giovedì 5 maggio 2016


L'ENIGMA DI KASPAR HAUSER 

Titolo originale: Jeder für sich und Gott gegen alle
     (Ognuno per sé e Dio contro tutti)
Paese di produzione: Germania
Anno: 1974
Durata: 106 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Rapporto: 1.66:1
Genere: biografico, drammatico
Regia: Werner Herzog
Soggetto: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwen
Montaggio:
Beate Mainka-Jellinghaus
Musiche: Popol Vuh
Scenografia: Henning von Gierke
Interpreti e personaggi:
    Bruno S.: Kaspar Hauser
    Walter Ladengast: professor Daumer
    Brigitte Mira: signora Käthe
    Willy Semmelrogge: direttore del circo
    Herbert Fritsch: il borgomastro
    Helmut Döring: il Piccolo Re
    Henry van Lyck: capitano di cavalleria
    Michael Kroecher: Lord Stanhope
    Volker Prechtel: Hiltel, guardia carceraria
    Gloria Doer: signora Hiltel
    Marcus Weller: Julius, il figlio di Hiltel
    Johannes Buzalski: ispettore di polizia
    Herbert Achternbusch: ipnotizzatore di polli bavarese
    Enno Patalas: il reverendo Fuhrmann
    Clemens Scheitz: scriba
    Franz Brumbach: addestratore di orsi
    Alfred Edel: professore di logica
    Andi Gottwald: il giovane Mozart
    Kidlat Tahimik: Hombrecito
    Reinhard Hauff: un contadino
    Wolfgang Bauer: contadinello 
    Wilhelm Bayer: contadinello irridente
    Florian Fricke: pianista cieco
    Hans Musäus: uomo sconosciuto
Premi:
    Festival di Cannes 1975: Grand Prix Speciale della Giuria, Premio FIPRESCI, Premio della giuria ecumenica

Trama (da Mymovies.it):
Norimberga, 1828. All'alba, in una piazza, compare come dal nulla un giovane sporco, lacero e allucinato, che stringe tra le mani una lettera anonima nella quale si spiega che il ragazzo, abbandonato dalla madre, è stato allevato da un contadino che ora lo affida al capitano di cavalleria. Subito iniziano a fiorire le ipotesi: che lo sconosciuto sia un figlio illegittimo di Napoleone? Un principe in disgrazia? Il ragazzo finirà in carcere e poi esposto come fenomeno da baraccone nelle piazze e nelle fiere. Morirà cinque anni più tardi, ucciso da un sicario, e l'autopsia rivelerà la causa della sua idiozia: Kaspar Hauser, simbolo d'innocenza, era un minorato e aveva il cervello piccolo.

Recensione:
Un film che non si dimentica facilmente.
Ottima la colonna sonora e superba l'interpretazione di Bruno S., all'anagrafe Bruno Schleinstein, che si è calato alla perfezione nella parte, data la sua sconvolgente esperienza biografica. Si nota che la ricostruzione fatta da Herzog non sempre collima in dettaglio con la realtà dei fatti storicamente accertata. Per esempio, il giovane abbandonato non fa nessuna menzione del proprio nome a chi lo ritrova: solo in un secondo tempo scrive il suo nominativo su un foglio, come per automatismo. Il contenuto della famosa lettera non mostra una completa corrispondenza con quello noto, in cui si faceva chiara menzione al battesimo. Certo, che un genio come Herzog possa prendersi qualche libertà a me sta più che bene. Un dettaglio che pochi sembrano aver notato è l'abilità a rendere verosimile il sudiciume e persino le lesioni cutanee prodotte dalla scabbia. Riconoscibili a prima vista, al punto che solo a guardarle mi sembra di sentirsi muovere le mandibole taglienti degli acari intenti a scavare canali nella pelle, sono classificate da un ottuso ufficiale come non meglio precisate ferite.

Kaspar e il teologo

Interrogato da un pastore protestante, Kaspar è in grado di rispondere a tono. All'epoca c'era un morboso interesse per l'innatismo. Si discuteva senza sosta per stabilire se certe idee esistessero nell'essere umano a prescindere dall'educazione. In particolare si cercava conferma della presenza del concetto di un Essere Superiore, creatore e ordinatore di tutto l'esistente. Così l'uomo di Chiesa si mostra stupefatto dalle risposte del trovatello, che non corrispondono a quanto atteso. In tutta la sua prigionia nell'angusta cella, Kaspar non ha mai pensato per un solo istante a qualcosa che fosse anche lontanamente simile all'esistenza di Dio. La sua conoscenza innata si dimostra di natura ben diversa.   

Kaspar e il luminare

Un accademico paranoico pone a Kaspar un quesito cervellotico per valutare le sue capacità. La risposta che ottiene è folgorante e lo sconvolge - al punto da destare in lui ira. Il parruccone non può accettare una soluzione inattesa e semplice, a cui nessuno aveva mai pensato prima. Così si lascia andare a una crisi isterica, continuando a ripetere che non può accettare la risposta ineccepibile e geniale del ragazzo, perché non rientra in qualche non ben precisata categoria. Ovviamente la giustificazione di un simile rifiuto non convince nessuno.  

Una rovinosa caduta

Herr Daumer: "Kaspar, quello che tu dici non può essere vero, e cioè che solamente il tuo letto è l'unica cosa buona del mondo, e che tutto il resto è cattivo. Il giardino non ti piace, l'uva spina, o laggiù, quelle cipolle, così verdi..."
Kaspar: "Sì. Ho proprio l'impressione che la mia apparizione qui, su questa terra, sia stata una caduta pesante."

Queste sono le parole originali di Kaspar Hauser, da cui è stato tratto il dialogo: "Ja, mir kommt es vor, dass mein Erscheinen auf dieser Welt ein harter Sturz gewesen ist".  

Sembra che nessuno abbia mai compreso a fondo la sostanza di questi concetti, che appartengono agli Gnostici dell'antichità e al Manicheismo. Kaspar Hauser, che rifiutava con determinazione i dogmi dei pastori protestanti, non esitava ad affermare un'idea che non aveva riscontro ai suoi tempi. Si può anzi dire che la sua consapevolezza dell'Esilio è stata una delle pochissime manifestazioni di contenuti dualisti e anticosmici nell'Evo Moderno. 

L'autopsia

Il film termina con la dissezione del corpo del povero Kaspar. Viene in particolare analizzato il suo cervello, che viene manipolato con insistenza dai medici. La conclusione è che la massa cerebrale dimostra particolari anomalie - cosa che tranquillizza il notaio, permettendogli la cessazione di ogni inquietudine. Per lui, la constatazione dell'anormalità del cervello è una spiegazione razionale in grado di rintuzzare l'irromprere del mistero nella sua vita ripetitiva e meccanica come quella di un automa.

Un'audace soluzione a un secolare mistero

Anche a costo di attirarmi le ire di non pochi esperti di questioni dinastiche, oso proferire la mia opinione sul mistero di Kaspar Hauser. Il singolare fato del ragazzo non è dovuto affatto alla sua ipotetica nascita da genitori nobili e alle necessità di una successione. La causa è una sola: il persistere del culto di Wotan in alcuni distretti della Germania. Una conventicola di adepti di Wotan intendeva compiere un sacrificio umano tramite impiccagione. Siccome Wotan non gradiva l'immolazione di un battezzato, ecco che per attribuire al sacrificio la massima efficacia doveva essere impiccato un ragazzo che non avesse avuto alcun contatto con i sacramenti cristiani. Così la vittima designata era stata cresciuta in uno stato di reclusione assoluta fin dalla nascita, in attesa del momento adatto per il sacrificio pagano. A un certo punto però è accaduto qualcosa che ha sconvolto i sacrificatori: il ragazzo si è ammalato gravemente. L'uomo che gli portava il cibo e che lo accudiva non aveva potuto impedire che una inserviente lo battezzasse, temendo per la sua vita e per la salute della sua anima. In questo modo gli è stato dato un nome: Kaspar. Il ragazzo è sopravvissuto, ma quando il sacerdote di Wotan è venuto a conoscenza dell'accaduto, la setta non lo ha più voluto, perché diventato ormai inidoneo per il rito sacrificale. Questo battesimo "laico" non deve stupire: era un'usanza molto comune nei secoli passati, e spesso è stato utilizzato dalla Chiesa Romana per reclamare proprietà sul battezzato, ma il principio era valido anche per le Chiese Protestanti. La vaccinazione a cui è stato sottoposto il giovane Kaspar non deve essere considerata una contraddizione: è chiaro che questi settari avevano tutto l'interesse a che la vittima da immolare non morisse precocemente di vaiolo vanificando le spese per il suo mantenimento e obbligandoli a cercare un nuovo sacrificando.

Prima possibilità: continuità diretta popolare

Il culto di Wotan potrebbe essere sopravvissuto all'epoca antica in forma catacombale. Immagino che il nome della divinità pagana si sia usurato per naturale consunzione fonetica, finendo con l'essere pronunciato Wuten. Sono consapevole delle difficoltà che questa mia tesi incontra. I manuali scolastici e i testi universitari ci dicono che la Germania è stata cristianizzata ai tempi di Carlo Magno, e secondo l'ottica degli accademici è inconcepibile che un culto precristiano possa essere durato tanto a lungo nella clandestinità. Tuttavia la Storia non è riducibile a un mucchietto di date su un testo ad uso delle scuole superiori. 

Seconda possibilità: revivalismo dotto

Esiste una possibilità che non può essere esclusa: il culto di Wotan non sarebbe giunto all'epoca di Kaspar Hauser per sopravvivenza continuata e diretta, ma sarebbe stato il frutto di un'opera di ricostruzionismo e di revivalismo dotto. La cosa non è di per sé improbabile: quella era l'epoca del Romanticismo e negli ambienti colti si provava una grande fascinazione per il passato pagano. Tentativi simili si erano registrati in Inghilterra già nel XVIII secolo per la religione dei Druidi. Quello che non mi convince in questa ipotesi è che i risultati di queste operazioni di ricostruzione, basati su metodi filologici inconsistenti e su basi assai labili, sono ben lungi dall'essere confrontabili con i culti antichi. 

Kaspar Hauser e il Cristianesimo esoterico

La gran massa di baggianate proferite da Rudolf Steiner sulla figura di Kaspar Hauser merita comunque una menzione, non fosse altro che per l'assurdità dei concetti enunciati. Secondo il fondatore dell'Antroposofia, Kaspar si sarebbe incarnato come rampollo del Granduca di Baden per impedire il passaggio dallo spirito del Romanticismo a quello del Decadentismo rivivendo in chiave simbolica il sacrificio di Cristo. In questo pastone occultistico, i Rosacroce si mescolano ai Gesuiti e non si scorge traccia dei Rettiliani solo perché Icke non era ancora nato. Tra gli epigoni di Steiner c'è chi ha parlato di premonizione del Nazismo, ma del resto anche dalla lettura di un fondo di caffè sarebbe stata tratta la stessa conclusione, soprattutto col senno di poi. Il vero Cristianesimo Esoterico di cui il trovatello di Norimberga fu testimone è in realtà quello Dualista e Anticosmico, di cui può essere a buona ragione considerato un Martire.

martedì 3 maggio 2016

 

NATURA CONTRO

Aka: Green Inferno, Cannibal Holocaust II,
     Paradiso infernale 
Paese di produzione: Italia
Anno: 1988
Durata: 90 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Rapporto:
1:66:1
Genere: avventura, orrore
Sottogenere: cannibalesco
Regia: Antonio Climati
Soggetto:
Antonio Climati, Marco Merlo
Sceneggiatura: Franco Prosperi, Antonio Climati,
     Federico Moccia, Lorenzo Castellano
Casa di produzione: Dania Film, Filmes
     International, Medusa Distribuzione, National
     Cinematografica, Reteitalia
Musiche: Maurizio Dami
Interpreti e personaggi: 
    Marco Merlo: Fred
    Fabrizio Merlo: Mark
    May Deseligny: Gemma
    Pio Maria Federici: Pio
    Bruno Corazzari: contrabbandiere di bambini
    Roberto Ricci: Professor Korenz
    Jessica Quintero: Kuwala
    David Maunsell: pescatore al fiume
    Sasha D'Arc: sorella di Kuwala
    Roberto Alessandri: cacciatore di teste
    Salvatore Borgese: Juan Garcia
Censura: 83466 del 23-03-1988


Trama:
Una giornalista, Gemma, si unisce a tre amici in una spedizione alla ricerca del professor Korenz, scomparso nell'Amazzonia peruviana mentre era sulle tracce della mitica (e inesistente) civiltà degli Imas, che sarebbe stata alla base del famoso mito del paese di El Dorado. Inizia per la compagnia una serie di sconclusionate peripezie attraverso la foresta, tra scimmie e anaconda giganteschi. Alla fine, dopo essersi scontrati con un gruppo di brutali cercatori d'oro, Gemma e gli amici arrivano a destinazione: ritrovano il professore disperso in un villaggio che sembra proprio una reliquia del perduto popolo degli Imas. In realtà gli abitanti di quel luogo sono energumeni privi di qualsiasi rapporto di discendenza con gli Imas, genti che Korenz ha plasmato ed educato in modo tale da rendere reale un parto della sua fantasia. Insomma, si tratta una creazione artificiale, che egli è stato più volte tentato di far passare per la scoperta del secolo, riuscendo sempre a rinunciare a ogni conato di intenzioni falsarie. Alla fine, colpito dalla bellezza di Gemma e credendo così di poter avere con lei qualche contatto carnale, si lascia convincere a rivelare di aver davvero scoperto i mitici Imas,
andando così a infoltire la già consistente schiera dei chierici traditori e dei fabbricatori di frodi scientifiche. Se ne va via con la giornalista, lasciando i tre giovani aitanti tra i nativi, anche se non riuscirà a realizzare il suo desiderio di essere per lei un sugar daddy

Recensione:
Il film non ha alcuna relazione con il famoso Cannibal Holocaust di Deodato e non deve essere confuso con il quasi omonimo The Green Inferno di Eli Roth (2013). Se devo essere sincero e parlare francamente, fa schifo. Non presenta quasi alcuna originalità, dovrebbe essere un film d'avventura ma l'azione è fiacca, addirittura a tratti è noioso. Posso dire che la sua visione sia nella sostanza una perdita di tempo. Soltanto qualche trovata occasionale ha un suo valore, come ad esempio il pesce mordace che si infila nell'ano di un indigeno e il cadavere murato in un termitaio artificiale, impastato col fango - sebbene il serpente che esce dall'orbita non sia plausibile: a quanto ne so non esistono serpenti saprofiti e per giunta capaci di vivere in assenza di aria. Interessante la trovata dell'evirazione di uno schiavo rivoltoso tramite il morso di un boa. La cosa non è così inverosimile: anche se tali serpenti sono costrittori e non velenosi, il morso di un esemplare adulto non è esattamente come una fellatio. Molte sequenze valicano il confine della verosimiglianza e sembrano del tutto slegate dalla trama. Grottesca la massiccia ispanizzazione linguistica dei nativi in contrasto stridente con la conservazione quasi integrale dei loro costumi: chi ha girato il film evidentemente non si è potuto permettersi attori indios genuini e ha quindi propinato agli spettatori una visione un po' semplicistica delle culture amazzoniche. Un'ultima cosa. Dove sono i cannibali?  
 
Curiosità:
Una vera scimmia viene effettivamente colpita con una cerbottana nel film, e per questo motivo 12 secondi di pellicola sono stati tagliati all'uscita nel Regno Unito. Nonostante questo non si rilevano uccisioni di animali, cosa abbastanza rara per un film cannibalesco italiano.
 
Altre recensioni e reazioni nel Web: 
 
Ecco alcuni interventi apparsi sul Davinotti:  

Maik271 ha scritto:

"Pellicola di rara bruttezza quella girata da Climati, in cui l'avventura narrata sembra uscita da una produzione Disney e per giunta senza una sceneggiatura convincente. Il cast di sconosciuti e le musiche bruttissime fanno sì che manchi in questa storia il benché minimo requisito dei cannibal movie (a parte qualche testa goffamente inserita dentro ampolle di vetro delle quali si vede chiaramente il foro in basso). Solo il fatto che questo film sia stato spacciato come il sequel di Cannibal holocaust di Deodato gli fa meritare il voto più basso."

Undying ha scritto:

"Già fa sorridere che un professore americano (che di cognome fa Korenz!) sia ricercato nell'Amazzonia, ove s'è recato per motivi - non meglio identificati - di studio. Figurarsi quando viene rintracciato da un gruppo di ricercatori, che lo troveranno perfettamente integrato in una tribù di indios! Il tema è quello del "cannibalismo", ma Climati opta per una narrazione più antropologica e seriosa, glissando sulle scene splatter e sull'antropofagia: tema che serve da specchietto per allodole, al fine di attirare un pubblico destinato a rimanere -inevitabilmente- deluso dal contenuto. Dietetico."

Daidae ha scritto:

"Bruttissimo film di avventura ricco di messaggi ecologisti e buonismo a iosa (assurda la scena delle scimmie tramortite e rubate per fare pet-therapy!) A parte gli splendidi paesaggi, si segnala per la sua noiosità e per la mediocrità degli attori. Non è assolutamente un film su cannibali, ma un film di avventura molto leggero.
MEMORABILE: La donna che viene catturata dagli indios e costretta a ingurgitare banane!"

Buiomega71 ha scritto:

"Primo film di "finzione" di Antonio Climati e devo dire una bella sorpresa. Al di là di alcune falle nello script, rimango affascinato dagli omaggi Herzoghiani (la barca spinta nel folto della foresta, la musica di Mozart che riecheggia nella savana), a La foresta di smeraldo (il covo dei cacciatori d'oro) e trappole micidiali alla Guerrieri della palude silenziosa. Buono il comparto exploitativo, traffico di bambini per l'espianto degli organi, lo scheletro nascosto nel formicaio, le mortali fellatio delle anaconde. Ottimo adventure movie.
MEMORABILE: I riti dello sciamano per curare la ragazza dalla cancrena; Lo scoop iniziale delle teste, rimpicciolite, sotto vetro." 

Lucius ha scritto:

"Rispetto a tanti inutili mondo movie e a qualche stupido cannibal movie, almeno questo, privo di violenza gratuita, ha spunti interessanti, grande avventura, tanta azione e una natura selvaggia e quindi fascinosa come scenografia. Poi una rocambolesca trama, che vede impegnati un gruppo di amici a schivare pericoli di ogni genere nella ricerca di uno scienziato di cui si sono perse le tracce. La cultura amazzonica come surplus e una colonna sonora anni ottanta, ma accettabile con le sue sonorità."

Questo articolato intervento di tylerdurden93 è apparso su Filmscoop
 
"Venduto come cannibal-movie in realtà non presenta alcuna atrocità ascrivibile al filone, ci sono giusto alcune analogie ambientali e antropologiche con i capisaldi firmati da Deodato e Lenzi in primis. E' tuttavia considerato il canto del cigno di un genere che riscosse gran successo accompagnato da scalpore e regolari polemiche.
Trattasi di una pellicola d'avventura inerente il pericoloso viaggio nel cuore della jungla amazzonica di quattro temerari alla ricerca del fantomatico Dottor Korenz (imbarazzante l'analogia con "Cuore di Tenebra" o se se preferite "Apocalypse Now").
"Natura Contro" annoia pesantemente, è un susseguirsi di fatti scialbi e a tratti ridicolmenti ingenui. Colpa di una storia scritta malissimo e affondata da un montaggio a dir poco aberrante; fortunatamente regia e fotografia sono di pregevole livello.
Antonio Climati è personaggio col pallino documentaristico come già mostratro nelle numerose collaborazioni coi vari mondo movie, purtroppo il suo lavoro ha misera valenza sia dal punto di vista dell'intrattenimento che da quello didattico, con tradizioni e cultura di quelle inaccessibili zone trattate in maniera esageratamente sensazionalistica.
Deludente l'apporto del cast, anche se il personaggio dello studioso è per nulla stereotipato e piuttosto simpatico, una specie di Indiana Jones sul quale in partenza non si scommetterebbero due lire.
Nel lavoro di Climati si avverte l'esortazione al rispetto per il mondo circostante e al diritto di esistere delle popolazioni autoctone, anche in questo caso però, e dispiace ammetterlo, il lodevole sforzo è veicolato in maniera assolutamente fiacca." 


CANNIBAL HOLOCAUST 

Lingua originale: inglese, spagnolo
Paese di produzione: Italia
Anno: 1980
Durata: 91 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Rapporto: 1,85 : 1
Genere: avventura, drammatico, orrore
Sottogenere: cannibalesco
Regia: Ruggero Deodato
Sceneggiatura: Gianfranco Clerici
Produttore: Franco Palaggi
Casa di produzione: F.D. Cinematografica
Distribuzione (Italia): United Artists Europa
Fotografia: Sergio D'Offizi
Montaggio: Vincenzo Tomassi
Effetti speciali: Aldo Gasparri
Musiche: Riz Ortolani
Tema musicale: Cannibal Holocaust (Titoli di testa)
Scenografia: Massimo Antonello Geleng
Costumi: Lucia Costantini
Interpreti e personaggi:
   Robert Kerman: professor Harold Monroe
   Francesca Ciardi: Shanda Tomaso
   Perry Pirkanen: Jack Anders
   Luca Barbareschi: Mark Williams
   Gabriel Yorke: Alan Yates
   Salvatore Basile: Chaco Losojos
   Ricardo Fuentes: Felipe Ocaña
   Lucia Costantini: adultera
   Enrico Papa: giornalista televisivo
   Ruggero Deodato: uomo al parco
   Paolo Paoloni: dirigente televisivo
   Lionello Pio di Savoia: dirigente televisivo
Doppiatori italiani:
   Luciano De Ambrosis: professor Harold Monroe
   Emanuela Rossi: Shanda Tomaso
   Angelo Nicotra: Jack Anders
   Piero Tiberi: Mark Williams
   Massimo Giuliani: Alan Yates
   Sergio Fiorentini: Chaco Losojos
   Massimo Turci: dirigente televisivo
   Benita Martini: impiegata
   Gianni Marzocchi: Mr. Williams
   Sandro Acerbo: Miguel Lujan
Primo visto censura: n. 74702 

Trama:
Quattro giovani reporter, Shanda Tomaso, Mark Williams, Jack Anders e Alan Yates, si sono persi nelle profondità della foresta dell'Amazzonia. Da sei mesi nessuno ha più loro notizie. Erano stati incaricati da un'emittente televisiva di New York di girare un documentario sui popoli antropofagi che ancora vivevano nelle più impervie regioni del Brasile. La scelta era caduta su questi reporter per via dei documentari che avevano girato in Africa, lavori che attestavano ogni sorta di atrocità commessa da un regime militare. Al professor Harold Monroe viene dato l'incarico di ritrovarli: con due persone assegnategli dalle autorità locali si mette subito sulle tracce dei ragazzi scomparsi, seguendo il loro cammino più probabile nell'Inferno Verde. Le sue guide, che hanno catturato un giovane della tribù degli Yakumo colto in flagranza di cannibalismo, lo portano con sé come ostaggio per garantirsi l'incolumità. Dopo una serie di peripezie giungono tra gli Yakumo e riconsegnano l'ostaggio alla sua gente. Qui capiscono che i reporter scomparsi erano ricordati con orrore per via di una spaventosa colpa di cui si erano macchiati, ma non riescono a saperne di più. Proseguono così fino a raggiungere la terra degli Shamatari, un popolo di antropofagi. Il nome Shamatari designa le genti che sono più note come Yanomami, che lo psicologo Steven Pinker ha etichettato (non senza controversie) come il popolo più violento dell'intero pianeta, quello col tasso più alto di uccisioni. Nella terra di questi Shamatari, Munroe e le sue guide finalmente scoprono la verità: Williams, Anders, Yates e Tomaso sono stati uccisi, e i loro cadaveri sono considerati un'emanazione del Male. Sono ormai quasi ridotti a scheletri, nelle loro orbite si trovano grasse larve di scarabei e di altri saprofiti, e alcuni coleotteri sgusciano fuori, la metamorfosi ormai completata, zampettando allegramente. Quello che però è più importante è la scoperta delle bobine di pellicola filmata dai reporter prima di morire, che documentano ciò che è loro accaduto. Munroe e i sui accompagnatori ricevono a questo punto un cortese invito a pranzo dal cacique della tribù: si tratta di un pasto cannibalico. Al professore viene offerta la coratella di un guerriero nemico ucciso e già in parte macellato. Per ragioni di sopravvivenza, lo studioso statunitense addenta il fegato umano e lo mastica, riuscendo così a guadagnarsi la stima della tribù. Tornato alla sua università, inizia la proiezione delle pellicole raccolte: la realtà che si disvela ai presenti è talmente orribile da far apparire innocenti i riti cannibalici degli Shamatari. Ecco la verità: i reporter si sono abbandonati a un'orgia di sangue, abbattendosi sugli Yakumo e facendone strage, per giungere poi dagli Shamatari, sempre uccidendo e stuprando. Le riprese sono continuate fino all'epilogo cruento, all'eliminazione per smembramento e decapitazione di un invasore dopo l'altro.   

Recensione: 
Questo è uno dei film più controversi della storia del cinema, non soltanto italiano. Deodato è stato accusato ripetutamente di aver girato un autentico snuff movie, uccidendo realmente alcune persone, e con questa accusa sanguinosa è comparso persino in tribunale - facendo comparire le supposte vittime per dimostrare che le riprese non hanno comportato alcun omicidio. La censura si è abbattuta come un maglio sulla pellicola, al punto che ancor oggi è colpita da divieto in decine di paesi. Si sono registrate reazioni violentissime anche da parte degli animalisti, con tanto di minacce di morte e altre amenità così tipiche di quei settari, che sfigurano la nobiltà dell'amore verso gli animali abbandonandosi a ogni sorta di istinto belluino e di desiderio omicida. Infatti le riprese hanno comportato la morte di numerosi animali. Un grosso roditore è stato infilzato con uno stiletto e il suo cuore perforato ha fatto schizzare fiotti di sangue come cruente eiaculazioni. Una tartaruga è stata crudelmente sventrata, le sue interiora sono state arrostite e divorate. Un maialino è stato abbattuto con una fucilata, senza alcuna necessità. A una scimmietta è stato affettato il cranio per lasciare allo scoperto il cervello, considerato dai locali una leccornia, e a quanto pare un'altra scimmietta, assistendo all'esecuzione della sua compagna è morta d'infarto. 
 
La mia opinione è questa: per quanto problematico e contaminato da ogni genere di abiezione, Cannibal Holocaust resta comunque un capolavoro per via delle riflessioni filosofiche - anche mortificanti - a cui dà di certo adito. Non ho abbastanza informazioni per capire se il regista fosse pienamente consapevole del risultato che ha ottenuto. All'epoca esisteva una sensibilità un po' diversa da quella attuale, e venivano prodotti film che insistevano, non senza una certa morbosità, su aspetti particolarmente turpi del genere umano. Cannibal Holocaust non è stato il solo film cannibalico prodotto in quegli anni. La narrazione non concede nulla all'idealismo e alle illusioni. I reporter sono sempre stati maligni: manca in loro un processo di graduale cedimento al potere del Male. Si ha semplicemente il disvelarsi della loro vera natura nel corso del film. Una specie di spartiacque rende evidente questa epifania satanica. La situazione ha cominciato a precipitare quando stavano amputando e cauterizzando la gamba della guida, che era stata morsicata a un piede da un serpente velenoso. Ho visto negli occhi di Barbareschi una luce di sadismo assoluto, simile a quella che si può riscontrare nei cannibali. Se lo spettatore sta attento, vedrà lo stesso sguardo allucinante di Andrej Chikatilo, il Macellaio di Rostov. Che dire? Soltanto una cosa: Luca Barbareschi è davvero un ottimo attore. 
 
Censura:  
Numerose scene sono state censurate al primo visto censura in Italia, per un totale di 326,4 metri di pellicola:

1) Una donna incinta uccisa a colpi di pietra
   (metri 3,1); 
2) Cannibali che iniziano a squartare il cadavere di una donna
   (metri 1,6);
3) Uccisione e squartamento di una tartaruga
   (metri 71,2);
4) Decapitazione di una scimmietta
    (metri 20,7);
5) Uccisione di un maialino con un colpo di fucile
    (metri 9,1); 
6) Uomo che intervista una donna chiedendole se giustifica orrende stragi per dare al pubblico gli spettacoli che brama
    (metri 7,6, poi tagliata dal regista);
7) L'incendio del villaggio
    (metri 5,6)
8) Sesso con un'indigena
    (metri 11,9, poi tagliata dal regista);
9) Indigena in agonia con orribili ferite
    (metri 2,9);
10) Una donna incinta alla quale viene strappato il feto dal ventre
    (metri 19,1);
11) Il professor Monroe che dichiara di non avere intenzione di divulgare il filmato dei reporter, ritenendolo osceno, disumano e disgustoso
    (metri 26,3);
12) Violenza sessuale ai danni dell'indigena
    (metri 50,5);
13) Un uomo che nella sala di proiezione si gira verso una donna commentando: "Veramente disgustoso!"
    (metri 1,9);
14) I quattro reporter che filmano la ragazza indigena impalata
    (metri 13,7);
15) Evirazione di un reporter, a cui viene mozzata testa; il cadavere viene smembrato e divorato dai cannibali
    (metri 47,3);
16) La reporter viene denudata, violentata e uccisa a bastonate dai cannibali
    (metri 26,1);
17) I cannibali agitano in aria la testa mozzata della reporter
    (metri 2,3);
18) Un uomo accanto al professor Monroe, nella sala di proiezione, ordina di mandare al macero tutto il materiale girato dai quattro reporter
    (metri 5,5).

Inutile dire che ho avuto la fortuna di poter visionare il film nella sua interezza. 

Critica: 

La Repubblica:
"Le scene raccapriccianti del film sono ottenute con tale cialtroneria che non solo non riescono a mettere paura, ma provocano addirittura disgusto e sdegno."

Il Corriere della Sera:
"Un film che è eufemistico definire rivoltante, affidato interamente a scene di bassa macelleria come squartamenti e infilzamenti di animali vivi, cannibalismo, lapidazioni e altre simili piacevolezze...".

Il Messaggero:
"Tra i tanti film del genere questo è forse il più orripilante e solletica i gusti sadici del pubblico di Deodato."

Morando Morandini, che ha assegnato una stella al film nel suo dizionario:
"L'espediente del documentario serve a Ruggero Deodato per un inutile e cinico sensazionalismo."

Paolo Mereghetti, che ha assegnato due stelle al film nel suo dizionario:
"Un'operazione gelida e sgradevole, ma a suo modo abile: l'espediente del film nel film non solo avvolge di un alone inquietante da finto snuff la violenza mostrata, ma costituisce una precisa riflessione sulla prassi dei mondo movies, una pietra tombale e una satira del genere. Cannibal Holocaust è un documento indiretto sul malessere dell'epoca e una tappa fondamentale per chiunque voglia riflettere sulla rappresentazione della violenza."

Pino Farinotti, che ha assegnato due stelle al film nel suo dizionario, non ha commentato.

Nocturno:
"Cannibal Holocaust è una parola vera sullo spettacolo dell'informazione e quindi sull'Occidente Coccodrillo. L'incendio del villaggio trova paragone solo in Apocalypse Now, per sadismo e pietà (della colonna sonora) verso le vittime. L'episodio di Alan Yates sulla donna impalata, poi, è forse ancora più agghiacciante e perfetto nella sua perfetta malafede. A pensarci bene, il titolo preannuncia già tutta l'ambiguità del film: Cannibal, associazione mentale istantanea negativa + Holocaust, sterminio d'innocenti = cortocircuito intellettuale: per noi i cannibali non sono innocenti, quindi l'espressione suona di primo acchito come un incomprensibile ossimoro."

Gordiano Lupi:
"Cannibal Holocaust infrange molti tabù cinematografici ed è un atto di accusa verso la società contemporanea e i suoi falsi miti. Cannibal Holocaust è uno di quei film che, con buona pace di puristi e benpensanti, danno spessore al cinema."

Manlio Gomarasca:
"Quando ho visto Cannibal Holocaust ho provato uno shock indescrivibile, un'emozione senza pari. Credo che pochi film nella cinematografia mondiale abbiano mai raggiunto tali estremismi nel mostrare la violenza. Il punto di forza del film sta però nel descrivere tali scene con la fredda lucidità e la cruda esposizione di un documentario sulla morte."  

Marco Giusti (Dizionario dei film stracult italiani):
"Il più celebre cannibal movie mai girato in Italia, crudelissimo, con scene orripilanti di violenze su uomini e animali. Ad un passo dallo snuff movie."

Sergio Leone a Ruggero Deodato, vedendo il film in anteprima:
"Caro Ruggero, questo sarà il tuo cavallo di battaglia, ma ti causerà gravi problemi con la giustizia."

Ruggero Deodato, sul suo stesso film:
"Cannibal Holocaust ha poco a che spartire con l'horror. Io sono un regista di genere all'americana. Ho fatto di tutto. A chi definisce Cannibal Holocaust un horror rispondo che non l'ha capito e che deve guardarselo per bene e storicizzarlo. Cannibal Holocaust è una pellicola di denuncia, ed è il mio lavoro più riuscito." 

sabato 30 aprile 2016

GIULIO CESARE A CENA DA VALERIO LEONE: MEMI E SINGOLARI CONTRADDIZIONI

Leggendo la Storia di Milano di Pietro Verri, mi sono imbattuto in un brano in cui è ricordato un episodio bizzarro occorso a Caio Giulio Cesare mentre si trovava a Milano. Questo è quanto riporta l'illuminista meneghino: 

Pompeo, Crasso, Cesare furono in Milano. Cenando quest'ultimo in Milano da Valerio Leone, osservò che gli eleganti Romani erano offesi in vista d'una mensa rustica e senza atticismo, e già cominciavano a deridere l'albergatore, il quale ne provava confusione; ma Cesare giocondamente prese a mangiare quelle rozze vivande, e seriamente rivolto a' Romani fece loro la questione, se fosse più rozzo e barbaro chi ospitalmente presentava i cibi alla foggia del suo paese, ovvero chi insultava l'albergatore.  

Plutarco, nelle Vite Parallele, ci riporta questo:

A dimostrare quanto poco esigente fosse in tema di cibo, si cita di solito questo episodio: un suo ospite, presso cui mangiava a Milano, Valerio Leone, mise in tavola degli asparagi conditi con mirra, anziché con olio. Cesare li mangiò tranquillamente e rimbrottò i suoi amici che si sentivano offesi. “Bastava, disse, che coloro a cui non piacevano non se ne servissero. Chi si lamenta di una zoticaggine come questa, è uno zotico anche lui”.

Questo è il testo greco originale: 

τῆς δὲ περὶ τὴν δίαιταν εὐκολίας κκεῖνο ποιοῦνται σημεῖον, ὅτι τoῦ δειπνίζοντος αὐτὸν ἐν Μεδιολάνῳ ξένου Οὐαλερίου Λέοντος παραθέντος σπάραγον, κα μύρον ντ'λαίου καταχέανtος, ατς μν φελῶς ἔφαγε, τος δ φίλοις δυσχεραίνουσιν πέπληξεν· «ἤρκει γὰρ" φη "τ μ χρῆσθαι τος παρέσκουσιν· ὁ δ τν τοιαύτην γροικίαν ἐξελέγχων ατς ἐστιν ἄγροικος».

Questa è la traduzione latina ad opera di Isaac Casaubon, citata in calce nella stessa opera di Verri (l'introduzione è omessa): 

invitatus Mediolani ad coenam, hospite Valerio Leone, qui asparagum apposuerat, atque olei loco infuderat unguentum, ipse simpliciter comedit, et indignantes increpavit amicos. Satis enim, inquit, abstinere iis a quibus abhorrebatis: nunc eam rusticitatem qui deprehendit, ipse est rusticus.

Non ho trovato menzione dell'episodio nell'opera di Svetonio.

De gustibus non disputandum est

Secondo Wikipedia, sarebbe stato Plutarco (che scrisse in greco!) ad attribuire a Cesare il detto "de gustibus non disputandum est" in occasione della portata con i fatidici asparagi. Tuttavia, in Plutarco non si trova menzione nemmeno di un'equivalente frase in lingua ellenica.

"Secondo Plutarco la frase de gustibus non disputandum est fu pronunciata da Giulio Cesare davanti a un piatto di asparagi al burro serviti nella casa Milanese di Valerio Leone. Ai generali Romani la pietanza non piacque affatto; i Romani infatti erano abituati all'olio e il burro era considerato un alimento "barbaro". Allora Cesare, di fronte all'imbarazzante situazione, placò gli animi con la soprascritta frase."

Ma proprio sopra si dice:

De gustibus non est disputandum[1][2] – talvolta reso anche con De gustibus non disputandum est oppure De gustibus et coloribus non est disputandum, o anche nella forma abbreviata De gustibus non disputandum – è una locuzione latina molto diffusa di origine non classica.

[1][2] Le due note che compaiono nel testo di Wikipedia rimandano al sito www.taccuinistorici.it, che non cita le fonti del detto attribuito abusivamente a Cesare. A quanto pare è un sito con attendibilità prossima a quella dei fumetti di Paperinik.

Le due cose non combinano! O la frase è di Cesare - e in tal caso è classica - oppure è apocrifa - e in tal caso è non classica. Non può essere entrambe le cose. I wikipediani che hanno composto la pagina devono aver avuto le idee confuse.

Il punto è che la frase non è classica e non fu detta da Cesare. Inoltre, a pensarci bene, non avrebbe avuto alcun potere calmante e risolutore in occasione di un banchetto compromesso dalla mancanza di educazione degli ospiti. Sarebbe come se qualcuno dicesse all'albergatore: "Quello che ci hai servito è oggettivamente merda, ma sui gusti non si discute"

Burro e mirra

Plutarco parla di mirra o comunque di un olio profumato, non di burro. In lingua greca, la parola che il Casaubon traduce con unguentum e che il Verri interpreta con "burro" è μύρον. La traduzione dello studioso calvinista è senza dubbio ineccepibile: μύρον significa, oltre che "mirra", anche "olio profumato" o "unguento". Non indica però mai il burro, che in greco è chiamato βούτυρον. Plutarco non avrebbe mai confuso i due concetti. Il fatto che a Roma il burro fosse usato come unguento e cosmetico non implica che unguentum debba necessariamente indicare il burro.

Proliferazione memetica

La prima volta che mi sono imbattuto nella storia di Cesare e di Valerio Leone è stato quando ero un giovincello. Leggendo la Settimana Enigmistica, sono rimasto colpito da un breve aneddoto (credo che fosse nella sezione "Forse non tutti sanno che"), che però parlava di uova al burro anziché all'olio. Cesare avrebbe fatto onore a una portata di uova fritte col burro, che avevano fatto storcere il naso ai suoi commilitoni. Degli asparagi non si faceva menzione. Dai fatti asciutti e stringati esposti da Plutarco sono pullulate innumerevoli varianti ed estensioni. In un forum la cena da Valerio Leone (ribattezzato Leonte o Leonzio perché fa più figo) si trasforma addirittura in uno sketch comico, in cui Giulio Cesare e il suo ospite sono ridotti a macchiette. Il condottiero romano, ridotto a guitto, prende in disparte il suo ospite chiedendogli informazioni sulla natura di quel "maleodorante unguento", sentendosi rispondere che è prodotto col latte delle floride vacche cisalpine.

La Storia si usura e si arrugginisce

Ogni cosa sembra perdere i suoi contorni e scolorare nell'irrealtà, a causa del flagello del contagio memetico. Come prioni della mente, i memi inquinano ogni cosa, fanno sì che la Storia perda di sostanza fino a ridursi a qualcosa di sfocato, di estemamente confuso. Alla fine diventa davvero difficile stabilire cosa davvero è accaduto. Tuttavia, per quanto sia arduo districarsi in mezzo a queste rovine in disgregazione, grazie alla Logica e al duro impegno è ancora possibile impedire che tutto si perda nel rumore di fondo.  

La necessità del Connettivismo

Di fronte a questa incertezza intrinseca delle informazioni - e non soltanto di quelle reperibili nel Web - reputo necessaria l'istituzione di una nuova figura nel mondo scientifico, quella del Connettivista. Proprio come il joat di cui parlava Philip José Farmer nel suo romanzo di fantascienza Gli Amanti di Siddo, il Connettivista deve assumersi il compito di far parlare tra loro mondi che hanno perso la capacità di comunicare. Confrontando le informazioni e sottoponendole a un attento vaglio, farà emergere criticità e confuterà errori anche inveterati. Combattere fraintendimenti e falsità tramite il flusso di informazioni è un dovere. Solo in questo modo si potrà impedire il tracollo della Scienza, visto che l'Accademia è sempre più minacciata dalla cecità e si divide ormai in tronconi autoreferenziali.

venerdì 29 aprile 2016

IL PANETTONE: ORIGINE ED ETIMOLOGIA


Quando si indaga sull'origine di uno dei simboli di Milano, il panettone (in meneghino panatton /pana'tun/), ecco che ci si imbatte in narrazioni leggendarie quanto inverosimili.

Il "Pan del Toni"

La più comune è all'origine di una falsa etimologia, che vuole il panettone derivato da Pan de(l) Toni, dal nome del fornaio che l'avrebbe inventato.
Questo è quanto riportato da Wikipedia (29/04/2016):

Il cuoco al servizio di Ludovico il Moro fu incaricato di preparare un sontuoso pranzo di Natale a cui erano stati invitati molti nobili del circondario, ma il dolce, dimenticato nel forno, quasi si carbonizzò. Vista la disperazione del cuoco, Toni, un piccolo sguattero, propose una soluzione: «Con quanto è rimasto in dispensa – un po' di farina, burro, uova, della scorza di cedro e qualche uvetta – stamane ho cucinato questo dolce. Se non avete altro, potete portarlo in tavola». Il cuoco acconsentì e, tremante, si mise dietro una tenda a spiare la reazione degli ospiti. Tutti furono entusiasti e al duca, che voleva conoscere il nome di quella prelibatezza, il cuoco rivelò il segreto: «L'è 'l pan del Toni». Da allora è il "pane di Toni", ossia il "panettone".

La storiella apocrifa del "Pan del Toni" è confutata dalla costumanza medievale e rinascimentale di servire i dolci cotti al forno come antipasto. Così in narrazioni più estese di quella riportata da Wikipedia si descrive il cuoco in ansia perché dopo un banchetto tanto sontuoso gli ospiti si aspettavano un dolce altrettanto eccezionale. Lo sconosciuto inventore di tale favola ha semplicemente proiettato nel passato l'uso a tutti noi ben noto, e ritenuto inveterato, di servire i dolci unicamente a fine pasto.

Questo racconta invece Pietro Verri nella sua Storia di Milano, descrivendo un lauto banchetto svoltosi nel 1524:  

Lavate  prima  le  mani  con  acqua  nanfa,  posto  in  tavola primamente focaccine fatte col zuccaro et acqua rosata, e marzapani et offellette e pane biscotto; lo scalco portò poi fegati arrostiti di capponi, galline, et anitre, aspersi con sugo di aranci, e lattelli di vitello,  e  cotornici  e  tortore molto grasse, arrostite nello spiedo;  terzo,  furono  portati  pavoni  e conigli arrosto, e varii piattelli di carne di manzo trita, condita con zenzevero, canelle e garofani; da poi capponi  e  lonze  di  vitello  a  rosto,  con  piattelli  di  carne di  caprioli, con uva in aceto composta. Poi petti di vitello, capponi a lesso, con tortellette di formaggio e cinamomo, coperte con bianco mangiare, ovvero sapore composto con mandorle, zucchero e sugo di limone;  poco da poi teste di vitello condite con passule e pignoli, e gran pezzi di carne di manzo, con senape e ulive; da poi  colombi, anatre, lepretti acconci con pere, limoni e aceto. D'indi a poco furono portati porcelletti arrosto intieri, coperti di salsa verde; poco appresso papari grassi, cotti con cipolle e pepe; dopo lo scalco fece portare i latticini e fritelle fatte a modo tedesco; e cose fatte di cacio di molte sorti. Ultimamente si posero mirabolani, citrini, kebuli, e corteccie di cedro e zucche confettate. Ho tralasciato il pane bianco come neve, e vini bianchi e rossi, al nettare o all'ambrosia non cedenti, di che i Tedeschi maravigliosamente se ne godevano e con grande stupore. V'erano molti cantori e suonatori di varie sorti con trombe e tamburi, che rallegrarono molto i convitati, nel qual  mangiarono  certamente  più  di  trecento  uomini.

Come si vede, nel banchetto citato - che è piuttosto tipico - a inizio pasto sono stati serviti marzapane, pandolci e biscotti, mentre a fine pasto comparivano agrumi canditi e zucche confettate. Non si può dire vi fosse un'associazione biunivoca tra la fine del pasto e i dolciumi.

Il dolce a fine pasto e una locuzione pseudolatina 

Esiste anche un'altra cantonata legata all'ingannevole certezza dell'eternità del costume del dolce a fine pasto. La tipica espressione dulcis in fundo non è latina, con buona pace di quanti lo credono. È semplicemente latino maccheronico. Intanto, il vocabolo latino per indicare il dolce (sostantivo) sarebbe un neutro, dulce, anche se nell'antica Roma il concetto sarebbe stato espresso diversamente, ad esempio con lucunculus. Notiamo poi che fundus indica soprattutto un campo, un podere. Nessun parlante latino avrebbe detto "in fundo" per significare "alla fine". Così "dulcis in fundo" è una frase latina perfettamente accettabile solo se la si traduce con "la persona dolce nel podere", che a conti fatti non significa assolutamente nulla.

Un'altra storiella apocrifa

Una diversa origine del mito del Pan del Toni è riportata da Wikipedia (29/04/2016):

Messer Ulivo degli Atellani, falconiere, abitava nella Contrada delle Grazie a Milano. Innamorato di Algisa, bellissima figlia di un fornaio, si fece assumere dal padre di lei come garzone e, per incrementare le vendite, provò a inventare un dolce: con la migliore farina del mulino impastò uova, burro, miele e uva sultanina. Poi infornò. Fu un successo strabiliante, tutti vollero assaggiare il nuovo pane e qualche tempo dopo i due giovani innamorati si sposarono e vissero felici e contenti.

Ha tutta l'aria di una fiaba tipo Cenerentola o Biancaneve, ancor meno credibile della leggenda del banchetto di Ludovico il Moro.

Il "pane di tono"

Sembra decisamente più plausibile la descrizone attribuita da Wikipedia a Pietro Verri (29/04/2016):

Pietro Verri narra di un'antica consuetudine che nel IX secolo animava le feste cristiane legate al territorio milanese: a Natale la famiglia intera si riuniva intorno al focolare attendendo che il pater familias spezzasse "un pane grande" e ne porgesse un pezzo a tutti i presenti in segno di comunione. Nel XV secolo, come ordinato dagli antichi statuti delle corporazioni, ai fornai che nelle botteghe di Milano impastavano il pane dei poveri (pane di miglio, detto pan de mej) era vietato produrre il pane dei ricchi e dei nobili (pane bianco, detto micca). Con un'unica eccezione: il giorno di Natale, quando aristocratici e plebei potevano consumare lo stesso pane, regalato dai fornai ai loro clienti. Era il pan di scior o pan de ton, ovvero il pane di lusso, di puro frumento, farcito con burro, miele e zibibbo.

Va detto che foneticamente il passaggio da pan de ton /pan de 'tɔn/ a /pana'tun/ è impossibile proprio come l'origine dal summenzionato Pan del Toni: una -o- aperta /ɔ/ non può evolvere in una vocale chiusa /u/. Si tratta chiaramente di una paretimologia, anche se più dotta rispetto a quella suggerita dalla leggenda del fornaretto milanese.

Un inaspettato pacchetto memetico

Un problema non indifferente è che non sono riuscito a trovare menzione nell'opera del Verri di quanto riportato in Wikipedia. Non ho cercato in tutta la sua produzione, è chiaro. Mi sono limitato alla Storia di Milano, sia perché in altri siti la storia del "pane di tono" è attribuita in modo esplicito a tale opera, sia perché difficilmente il Verri avrebbe potuto parlare del panettone nel suo Dei delitti e delle pene o nei suoi scritti di economia. Questo è un link che permette lo scaricamento e la consultazione della Storia di Milano, opera non coperta da diritti d'autore.   


Questo è l'unico brano che ho trovato sulla preparazione del pane nella città lombarda in riferimento all'uso della farina di puro frumento:

Generalmente si mangiava in Milano pane di mistura; e l'anno 1355 vi era in tutta la città un forno solo che fabbricasse il pane bianco di puro frumento; pane che allora era di lusso; e questo forno privilegiato chiamavasi il prestino dei Rosti, ed era vicino  alla  piazza  dei  Mercanti.

Altrove si dice che a Milano nel 1288 esistevano ben quattrocento fornai che cuocevano il pane e mille taverne per la vendita del vino. Se il pane di puro frumento era una tale rarità da essere prodotto da un unico fornaio ancora nel XIV secolo, si pensa che sia una fanfaluca l'idea che il giorno di Natale tutti quei fornai producessero panettoni di puro frumento à gogo per tutta la cittadinanza.  

Questo poi è l'unico brano che ho trovato sull'uso di pani grandi in occasione del Natale:

Nella vigilia del Santo Natale si faceva ardere un ceppo ornato di frondi e di mele, spargendovi sopra tre volte vino e ginepro; e intorno vi stava tutta la famiglia in festa. Questa usanza durava ancora nel secolo decimoquinto, e la celebrò Galeazzo Maria Sforza. Il giorno del Santo Natale i padri di famiglia distribuivano, sin d'allora, i denari; acciò tutti potessero divertirsi giuocando. Si usavano in quei giorni dei pani grandi; e si ponevano sulla mensa anitre e carne di maiale; come anche oggidì il popolo costuma di fare.

Come si vede, non si fa menziona al pane di lusso o "pane di tono", e neppure si dice che col passar dei secoli da una grande forma di pane si è giunti al panettone fatto e finito, con tanto di miele, burro e zibibbo. Anzi, sembra che il Verri affermi che ancora ai suoi tempi il giorno di Natale le famiglie del popolo consumassero forme di pane semplice, di mistura, ma soltanto più grandi del consueto. 

L'origine del testo riportato da Wikipedia e da altre fonti nel Web non mi è chiara, in ogni caso ho il sospetto che si tratti di una fabbricazione, di un pacchetto memetico fabbricato da una singola persona e in seguito propagatosi. Se mi fossi sbagliato nella mia analisi delle fonti e qualcuno lo dimostrasse, me ne scuserò pubblicamente - anche se dubito che questo accadrà. 

Maggior credibilità delle fonti in inglese

Più sobria è la Wikipedia in inglese (29/04/2016), che comunque menziona le leggende sul panettone ma dà anche la corretta etimologia della parola, un semplice accrescitivo di panetto, come anche un alunno delle scuole elementari potrebbe ben comprendere.  

In Italy the panettone comes with an often varied history, but one that invariably states that its birthplace is in Milan. The word "panettone" derives from the Italian word "panetto", a small loaf cake. The augmentative Italian suffix "-one" changes the meaning to "large cake".

Dopo aver accennato a una dubbia continuità con tradizioni dell'Impero Romano, si fa comunque cenno al problematico "pane di tono" (vedi sopra):

The origins of this cake appear to be ancient, dating back to the Roman Empire, when ancient Romans sweetened a type of leavened cake with honey. Throughout the ages this "tall, leavened fruitcake" makes cameo appearances in the arts: It is shown in a sixteenth-century painting by Pieter Brueghel the Elder and is possibly mentioned in a contemporary recipe book written by Bartolomeo Scappi, personal chef to popes and emperors during the time of Charles V. The first recorded association of panettone with Christmas can be found in the writings of 18th century illuminist Pietro Verri. He refers to it as "Pane di Tono" (luxury cake). 

Conclusioni 

Quanto discusso in questo articolo fa riflettere su un paio di cose:
1) Ogni informazione reperibile è soggetta a distorsioni, che ne possono compromettere in modo grave l'attendibilità;
2) Aspetti della nostra vita quotidiana che a noi paiono ovvi, hanno nella maggior parte dei casi un'origine incerta, che è estremamente difficile poter determinare.

martedì 26 aprile 2016

ULTERIORI PROVE DELLA DEMENZA CHE SCONVOLGE GLI ATENEI

Tra gli accademici decerebrati e i divulgatori più ignoranti dei somari, non so davvero quale sia la piaga peggiore. Un ricercatore ha una grande responsabilità, perché se fa passare per serio lavoro scientifico quelle che sono autentiche stronzate, a soffrirne sarà la Scienza medesima. Anche il divulgatore scientifico avrà la sua parte di responsabilità, perché se a causa della propria ignoranza distorcerà i risultati dei ricercatori, arrecherà all'intero genere umano un grave pregiudizio. 

Il caso dello studio sulla popolazione dell'Isola di Pasqua ad opera della sciagurata Università di Binghamton non è stato sufficiente. Con immensa sorpresa mi sono imbattuto in un articolo ancor più deprecabile ed inverecondo, pubblicato da ANSA.


Cancellato anche il DNA dei popoli precolombiani.
Non è sopravvissuto nemmeno un gene.

Udite udite! 

"Nessuna traccia, nemmeno l'ombra di un gene: delle antiche popolazioni precolombiane non è rimasto più nulla, sono state completamente cancellate dai colonizzatori spagnoli. A indicare quanto l'arrivo dei Conquistadores sia stato devastante è la mappa del Dna prelevato da 92 fra mummie e scheletri che risalgono al periodo compreso fra 500 e 8.600 anni fa.
Pubblicata sulla rivista Science Advances, la ricerca è la più vasta mai condotta su un Dna così antico ed è stata coordinata dall'Università australiana di Adelaide. Vi hanno partecipato l'Università della California a Santa Cruz (Ucsc) e quella di Harvard."

E ancora: 

"E' sorprendente, ma in nessuna delle linee genetiche trovate nei circa 100 resti umani che abbiamo esaminato indica che ci siano dei discendenti nelle popolazioni attuali", ha osservato il coordinatore della ricerca, Bastien Llamas, del Centro australiano per l'analisi del Dna antico (Acad) dell'università di Adelaide. "Questa separazione - ha aggiunto - sembra essersi stabilita circa 9.000 anni fa ed era completamente imprevista".  

La demenza nelle università colpisce ancora! Un'epidemia sempre più spaventosa. Questa volta sono coinvolti atenei davvero illustri e insospettabili, come l'Università di Larvard.

Secondo questi pazzi drogati, le mummie da loro analizzate implicherebbero una delle seguenti alternative:

1) Gli attuali nativi amerindiani sarebbero scaturiti dal nulla; 
2) Gli attuali nativi amerindiani proverrebbero dalla Spagna;
3) Gli attuali nativi amerindiani avrebbero origini non genetiche.

Quanto affermato da Bastien Llamas, secondo cui "in nessuna delle linee genetiche trovate nei circa 100 resti umani che abbiamo esaminato indica che ci siano dei discendenti nelle popolazioni attuali", parrebbe far propendere per la soluzione 3): a detta sua è possibile che un figlio non erediti alcun gene dai suoi genitori. Magari potrebbe tornare a scuola a studiare gli esperimenti di Mendel sui piselli. Sembra invece che i suoi colleghi preferiscano la soluzione 2): provenienza dalla Spagna. I nativi dell'America Latina si sarebbero in realtà formati dalla popolazione preromana della penisola Iberica. Al momento non mi sono ancora imbattuto in decisi fautori della soluzione 1). 

Il problema non è la scoperta di resti umani il cui genoma non ha corrispondenza con le popolazioni moderne, ma la conclusione indebita che ne è stata tratta. Che numerose linee genetiche siano scomparse senza lasciare traccia nel corso dei secoli è una cosa del tutto normale. Questo non significa affatto che tutte le linee genetiche presenti prima della Conquista siano state spazzate via. Non ci sono poi soltanti i geni: le antiche popolazioni hanno lasciato le loro lingue, che in molti casi sono sopravvissute. Il fatto è che per questi imbecilli l'intera molteplicità delle lingue native del Sudamerica avrebbe le sue radici nella penisola iberica! I Cahuapana, gli Itonama e gli Yanomami si sarebbero formati nel distretto di Siviglia. I Messicani che tuttora parlano idiomi di ceppo Azteco e Maya sarebbero in realtà Catalani. I milioni di parlanti Quechua proverrebbero direttamente dalla stessa Estremadura che ha dato i natali a Hernán Cortés, a Francisco Pizarro e a Pedro de Valdivia, e identica provenienza avrebbero i Mapuche. Anzi, Valdivia si sarebbe portato i Mapuche con sé da casa. Mi fermo qui, visto che le genti non comprendono il concetto stesso di sarcasmo.

Reduce dalla lettura dell'articolo, sono rimasto in preda all'ira e di malumore per diverse ore. 

Se diamo un'occhiata alla versione in inglese del deleterio articolo, pubblicato su The Telegraph, sembra che il testo sia più soft. Evidentemente gli articolisti di ANSA ci hanno messo del loro, anche se compare comunque l'idea folle della completa distruzione della popolazione amerindiana (disease carrying Europeans really did wipe out Native Americans). Questo è il link: 


In realtà la mancanza di corrispondenza tra genomi antichi e moderni aveva già trovato la sua spiegazione in un altro studio, in cui si parlava di derive genetiche occorse in tempi relativamente brevi.


Yucatan (TMNews) - Lo scheletro di una 15enne vissuta 12mila anni fa ha risolto un mistero lungo decenni e ha fatto luce sulle origini dei nativi americani. Naia, così è stata battezzata, è stata trovata dagli archeologi al largo della penisola dello Yucatan, in Messico, in una grotta sommersa dopo lo scioglimento dei ghiacciai, in cui la ragazza probabilmente è caduta mentre cercava dell'acqua. "Naia è lo scheletro più antico e completo che ha ci ha dato la possibilità di fare studi ad altissimo livello", spiega l'archeologa Pilar Luna Erreguerena. Il suo dna infatti è preziosissimo: gli studiosi non erano mai riusciti a spiegarsi perché i primi abitanti del continente, detti paleoamericani, e i nativi americani contemporanei fossero così diversi fra loro. Per anni si è pensato che fossero due gruppi distinti arrivati con ondate migratorie diverse. Ora invece il dna di Naia dimostrerebbe che entrambi i gruppi hanno lo stesso codice genetico e derivano dalle popolazioni arrivate nel continente americano attraverso lo Stretto di Bering. Le differenze fra le due popolazioni sarebbero causate dunque solo da un'evoluzione molto rapida.