteggiato a cuocere le vivande, e doveva preparare una polenta d'avena. Arnbjörn stava a terra e si preparava il suo orzo tritato egli aveva la casseruola, che avrebbe poi dovuto adoperare Thorleif. Questi allora andò a terra e pregò Arnbjörn di dargli la casseruola, ma quello non aveva terminato il suo tritello e mescolava ancora nella casseruola: Thorleif stava presso di lui. Allora i Norvegesi gridarono dalla nave che Thorleif doveva preparare il pasto, e dissero che doveva essere proprio un Islandese, data la sua lentezza. Allora Thorleif si scatenò, afferrò la casseruola, buttò via il tritello di Arnbjörn e se n'andò via. Arnbjörn gli stava dietro e impugnava il mestolo: con questo colpì Thorleif e lo raggiunse al collo: fu una ferita leggera, ma per il fatto che il tritello era caldo, bruciò Thorleif al collo. 
 
Il cereale più coltivato dagli Islandesi ai tempi della colonizzazione era l'orzo. Anzi, era quasi l'unico. Il suo nome norreno è bygg. L'avena doveva essere scarsa, mentre è certo che la segale e il frumento erano merci d'importazione, non potendo crescere sull'isola. Il pane di frumento era molto costoso, quindi potevano permetterselo soltanto persone particolarmente benestanti; lo stesso impasto serviva anche per produrre le ostie usate dai preti per la celebrazione dell'Eucarestia. Con ogni probabilità la panificazione avveniva senza lievito. Erano prodotti tre tipi di pane: una focaccia sottile cotta sulle braci o su pietre roventi, un pane grossolano e pesante seppellito nella cenere, focacce di grano fini cotte in padella. Si è scoperto che era utilizzato anche un cereale selvatico in grado di crescere persino negli ambienti più estremi: l'orzo delle sabbie (Elymus arenarius), come dimostrato da Lisa Carlson Griffin e da Ralph M. Rowlett nel loro lavoro A lost "Viking" cereal grain (1981).  
Il clima divenne sempre più rigido e nel corso del XV secolo la coltivazione dell'orzo divenne impossibile. Una conseguenza gravissima fu la completa scomparsa di quello che un simpatico fratacchione considerava un modo divino di consumare i cereali: la birra! L'allegra bevanda fu sostituita dal siero acido chiamato sýra allungato con acqua, che però non era alcolico. La carestia fu la norma in quei tempi terribili, in cui moltissime persone si ischeletrirono e morirono di fame senza aver mai conosciuto una gioia.
Nel tardo Medioevo la mancanza di cereali e la conseguente assenza di pane nella dieta, divennero così evidenti che la maggior parte dei visitatori stranieri ne erano stupefatti e ne facevano menzione nei loro scritti. Una diceria comune voleva che i contadini islandesi avrebbero permesso volentieri a chiunque potesse fornire loro un pezzo di pane di dormire con le loro figlie, in cambio di questa rara ghiottoneria.
Nel 1492 il navigatore e cartografo tedesco Martin Behaim (Norimberga, 1459 - Lisbona, 1507) scrisse che in Islanda si trovavano uomini di ottant'anni che non avevano mai assaggiato il pane, alimento che era sostituito dal pesce. Il pane e burro che tanto piaceva ai Vichinghi aveva lasciato da tempo il passo al pesce imburrato. Non dobbiamo mai dimenticare che quella comunità isolata rischiò concretamente di soccombere, come è accaduto alle genti della Groenlandia.  
 
Assenza di alberi da frutto 
 
Quando i coloni giunsero in Islanda, non vi trovarono alcuna specie di albero da frutto. L'unica specie arborea era la betulla (Betula pubescens). Gli alberi furono abbattuti a ritmo serrato, finché non rimase ben poco delle antiche foreste: la terra fu quasi completamente decalvata. Non si trovava nessuno degli alberi proficui presenti in Norvegia. Non c'erano i meli, donatori delle piccole mele nordiche. Non erano certo le mele dorate e grosse che si diceva crescessero ad Asgard, ma di certo sarebbero state di aiuto. Non si riusciva a trovare neppure l'ombra di una noce, di una nocciola o di una ghianda.  
Provate a immaginarvi, se ci riuscite, un paese in cui il nome stesso della mela è soltanto una reminiscenza letteraria. Non sarebbe un'impresa facile! 
Le uniche risorse in quanto a frutta erano le bacche selvatice, tra cui il mirtillo nero (Vaccinium myrtillus) e il mirtillo blu (Vaccinium uliginosum). Molto comune era l'empetro nero (Empetrum nigrum), la cui bacca ha un gusto molto aspro e che era considerata una leccornia. Era presente anche l'uva ursina (Arctostaphylos uva-ursi), anch'essa abbastanza sgradevole al palato. Le bacche erano spesso aggiunte allo skyr.   
Uno sviluppo peculiare e inatteso della gastronomia dell'antica Islanda è l'uso di un'alga rossa (Palmaria palmata) che non era consumata in Norvegia. Il suo nome norreno è sǫl (genitivo plurale sǫlva). In inglese quest'alga è chiamata dulse (varianti: dillisk, dilsk), termine che deriva dall'irlandese duileasc, a sua volta dall'antico irlandese duilesc (protoceltico *doliskos, dalla stessa radice di *doliā "foglia"). Quesa innovazione è stata senza dubbio importata dall'elementi irlandese, che tanta parte ha avuto nella formazione del popolo dell'Isola dei Ghiacci.    
Dalla combustione dell'alga rossa si ottenevano esigue quantità di sale. Era il cosiddetto "sale nero", pieno zeppo di sporcizia e di ceneri, ma sempre meglio di niente.
 
Assenza di api e scarsità di miele 
 
In Islanda il clima era tanto rigido che l'ape domestica (Apis mellifica) non vi attecchiva: anche nei periodi storici di maggior mitezza climatica, gli inverni duravano comunque più a lungo di quanto l'utile imenottero riuscisse a sopportare. Una drammatica conseguenza di questo fatto è stata fin da subito la necessità di importare il miele dalla Norvegia. Al giorno d'oggi il miele è un alimento abbastanza marginale nell'alimentazione umana ed esistono altre sostanze dolcificanti più diffuse; tra tutti i Germani antichi l'uso principale del miele era però la produzione della più nobile bevanda alcolica: l'idromele. Il nome norreno dell'idromele è mjǫðr (genitivo mjaðar, dativo miði). In Islanda alligna una specie nativa di bombo (Bombus jonellus), ma non è in grado di produrre un miele utilizzabile, essendo assai scarsa la sua quantità e di difficile raccolta. Altre specie di bombi attualmente presenti (Bombus hortorum e Bombus lucorum) sono con ogni probabilità di introduzione recente. Sappiamo che gli Islandesi non si rassegnarono tanto facilmente alla mancanza di idromele e che persino in Groenlandia venivano importati favi di miele dalla Norvegia, ancora in epoca tarda (Diamond, 2005). In ogni caso, la bevanda finì con lo scomparire e finì con l'essere soltanto una nozione letteraria, come una grande quantità di altre cose preziose, che pure un tempo erano state comuni. Si capirà che in assenza di idromele e di birra, a un certo punto persino ubriacarsi doveva essere un'impresa disperata!    
Dopo secoli di carenza di miele in Islanda, ecco che l'apicoltura è stata finalmente introdotta con successo negli anni '60 del XX secolo da un volenteroso apicoltore norvegese Torbjørn Andersen, che possiede 20 arnie e produce ogni anno fino a 200 chili di miele. Il prodotto costa circa 100 euro al chilo. Produrre 5 litri di idromele con questo miele verrebbe a costarmi circa 200 euro, trascurando il costo dell'acqua naturale e del lievito. Decisamente troppo. In tutto, ogni anno sono prodotte in Islanda da 1 a 2 tonnellate di miele.  
 
https://www.vitaminabee.it/
apicoltura-islandese/ 
 
Il vino 
 
Naturalmente in Islanda non è mai attecchita la vite e non si è mai avuta una produzione vinicola locale. Tuttavia l'affermarsi del Cristianesimo rese necessaria l'importazione del vino, anche se a prezzi esorbitanti, perché era imprescindibile il suo uso per la celebrazione dell'Eucarestia: infatti non può essere sostituito da bevande inebrianti non ottenute dall'uva. Sappiamo che il vino veniva importato persino nella remota colonia della Groenlandia, con difficoltà anche maggiori (Diamond, 2005). Ci dovevano essere periodi in cui il vino non giungeva a destinazione. Nella sede vescovile islandese di Skálhot si produceva una bevanda ottenuta dalle bacche selvatiche dell'empetro nero: evidentemente veniva mescolata allo scarso vino disponibile o forse lo sostituiva, essendo considerata "vino" grazie a una dispensa papale. C'è anche un'altra possibile spiegazione. Sappiamo bene che i vescovi erano furbi come volpi e voraci come lupi. Forse uno di loro ha cominciato a spacciare per vino d'uva il prodotto dell'empetro nero ai parrocchiani ingenui. Senza dubbio per dir messa ne serviva ben poco, il resto era ingurgitato dai principi della Chiesa di Roma! Ancora oggi una simile bevanda è prodotta di uno dei pochi vinificatori d'Islanda (forse l'unico), Ómar Gunnarsson: il suo marchio commerciale è Kvöldsól, alla lettera "Sole della Sera". Si tratta con ogni probabilità di una reintroduzione recente anziché della diretta continuazione della bevanda che si produceva a Skálholt.
 
Una cucina fatta di mancanze  

Concludo riportando queste significative osservazioni: 
 
"È ovvio che la cucina islandese di tutti i giorni, fin dai tempi più antichi, differiva in molti modi dalla contemporanea cucina nordeuropea, e penso che si possa dire con certezza che ciò non riflette il cambiamento dei gusti. Ci sono indicazioni che i coloni abbiano cercato di continuare a fare le cose come avevano sempre fatto, ma sono stati costretti, rapidamente o gradualmente, ad adattarsi a un ambiente più duro. La cucina islandese è stata per quasi mille anni una cucina di mancanze: mancanza di grano, mancanza di prodotti freschi, mancanza di sale, mancanza di combustibile, persino mancanza di recipienti e utensili da cucina. Il popolo islandese ha dovuto pagare un certo prezzo per aver scelto di vivere in un luogo più a nord della vita stessa, ma si è adattato al proprio ambiente ed è riuscito a sopravvivere per mille anni con quello che aveva." 
(Nanna Rögnvaldardóttir, 2021). 
 
Questo è il link a una pagina di estremo interesse, della stessa autrice: 
 

venerdì 14 maggio 2021

LA SPIEGAZIONE BIOLOGICA DEL CICISBEISMO: UN FENOMENO DI PARASSITISMO PROCREATIVO

Può sembrare incredibile a dirsi, eppure si ravvisano somiglianze impressionanti tra il modo di agire del cicisbeo del XVIII secolo e quello del cuculo (Cuculus canorus, Linnaeus 1758), un uccello obbligato al parassitismo procreativo, come ciascuno ben sa. Il cuculo sembra un grosso piccione strabico dal piumaggio ventrale striato. La sua parentela genetica più prossima è però con i pappagalli. 
 
 
L'attenta osservazione dell'azione parassitaria del cuculo ha portato ad alcune conclusioni sorprendenti, che fino a un passato recente non erano affatto scontate. Eccole, in estrema sintesi: 
 
1) Non è vero che la femmina del cuculo abbandona le uova nel nido altrui e fugge via: resta nascosta nei paraggi a sorvegliare che tutto proceda per il meglio, mettendo in atto tattiche mafiose di intimidazione qualora questo non avvenga; 
2) Non è vero che gli uccelli parassitati dal cuculo non si accorgono della natura dell'intruso loro affibbiato: lo nutrono per paura e subiscono terribili rappresaglie qualora cerchino di espellerlo dal loro nido. 
3) Non è un mistero come il giovane cuculo possa apprendere il suo caratteristico verso ("gukkù! gukkù! gukkù!"), perché la madre non si allontana mai davvero da lui fino a che non è diventato indipendente: il nidiaceo ha così tempo e modo di udire il verso di cuculi adulti e di impararlo. A emettere il richiamo è soltanto il maschio. Tuttavia è incontestabile che dove c'è una femmina, lì i maschi si aggirano infallibilmente.
 
Ovviamente riesce difficile fare paragoni tra un volatile e un essere umano, tuttavia mi arrischio a tentare l'impresa. Il cavalier servente riusciva nella sua opera di seduzione e deponeva lo sperma nel ventre della dama. Così facendo trasmetteva il proprio patrimonio genetico e impediva la trasmissione di quello del legittimo consorte. Stando sempre appiccicato alla sua Signora, non permetteva al di lei marito di accedere all'intimità coniugale. Se un uomo amava davvero sua moglie (cosa rara ma non impossibile), si ritrovava in casa il proverbiale terzo incomodo, cosa che di fatto vanificava l'essenza del matrimonio e ne lasciava intatta unicamente l'apparenza. 
 
 
Mater semper certa, pater nunquam. In questi casi cicisbeali si poteva avere qualche certezza sul padre, che però non era quello legittimo. Oggi le cose vanno diversamente: quando si vede un pargolo, la gente attribuisce senza indugio la sua origine "a mamma e a papà". L'ipocrisia borghese fa sì che queste stupidissime parole lallatorie, mamma e papà, siano usate persino quando un figlio è adottivo e non ha geni ereditati da chi lo cresce. All'epoca di cui stiamo trattando i percorsi erano più tortuosi, perché intervenivano le corna! Sono convinto dell'utilità di certi esercizi speculativi, così mi accingo ad arrischiarne uno - anche se ovviamente non ho a disposizioni moderni strumenti di analisi del DNA estratto da resti umani. Ecco una rudimentale analisi genetica dell'autore de I promessi sposi
 
Alessandro Manzoni (1785 - 1873)
1) parte materna: 
50% del corredo genetico da Giulia Beccaria;
2) parte paterna:
50% del corredo genetico da Giovanni Verri;
3) risultato del parassitismo procreativo:
0% del corredo genetico da don Pietro Manzoni.  

Stando al suo genoma, l'artefice della lingua che tuttora parliano quotidianamente era dunque era un Verri-Beccaria, non un Manzoni-Beccaria. Questi non sono pettegolezzi di male lingue, come spesso li liquidano gli accademici. Sono fatti incontrovertibili. Così scriveva Niccolò Tommaseo sul Manzoni: 

"Anco di Pietro Verri ragiona con riverenza, tanto più ch'egli sa, e sua madre non glielo dissimulava, d'essere nepote di lui, cioè figliuolo d'un suo fratello, cavaliere di Malta."
(Colloquii col Manzoni, pubblicati per la prima volta e annotati da Teresa Lodi nel 1928) 
      
Piero Angela direbbe che tutto questo è più che positivo, perché è una strategia riproduttiva che favorisce la trasmissione dei geni dei più adatti, facendo soccombere e disperdere nel Nulla coloro che la Natura ha sentenziato, definendoli "rami secchi". In fondo credo che la fortuna di poter adorare una Signora non l'avrò mai: solo e dannato, mi avvio verso la Morte Ontologica. Credo che anche Richard Dawkins concordebbe appieno con queste conclusioni, data la sua fissazione ossessiva sul gene egoista, con tutte le conseguenze che ne derivano. Qualcuno può forse confutare quanto ho esposto? 

venerdì 7 maggio 2021

ETIMOLOGIA DI PINGUINO

Molti anni fa mi imbattei in un robusto e giovane bergamasco che sosteneva a spada tratta l'origine della parola pinguino dall'aggettivo pingue, sinonimo dotto di "grasso", "abbondante". Questa ingenua spiegazione costituiva per lui un dogma. "I pinguini si chiamano così perché sono pingui, pòta!", continuava a ripetere. Se provavo ad esporre i miei dubbi, ripeteva la frase tal quale, ma la caratteristica interiezione "pòta!" diventava un più violento "òstia!". Era permalosissimo e non voleva sentire ragioni. Ovviamente quella da lui escogitata è una falsa etimologia, come sempre accade ogni volta che una persona cerca di spiegare Omero con Omero. Essendo quel bergamasco collerico e attaccabrighe, mi astenni dall'insistere e dall'enunciare ulteriori critiche. In casi simili, lasciar cadere il discorso è sempre la strategia migliore. Purtroppo ho potuto constatare che ci sono stati e ci sono tuttora dotti sostenitori della derivazione di pinguino da pingue, come se fosse una parola italiana tratta in qualche modo dal latino dei letterati. In realtà l'italiano pinguino viene dal francese pingouin, a sua volta preso a prestito dall'inglese penguin (secondo altri dall'olandese pinguin). Il medico e naturalista inglese John Latham (1740 - 1837) fu il primo a difendere espressamente l'origine di penguin dal latino pinguis (1785). La latinizzazione forzata di ciò che appariva inspiegabile era una strategia molto ben considerata e prestigiosa nei secoli passati - anche quando non conduceva a risultati plausibili. 
 
 
Il pinguino e l'alca impenne 
 
Lo strano ornitonimo pinguino diventa immediatamente analizzabile quando si considera la sua vera origine dal bretone pennguenn, il cui significato letterale è "testa bianca" (penn "testa", guenn "bianco"). Anche in gallese si ha pen gwyn "testa bianca" (pen "testa", gwyn "bianco"). Mi sembra un'etimologia molto ragionevole, eppure non ha convinto tutti gli studiosi. La questione è tuttora molto dibattuta, credo per motivi semantici che ora analizzeremo. A questo punto molti si saranno posti una domanda. Perché il pinguino dovrebbe chiamarsi "testa bianca" se ha la testa nera? Perché avrebbe un nome celtico se vive in Antartide? Semplice: in origine la parola "pinguino" designava un uccello diverso da quello che conosciamo con questo nome. Si tratta dell'alca impenne (Pinguinus impennis), un uccello inabile al volo ed estinto verso la metà del XIX secolo, che viveva nelle regioni artiche e che aveva una grande macchia bianca sulla testa. I pinguini dell'Antartide appartengono a una famiglia completamente diversa, denominata Sfeniscidi (Spheniscidae, Bonaparte 1831). Gli esploratori europei notarono subito la somiglianza che i pinguini dell'emisfero australe avevano con l'alca impenne e lo designarono così col suo nome, senza curarsi affatto dei problemi tassonomici. L'alca impenne può essere definita pinguino boreale, in opposizione al pinguino australe della famiglia degli Sfeniscidi. 
 
Un tentativo di ricostruzione 
 
La forma gallica e britannica ricostruibile a partire da questi dati è senza dubbio *pennon windon "testa bianca", da *pennon "testa" e da *windon, forma neutra di *windos "bianco". Almeno nella lingua di una parte dei Celti sarebbe stata chiamata l'alca impenne ai tempi di Vercingetorige e di Cesare. La forma ibernica ricostruibile per "testa bianca" è *kwennon windon, ma non si trova nelle lingue goideliche alcuna denominazione simile dell'alca impenne. Dovrebbe essere *ceann find. In irlandese moderno l'uccello è chiamato falcóg mhór, ossia "grande uccello marino". Il termine falcóg bheag, ossia "piccolo uccello marino" indica invece la gazza marina (Alca torda, Linnaeus 1758), che tra l'altro è la specie vivente più vicina geneticamente all'alca impenne. Sembra che falcóg sia un prestito dal norreno alka (vedi nel seguito) con l'aggiunta del tipico suffisso -óg, anche se la consonante iniziale f- è al momento poco chiara. Forse questa denominazione medievale ha sostituito un precedente *ceann find.
 
Riscontri su alcuni dizionari  
 
Il vocabolario Treccani (www.treccani.it) riporta quanto segue, senza citare i dati dalle lingue celtiche (l'appartenenza dell'istituzione al filone dei romanisti è notoria): 
 
 
pinguino s. m. [dal fr. pingouin, e questo dall’oland. pinguin, di origine oscura]
 
Fustigo e stigmatizzo questo atteggiamento di negazione di tutto ciò che è al di fuori di un dizionario di latino ad uso delle scuole superiori. Quell'assurda etichetta "di etimologia oscura" è pensata apposta per negare l'esistenza di interi mondi. Va comunque riportato il fatto che in tedesco il pinguino era un tempo chiamato Fettgans, ossia "oca grassa". In olandese è stato formato il calco vetgans /ˈvɛt.xɑns/, di identico significato. Potrebbe trattarsi del calco di una falsa etimologia, a dimostrazione di quanto siano complessi questi percorsi. 

Questo è quanto riporta il dizionario etimologico Etymonline:  
 

penguin (n.)

1570s, originally used of the great auk of Newfoundland (now extinct; the last two known birds were killed in 1844); the shift in meaning to the Antarctic swimming bird (which looks something like it, observed by Drake in Magellan's Straits in 1578) is from 1580s. The word itself is of unknown origin, though it often is asserted to be from Welsh pen "head" (see pen-) + gwyn "white" (see Gwendolyn). The great auk had a large white patch between its bill and eye. The French and Breton versions of the word ultimately are from English. A similarity to Latin pinguis "fat (adj.), juicy," figuratively "dull, gross, heavy," has been noted.
 
Traduzione: 
 
Anni '70 del Cinquecento, usato in origine per la grande alca di Terranova (ora estinta; gli ultimi due esemplari sono stati uccisi nel 1844); lo slittamento semantico all'uccello nuotatore antartico (che in qualche modo gli somiglia, come osservò Drake nello Stretto di Magellano in 1578) è degli anni '80 del Cinquecento. La parola stessa è di incerta origine, nonostante sia spesso sostenuto che derivi dal gallese pen "testa" (vedi pen-) + gwyn "bianco" (vedi Gwendolyn). La grande alca aveva una grossa macchia bianca tra il becco e gli occhi. Le versioni francesi e bretoni della parola sono in ultima analisi dall'inglese. Una somiglianza col latino pinguis "grasso (agg.), succoso", in senso figurato "ottuso, grossolano, pesante", è stata notata. 
 
Dissento in modo netto dall'opinione dei compilatori di Etymonline, che sostengono l'origine inglese del bretone pennguenn. Tale proposta di derivazione non ha senso alcuno: si comprende benissimo la comune origine celtica del bretone pennguenn e del gallese pen gwyn. Forse questo sproposito si deve a un errore. Per il resto, Etymonline contiene molte informazioni interessanti sulla cronologia e sulle attestazioni. 
 
L'alca impenne in altre lingue  
 
In norreno l'alca impenne era chiamata geirfugl (gen. geirfugls, n. pl. geirfuglar), alla lettera "uccello-giavellotto" (da geirr "giavellotto", fugl "uccello"). In inglese esiste gerfowl "alca impenne", che deriva dal norreno: se in inglese vi fosse una corrispondente parola anglosassone genuina, questa suonerebbe *goarfowl. In norreno era invece chiamata alka (gen. ǫlku, n. pl. ǫlkur) la gazza marina. Anche la parola inglese auk (varianti: awk, alk) "uccello del genere degli alcidi" è giunta dal norreno, ma il percorso è poco documentato, essendo attestata per la prima volta negli anni '70 del Seicento. Secondo altri il prestito sarebbe avvenuto in epoca abbastanza recente dall'islandese moderno. In particolare notiamo che l'alca impenne è detta great auk. La protoforma germanica ricostruibile per l'ornitonimo norreno alka è *alkōn con ogni probabilità della stessa radice indoeuropea del latino olor "cigno".  
 
In basco l'alca impenne era chiamata arponaz. A quanto risulta, il vocabolo è oggi del tutto estinto, come la specie animale a cui si riferisce. Le fonti riportano che il suo significato letterale è "becco a lancia". Le attestazioni sono scarse. Nonostante questa scarsità di dati, vediamo subito che arponaz non può essere una parola non può essere genuinamente basca. Deriva senza dubbio da arpoi "arpione", prestito dal francese harpon, da confrontarsi col latino harpagōne(m) - anche se non è esclusa un'origine germanica. Il secondo elemento, -naz, dovrebbe essere dal latino nāsus "naso, becco". Teniamo conto del fatto che il Web è avarissimo di informazioni, nonostante le masse acefale ne decantino l'onniscienza e l'onnipotenza. Dal basco il vocabolo arponaz sarebbe poi giunto in francese antico per effetto boomerang, divenendo apponatz. La voce in questione è oggi scomparsa, ma si nota l'esistenza di un vocabolo simile, apponat /apo'na/, il cui significato è però "pulcinella di mare" (Fratercula arctica, Linnaeus 1758).  

Conclusioni 
 
Sono e resto convinto che l'ornitonimo pinguino sia puramente celtico, che non abbia nulla a che vedere con l'aggettivo pingue e che un'importante memoria storica di un passato dimenticato.

giovedì 15 aprile 2021

UN INGANNO SEMANTICO: ANTROPOFAGO E CANNIBALE NON SONO PERFETTI SINONIMI

Ogni lingua del genere umano è piena di trabocchetti e ha punti deboli che non sono sempre chiari ai suoi parlanti. Per pura serendipità mi è capitato di imbattermi in uno di questi nodi problematici.  
 
Ero un moccioso e mi trovavo in Piemonte, nella casa dei miei Padri. Fui molto turbato quando vidi mio zio E. (R.I.P.) macinare un po' di ossa di pollo servendosi di un macinino da caffè, per poi dare da mangiare ai polli il ripugnante impasto ottenuto. Ricordo la sua sofferenza, la sua mente ormai non era più tanto lucida. Trovava simili divertimenti per passare il tempo. Quando macinava le ossa, subito i polli accorrevano schiamazzando e si disputavano quanto veniva loro gettato, abbandonandosi al cannibalismo! Mangiavano le ossa tritate dei loro stessi simili! La cosa mi fece venire i brividi. Non riuscivo a comprendere come potessero non rendersi conto dell'origine del materiale organico che ricevevano dalle mani di mio zio E., eppure non si vede un solo motivo per cui avrebbero dovuto discernere la natura di quel cibo basandosi soltanto sulle proprietà organolettiche. Siamo poi sicuri che gli esseri umani, messi in quelle stesse condizioni degradate di vita, sarebbero capaci di comprendere la natura cannibalica di un pasto?     

Questo ricordo disturbante mi porta a qualche riflessione di natura linguistica. A puro scopo di Conoscenza riporto  in questa sede alcune semplici definizioni, reperite nel Dizionario Treccani
 

cannìbale s. m. e f. [dallo spagn. caníbal (o caríbal), dal nome dei Caribi delle Piccole Antille, i cui abitanti dopo la scoperta dell’America acquistarono in Europa fama di antropofagi]. – 1. Antropofago, divoratore di carne umana. 2. In similitudini e usi fig., persona crudele, feroce, inumana: si è comportato come un c.; è un c., una cannibale; anche come agg.: è una donna cannibale.


antropòfago agg. e s. m. (f. -a) [dal lat. anthropophăgus, gr. ἀνϑρωποϕάγος, comp. di ἄνϑρωπος «uomo» e -ϕάγος «-fago»] (pl. m. -gi, pop. -ghi). – Che, o chi, si ciba di carne umana: le tribù a., o gli a., di alcune regioni africane; istinti antropofagi.

Sul Dizionario Italiano Hoepli è contenuta una definizione più estesa della parola "cannibale", come si può facilmente vedere:


cannibale
[can-nì-ba-le]
A s.m. e f. (pl. -li)
1 Antropofago
‖ estens. Animale che mangia carne di individui che appartengono alla sua stessa specie
2 fig. Persona feroce, crudele
‖ Mangiatore insaziabile


B agg.
Antropofago: razze cannibali

 
Questo è riportato su Wikipedia in italiano: 
 

"Il cannibalismo è la predazione intraspecifica, ovvero la pratica del mangiare organismi appartenenti alla propria specie. In zoologia si verifica quando individui di una specie animale aggrediscono e divorano altri membri della stessa specie a causa, generalmente, di condizioni ambientali sfavorevoli anche se, in alcune specie, è normale consuetudine. Relativamente alla specie umana, in antropologia si parla di antropofagia (dal greco ἄνθρωπος, "uomo" e φαγω "mangio"), sinonimo quindi di cannibalismo umano, che è una pratica ancora diffusa presso alcune società." 
 
E ancora: 
 
"In zoologia il cannibalismo si verifica quando individui di una specie animale si cibano di membri della stessa specie a causa, generalmente, di condizioni ambientali sfavorevoli come la sovrappopolazione o la cattività oppure, come accade in molte specie, può essere una normale consuetudine per limitare la densità di popolazione e quindi aumentare le probabilità di sopravvivenza per i sopravvissuti che hanno così a disposizione maggiori quantità di cibo; questo si verifica ad esempio tra gli insetti, come nel caso delle termiti o delle formiche, e nei pesci, come nel caso dei guppy, che divorano la prole in eccesso, o anche nei vertebrati, in particolar modo nel caso di leoni, iene e macachi."
 
Proprio l'uso della parola "cannibale", applicato a qualsiasi specie animale diversa da Homo sapiens, si rivela determinante. Possiamo quindi giungere alle seguenti conclusioni:
 
Un leone antropofago, come quelli di Tsavo, è un leone mangiatore di uomini.
Un leone cannibale è invece un leone che mangia la carne di altri leoni. 
Sono due cose diverse!

Ne  deduciamo che i vocaboli "antropofago" e "cannibale" sono perfetti sinonimi unicamente quando sono applicati alla specie umana
 
Possibile che finora nessuno si sia mai accorto di questo bizzarro inganno semantico? Nemmeno i parrucconi dell'Accademia della Crusca hanno evidenziato la criticità, a quanto pare!

lunedì 20 luglio 2020

La demenza New Age
genera mostri
 
 
Vi sono vicende che si vorrebbe non dover narrare, ma la verità non può essere taciuta, poiché la conoscenza del vero, per quanto sconfortante esso sia, è in ogni caso preferibile al tepore malsano della menzogna, che sempre e comunque nuoce a chi l’abbraccia. 
 
La demenza, com’è noto, ha esteso il suo regno su tutti i continenti, ma in determinati luoghi della terra essa conosce un particolare rigoglio. Gli Stati Uniti d’America sono uno di quei luoghi. Le peggiori mostruosità, le più sconvolgenti nefandezze vi hanno libero corso e la cronaca si incarica pressoché quotidianamente di fornire prove in tal senso. I fatti che vado a riferire sono accaduti a Stamford, Connecticut, nel febbraio del 2009. 
 
Sandra Herold, una donna non più giovane, vive con uno scimpanzé di 90 kg. L’animale era stato adottato da cucciolo, nel 2001, dalla donna e dal marito di lei, Jerome. 
 
Ecco cos’ha dichiarato Sandra Herold in merito alla natura dei rapporti fra lei e il primate: 
 
  - Quando per la prima volta portaste Travis [così era stata chiamata la bestia, ndr] a casa a Stamford, disponeva di una camera da letto tutta sua? 
 
  - La nostra. 
 
  - Così lui stava nella stessa stanza con lei e suo marito? 
 
  - Abbiamo dormito nello stesso letto dal giorno in cui lo portammo a casa sino al giorno in cui morì. 
 
  - Sicché avrebbe dormito ogni notte in quel letto con lei… 
 
  - Ogni singola notte. 
 
  - …e suo marito? 
 
  - Si. 
 
  - E dopo la morte di suo marito ha dormito con lei sola? 
 
  - Si. 

 
Dopo il decesso di Jerome e la morte del figlio dei due in un incidente automobilistico, il rapporto tra Sandra Herold e lo scimmione assume a tutti gli effetti le caratteristiche di un rapporto di coppia: la donna dorme con il primate e fa il bagno con lui. 
 
Il 16 febbraio 2009, la tragedia: lo scimmione, impadronitosi delle chiavi dell’automobile della Herold, esce di casa. Sandra telefona all’amica Charla Nash chiedendole di aiutarla a far rientrare il primate. Quest’ultimo non era nuovo a simile bravate: nell’ottobre del 2003, fuggito di casa, aveva seminato scompiglio per le vie di Stamford. 
 
Charla non era sconosciuta all’animale, eppure, non appena arrivata presso l’abitazione della Herold viene aggredita senza alcuna ragione con inaudita ferocia dallo scimmione. Questi con morsi crudeli lacera e sbrana orribilmente il volto della sua vittima, strappandole labbra, naso, occhi, e disarticolandole la mandibola. Non paga di ciò la mutila di entrambe le mani, asportandole gran parte dell’avambraccio sinistro. Solo l’intervento della polizia impedisce allo scimpanzé di portare a termine la sua azione omicida, ma il calvario di Charla Nash è appena cominciato: cieca e orribilmente mutilata, dovrà subire oltre trenta interventi chirurgici, tra inenarrabili sofferenze. 
 
Ecco i frutti della demenza New Age e della zoolatria: per colpa della stupidità e della lussuria abominevole di una mentecatta, una donna è stata rovinata per sempre. In nessun paese civile sarebbe consentito a chicchessia di detenere scimmioni o altri animali pericolosi. Ciò accade invece nelle democrazie, ovvero in quei paesi in cui vige una concezione distorta e nociva della libertà individuale. Libertà che si trasforma fatalmente in arbitrio, producendo conseguenze funeste. 
 
Pietro Ferrari