sabato 23 maggio 2015

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: GIBBUS E *GUBBUS

Alla parola italiana gobbo corrisponde in latino il vocabolo gibbus. Questo termine è rientrato nella lingua dei dotti come gibbo, donde ad esempio deriva il nome del gibbone, grossa scimmia ben nota agli etologi per le sue pratiche incestuose.

Appurato che italiano gobbo e latino gibbus hanno la stessa identica origine dal greco κυφός, vediamo che deve essere esistita una variante *gubbus. È proprio questa variante *gubbus ad aver dato la forma italiana, con regolare evoluzione della /u/ breve in /o/, dapprima chiusa e successivamente aperta /ɔ/. Ancora in epoca romana la parola greca κυφός aveva nella lingua colta una pronuncia /ky:'phos/ con vocale bemollizzata, ed è stata adattata come gibbus, con ogni probabilità tramite un intermediario etrusco, che potremmo ricostruire come *ciφe /'kiphə/ o *cuφe /'kuphə/.

È plausibile che la variante *gubbus riflettesse un diverso adattamento della parola greca in etrusco, anziché una variante dorica con /u/ non bemollizzata. Nell'adattamento delle parole etrusche in latino spesso si trovano occlusive sonore per rendere occlusive sorde e anche occlusive aspirate, come provato da numerosissimi esempi che avremo modo di discutere in altre occasioni. Una cosa è certa: se la parola fosse giunta in latino direttamente dal greco, avrebbe avuto una forma molto diversa.

In ogni caso vediamo che il latino gibbus non può aver avuto una pronuncia palatale della g- ab aeterno, perché tale suono non avrebbe la benché minima raison d'être nel contesto in cui la parola è entrata nella lingua. Niente gibboni romani, insomma, sarebbero qualcosa di insulso.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: GG PER NG, GC PER NC

È risaputo che i Greci scrivevano la consonante nasale velare [ŋ] ricorrente davanti a /k/, /g/, /kh/ usando il carattere γ. Così si hanno le sequenze γγ [ŋg],  γκ [ŋk] e γχ [ŋkh]. Questa nasale era chiamata dai grammatici ἄγμα /'agma/.        

Accio propose di seguire l'esempio dei Greci e di esprimere questo suono gutturale in latino usando la lettera g anziché n: aggulus per angulus; aggens per angens; iggerunt per ingerunt; agceps per anceps. Questa è la citazione tratta da Varrone:

Ut Ion scribit, quinta vicesima est litera, quam vocant agma, cuius forma nulla est, et vox communis est Graecis et Latinis, ut his verbis: 'aggulus', 'aggens', 'agguila', 'iggerunt.' in eiusmodi Graeci et Accius noster bina g scribunt, alii n et g, quod in hoc veritatem videre facile non est. Similiter 'agceps', 'agcora.'
(Varro ap. Prisc. i. p. 30 H.)

È evidente che se fossero esistiti suoni palatali seguiti da vocale anteriore in parole come angens, ingerunt, anceps - come i nostri avversari sostengono - la proposta di scrivere la nasale come -g- non sarebbe mai potuta sussistere, perché la presenza di una nasale velare prima di suoni affricati sarebbe a dir poco assurda e senza fondamento.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: CANDELA E CICINDELA

Il termine latino cicindela "lucciola", è evidentemente un reduplicativo costruito a partire da candela. La base è in ultima analisi la radice *kand-, indicante lo splendore e presente anche nel ben noto candidus.

Come è stato possibile avere un simile mutamento nella vocale? Semplice: si è partiti da una reduplicazione *ke-kand-, poi assimilata in *ke-kend-. La parola è infine divenuta ci-cind-ela quando già l'accento si era fissato sulla vocale lunga del suffisso.

Per quanto nella pronuncia ecclesiastica italica di questo termine si abbia un'affricata (consonante "molle"), è chiaro che in origine il suono doveva essere velare (consonante "dura"), perché questo ci dice l'etimologia - che non è un'opinione. Così si vede che l'ecclesiastico /čičin'dela/ è successivo al classico /ki'kinde:la/.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: AUDIO E OBOEDIO

A tutti è ben noto il verbo italiano obbedire, variante ubbidire. Da dove deriva questa voce? Semplice, è dal verbo latino oboedio, oboedis, oboedivi, oboeditum, oboedire, scritto col dittongo -oe-.

I nostri avversari vorrebbero che tale dittongo fosse sempre e comunque meramente grafico, e questo fin dai tempi di Romolo e Remo. Abbiamo già dimostrato con ottimi argomenti che questo non è possibile, ma vediamo di fornire una prova in più proprio a partire dall'etimologia di oboedio.

Anche se a scuola non insegnano ad indagare l'origine delle parole, dirò questo: dovrebbe essere a tutti evidente che il verbo in questione deriva dal prefisso ob- (confronta la preposizione ob "verso; davanti a; a causa di") e dal verbo audio, audis, audivi, auditum, audire "udire". Come mai allora si trova un dittongo -oe-? Semplice, perché si è partiti dalla forma arcaica *ob-audio, e attraverso un indebolimento su è giunti ad *ob-oudio. A questo punto la sequenza -ou- + -i- si è evoluta in -oi- + -i- per assimilazione, generando in epoca successiva il dittongo -oe-. L'origine del verbo obbedire si sintetizza così:

oboedio < *ob-oidio < *ob-oudio < *ob-audio 

Questo dimostra che il dittongo -oe-, naturale evoluzione di -oi-, non può essere stata una semplice notazione grafica per /e/ in questa parola. La futile idea della pronuncia ecclesiastica italica vigente sin dal Paleolitico si scontra in infinite occasioni con la stessa realtà dei fatti, in quanto è incapace di rendere conto dell'etimologia di importanti parole.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LA NEGAZIONE NOENUM HA DATO ORIGINE A NON

L'antica negazione *ne-oinom, alla lettera "non uno", ha dato dapprima *noinom e quindi noenum (quest'ultima forma è ben attestata). Da noenum è infine derivata la forma non, a tutti ben nota. Non sarebbe stato possibile avere una pronuncia /*e/ di -oe- in noenum, visto l'esito non, con una /o:/ lunga.

Ammettere un antico dittongo -oe-, regolarmente da *oi, porta a spiegare con facilità una varietà di esiti successivi. Per contro, postulare un dittongo meramente grafico corrispondente a un suono /e/, come fanno i nostri avversari, non permette di spiegare diversi fatti innegabili. Una spiegazione che rende conto di cento dati di fatto al contempo è da preferirsi a una spiegazione che a stento rende conto di una cosa ma è incapace di spiegarne novantanove.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: IL DITTONGO SECONDARIO IN COEPI

Il verbo coepi "io inizio" (tr.), "io ho origine" (intr.), è morfologicamente un perfetto (II pers. s. coepisti, etc.), ma ha il significato di un presente. È un verbo difettivo ed anomalo, anche se è chiara la sua derivazione da coepio, coepis, coepere, di identico significato. Dal sostantivo derivato coeptum "opera intrapresa" (anche coeptus, gen. coeptus, IV decl.), deriva il causativo coepto, coeptas, coeptavi, coeptatum, coeptare "iniziare, intraprendere" (tr.), "cominciare, avere inizio" (intr.). L'origine dei vocaboli in questione non è misteriosa: 

coepi < *kom-apei
coepio < *kom-apio:
coeptum < *kom-aptom
coeptus < *kom-aptus
coepto < *kom-apto:

La base di queste forme è la stessa radice del verbo apio, apis, apere "allacciare, legare" con il derivato aptus "legato, connesso, associato, unito; pronto" (donde le parole italiane atto (agg.), adatto) e di apto, aptas, aptavi, aptatum, aptare "adattare, preparare" (donde l'italiano riattare). Cos'è successo nel corso dei secoli durante la fase che dal latino arcaico ha portato al latino classico? Semplice: la vocale -a- si è indebolita in -e-, poi si è formato un dittongo secondario. Nella pronuncia ecclesiastica queste forme hanno /če-/: /'čepjo/ e /'čepto/. È evidente che la pronuncia ecclesiastica si è generata senza tenere conto dell'origine delle parole e che non spiega in alcun modo la loro formazione.

sabato 16 maggio 2015

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL'ETIMOLOGIA DI CANNETO DI CARONIA

Si è appurato che i fuochi che divampavano a Canneto di Caronia, in Sicilia, erano un imbroglio ovvero il prodotto delle macchinazioni e degli artifizi di un sofisticato piromane. Per molto tempo il fenomeno ha tenuto in scacco la comunità scientifica, al punto che molti vedevano con favore una spiegazione soprannaturale. In particolare si segnala l'opinione di padre Gabriele Amorth, che attribuiva gli incendi alla supposta abitudine dei paesani di partecipare a riti satanici. Se la memoria non m'inganna, a parer suo le offerte di pane con mandorle seguendo un antico rito pagano sarebbero state in grado di materializzare dal nulla lingue di fuoco infernale. Alla luce dei fatti, simili affermazioni si sono rivelate inconsistenti. Resta in ogni caso una singolare coincidenza etimologica che non mi era sfuggita già all'epoca.

Così scrivevo qualche anno fa (10/11/2007) sul blog Esilio a Mordor:

L'inquietante fenomeno dei incendi spontanei occorsi a Caronia ha fatto strepitare giornalisti, scienziati ed esorcisti. Nessuno sembra però aver notato un fatto singolare: il nome Caronia è di origine greca e significa senza dubbio LUOGO DI CARONTE. Dovrebbe così essere chiaro a tutti che già nell'antichità quel sito era ritenuto un ingresso del Mondo Infero. Riporto la definizione del termine, tratta da un ottimo dizionario online

Chârôn-ios (later Chârôn-eios), on, A. of or belonging to Charon: hence, 1. Ch. thyra the gate through which criminals were led to execution, Zen. 6.41, Suid.; also Charônion, to, Poll. 8.102, Hsch. 2. Ch. klimakes, a staircase in the theatre, leading up to the stage as if from the underworld, by which ghosts entered, Poll. 4.132. 3. charônia, ta, caverns filled with mephitic vapours, being looked on as entrances to the nether world, Str. 12.8.17; sg., Id. 14.1.11,44: charônêïa, prob. in Aret. SA1.7; in full, charôneia barathra Gal. 17 (1).10; ch. chôria Id. 15.117.

Si sorvoli sulle fittissime citazioni di autori, non sono necessarie per la comprensione del concetto. Riporto una traduzione per chi non conoscesse l'inglese:

Chârôn-ios (tardo Chârôn-eios), -on, A. appartenente a Caronte: da cui, 1. Ch. thyra, il cancello attraverso il quale i criminali erano condotti all'esecuzione, Zen. 6.41, Suid.; anche Charônion, to, Poll.8.102, Hsch. 2. Ch. klimakes, una scala nel teatro, che conduce al palcoscenico come se salisse dal mondo infero, attraverso la quale fanno il loro ingresso i fantasmi, Poll. 4.132. 3. charônia, ta, caverne piene di vapori mefitici, viste come l'entrata del mondo infero, Str. 12.8.17; sg., Id. 14.1.11,44: charônêïa, prob. in Aret. SA1.7; in forma completa, charôneia barathra Gal. 17 (1).10; ch. chôria Id. 15.117. 

CHARONEIA BARATHRA significa ABISSI DI CARONTE. 

domenica 10 maggio 2015


LA MOSTRA DELLE ATROCITÀ
di James G. Ballard
Recensione di 7di9

Pubblicato in Italia nel 1992, e quindi con notevole ritardo rispetto all'anno di uscita dell'edizione originale risalente al 1969, La mostra delle atrocità è una conferma dell'intento profondamente analitico di cui è portavoce James G. Ballard, autore forse tra i più rappresentativi di quel filone letterario fantascientifico che predilige l’analisi sociologica dell’interazione tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda alla mera creazione di mondi alternativi rispetto alla normalità, alieni.
Il romanzo è diviso in quindici capitoli, ciascuno composto da varie sezioni, più un’appendice, costituita da cinque racconti, e aggiunta dall’autore successivamente alla pubblicazione della prima edizione. Ogni capitolo può essere letto come un racconto a sé stante, essendo l'intero romanzo un puzzle di frammenti tra loro incastrati e legati, nonostante la specifica e relativa autonomia che distingue i singoli passi. Come frattali, i passi sviluppano tematiche che possono essere rintracciate con continuità in tutto il romanzo. La mostra delle atrocità è principalmente – ma non esclusivamente – la storia di un uomo, il cui nome varia in ogni capitolo, anche se mantiene la T iniziale (Travis, Talbot… Molteplicità che rappresenta le diverse fasi del suo io) e del suo rapporto con la realtà,vista in particolare in quei elementi che in un qualche modo sono connessi alla sessualità e al modo in cui essa viene alterata dagli eventi, biologici e non – in particolare massmediatici – che la investono.
Ma La mostra delle atrocità non è una semplice opera di fantasia. E’ anche, e potremmo dire soprattutto, un romanzo tendenzialmente autobiografico. Come simbionti, i ricordi e l'esperienza biografica di Ballard si mescolano al plot, alternandosi in maniera omogenea al flusso narrativo,creando un'interessante ed equilibrato – e volutamente fuorviante – effetto di estraneità. L'autore sembra quasi voler ricoprire due ruoli: interprete del proprio processo creativo – e quindi non solo scrittore, ma anche esegeta del proprio testo – e allo stesso tempo reale protagonista della storia, “anima” nascosta dietro le maschere indossate dai vari personaggi che la popolano. Ne emerge una lettura estremamente complessa, stratificata. Di fatto fortemente coinvolgente, poiché soddisfa, per mezzo del suo carico di note esplicative e spiegazioni – scientificamente fondate o del tutto inventate – la profonda curiosità, spesso latente, di chi legge.
Ballard sembra quasi voler divenire egli stesso cavia della sua tesi sociologica. Voler dimostrare come la psiche del cittadino moderno – e in particolare la sfera riguardante le sue pulsioni sessuali 1 – sia ormai divenuta un'estensione della società circostante, dei media, della tecnologia, del parco giochi costituito da quella che è l’attuale (del suo tempo come del nostro) società postindustriale. Per supportare questa prospettiva, Ballard viviseziona la propria personalità attraverso un’attenta e minuziosa autopsia dei personaggi del romanzo, elencando, come in una dettagliatissima cartella clinica, l'insieme dei processi psicologici e associativi che lo hanno portato alla stesura delle varie parti della storia, spesso anche facendo ricorso a veri e propri interventi di autoanalisi, ora puramente letteraria, ora invece psichiatrica. L'autore si fa rappresentante di quella stessa realtà sociale che ha deciso di analizzare, come in un processo di identificazione tra paziente e medico.
In generale, il romanzo può essere analizzato attraverso l'enucleazione di tre elementi fondamentali: la memoria dell'autore (nella quale è bene far confluire anche il carico delle variabili esterne: le vite private dei personaggi dello spettacolo che ne hanno influenzato l’immaginario sessuale e non, i fenomeni mediatici ecc.), il processo creativo (apparentemente unico spazio veramente libero concesso a chi scrive: a chi vive?) e il romanzo stesso, l'ibrido finale scaturente dalla fusione dei primi due elementi, “mostra delle atrocità” della quale si è in fin dei conti semplici spettatori e protagonisti solo parziali.
Da un punto di vista della storia della letteratura, appare evidente come l'intero percorso di costruzione del romanzo di Ballard costituisca una cesura rispetto ai canoni del romanzo dei primi anni del novecento, il cosiddetto romanzo moderno, la cui linearità e chiarezza diegetica lo differenziano radicalmente dall'estetica postmoderna abilmente sublimata ne La mostra delle atrocità. Non più la semplice narrazione, l'invenzione fine a se stessa, ma anche, e soprattutto,l'indagine attenta, vera – o almeno verosimile – dei processi che conducono alla creazione, alla selezione delle componenti “altre” rispetto al processo meramente letterario – stimoli biografici, curiosità, eventi storici, sapere tecnico e così via – che per mezzo della penna dello scrittore confluiscono in maniera voluta e tangibile nella sua psiche. Se in sintesi è questo il nucleo della poetica postmoderna, allora La mostra delle atrocità ne è un illustre ed esemplare rappresentante. A tal proposito però, è necessario un distinguo nell'analisi del confronto tra l'opera di Ballard e l'antro letterario dal quale questa è emersa. Se infatti il citazionismo (sia letterario che di altra natura) si pone come ingranaggio centrale delle letteratura definita dal postmodernismo, nel romanzo di Ballard esso supera il suo significato stretto, divenendo dichiarazione espressa, dunque esso stesso romanzo, oltre che strumento di sovrapposizione tra la vita dell'autore e il plot, tra le impressioni –spesso contingenti e slacciate da quello che potrebbe costituire un unicum letterario – e le necessità strutturali della narrazione. 2
Lo stile di Ballard è impeccabile. La prosa risulta fluida, di altissimo livello, elegante, sia da un punto di vista strettamente sintattico che di gestione del periodo. L'autore, inoltre, attingendo dalla sua esperienza di studente di medicina, ricorre spesso all'uso di termini appartenenti a questo specifico campo del sapere. Nel pieno rispetto della tesi sopra sostenuta, avviene che la scrittura risulta irrimediabilmente contaminata dalla cultura personale dello scrittore, dalla sua stessa vita,che è messa a nudo nella sua totalità. La scelta stilistica descritta appare pienamente condivisibile, anche alla luce dell'intento decostruttivo del romanzo stesso: le architetture, i corpi, sono sezionati nelle loro componenti di base, quasi fossero oggetti da laboratorio, vittime di un intervento di chirurgia sintattica, oltre che riflessiva. Ballard pone sotto il suo sguardo attento – ma sempre soggettivo – la complessità del mondo che lo circonda, nel quale vive, decostruendola attraverso un sistema che potrebbe risultare paradossale: il caos letterario, che nella sua pur (illusoria) non-linearità, costituisce concretamente un museo di quella che è la realtà attuale, una mostra di efferatezze “alla quale i pazienti” non sono stati invitati e che presenta “un segno inquietante: tutti i temi” insistono “sul tema della catastrofe planetaria”. 3 

1 Scrive William S. Burroughs nella prefazione al romanzo "[...] le radici non sessuali della sessualità".  
2 Esempio pregevole di questo tipo di letteratura è dato certamente da Thomas Pynchon, manipolatore colto del genere del pastiche e della contaminazione, degli stili letterari così come dei vari settori del sapere.
3 Citazioni tratte del primo capitolo del romanzo, intitolato La mostra delle atrocità

LA PROMESSA DELL'ASSASSINO 

Titolo originale: Eastern Promises
Paese di produzione: USA, UK, Canada
Anno: 2007
Durata: 100 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: thriller
Regia: David Cronenberg
Sceneggiatura: Steven Knight
Distribuzione (Italia): Eagle Pictures
Fotografia: Peter Suschitzky
Montaggio: Ronald Sanders
Musiche: Howard Shore
Scenografia: Carol Spier
Costumi: Denise Cronenberg
Trucco: Stephan Dupuis

Interpreti e personaggi

Viggo Mortensen: Nikolai Luzhin
Naomi Watts: Anna Khitrova
Vincent Cassel: Kirill
Armin Mueller-Stahl: Semyon
Sinéad Cusack: Helen
Donald Sumpter: Yuri
Jerzy Skolimowski: Stepan
Josef Altin: Ekrem
Mina E. Mina: Azim
Aleksandar Mikic: Soyka
Sarah-Jeanne Labrosse: Tatiana
Lalita Ahmed: Cliente
Badi Uzzaman: Farmacista
Raza Jaffrey: Dottor Aziz

Doppiatori italiani

Pino Insegno: Nikolai Luzhin
Barbara De Bortoli: Anna Khitrova
Riccardo Rossi: Kirill
Franco Zucca: Seymon
Aurora Cancian: Helen
Sandro Iovino: Yuri
Dario Penne: Stepan
Flavio Aquilone: Ekrem
Carlo Reali: Azim
Michele D'Anca: Soyka
Giulia Tarquini: Tatiana

Riporto una magistrale recensione di 7di9, pubblicata all'epoca su Real Dark Dream e a fatica sottratta all'Oblio:

Dopo il convincente A History of Violence, La Promessa dell’Assassino segna il ritorno del regista canadese David Cronenberg al genere noir.
Ambientato in una Londra piovosa e grigia, l’ultimo parto del padre della “nuova carne” è un thriller dalla trama piuttosto semplice, lineare, ma che riesce ad imporsi con tensione visiva e grande eleganza registica grazie a diversi fattori, primo tra tutti la notevole interpretazione del cast attoriale, dal quale emerge con possanza il camaleontico Viggo Mortensen, già protagonista del precedente lavoro di Cronenberg, A History of Violence, e che come in quest’ultimo veste i panni di una personaggio ambiguo, dai contorni morali indefiniti e difficilmente codificabili. Tra gli altri interpreti, è d’obbligo evidenziare Vincent Cassel, perfettamente a suo agio nel ruolo di un mafioso un po’ toccato e dalle scelte avventate; Naomi Watts, la cui sensualità traspare da ogni fotogramma, anche nei momenti di maggiore statica; e il bravissimo Armin Mueller-Stahl, veterano della settima arte capace di dare vita ad un boss della mala tra i più convincenti visti al cinema negli ultimi anni.
David Cronenberg, sin dalle sue prime opere, ha segnato il mondo del cinema con i suoi horror per nulla convenzionali, giocati sul rapporto tra normalità ed infezione, nel senso di contaminazione del vivere quotidiano, di decostruzione della realtà così come convenzionalmente percepita. La sua poetica è spesso attraversata dal concetto del doppio: a cominciare dal dittico Il demone sotto la pelle / Rabid - Sete di sangue, che analizza gli effetti causati dall’introduzione di una variabile virulenta nel tessuto della quotidianità, capace di toccare le corde più basse – e primitive – della natura umana; il duo filmico Scanners / La Zona Morta, strumento di analisi della sete di potere dell’uomo, quando amplificata e deformata da forze di origine sovrumana; Inseparabili (probabilmente il suo capolavoro), storia di due gemelli legati dalla carne e dalla psiche, condannati a condividere gioie, scelte e sofferenza in un inestricabile sistema vitale di alimentazione biunivoca; eXistenZ, film di fantascienza intessuto sulla contrapposizione tra ciò che è ritenuto reale e ciò che invece è considerato virtuale, e sull’ambiguità del concetto di verità ; e infine proprio l’opera gemellare “illegittima” costituita da A History of Violence e da La Promessa dell’Assassino.
Storia sulla disintegrazione del sogno americano il primo, con il suo messaggio anti-mediatico e per nulla rassicurante, La Promessa dell’Assassino è invece un noir puro, la storia di un mistero metropolitano.
Anna, levatrice in un ospedale di Londra, dopo aver assistito alla morte post-parto di una giovane quattordicenne, ritrova tra gli effetti personali della stessa un diario, scritto in russo. Con l’aiuto di un suo zio originario della Russia – ed ex membro del KGB, il servizio segreto sovietico – ne tradurrà le pagine, scoprendo un intrico di relazioni torbide ed inquietanti tra gli ambienti della mafia russa e il mondo della prostituzione.
Lo script è di buona fattura, anche se pecca sul versante psicologico, lasciando in ombra la personalità e il background di molti personaggi, primo tra tutti del “becchino” Nikolai. Un altro difetto della sceneggiatura, questa volta relativo alla costruzione dell’intreccio, riguarda la risoluzione dei principali snodi narrativi della trama, la quale in alcuni tratti appare piuttosto forzata, quasi un’applicazione frettolosa e sbrigativa della tecnica del deus ex machina. È evidente, sin dalle prime fasi del film, come il regista non abbia voluto porre l’accento sulla complessità del plot o sul suo intreccio, quanto invece sullo scorrere inesorabile e oscuro della staticità del quotidiano verso mondi nascosti dietro anche il più insignificante e insospettabile degli eventi. Nonostante questo però, Steven Knight, dopo la pregevole prova offerta con la sceneggiatura di Piccoli affari sporchi – per la regia di Stephen Frears – si dimostra comunque ancora una volta perfettamente a suo agio tra i sentieri sotterranei e fumosi di una Londra che nasconde più di quanto mostra, regalando al pubblico una narrazione efficace e sostenuta da un cast in stato di grazia.
Il nero, il grigio e il rosso sono i colori predominanti della pellicola. Il rosso del sangue – che scorre, ma che non eccede in quantità , e che per questo si fa strumento, evitando l’esagerazione, l’ipertrofia – il nero degli abiti, e infine il grigio, dell’ambiente londinese così come dei tatuaggi, i quali si pongono come veicolo metacinematografico di narrazione, ponte comunicativo atipico che lega – ma spesso allontana – i personaggi della storia.
Altro elemento visivo che caratterizza e che definisce La Promessa dell’Assassino è costituito dalla fisicità. A tal proposito, risulta perfetta ed emblematica la scena di nudo integrale di Viggo Mortensen, nei panni di un faccendiere della mafia, costretto ad affrontare due sicari della criminalità russa mentre si trova all’interno di un bagno turco. La scena, girata senza alcun accompagnamento musicale, è la sublime dimostrazione di due elementi: la bravura indiscussa di un attore, Viggo Mortensen, in grado di “parlare” con la sola mimica del viso, con il movimento del corpo, con il sangue, e di un regista, che in pochi minuti riesce a regalare un climax narrativo che coinvolge la mente, per l’eleganza registica; le viscere, per la truculenza del combattimento e i rumori naturali prodotti dall’impatto dei corpi; e i sensi, per la sensualità perversa e trascinante capaci di imporsi con un movimento di macchina che in apparenza indugia esclusivamente su Viggo Mortensen, ma che in realtà è pura e semplice adorazione dell’estetica cinematografica e del “vero” rivelato attraverso lo scontro delle carni. Quello di Cronenberg è l’atto d’amore di un cultore della contaminazione – dei corpi, dei mondi – che diviene mezzo di trasmissione che trascende il limite comunicativo dell’arte fine a se stessa, e che si pone come unico punto di contatto tra la percezione addomesticata dello spettatore medio e il nucleo stesso dell’umano.
La Promessa dell’Assassino è un capolavoro del cinema moderno, la conferma della grandezza artistica di un regista in continua evoluzione – come i protagonisti delle sue storie – perfettamente a suo agio con la cinematografia mainstream, ma sempre fedele alle coordinate della propria poetica. Un regista capace di dirigere ottimamente un cast multietnico, di far convivere un numero enorme di sensibilità e stili recitativi, e a un tempo di sostenere con mestiere il fardello della coerenza artistica, della rappresentazione della propria visione del cinema, senza compromessi di alcun tipo: solo espressione, immagine, nuda e cruda. 

Considerazioni: 
Aggiungo all'intervento di 7di9 alcune note, soprattutto di carattere antropologico, su questa cupissima pellicola, il cui effetto è quello di un pugno nel plesso solare.

La mafia russa e la sodomia

L'intero film è pervaso dall'odio mafioso verso i sodomiti passivi. Sarebbe troppo banale parlare di "omofobia", come si fa in quest'epoca. Non si tratta infatti di una fobia, ossia di una paura. Si tratta invece di volontà di torturare e annientare una vittima, definita in base a feroci tabù tribali. In un simile ecosistema criminale l'omosessuale che subisce penetrazione nel retto non ha diritto di esistere: se viene trovato non ha pace nemmeno da morto, il suo cadavere viene mutilato e lasciato senza sepoltura. Viene cosparso di sputi e ingiuriato. Eppure lo stupro sodomitico è una forma ritualizzata di punizione nei confronti di chi ha infranto la legge. John Carpenter ha dato la più acuta definizione di demone: "un essere che esiste al solo scopo di infliggere dolore e morte a qualcuno". Queste cose sono troppo orribili per la futile società odierna, che cerca di rimuoverle blaterando di "paura".   

Le origini della mafia russa

Pochi sanno che la mafia russa ha le sue radici nella camorra napoletana. Nel corso della guerra di Crimea (1853 - 1856) accadde che alcuni prigionieri russi vennero in contatto con camorristi campani che li iniziarono ai propri riti e trasmisero tra le altre cose la costumanza dei tatuaggi, destinata a subire un'evoluzione propria nel corso dei decenni. La conoscenza di questa origine camorrista viene in qualche modo ostacolata dal Web: sono numerosi i siti che attribuiscono ai tatuaggi criminali russi una genesi diversa, ad opera dei marinai inglesi nel primo dopoguerra. I sostenitori dell'origine inglese non sono tuttavia in grado di spiegare la natura esoterica dei simboli. Nel film di Cronenberg è mostrata l'iniziazione del killer russo al rango di Padrino: gli vengono tatuate sul corpo alcune stelle nere, simbolo del suo potere demoniaco. Queste opere d'arte corporea gli sono praticate con un'apposita penna, mentre ai carcerati va molto peggio, essendo i loro corpi decorati con una mistura di orina, cenere e gomma bruciata, in condizioni non precisamente asettiche. A qualcuno va male e si becca una cancrena.

Il linguaggio dei tatuaggi

Nella mafia russa gli elaborati tatuaggi degli affiliati esprimono concetti anche molto complessi. Costituiscono un vera e propria selva di simbolismi, una forma di codice comunicativo non verbale. Si potrebbe dire che riassumano per sommi capi l'intera storia del soggetto che li porta. Quando un uomo viene incarcerato in Russia, subito i suoi compagni di cella, che sono lì da più tempo, gli chiedono di mostrare i propri tatuaggi. Se ne possiede, esaminano ogni dettaglio, quindi gli domandano: "I tatuaggi dicono il vero su di te?" Si informano con cura sul suo curriculum criminale. Se dovesse emergere che il carcerato in questione è solo uno sbruffone che si è fatto tatuare senza averne il diritto, gli abradono ogni lembo di pelle tatuata servendosi di cocci di vetro, di carta vetrata o di coltelli. Colui che copia i tatuaggi altrui viene punito con la morte.

Razzismo sovietico

La protagonista ha un'accesa discussione col padre, un vecchio russo tutto d'un pezzo ed estremamente testardo, che millanta l'appartenenza al KGB. La donna, avendo avuto un aborto dal suo precedente compagno, si sente rivolgere dal genitore una sanguinosa accusa: la gravidanza non è andata a buon fine perché il seme di un uomo non russo non sarebbe mai potuto attecchire nell'utero di una donna russa. Come se russi e non russi fossero due specie diverse, separate da un abisso di differenze genetiche incolmabili. Come se l'unione tra una donna russa e un uomo non russo fosse un atto di bestialità, simile al sesso con un animale. E non è forse questa una forma di feroce razzismo?       

Sequenze memorabili

La ragazza incinta che perde sangue in una farmacia, irritando il gerente che la crede una tossicomane; il momento in cui si scopre che il vecchio boss ha un bordello privato in cui le prostitute sono ragazzine, e lo frequenta assiduamente; il killer costretto dal figlio del boss a possedere carnalmente da tergo una giovane prostituta ucraina, per dimostrare di non essere un sodomita; il cadavere di un gangster rivale, sputato dal figlio del boss e apostrofato come "pederast!", prima di essere gettato in un canale.

sabato 9 maggio 2015

RAY BRADBURY E UN SINGOLARE REFUSO

Avevano la macchina; ne avevano due, anzi, di quelle macchine. Una ti scivolava dentro lo stomaco come un cobra nero che si cali in un pozzo echeggiante alla ricerca di tutta l'antica acqua, di tutto il tempo vetusto che vi si sono accumulati. Assorbiva la sostanza verde che rifluiva alla superficie in un pacato ribollimento. Beveva anche la tenebra? Succhiava anche tutti i veleni accumulatisi con gli anni? Assorbiva in silenzio ogni tanto con un suono d'interna soffocazione e di cieco brancolamento. Aveva un Occhio. L'uomo che, indifferente, regolava la macchina, poteva, calzando uno speciale elmetto ottico, scrutare l'anima della persona ch'egli stava ripompando alla vita. Che cosa vedeva l'Occhio? L'uomo non lo disse. Vedeva, ma non aveva visto ciò che l'Occhio vedeva. L'intera operazione fu non dissimile dallo scavo di una trincea nel proprio giardino dietro casa. La donna sul letto non era che un duro strato di marmo che la zappa e la vanga hanno raggiunto. Avanti, a ogni modo, spingi l'ostacolo più in fondo, fa' rigurgitare alla superficie tutto quel gran vuoto, ammesso che una cosa simile possa venire rigettata fuori nel fremente pulsare del serpente che succhia. L'operatore stava ritto, fumando una sigaretta. Anche l'altra macchina era in funzione. L'altra macchina era manovrata da un individuo altrettanto indifferente, con indosso una tuta color marrone, antimacchia. Questa macchina pompava tutto il sangue dal corpo e lo sostituiva con sangue fresco e siero.

Ray Bradbury - Fahrenheit 451

Il poetico brano, tratto da un notissimo capolavoro dello scrittore di Waukegan, contiene qualcosa di molto strano che non salta subito all'occhio. Ho riportato la frase "La donna sul letto non era che un duro strato di marmo che la zappa e la vanga hanno raggiunto", anche se nella più diffusa edizione italiana del libro (Oscar Mondadori, trad. Giorgio Monicelli) invece sta scritto: "La donna sul tetto non era che un duro strato di marmo che la zappa e la vanga hanno raggiunto". Si capisce che parlare di una donna sul tetto in questo contesto non ha il benché minimo senso: dovrebbe essere chiaro che la signora in questione sta sul letto, in procinto di essere sondata e dializzata. Qual è l'origine di questo assurdo equivoco? Vediamo com'è la frase nell'originale in inglese. Eccola: 

The woman on the bed was no more than a hard stratum of marble that they had reached.

Come volevasi dimostrare. Tutto è molto chiaro. Un tempo i traduttori scrivevano in corsivo, e quando i loro appunti passavano di mano, potevano ingenerarsi fraintendimenti. Così è accaduto che la parola "letto", naturale traduzione dell'inglese "bed", finisse con l'essere letta "tetto" per errore: dovrebbero essere ben noti i processi degenerativi che colpiscono le scritture corsive fin dall'epoca antica, causando la confusione della forma delle singole lettere. Di questo refuso nessuno si è accorto, a dimostrazione della grande attenzione che i correttori e gli editori riservano agli scritti da pubblicare. Presente in una importante traduzione italiana del libro, quella di Monicelli, a quanto pare il refuso non è mai stato corretto. Mi sembra evidente: quando qualcosa viene pubblicato, non è sottoposto a revisioni da un'edizione all'altra, si dà per scontato che tutto vada bene per principio. In quest'epoca è ancora più facile che i refusi si perpetuino come per magia, dato che è sufficiente usare un file già pronto, senza alcuna modifica, per dar vita a una nuova edizione di un libro. I fantascientisti poi non sembrano accorgersi di nulla nemmeno loro: non sono pochi infatti quelli che usano i libri come soprammobili. Quando un libro è ridotto a mero feticcio, quando si ritiene importante conoscere a menadito ogni dettaglio sulle sue varie edizioni (case editrici, traduttori, date, etc.), ma lo si è letto in modo erratico, succedono queste cose. Sia vergogna su questi lettori-feticisti, che si inchinano ad adorare i volumi come idoli dell'Antico Egitto!