martedì 8 ottobre 2019

ETIMOLOGIA E PRONUNCIA DI ZUCKERBERG

Tutto noi conosciamo Mark Zuckerberg. Entrato di prepotenza nelle nostre vite, ne ha preso il completo controllo. Scandaglia le nostre menti in tempo reale tramite meccanismi di captazione telepatica e ha acquisito su tutti noi un potere superiore a quello esercitato da qualsiasi dittatore del passato. Molti però si pongono una domanda che potrà sembrare futile. Come si deve pronunciare il cognome Zuckerberg? Anche a costo di essere impopolare, affermo e affermerò sempre una sacrosanta verità. I cognomi ashkenaziti sono in gran parte composti formati a partire da parole della lingua tedesca, quindi appartengono ipso facto alla lingua tedesca. Mi si dirà che si tratta di adattamenti dallo yiddish. Benissimo, ricordo che lo yiddish è una lingua eminentemente germanica, per la precisione una varietà dell'alto tedesco. Reputo pertanto una aberrazione insopportabile qualsiasi pronuncia ortografica anglosassone di questi cognomi - e di ogni cognome tedesco in generale, quale che sia la sua origine. Tutti sappiamo che Frankenstein si deve pronunciare /'fɹaŋkǝnʃtaɪn/ e non /'fɹaŋkǝnsti:n/ (come se fosse scritto Fronkensteen) o addirittura /'fɹæŋkǝnstɪn/ (come se fosse scritto Frankenstin). Spero che lo abbiano imparato anche nella Terra dei Liberi, visto che l'acuto Mel Brooks ha pensato di insegnarlo a quella progenie incolta tramite il suo film Frankenstein Junior (1974). Allo stesso modo Zuckerberg è e sarà sempre da pronunciarsi /'tsʊkəɹbɛɹg/, non /'zʌkəɹbəɹg/ o simili, come invece fanno negli Stati Uniti d'America e in altre nazioni di lingua inglese. La prima sillaba del cognome ha una vocale -u- (persino la vocale /u/ italiana è un'approssimazione migliore di quella usata dagli anglosassoni!) e inizia con una consonante affricata sorda /ts/, come quella che si trova nelle parole italiane razzismo, tazza e cozza. Non ha la consonante fricativa sonora /z/, come quella che si trova nelle parole italiane rosa, cosa e casa, che in tedesco si trova anche in posizione iniziale in parole come Sonne "sole", Saft "succo", sein "essere" e Sieg "vittoria". Trovo assolutamente deprecabile e priva di senso l'abbreviazione Zuck, pronunciata /zʌk/ e oggi tanto popolare, dato che oscura completamente l'etimologia del cognome. Anche se gli Stati Uniti d'America hanno fatto una bandiera dell'ignoranza e dell'incapacità di comprendere l'etimologia dei nomi, bastano poche nozioni di tedesco per sapere cosa significa il cognome del plenipotenziario di Satana sulla Terra: Montagna di Zucchero. Non è un concetto troppo arduo. Né mi sembra impossibile memorizzare parole semplici come Zucker "zucchero" e Berg "montagna". Seguendolo, si comprende che questi cognomi sono trasparenti, ossia traducibili. Così come Zuckerberg significa "Montagna di Zucchero", possiamo tradutte all'istante moltissimi cognomi ashkenaziti: Weinstein "Pietra del Vino", Goldberg "Montagna d'Oro", Goldblum "Fiore d'Oro", Goldstaub "Polvere d'Oro", Goldstein "Pietra d'Oro", Goldschmiedt "Orafo", Rosenberg "Montagna della Rosa", Schwartzkopf "Testa Nera", etc. Perché queste ovvietà vengono bellamente ignorate?

Qualcuno mi dirà che persino lo stesso Mark Zuckerberg pronuncia in modo anglizzato il proprio cognome come /'zʌkəɹbəɹg/, favorendo tra i suoi dipendenti l'abbreviazione /zʌk/ e andando volentieri contro la fonetica stessa della lingua tedesca. La cosa è irrilevante. La natura di una lingua non cambia per l'arbitrio di uomini tirannici. Altri mi diranno che è un fatto politico: moltissimi Ashkenaziti hanno favorito l'anglizzazione della pronuncia dei loro cognomi per reazione contro il Reich. Ciò è una pura e semplice assurdità: la lingua tedesca non è un'invenzione di Adolf Hitler e della NSDAP! Una persona che deturpa il proprio cognome, quale ne sia il motivo, si fa servitrice della Menzogna. Lo stesso Mel Brooks ha fatto allusione a questa tendenza: il discendente di Victor Frankenstein pronunciava stizzosamente il proprio cognome come Frankenstin a causa di un senso di vergogna, per dissociarsi da un passato per cui provava un'invincibile ripugnanza. Riacquistato l'orgoglio dell'appartenenza ai propri Padri, ecco che lo scienziato ripudiava Frankenstin per tornare a farsi chiamare Frankenstein. Perché Mark Zuckerberg non fa lo stesso? Per una lingua non c'è maledizione peggiore dell'ortografia storica, generatrice di storture e di errori a non finire. A questo punto, alterazione per alterazione, pronuncerò il cognome Zuckerberg in un nuovo modo, inedito: Zuckerborg. La logica soggiacente è chiara. Se una persona ha un account su Facebook, significa che è stata assimilata. Ogni resistenza è futile.

domenica 6 ottobre 2019

ALCUNE NOTE SULLA LOCUZIONE 'FAR VEDERE I SORCI VERDI'


Ero poco più che un moccioso quando sentii per la prima volta la locuzione "far vedere i sorci verdi". Mia madre (R.I.P.) stava parlando a un'amica di problemi scolastici e di una insegnante terribile. Credo che la belva umana di cui si discorreva insegnasse matematica: nel mio immaginario tale ostica materia era una vera punizione da Inferno di Dante! Così mia madre disse che la docente vessava e perseguitava i poveri scolari. "Gli fa vedere i sorci verdi!", commentò. Subito si destò in me la curiosità di sapere perché si dicesse così. Raffazzonai prontamente una spiegazione. Com'è ovvio le parole erano più rozze, ma la sostanza era più o meno questa: "Quando un'insegnante-aguzzina tiene sotto pressione un alunno, quello va in uno stato di estrema confusione, al punto da sviluppare una vera e propria febbre; a questo punto, incalzato da continue domande e rimproveri, minacciato da urla, brutti voti e infiniti ricatti, la povera vittima ha le allucinazioni, come quando la temperatura sale troppo, oltre i 40 °C, tanto da vedere guizzi di luce verde ai margini del campo visivo." Ecco spiegati i sorci verdi. Non era poi tanto male. Al giorno d'oggi qui in Lombardia uno scolaro non saprebbe nemmeno dire cosa sono i sorci. Sembra che sorcio sia una parola ormai uscita dal vocabolario della lingua italiana, al massimo considerata un termine dialettale romano quasi sconosciuto al di fuori dell'Urbe. Perché un giovane della Generazione Z capisca di cosa si sta parlando, sarebbe necessaria la traduzione sorcio = topo


Ecco, con grande stupore, che qualche anno dopo lessi su un libro l'origine attribuita alla locuzione "far vedere i sorci verdi", a cui sono attribuiti molteplici significati, da "provocare un estremo spavento" a "fare una sorpresa non molto gradita". Fui molto sorpreso da quanto appresi, perché mi sembrava qualcosa di controintuitivo. Stando all'opinione corrente degli accademici, gli amabili roditori non c'entrerebbero nulla con le allucinazioni indotte dalle vessazioni scolastiche o da altro! "Sorci Verdi" era infatti la denominazione della 205a Squadriglia da bombardamento della Regia Aeronautica, appartenente al 41° Gruppo BT (Bombardamento Terrestre) del 12° Stormo inquadrato nella III Squadra aerea. Piuttosto complicato, non è vero? Proprio per questo nel linguaggio comune si diceva Squadriglia "Sorci Verdi" per spirito di sintesi.

Correva l'Anno del Signore 1937, mese di marzo, nel pieno del Ventennio fascista che tante polemiche continua a suscitare a babbo morto da più di settant'anni. Guerra civile spagnola. Il sottotenente Aurelio Pozzi avrebbe udito un sottufficiale, romano de Roma, sbottare: "Domani annamo su Barcellona e je famo vede li sorci verdi!" Preso dall'ispirazione, lo stesso Pozzi avrebbe quindi disegnato i tre fatidici topi color menta, ritti sulle zampe posteriori. Due degli allegri animaletti erano intenti a conversare, mente l'altro dava loro le spalle; tutti e tre avevano un'espressione allegra. L'effigie fu dipinta dapprima sulla fusoliera dell'aereo del Pozzi, un trimotore Savoia-Marchetti S.M. 79, poi il suo uso fu esteso all'intera squadriglia, divenendo ben presto sinonimo di terrore e di devastazione, ma anche di strepitosi successi nelle competizioni. Nell'agosto del 1937 il capitano Bruno Mussolini, figlio di Benito, conquistò i primi tre posti nella gara aerea Istres-Damasco-Parigi, diffondendo la fama dei Sorci Verdi nel mondo intero. Sembra che in quell'occasione lo stesso Duce abbia esclamato: "Abbiamo fatto vedere i sorci verdi al mondo intero!" Ignorando l'aneddoto su Aurelio Pozzi e sul suo sottufficiale romano, alcuni attribuiscono l'origine del modo di dire proprio all'esclamazione mussoliniana - sulla cui origine sembrano però non interrogarsi. Questo è a mio avviso un controsenso, dato che i sorci verdi erano già l'emblema degli otto aerei della 205a Squadriglia portati alla vittoria dal capitano Bruno Mussolini. Il 7 settembre 1937 il generale Giuseppe Valle stabiliva con apposita nota che "il distintivo dei Sorci Verdi [con i tre topi in posizione eretta] contrassegnante i velivoli che parteciparono alla gara aerea internazionale Istres-Damasco-Parigi venga adottato come distintivo ufficiale del 12º Stormo B.T."

Benissimo. Appurati questi fatti sui famigerati "Sorci Verdi", resta una domanda profonda che i romanisti non considerano - a quanto pare per incompetenza e ignoranza essenziale. Perché diamine il sottufficiale romano avrebbe detto quanto disse? Senza questa domanda, tutto il ragionamento fatto dagli etimologi della Crusca è un mero circolo vizioso. Ebbene, il sottufficale romano usò i sorci verdi come allegoria di un estremo spavento per un motivo semplicissimo. La locuzione "je famo vede li sorci verdi" esisteva già! Non deriva dal simbolo della 2o5a Squadriglia da bombardamento, semmai è l'esatto contrario! È proprio il simbolo della 205a Squadriglia da bombardamento che deriva dalla locuzione. Questo perché si trattava di un modo di dire che doveva esistere già da tempo ed essere ben radicato a Roma. Le imprese belliche e sportive dei "Sorci Verdi" lo hanno semplicemente reso popolare dovunque. Quando tentai per la prima volta di dare un senso a questi benedetti roditori, non avevo quindi tutti i torti! 

Cosa possiamo dedurre da quanto esposto? Una cosa su tutte: forse non è infondato il sospetto che persino tra gli accademici siano ben rappresentati i coglioni!

venerdì 4 ottobre 2019

LA RÜGA, IL MISTERIOSO GERGO DELLA VAL SOANA

Il ricordo di A. resta vivo in me. Era uno degli ultimi parlanti della Rüga, un bizzarro linguaggio criptico della Val Soana che gli studiosi considerano un gergo. Dalla viva voce di A., in un pub a Torino, ho appreso un certo numero di parole e ho avuto conferma di altre che già conoscevo, avendole viste attestate nell'opera del Biondelli (Studi sui dialetti gallo-italici, Milano, 1857) - ben datato ma pieno di dati interessantissimi. Purtroppo, date le circostanze della serata in cui ho conosciuto A. (ricordo ancora le pinte di ottimo sidro da me ingurgitate avidamente), non ho avuto occasione di ottenere maggiori informazioni. Mi sembrava di infastidirlo ed ero molto soddisfatto di quanto avevo raccolto, così ho mollato la presa. Dopo qualche mese ho saputo, con grande dolore e tristezza, che A. era stato sedotto da una laidissima carampana, una cougar ben più matura di lui. Posso cercare di ricostruire in qualche modo la dinamica degli eventi. Questa donna libidinosa deve averlo fellato, ingurgitandogli il materiale genetico e conducendolo poi alla follia. Questo mi è stato riferito da comuni amici: una volta abbandonato dall'avida Messalina, A. aveva potuto trovare conforto soltanto in Dioniso, finendo in condizioni molto preoccupanti. A quel punto le notizie si sono interrotte. A tutt'oggi non so nulla di cosa ne sia stato di lui, se sia tuttora in vita o se si trovi nel paese che i Sumeri chiamavano Urugal. Se fosse stato ghermito dal Tristo Mietitore, esiste la fondata possibilità che la Rüga sia morta con lui.

Queste sono alcune delle glosse di A.: 

ÀIMA "fuoco"
BÓMBA "cane"
DAÙR "camoscio"

DÜRBI "padre"; "anziano" 
FÀIMA "gatto"
GÒRI "uomo"
LÜFA "acqua"
SANSÌGAR "testardo"
TÒUFA "stambecco"
TRI "figlio"; "piccolo"
TRILA "ferro" 

ÀIMA "fuoco" sembra puntare a una protoforma *aid-ma(n), che ha la stessa radice del nome degli Edui (Aedui), dal protoceltico *aidu- "fuoco", a sua volta dall'indoeuropeo *aidh- "ardere". Il dittongo /ai/ è conservato. Senza dubbio questo è a un relitto di un sostrato preromano (ligure o celto-ligure). 

DAÙR "camoscio" richiama subito alla mente l'inglese doe "cerva", dall'anglosassone "cerva", termine oscuro preso da un idioma di sostrato, con ogni probabilità celtico. In antico irlandese si trova daṁ "bue" (< *damos), mentre in gallese abbiamo dafad "pecora" (< *damatā). Si può ricostruire una base *dam- che doveva significare "animale (domestico)". Il latino ha preso dāma (variante damma) "daino" da una lingua di adstrato, con ogni probabilità il ligure, anche se c'è chi ritiene questa voce di origine berbera. Si tratterà in altra sede il problema. La -m- intervocalica deve aver subìto una lenizione come nelle lingue celtiche per dare DAÙR, il cui suffisso è alquanto oscuro.  

LÜFA "acqua" rimanda subito al latino lympha "acqua; liquido puro; fonte limpida"; "ninfa delle acque". La parola deve essere entrata nella lingua dotta dell'Urbe dall'etrusco: nella lingua dei Rasna dovette esistere *lumφa "acqua, liquido puro", adattamento del greco νύμφη (nymphe) "ragazza, giovane sposa", ma anche "ninfa delle acque", il cui uso poetico come "acqua" è ben documentato. Probabilmente i due significati di "ragazza" e di "acqua" puntano a parole distinte e omofone, poi associate per etimologia popolare. Il professor Guido Borghi, come gli ho trasmesso anni fa questa mia ipotesi sull'origine di LÜFA "acqua", mi ha scritto che effettivamente la derivazione della voce valsoanina è verosimile.

TÒUFA "stambecco" sembra puntare a una protoforma *tolfa, che ha singolari riscontri nella toponomastica dell'Italia centrale: nel panorama del centro abitato di Tolfa (anticamente Tulphae) si vede un grande sperone roccioso.  Il toponimo deve aver avuto origine da una radice *tul- / *tol- "sporgenza, corno", che nel linguaggio alpino è passato a indicare l'animale cornuto per eccellenza.

A. mi ha fatto notare, mentre stavo abbeverandomi al grosso bicchiere di sidro, che SANSÌGAR "testardo" è un vocabolo comune a un gergo della Bergamasca. Tale gergo è stato poi da me identificato nel Gaì, una parlata criptica dei pastori delle valli bergamasche. Il professor Guido Borghi mi aveva a suo tempo inviato del materiale sul Gaì, che purtroppo è andato smarrito.  Ipotizzo che il significato d'origine fosse "testa dura come la pietra", con -GAR che rimanda al ligure carris, glossato con "nomen saxi", ben documentato nella toponomastica e presente anche in basco come harri "pietra".

Oltre alle parole da me selezionate come antiche, ve ne sono anche alcune di ben diverso tipo. Di notevole interesse antropologico sono ad esempio i vocaboli LUMBARDA "mattina" e BURGÒGNA "sera", di chiara origine furbesca: come A. mi ha spiegato, per le genti della Val Soana è in Lombardia che nasce il sole ed è in Borgogna che tramonta. Chiaramente queste forme sono molto più recenti rispetto a quelle attribuibili a un sostrato preromano. 

Scarne le note grammaticali fornite da A., anche se appare chiara la natura romanza della morfologia. L'articolo è LU, che non conosce variazioni di genere per il lessico nativo, non romanzo: LU BÓMBA "il cane", LU FÀIMA "il gatto", etc. La cosa è interessante: a quanto pare tutti i sostantivi in -A di questo genere sono considerati maschili, non si ha traccia di una loro assimilazione al genere femminile. Questa caratteristica mi è stata fatta notare espressamente da A.; i vocaboli di questo tipo sono invariabili al plurale: BÓMBA traduce sia "cane" che "cani", etc. Un fatto a cui finora non è stato dato il giusto rilievo dagli studiosi.  Il lessico di origine furbesca o romanza funziona diversamente: LA LUMBARDA "la mattina", LA BURGÒGNA "la sera". A. non mi ha fornito alcun esempio di verbo coniugato. Non sono riuscito ad avere da lui saggi di frasi complete, per quanto elementari. Ero sicuro che avrei rivisto A. in altre occasioni e che avrei avuto tempo di approfondire ogni questione. Beh, mi sbagliavo. 

Queste sono alcune interessanti glosse raccolte dal materiale di Bernardino Biondelli, sia dal già menzionato volume sui dialetti galloitalici che da Studi sulle lingue furbesche (Milano, 1846): 

BASORDA "fame"
BERO "anno"
CAMU "amico; compagno"
CHEZA "porci, maiali" (z = /ts/
COSPA, COSBA "casa"
CRÜINA "scrofa"
CUCÀR "mangare"
DÜRBI "padre"
FAMÀUT "servitore"
GHÈISI "fame"
GORI
"uomo"
GÒRIA "scrofa; prostituta"
LOMBARD "sole"
MURCÀR "mangiare"
PIERLO "Dio" 
TABURNA "villa" (dimora di campagna)


Si noterà che il Biondelli fallisce nell'intento di dare una precisa definizione della Rüga, che a dire il vero non menziona nemmeno con questo nome. Non sembra che la considerasse un linguaggio criptico distinto dal locale dialetto, da lui definito piemontese canavesano - anche se in altre fonti è invece considerato franco-provenzale come l'arpitano. Le parole prive di corrispondenza romanza, presenti nel lessico di base, le evidenzia come bizzarrie, comprendendone però soltanto in parte l'estrema importanza. Nel suo volume si trova anche una versione in valsoanino della Parabola del Figliol Prodigo, in cui compaiono alcuni dei vocaboli sopra riportati. La lingua in cui è redatta è a tutti gli effetti piemontese, ha soltanto alcune caratteristiche morfologiche franco-provenzali, come le uscite -t  della III persona singolare e -unt della III persona plurale dei verbi (es. ho hat avü "ha avuto", l'est fuièit "è fuggito", j'avansunt "gli avanzano"). 

BASORDA "fame" doveva in origine significare "carestia; morte per fame". Ho subito riconosciuto in questa voce un'etimologia celtica, comparandola all'antico irlandese bás "morte", dal protoceltico *bāθθon, a sua volta da un precedente *bāstom. La terminazione è confrontabile con il suffisso -red che si trova in gallese, derivato da -*reton. Così da *bāθθo-retā (con l'accento su -o-), con una variante femminile del suffisso, abbiamo direttamente BASORDA. Nel gergo dei minatori di Usseglio si trova bazir "morire", formato dalla stessa radice celtica, diffusa anche negli argot francesi.

BERO "anno" è una forma molto criptica, ma alla fine sono riuscito a carpirne il mistero. Tra i ladri si usavano forme gergali come longo, longano "anno" (in Lombardia longon, lungagnen), la cui spiegazione è ovvia: un anno in carcere non passa mai. Siccome tali codici tendevano a filtrare tra i profani, per via della loquacità femminile, nelle conventicole furbesche si cominciò a dire serpente "anno": il serpente è lungo come l'anno, inoltre l'Ouroboros, che si morde la coda, allude al tempo ciclico. Orbene, BERO significava in origine "serpente". Siamo abituati a questa parola. Chi non conosce la Vipera berus? Si tratta di una parola celtica che indicava la vipera e la lancia. L'origine indoeuropea è la stessa del latino veru "spiedo; giavellotto" < *gweru- "spiedo".

CAMU "amico; compagno" presenta qualche problema già a livello di pronuncia. Non è infatti segnato alcun accento. Suppongo che la pronuncia corretta sia CAMÙ, con l'accento sull'ultima sillaba: una vocale /-u/ atona e finale di parola è scritta costantemente -O dagli autori. Viene la tentazione di ritenere questa parola di origine gitana: in Romaní abbiamo kamel "amare", dalla stessa radice del sanscrito kāma- "desiderio", che ha dato origine al famosissimo Kāmasūtra. Il punto è che il verbo in questione indica l'amore tra uomo e donna, la concupiscenza sessuale e il corteggiamento, non l'amicizia tra uomini. Il terminie Romaní per dire "amico" è invece prieten (sanscrito pri- "amare", in senso platonico). Nonostante i parlanti della Rüga fossero calderai come molti Rom, non notiamo alcuna traccia di commistioni lessicali. Il problema rimane dunque aperto, ma credo che la parola sia antica e non gitana: mi è subito venuto in mente il nome dei Camuni. La questione, molto complessa, andrà approfondita in altra sede.

COSPA, COSBA "casa". Una parola antica e di vasta diffusione nel furbesco, con diverse varianti. Già nel toscanissimo Cecco Angiolieri troviamo cosco "casa". Nel mafiese si ha il tristemente noto cosca. La parola potrebbe essere imparentata con il latino casa "capanna", di origine preindoeuropea e con ogni probabilità etrusca, oltre che con le forme germaniche: inglese house "casa", tedesco Haus "casa", dal protogermanico *χūsan - senza credibili paralleli indoeuropei. 

CRÜINA "scrofa" somiglia a crin "maiale", un vocabolo preromano assai diffuso in Piemonte (a Finestrelle curìn e a Giaglione carrìn). In basco si ha kurrinka "grugnito".    

FAMÀUT "servitore" è chiaramente derivato dal latino famulus. La cosa è abbastanza sorprendente, visto che non mi sembra che abbondino gli esiti romanzi della parola latina (a parte qualche forma dotta rammento soltanto l'italiano famiglio). 

GHÈISI "fame" sembra connesso con una gran varietà di forme diffuse in Piemonte (sgösia), in Lombardia e persino in Emilia (sghessa). Non è tuttavia facile risalire a una protoforma solida. Si nota però la sorprendente somiglianza con il basco gose "fame". 

LOMBARD "sole" corrisponde chiaramente alla sopracitata glossa di A., LUMBARDA "mattina". Il sole era chiamato così perché si pensava che nascesse in Lombardia. 

PIERLO "Dio" è sempre citato con l'aggettivo preposizionale BON "buono": nel lavoro sui furbeschi si ha EL BON PIERLO "Il buon Dio". L'articolo usato pare in contrasto con quanto comunicatomi a suo tempo da A., che aveva LU, non EL. Si noti però che nella versione valsoanina della parabola del Figliol Prodigo si ha LO BON PIERLO "il buon Dio" e LO BON DÜRBI "il buon padre".

TABURNA "villa" somiglia molto al latino taberna "osteria, locanda", ma anche "capanna" - a sua volta prestito da una lingua non indoeuropea, con ogni probabilità dall'etrusco. Il diverso significato e il suffisso -URNA mi spingono a ritenera la voce valsoanina imparentata col latino taberna, ma non un prestito. 

Diverse parole fornite da A. non si trovano nelle opere di Biondelli (es. DAÙR "camoscio", TÒUFA "stambecco", TRILA "ferro"). 

Costantino Nigra (1828 - 1907), che fu definito l'Ultimo Vate, scrisse diffusamente su questo linguaggio singolare, compilandone anche un dizionario. Sono venuto a conoscenza di questo autore durante un convegno a Torino. Ricordo ancora la buffa excusatio non petita di R., che presentò la sessione: "Certo, Costantino Nigra era un massone, ma chi non lo era a quei tempi?" Siccome la presentazione precedente era stata su Don Bosco e sul cattolicesimo sociale piemontese, R. provava un certo imbarazzo, forse temeva che qualche vandeano si levasse dal pubblico e gli rimproverasse l'improvvida commistione. 

Riporto alcune interessanti glosse tratte dal dizionario di Nigra, pubblicato in Archivio glottologico italiano, vol. III, Roma, 1878, pagg. 53-60. L'ortografia, razionalizzata da Albert Dauzat, si basa su quella italiana, ma con alcune peculiarità (J = I semivocalica); noto che dove Biondelli ha Z, Nigra usa in modo sistematico TH per esprimere un suono interdentale. 

BÁLJO "soldato"
BÉJRO
"anno"
BIMA
"sale"
BÓMBA "cane", "cagna"
BÓNGA "bottiglia"
BÓRNA "forno"
CHÉTHA "maiale"
CRÜ'JNA "porco"
DÁLJO "sciabola"
EMME "miglio" (misura di lunghezza)
FÁJMA "gatto"
FÁPER "bastone"
FÍRFA "porco"
GÁJNA "gatto"
GHISÓRBA "lupo"
GÓRLA "vacca"
IPORÍGE "Ivrea"
LAP "latte"
L
ÓPA "orecchio" 
L
Ü'FA "pioggia" 
LÜ'RNA "re"
MANDÓCA "vacca"
MARGÓJNA "pastore"
MORÉJNA "lardo"
M
ÓSSA "vino"
NICO "naso"
PÉLJO "pietra"
PIC "argento"
RÜF "fuoco"
RÜLL "mela"
TÁMPA "porta" 


Diverse parole fornite da A. non si trovano nell'opera di Nigra (es. DAÙR "camoscio", TÒUFA "stambecco", TRILA "ferro").  

BÁLJO "soldato" rimanda all'istante al nome dei Balari, antica popolazione della Sardegna, il cui significato è "esiliati, fuggiaschi, predoni, banditi". Anche le isole Baleari devono il loro nome agli antichi abitanti, che avevano grandissima fama di pirati.

BÓRNA "forno" è sorprendente e di certo antico: è un corrispondente ligure del latino furnus, con /b-/ dall'indoeuropeo *gwher- "caldo; ardere". Il latino furnus è corradicale di formus "caldo" e in celto-ligure abbiamo una radice molto simile proprio con /b-/ iniziale, che sopravvive nella toponomastica: basti pensare al fiume BORMIDA "Caldo", ossia "Ribollente", oltre che a BORMIO "(Luogo) delle Acque Calde". 

DÁLJO "sciabola" deriva da un'antica parola ligure, *daklom, il cui significato è "falcetto". Il latino ha preso daculum "falcetto" proprio dal ligure.

EMME "miglio" (unità di lunghezza) parrebbe una forma abbastanza banale, se così si può dire: è infatti la pronuncia del nome della lettera M, che caratterizzava le pietre miliari. 

IPORÍGE "Ivrea" è una diretta evoluzione della forma celtica Eporēdiā "(Luogo) della Cavalleria" (cfr. gallese ebrwydd "rapido", da *epo-rēdos; antico irlandese echraḋ "cavalli (coll.); cavalleria; cavallo da corsa", da *ekwo-rēdos), avvenuta di certo in modo indipendente dal piemontese Ivrèja. Queste forme toponomastiche devono essere il risultato di tardi esiti del gallico parlato, piuttosto che di forme assimilate dal latino volgare: l'usura fonetica è più "corrosiva" di quella del lessico latino avvenuta nel romanzo e presenza mutamenti anomali - ovviamente trascurati dai romanisti. 

LÜ'FA "pioggia": A. traduce questa parola con "acqua". Chiaramente il significato di "pioggia" è secondario e si è sviluppato da quello più generale. Nigra cita anche la forma verbale LÜ'FET "piove".

MANDÓCA "vacca". La radice preindoeuropea di questa parola si trova nel basco mando "mulo" e nel paleosardo, ma anche nel celtico mandu- "cavallino" (passato in latino come mannus "cavallino", da un dialetto che aveva -nd- mutato in -nn-, forse il leponzio). Con ogni probabilità nella lingua neolitica di origine significava "animale domestico (bovino o equino)".

MORÉJNA "lardo" ha vasti paralelli in moltissime lingue nostratiche ed afroasiatiche. Tra questi derivati si annovera la radice indoeuropea *smeru- "grasso, unto", tipica del germanico e del celtico, che però non sembra essere la diretta origine della forma valsoanina.   

MÓSSA "vino" lo associo al basco ozpin "aceto", dal protobasco *boz-bin "idromele acido": la radice d'origine, *boz-, da un precedente *moz- (-z- trascrive una sibilante sorda laminale), doveva essere lontanamente imparentata con l'indoeuropeo *medhu- "idromele; miele". Parole simili si trovano anche in altri argot e devone essere residui di lingue antiche.

PÉLJO "pietra" è da una radice di sostrato *pel(l)-, tuttora ben viva in diverse parlate dell'arco alpino. In Trentino (Agordo, Livinallongo) si ha pelf "roccia durissima". In Savoia si ha peilevo "roccia", dalla stessa radice. Persino in greco antico si ha un relitto preindoeuropeo πέλλα (pella) "roccia", tramandatoci da Esichio. Abbiamo poi la variante apofonica *pal-, che è ben documentata nell'idronimo ligure Vindupale "Pietra Bianca" (che attualmente porta il nome romanzo di Prealba, dalla traduzione latina Petra Alba), oltre che nel leponzio epigrafico pala "lapide".

Mi sono accorto che Nigra non riporta nulla di simile a BURGÒGNA "sera", ma oltre a LOMBART "sole" ha anche LOMBARDA "luna". Una singolare contraddizione con le glosse di A., spiegabile supponendo che la Rüga non sia mai stata un linguaggio monolitico e che avesse numerose varietà locali, spesso con divergenze lessicali anche notevoli.   

Molte simili parole, attribuite all'argot di Locana in Val Soana, sono riportate nell'opera di Arturo Aly-Belfadei, Archivio di psichiatria, scienze sociali e antropologia criminale (Torino, 1900). L'autore, rappresentante moralista delle mostruosità dello Stato-Moloch e del suo insopportabile paternalismo, riteneva ogni argot come una manifestazione criminale da sopprimere - previa schedatura per finalità poliziesche. L'ortografia usata per trascrivere i vocaboli è molto simile a quella già adottata dal Dauzat nel riportare i dati del Nigra.  

BASÔRDA "fame"
BRÍA
"guerra"
CRÒJNA "scrofa"
DÖRBI "padre"
DÖRBJA "madre"
GÀUNA "gatto"
GRÍA "carne"
GÖRBA "paese natio"
LIMA "camicia"
LÖRNA "re"
MÖRCH "ricco"
MOSA "vino"
RÜGA "calderaio"
TAMPA "finestra"


Si noterà che Aly-Belfadei glossa PIÉRLO con "monsieur, seigneur": ËL BÔN PIÉRLO è glossato con "Dieu" (alla lettera "Il Buon Signore"). Nigra ha invece LO BON PJÉRLO "Dio" e cita una forma femminile PJERLÜ'A "signora". Secondo Dauzat, che riporta i dati di Nigra, il significato originario del termine sarebbe "padre" nel dialetto locale e avrebbe una variante PIRLO

RÜGA "calderaio" spiega il nome stesso del gergo di cui ci stiamo occupando. Con ogni probabilità è un derivato di RÜF "fuoco". 

Infine faccio notare una cosa singolare che mi ha molto stupito. Oltre a parole molto peculiari e dall'aspetto antico, sia nel lavoro di Nigra che in quello di Aly-Belfadei ne troviamo moltissime deludenti. Si tratta di parole romanze dotate di suffissi. Questi sono alcuni esempi: 

AGNELÁRRO "agnello"
AUTRÉNC
"altro"
AVILJÓCA "ape"
BINÉNC "bene"
CAVAGNÓCA "cavagna"
DOVANTÉNC "davanti"
FJATÁRRO "soffio"
FJEURÓCA "fiore"
GABJÓCA "gabbia"
GIOANÁRRO "giovane"
GIOVENÓCA "giovane"
MELÜ' "miele"
MESÁRRO "mese"
NOVÁRRO "nuovo"
ORSÁCO "orso"
ORSÜ' "orso"
OSSÁCO "osso"
PONTÁRRO "ponte"
SANGÁRRO "sangue" 


La Rüga ha un lessico che comprende sia forme antichissime, sopravvivenze di sostrati preromani, che forme più recenti (in taluni casi addirittura banali, es. BEC "capra", cfr. italiano becco; BROC "cavallo", cfr. italiano brocco; MÜCA "vacca", cfr. italiano mucca). Sembra di ravvisare una strana tendenza a sostituire forme criptiche antiche con forme moderne più trasparenti, prossime all'italiano o al piemontese, o addirittura ottenute da parole italiane aggiungendo suffissi - cosa che appare un controsenso, essendo la finalità di un gergo quella di risultare incomprensibile agli estranei. In molti casi due o più forme convivono (TARGA "bene" rispetto a BINÉNC; MANDÓCA "vacca" rispetto a MÜCA, etc.), come se fosse avvenuto un imponente processo di rilessificazione. Le forme celto-liguri o di origine ignota sembrano essere sfavorite nella competizione.

mercoledì 2 ottobre 2019

L'ATEISMO TRA I VICHINGHI

L'Ellade ai tempi di Socrate era un ambiente molto duro. Per essere accusati di empietà e di ateismo bastava mettere in dubbio che la pioggia fosse l'orina di Zeus passata attraverso un grande setaccio celeste. La vicenda umana del filosofo ateniese è ben nota a tutti: le accuse a lui rivolte lo portarono alla condanna a morte tramite ingestione della cicuta. Era considerato un corruttore di giovani, non perché si facesse da loro fellare, bensì per via della sua supposta empietà concettuale. Tutti siamo a conoscenza dell'antica e venerabile origine greca della parola ateo (da cui anche ateismo), nata dal prefisso negativo a- "non, senza" (cfr. acritico, etc.) e dal nome della divinità, theos (cfr. teologia, etc.). A scuola insegnano queste nozioni con grande cura - o almeno le insegnavano ai tempi in cui ero un alunno: adesso a quanto pare preferiscono fare la parafrasi dei testi di Francesco Alberoni. Nessuna menzione invece su come la negazione della divinità era vista presso altri popoli. Il deleterio corpo docente italico, che etichetta tutti i popoli estranei alla latinità e alla grecità col nome collettivo di Barbari, forse crede che mai al di fuori della filosofia ellenica sia stato concepito il concetto di ateismo. Il tipo di ragionamento non è nuovo. Alberto Sordi diceva a un inglese: "I miei antenati costruivamo fognature quando i suoi si dipingevano ancora la faccia di blu." E Luciano De Crescenzo rincarava la dose, apostrofando Umberto Bossi: "Quando i suoi antenati celtici erano ancora barbari aggrappati ai rami, i miei antenati già froci." Nulla di più falso di simili convinzioni bacate, che possiamo ritenere più che altro una massa fecale di pregiudizi.

Sappiamo per certo che esistevano atei nella Scandinavia pagana: molti Vichinghi furono chiamati Guðlausir menn, ossia "uomini senza dio" (o meglio "uomini senza dèi"). Questa denominazione è stata attribuita ai Condottieri dei Mari perché facevano conto unicamente sulle proprie forze e sulla propria volontà, senza affidarsi in alcun modo all'aiuto di entità sovrannaturali. Possiamo così sostenere senza timore di smentita la liceità di questa traduzione:

guðlauss maðr (m.), ateo 

Faccio presente che in Italia per veder emergere una simile fede nel potere dell'Uomo dobbiamo attendere Vespasiano Gonzaga (1531 - 1591), che nella sua corte a Sabbioneta aveva vietato il gioco delle carte, pensando che nessuno dovesse fare affidamento sulla mutevole fortuna. Egli riteneva che fosse compito di ciascuno costruirsi il destino soltanto con le proprie forze e con il proprio ingegno. Proprio come i Vichinghi atei! 

Nella Heimskringla di Snorri Sturluson (XIII secolo), nel capitolo CCI della Saga di Olaf il Santo (Óláfs saga Helga), è narrato un episodio degno della massima attenzione. Il Re Olaf II di Norvegia, detto Helgi (Il Santo), incontrò nella sua fuga verso la Russia numerosi uomini che vivevano nella foresta. Il loro capo Gaukathorir (da gaukr "cuculo") disse al Re Olaf di non essere né cristiano né pagano, non credendo in alcuna divinità e ritenendosi il solo arbitro del proprio destino. Egli non aveva alcun bisogno di un fulltrúi, ossia di una divinità in cui porre tutta la propria fiducia. Affermava di non essere cristiano perché non riteneva Cristo il proprio fulltrúi. Affermava al contempo di non essere pagano perché non aveva alcun bisogno di sacrificare a Odino o a Thor, non riteneva nessuno degli Asi o dei Vani il proprio migliore amico, come facevano gli immolatori. Il suo discorso era soprendentemente moderno. Anzi, possiamo dire era quasi postmoderno. Purtroppo queste argomentazioni non hanno fatto gran presa sul cristianissimo sovrano norvegese, che alla fine è riuscito a convincerlo a farsi battezzare. 

Ecco il testo in norreno:

Menn þeir eru nefndir, er annar hét Gaukaþórir en annar Afrafasti. Þeir váru stigamenn ok hinir mestu ránsmenn, hǫfðu með sér þrjá tigu manna, sinna maka. Þeir brœðr váru meiri ok sterkari en aðrir menn; eigi skorti þá áræði ok hug. Þeir spurðu til hers þess, er þar fór yfir land, ok mæltu sín á milli, at þat mundi vera snjallræði at fara til konungs ok fylgja honum til lands síns ok ganga þar í fólkorrustu með honum ok reyna sik svá; því at þeir hǫfðu ekki fyrr í bardǫgum verit, þeim er liði væri fylkt til. Var þeim þat forvitni mikil at sjá konungs fylking. Þetta ráð líkaði vel fǫrunautum þeirra; gerðu þá ferð sína til fundar við konung. En er þeir koma þar, þá ganga þeir með sveit sína fyrir konung, ok hǫfðu þeir fǫrunautar alvæpni sitt. Þeir kvǫddu hann. Hann spurði, hvat mǫnnum þeir sé. Þeir nefndu sik ok sǫgðu, at þeir váru þar landsmenn. Þá bera þeir upp erendi sín, ok buðu konungi at fara með honum.
Konungr segir, at honum leizt svá sem í slíkum m
ǫnnum muni vera góð fylgd: "Ek em fúss", segir hann, "við slíkum mǫnnum at taka; eða hvárt erut þér kristnir menn?" segir hann.
Gaukaþórir svarar, segir, at hann var hvárki kristinn né heiðinn: "H
ǫfum vér félagar engan annan átrúnað, en trúm á orku ok afl okkat ok sigrsæli, ok vinnst okkr þat at gnógu."
Konungr svarar: "Skaði mikill, er menn svá liðmannligir skulu eigi á Krist trúa, skapara sinn."
Þórir svarar: "Er nøkkurr sá í þínu f
ǫruneyti, konungr, Kristmaðrinn, er meira hafi á degi vaxið en við brœðr?"
Konungr bað þá skírast láta ok taka trú rétta þar með: "ok fylgit mér síðan; skal ek þá gera ykkr virðingamenn mikla: en ef þit vilit þat eigi, þá farit aptr til iðnar ykkarrar."
Afrafasti svarar, segir, at hann vildi ekki við kristni taka. Snúa þeir síðan í brott.
Þá mælti Gaukaþórir: "Þetta er sk
ǫmm mikil, er konungr þessi gerir oss liðrækja; þar kom ek aldri fyrr, er ek væra eigi hlutgengr við aðra menn; skal ek aldri aptr hverfa at svá geru." 

Síðan slógust þeir í sveit með markamǫnnum ǫðrum ok fylgdu flokkinum. Sækir þá Ólafr konungr vestr til Kjalar. 

Questa è la traduzione, su cui invito tutti a meditare:

Gli uomini sono menzionati per nome: uno di essi era chiamato Gaukathorir e un altro Afrafasti. Essi erano fuorilegge e grandissimi predoni, e avevano con sé trenta uomini come loro. Non mancavano di ardimento e di coraggio. Avevano udito di questo esercito che stava viaggiando per il paese, e avevano discusso tra loro che sarebbe stato un buon piano andare col Re, seguirlo nel suo paese e prendere parte assieme a lui a una grande battaglia, mettendo così se stessi alla prova - perché non erano mai stati prima in battaglie in cui le truppe erano schierate in ranghi. Essi avevano grande interesse a vedere schierato l'esercito del Re schierato in assetto di battaglia. E quando andarono là, si presentarono davanti al Re con la loro banda di uomini, e i loro compagni avevano l'armatura completa. Essi lo salutarono. Egli chiese loro che tipo di uomini fossero. Essi diedero i loro nomi, dicendo che erano nativi del paese. Presentarolo la propria attività e offrirono al Re di andare con lui. Il Re disse che gli sembrava che avrebbe avuto un buon sostegno in quegli uomini.
"Sono desideroso", egli disse, "di prendere con me simili uomini. Ma siete cristiani?"
Gaukathorir rispose, dicendo che egli non era cristiano né pagano. "Noi compagni non abbiamo altra fede oltre al fatto che crediamo in noi stessi, nella forza e nella nostra fortuna in battaglia, e questo va bene per noi."
Il Re replicò: "Che gran peccato che uomini che sembrano tanto utili non debbano credere in Cristo, loro Creatore."
Thorir replicò: "C'è qualcuno nella tua compagnia, o Re, un uomo di Cristo, che sia cresciuto in un giorno più di noi fratelli?" 
Il Re disse loro che dovevano farsi battezzare e accettare con questo la vera fede.
"E allora seguitemi", disse, "Io farò di voi uomini di alto rango. Ma se voi non volete fare ciò, allora tornatevene alle vostre occupazioni."
Afrafasti rispose, dicendo che non intendeva accettare il Cristianesimo, dopodiché si allontanò. Allora disse Gaukathorir: "È molto vergognoso che questo Re ci debba respingere dal suo esercito. Non mi era mai capitato prima di non essere ritenuto buono tanto quanto altri uomini. Non mi allontanerò mai lasciando le cose così."
In seguito a ciò, essi si arruolarono nella compagnia assieme ad altra gente della foresta e andarono con le loro truppe. Quindi il Re Olaf si diresse a occidente, verso Kjøl.


Un dilemma lessicale e semantico. Il capo degli Uomini della Foresta avrà compreso il vocabolo skapari "Creatore" usato dal Re Olaf? Oppure il sovrano cristiano avrà usato un'altra parola per esprimere il concetto? Non possiamo saperlo. La saga è stata scritta molto tempo dopo i fatti che racconta. 

Esiste poi un'opera tratta dalla Heimskringla, ma scritta in latino. Il suo titolo è Historia Rerum Norvegicarum ed è stata scritta all'antiquario islandese Þórmoðr Torfason, anche noto come Thormodus Torfæus (1636 - 1719). Ecco come è stata reso nella lingua di Roma l'episodio di Gaukathorir e del Re Olaf: 

Duo erant prædones cæteris formosiores, Gaukathorir & Afrafastius, fratres sui similium triginta duces, robore corporis & audaciâ alios longo post se intervallo relinquentes, qui ad famam prætereuntis exercitus excitatiores, amplum sibi ducebant Regem regnum repetentem sequi, subque signis, cuius antea inexperti, militare; incessitque magna cupido, nunquam prius conspectæ sibi aciei vicendæ, placuitque consilium sociis universis. Adito itaque Rege, singuli armaturâ integrtâ instructi, societatem belli offerunt, se provinciæ illius indigenas profitentes. Ille aptos bello viros, optatosque sibi comites pronuncians, Christiani essent, an pagani? quærit. Gaukathorir, neutrum horum, respondit, fiduciâ virium suarum victoriarumque in hunc diem perpetuo successu invictos, aliâ fide non indigere. Rege dolendum regerente, viros tam alacres notitiâ creatoris sui destitui; Gaukathorir quærit, an ullus in exercitu eius Christianorum uno die plus illis creverit? Rex, omisso inutili colloquio, iubet ut sacro lavacro se ablui patiantur, fidemque Christianam amplectantur, se deinde sequantur: honores eis exinde paratos haut exiguos; id si nollent, ad suam professionem redeant. Afrafastius se Christianum futurum negans, cum suis complicibus discedebat. Tum vero Gaukathorir ignominiam interpretatus, ut indignum reiici, neque id sibi antea evenisse testatus, nec hoc statu se abiturum asseverat. Montanorum itaque cohortibus se ingerentesi in exercitu remanserunt.

Come si può vedere, non si tratta di una traduzione letterale. Si noterà l'opposizione tra l'estrema sintesi del latino e la natura più analitica del norreno. Nonostante il norreno abbia una grammatica molto complessa e ricca di forme declinate, spesso esprime con molte parole ciò che in latino può essere espresso in modo sorprendentemente stringato. Le aggiunte non sono meno sorprendenti delle frasi rivoltate come un calzino. Si noterà un importante segmento assente nel testo originale della Heimskringla. Il redattore, sdegnato dalle argomentazioni atee di Gaukathorir, trova necessario inserire un giudizio morale severo da parte del Re cristiano. Così scrive: "Rex, omisso inutili colloquio" - ossia, "Il Re, tralasciando un discorso inutile". Che conclusioni possiamo trarne? Un bandito norvegese dell'XI secolo, isolato, privo di contatti sostanziali con l'Europa Cristiana, potrebbe parlare tranquillamente con un uomo occidentale del XXI secolo ed essere compreso nei suoi più intimi sentimenti. Sembra invece estendersi un abisso insondabile tra lo studioso islandese del XVII-XVIII secolo e la gente della presente epoca. Un abisso più invalicabile di quello che separa i morti dai viventi.