mercoledì 18 novembre 2020

 
ANTROPOPHAGUS 
 
AKA: Anthropophagus: The Beast; The Grim Reaper;
     Savage Island; Man-eater; Man beast
Paese di produzione:
Italia
Anno: 1980
Lingua originale: Inglese
Durata: 87 min
Genere: Orrore 
Sottogenere: Cannibalesco
Regia: Joe D'Amato
Aiuto regista: Donatella Donati
Soggetto: Luigi Montefiori, Aristide Massaccesi
Sceneggiatura: Luigi Montefiori
Produttore: Joe D'Amato, George Eastman, Oscar
      Santaniello 
Casa di produzione: P.C.M. International, Filmirage
Distribuzione in italiano: Cinedaf
Fotografia: Enrico Biribicchi
Montaggio: Ornella Micheli
Musiche: Marcello Giombini
Scenografia: Ennio Michettoni
Costumi: Ennio Michettoni
Trucco: Pietro Tenoglio
Fonico: Goffredo Salvatori
Interpreti e personaggi:
    Tisa Farrow: Julie
    Saverio Vallone: Alan
    Serena Grandi (come Vanessa Steiger): Maggie
    Margaret Mazzantini (come Margaret Donnelly): Ariette 
    Mark Bodin: Daniel
    Bob Larson: Arnold
    George Eastman: Klaus Wortmann, il cannibale
    Rubina Rey: Ruth Wortmann
    Simone Baker: Prima vittima
    Mark Logan: Seconda vittima
    Zora Kerova: Carol
    Joe D'Amato (non accreditato): Uomo che esce dalla
         funivia 
Denominazioni alternative dei personaggi:
    Nella versione in inglese, Alan è chiamato Andy;
    Ariette è chiamata Henriette "Rita".
    In altri paesi, come la Spagna, Klaus Wortmann è
    chiamato Nikos Karamanlis; Ruth Wortmann è chiamata
    Irina Karamanlis.
Titoli in altre lingue: 
   Anthropophagous : L'Anthropophage (Francia) 
   L'Anthropophage (Francia, TV)
   Der Menschenfresser (Germania Ovest) 
   Man Eater - Der Menschenfresser (Germania Ovest,
       X-rated)
   L'homme qui se mange lui-même (Belgio)
   Antropófagos (Argentina, Messico)
   Gomia, terror en el mar Egeo (Spagna)
   Antropófago (Perù)
   Antropofagia (Colombia)
   O antropófago (Brasile, Portogallo)
   Ο ανθρωποφάγος (Grecia)
   Антропофагус (Unione Sovietica)
   Ludożerca (Polonia)
Censura:
     V.M. 18 in Australia, Canada (eccetto il Québec),
     Finlandia, Italia, Regno Unito, Stati Uniti
     V.M. 16 in Francia
     V.M. 14 in Cile
     V.M. 13 in Canada (Québec)
Crediti di produzione DVD: 
   Produttore esecutivo: John Sirabella
   Produttore: William Hellfire

Trama: 
Una coppia di tedeschi in vacanza in Grecia va in spiaggia e viene trucidata da qualcuno che emerge dall'oceano. Intanto cinque viaggiatori hanno l'idea di fare il giro delle isole. Sono Alan e la sorella Carol, Daniel, Arnold e la moglie Maggie. All'ultimo ammettono nella loro comitiva anche Julie, che chiede un passaggio per un'isola fuori dalle rotte, dove vivrebbero alcuni suoi amici. L'unica che si oppone a questo cambiamento del programma è Carol, mossa dai tarocchi a presagire qualcosa di brutto in caso di visita all'isola. Il gruppo salpa comunque per la destinazione stabilita, ma subito qualcosa va storto. Mentre sbarca, Maggie, che è gravida, si distorce una caviglia. Non potendo proseguire rimane sulla barca con il suo proprietario. Un uomo attacca la barca, strappando la testa al marinaio e rapendo Maggie. Gli altri esplorano la cittadina dell'isola, scoprendola disabitata, se si eccettua una sfuggente donna in nero, che scrive "Vai via" su una finestra polverosa. In una casa viene trovato un cadavere in decomposizione che sembra essere stato cannibalizzato. La macabra scoperta spinge tutti a tornare di corsa alla barca, che però è alla deriva. Senza via di scampo, il gruppo si reca nella casa di proprietà degli amici di Julie, dove trovano l'ultima superstite della famiglia, la ragazza cieca Ariette. In preda al panico, dopo aver tirato una coltellata a Daniel, Ariette si calma e si lamenta che c'è per l'isola si aggira un pazzo che emana fetore di sangue corrotto. 
Temendo che la ferita di Daniel possa infettarsi, Alan e Arnold vanno alla ricerca di antibiotici. Carol scopre Daniel che flirta con Julie, ha una crisi isterica e fugge via nella notte. Julie la insegue, ma la perde e incontra Andy e Arnold. Nel frattempo l'assassino sfigurato irrompe nella casa e squarcia la gola di Daniel, lasciando Ariette da sola e fuggendo prima del ritorno degli. Al mattino, il gruppo attraversa l'isola e trova una dimora nobiliare, grande e sfarzosa come un castello. È la villa di Klaus Wortmann. Julie rammenta subito che Klaus, sua moglie e il loro bambino sono scomparsi in un naufragio e considerati morti. La sorella di Klaus, Ruth, sconvolta dalla tragedia, non ha più ritrovato il senno. È proprio lei la donna in nero incontrata all'inizio della sventurata esplorazione dell'isola. Prima che i visitatori entrino nell'edificio, Ruth conforta Carol addormentata e si impicca.  
Alan e Arnold guardano fuori da una finestra e vedono che la barca si è avvicinata alla riva. I due vanno a cercare di recuperarla. Julie trova nella villa un diario semidistrutto, da cui apprende che l'assassino è Klaus e che i corpi di tutte le sue vittime sono in una cripta. Alan e Arnold si separano e quest'ultimo raggiunge una chiesa abbandonata, dove trova Maggie e affronta Klaus, che in un flashback gli rivela la propria tragedia. Bloccato con la famiglia in una zattera alla deriva, Klaus ha cercato di convincere la moglie delle nacessità di mangiare le carni del figlioletto appena deceduto, in modo tale da avere più possibilità di sopravvivenza; la donna si è opposta ed è rimasta ferita dal coltello del marito, che ha subito ingurgitato la sua carne e quella del figlio. Arnold implora pietà per Maggie, ma il cannibale lo pugnala. Quindi strangola la donna incinta e la sventra, le strappa dall'utero il bambino non ancora nato e lo divora davanti agli occhi dell'uomo agonizzante. 
Intanto alla villa succede il disastro: Carol finisce con l'inciampare, morendo sul colpo con la gola recisa; Julie e Ariette si barricano in un soffitto, che finisce sfondato dall'antropofago. Ariette rimane uccisa, ma Julie riesce a far precipitare l'assalitore, che viene raggiunto e colpito da Alan, trovandosi l'addome squarciato da una picconata. Coi suoi ultimi barlumi di vita, il cannibale afferra i propri intestini sanguinolenti portandoli alla bocca e divorandoli, sotto gli occhi dei superstiti annientati!
 
 
Scene memorabili: 
 
L'esplorazione delle catacombe, tra corpi putrefatti e ratti dagli occhi rossi. Un'autentica discesa agli Inferi! 

Il ferale flashback di Klaus Wortmann, che vediamo alla deriva su un canotto giallo assieme alla moglie incinta e al figlio fulvo appena morto di stenti. La donna accarezza in modo insistente la testa del bambino estinto. L'uomo impugna un coltello (ne avevo uno simile, è andato smarrito). "No! Non puoi farlo, è nostro figlio!", geme lei. "È morto. Ora è solo cibo. Cibo per sopravvivere!", ribatte lui, che le caccia il coltello nel ventre, uccidendola. "Mangiami! Mangiami! Maledetto!", sono le ultime parole della moglie, mentre la vita la abbandona. Nella versione inglese "maledetto" è reso con "piece of shit"
 
Il feto estirpato dal ventre della Grandi, da cui non fuoriesce nemmeno una goccia di sangue, sembra un pallone gonfiato dipinto di rosso. Mentre viene masticato, permane nello spettatore l'impressione si tratti di una massa gommosa. L'effetto della sequenza è talmente ridicolo che con gli occhi di oggi non si riesce a comprendere come abbia potuto risultare tanto traumatizzante all'epoca da provocare le ire della censura. 
 
L'estrazione delle viscere dall'addome del cannibale moribondo, con conseguente masticazione! Il sangue rosso brunastro scaturisce a zampillo mentre il mostro si sfila l'intestino tenue. Poi si porta alla bocca il proprio tubo digerente e lo mastica con avidità. Gli occhi giallastri con la pupilla microscopica sembrano luminarie dell'Ade, tizzoni ardenti come quelli di Caronte! 

Recensione: 
La pellicola di D'Amato ha avuto nel corso degli anni un notevole impatto, guadagnandosi lo stato di film cult, anche se limitatamente all'audience dei video di horror di frangia. Gli effetti speciali sono rudimentali, ma questo non ha la benché minima importanza. Secondo Dyers (2015) il film ha raggiunto "un posto notevole negli annali dell'escalation del gore". Eppure secondo la rivista Delirium, questo sarebbe "un film che offre alcuni dei momenti più disgustosi della storia del cinema". Secondo la rivista Nocturno si tratterebbe di "un film controverso nel panorama horror italiano di quegli anni". E ancora: "A metà strada tra il cinema cialtrone di Bruno Mattei e quello più sofisticato di Lucio Fulci, chiaramente influenzato dalla politica del body count di certo slasher americano ma anche dalla visceralità del genere cannibalico di Ruggero Deodato e co., Antropophagus resta ancora oggi pellicola di difficile collocazione e indubbio interesse"

Una cosa colpisce subito: Antropophagus si distacca nettamente dagli altri film del genere horror cannibalesco per il fatto di non essere ambientato in Amazzonia o in Papua Nuova Guinea. Contro l'insulsa opinione corrente, che vuole il cannibalismo come un costume da "abbronzati" o comunque da "non bianchi", esso è vivo e vitale ai nostri giorni soprattutto in nazioni come la Russia, la Germania e l'Inghilterra. La pellicola di Joe D'Amato ha avuto il pregio di far meditare su questo tema, certo un po' scomodo ma reale come l'aria che respiriamo. Il cannibale può abitare nell'appartamento accanto, nel nostro stesso palazzo. Il cannibale non si può distinguere dal colore della pelle. Soltanto una cosa permette di individuarlo: quella particolare luce sadica che gli brilla negli occhi. Gli strizzacervelli potranno anche dire che si tratta di una "parafilia", di una grave alterazione psichica, di una tremenda quanto rara malattia, ma il fatto resta. Basti considerare un esempio. Armin Meiwes di Rotenburg an der Fulda non è liquidabile come un semplice demente. Era un uomo della porta accanto, dotato di grande intelligenza (è stato un tecnico di computer dell'Esercito Federale Tedesco), eppure a un certo punto ha preso contatto con un uomo profondamente masochista, lo ha incontrato, quindi con il suo consenso lo ha sodomizzato, castrato con un coltellaccio, fatto morire per dissanguamento, sgozzato, macellato e divorato. La realtà è che il cannibalismo è un istinto innato nella specie umana e ha un ruolo di primaria importanza nell'immaginario collettivo. Per quanto possa essere soppresso dal potere del Leviatano, non muore, non è mai del tutto estirpato, ma scorre come un fiume carsico sotto la crosta della normalità per poi eruttare all'improvviso nei contesti più inaspettati e menare strage! 

Curiosità tecniche

Le riprese, iniziate nell'aprile 1980, si protrassero in tutto per un mese. Il film, prodotto dall'appena fondata Filmirage di Joe D'Amato e Donatella Donati, fu girato in 16 mm e in seguito espanso in 35 mm. I luoghi delle riprese sono state molteplici: Atene, Sperlonga, Nepi, Sutri e Ponza per la maggior parte degli esterni; il Villino Crespi presso il Colosseo a Roma per gli esterni della villa Wortmann. Diversi interni sono stati girati a Sacrofano in una villa. La sagoma dell'isola greca infestata dal cannibale, avvistata dalla barca, è quella di Ponza. Sempre a Ponza, Cala Feola è proprio il porticciolo dove è stata ormeggiata la barca. 
 
Nella Catacomba di Santa Silvanilla a Nepi sono state girate le scene della grotta in cui imperversa l'antropofago; i resti umani nei loculi sono in parte stati simulati tramite molti teschi ed ossa di plastica affittati per l'occasione. Cosa deprecabile, questi posticci plastici sono stati mescolati in modo sacrilego a resti autentici. Secondo quanto affermato dallo stesso D'Amato, al termine delle riprese sarebbe stato commesso un errore ancor più sacrilego: le ossa autentiche, raccolte assieme a quelle finte, sarebbero state asportate per poi essere conservate nella casa del regista. Sull'autenticità di tutto questo non mi pronuncio, nonostante le parole di D'Amato in un'intervista pubblicata sulla rivista Notturno: potrebbe trattarsi di una semplice leggenda metropolitana diffusa per fare maggior pubblicità al film.  
 
Il film prevedeva un'interessante sequenza in cui Klaus Wortmann sgozzava Zora Kerowa con un coltello, facendola cadere a terra su un mucchio di cadavaveri pieni zeppi di cagnotti. La scena fu effettivamente realizzata, ma purtroppo dovette essere tagliata in fase di montaggio; secondo l'opinione corrente questo accadde a causa di problemi tecnici non meglio specificati con gli effetti speciali. Si segnala anche il tagglio di un'altra scena, in cui uno dei ragazzi in barca, intento a pescare, recuperava dal mare una scarpa che si rivelava contenere un piede mozzato. Tuttavia questa sequenza soppressa è stata in seguito recuperata e la si trova nei contenuti extra del Blu-ray 88 Films. 
 
I ratti grigi razzolanti nelle catacombe sono di una particolare varità, denominata "marten rat" (alla lettera "ratto martora") o "red eyed devil" (alla lettera "diavolo dagli occhi rossi"). Il loro aspetto particolarmente spettrale si deve all'assenza di melanina nelle pupille, che conferisce il tipico color rubino, dovuto al sangue che scorre nei capillari.
 
Il famigerato feto divorato dall'antropofago fu realizzato usando un coniglio scuoiato a cui era stato applicato un budellino per simulare il cordone ombelicale. Nel Regno Unito le autorità credettero assurdamente che si trattasse di un autentico feto umano ucciso per l'occasione, classificando Antropophagus come un autentico snuff movie e di conseguenza vietandolo. Il bando durò a lungo. Secondo questi emeriti minchioni, George Eastman sarebbe stato un vero e proprio cannibale, e magari avrebbe anche immolato il feto a Satana prima di sbranarlo. 
 
La prima proiezione nelle sale si ebbe in Italia il 17 ottobre 1980. La Papua Nuova Guinea, in cui non mancano i consumatori di carne umana, fu il secondo Paese in cui uscì il film, il 17 ottobre 1980; a pochi giorni di distanza uscì in Grecia, il 21 ottobre.  
 
Un genocidio in un'isola microscopica 
 
Un'incoerenza che salta subito agli occhi è la sproporzione tra le dimensioni esigue dell'isola e il grande sviluppo dell'edificato, reso deserto dal cannibale, ma un tempo molto popoloso. Inutile dire che nella realtà non sarebbe mai possibile una concatenazione di eventi come quella narrata dal regista. L'artifizio scenico delle comunicazioni rese impossibili da un guasto è semplicemente patetico. Non mi pare plausibile che un'isola tanto ricca di abitanti possa finire desolata da un mostro senza che ci sia l'intervento dell'esercito. Se l'isola è poco più di uno scoglio sperduto nell'Egeo, come mai vi sorge un'imponente dimora nobiliare come quella della famiglia Wortmann? Possiamo dire che tutta la trama è di una fragilità logica molto spinta. 
 
 
Cannibalismo zombesco! 
 
L'antropofago non è più un essere umano come tutti: l'atto di cibarsi della carne di suo figlio e di sua moglie ha trasformato la sua biologia, facendolo diventare uno zombie! L'idea portante è questa: nell'immaginario collettivo il consumo di carne umana è ritenuto uno dei massimi tabù, quindi un atto contro Dio e la Natura, gravido di terribili conseguenze. Chi lo compie è bollato con un marchio satanico, proprio come il vampiro. Sembra ancora il Mito di Wendigo, che era diffuso tra gli Algonchini. A differenza dei loro vicini Irochesi, gli Algonchini ritenevano tabù l'antropofagia e cercavano di sublimare gli incubi provocati dal suo desiderio proibito incarnandoli in una creatura spaventosa. Il Wendigo era rappresentato come un umanoide irsuto, dotato di immensa forza, velocità e immortalità. Si credeva che queste proprietà sovrannatuali gli fossero conferite proprio dall'ingestione di carne umana. Lo zombie di Antropophagus non è diverso: letale quasi come uno xenomorfo, porta l'annientamento dovunque vada, spopolando l'isola. La realtà dei fatti è molto diversa: la carne umana di per sé non è poi tanto diversa da quella di porco e la sua ingestione non porta alcuna alterazione ontologica in chi se ne nutre. La sindrome cannibalica si scatena a causa di fattori ben più complessi. Se un uomo viene ingannato e mangia carne umana credendola di porco, non si trasformerà in un mostro. Per contro, la metamorfosi in cannibale può avvenire prima ancora di aver ingerito un pasto di carne umana, come se qualcosa di demoniaco si insediasse nel corpo e ne prendesse il controllo, determinandone le azioni. 
 
Altre recensioni e reazioni nel Web: 
 
Viene in generale riconosciuta la mancanza di coerenza logica della trama. Si trovano sia recensioni negative che debolmente positive; non sembrano essere molto comuni i giudizi entusiastici su quest'opera di D'Amato. Gli aggettivi più comunemente usati per etichettare Antropophagus sono questi: "sopravvalutato", "trascurabile", "prevedibile". Ecco un po' di davinottismo spicciolo: 
 
   
Carlitos scrive: 
 
"Un horror sopravvalutato. L’unica cosa che si salva è la musica di Giombini: molto inquietante, quasi mette più ansia delle scene stesse. Per il resto un cast di poco noti fuorché la Grandi. Bella la scenografia. Ritmo molto lento e noioso. Delle scene si salvano solo il finale e la celebre scena del feto. Chissà perché c’è una sorella di Mia Farrow in questo discreto horror. D’Amato sa fare di meglio.
MEMORABILE: La musica che ascolta Mark Logan a inizio film con tanto di enormi cuffiettone." 

Whitesnake scrive: 

"Abbiamo un tizio che rimasto troppo tempo in solitudine al largo in un'isola, dopo aver ucciso sua moglie scopre cibandosene un'attitudine al cannibalismo. Ne farà le spese un gruppo di ignari turisti. Nella parabola del cinema di genere italiano questo film rimane tra quelli trascurabili. Storia di per sé inconsistente e che funge da puro pretesto per un'ondata di splatter pornografico, il tutto corredato da una messa in scena che è poca cosa. Tra le tante crudezze gratuite, la scena dell'estirpazione del feto risulta davvero pessima." 

Anthonivm scrive: 

"Uno dei rari casi in cui D'Amato rinuncia al binomio eros & thanatos e mette in scena un horror "puro". Se da una parte cala la componente sessuale, dall'altra si eccede con la violenza, che è anche la ragione per cui questo titolo è ricordato dagli appassionati. La trama è molto esile, richiama altri film della decade precedente (Perché il dio fenicio continua a uccidere è un esempio), ma è ben costruito e ricco di sequenze memorabili che hanno fatto la storia del genere. Noiosetto nella prima parte, rimonta alla grande nella seconda metà." 
 
Buiomega71 scrive: 
 
"Piuttosto zozzo e malsano, ma anche girato alla meno peggio. Lo zio Aristide sopperisce ai limiti di budget e più che la bassa macelleria con feti e budelli estirpati conta molto la putrida atmosfera, che sia di un villaggio fantasma greco, delle grotte, del cimitero, di magioni polverose, lampi e tuoni, sole battente in mare aperto, cantine sudice con botti contenenti sopravvisute. Massaccesi mutua lo slasher americano e crea un disturbante apologo apocalittico cannibalico (con schegge impazzite quasi da post atomico). Marciscente e lurido quindi cult.
MEMORABILE: Eastman, nel flashback, naufrago impazzito sul canotto, in mare aperto e sole a picco, con cadavere di moglie e figlioletto, non si scorda più..." 

domenica 15 novembre 2020

 
SCHIAVE BIANCHE -
VIOLENZA IN AMAZZONIA 
 
AKA: Schiave bianche - Violenza profonda; Schiave bianche -
     Il sesso e la violenza; Amazonia - The Catherine Miles 
     Story;
Cannibal Holocaust 2 - The Catherine Miles Story   
Titolo inglese:
White Slaves 
Titolo francese: L'Esclave blonde  
Paese di produzione: Italia
Anno: 1985
Durata: 94 min
Lingua originale: Italiano, inglese
Specifiche tecniche: Normale a colori
Genere: Orrore
Sottogenere: Cannibalesco
Regia: Mario Gariazzo (Roy Garrett)
Soggetto: Francesco Prosperi
Sceneggiatura: Francesco Prosperi
Produttore esecutivo: Vittorio Galiano
Fotografia: Silvano Ippoliti
Montaggio: Gianfranco Amicucci
Musiche: Franco Campanino; Il brano "The Nynph", eseguito
    con il flauto di Pan, è di Fiorenzo Gianani
Interpreti e personaggi: 
    Elvire Audray: Catherine Miles Armstrong 
    Will Gonzales: Umukai
    Rik Battaglia: padre di Catherine
    Andrea Coppola: zio di Catherine
    Dick Campbell: Dick Campbell
    Dick Marshall
    Alma Vernon 
    Grace Williams
    Sara Fleszer
    Mark Cannon
    Jessica Bridges
Titoli tradotti: 
   Francese: L'Esclave blonde 
 
Trama: 
Catherine Miles è una diciassettenne inglese di buona famiglia, mandata a Londra per perfezionare la conoscenza della propria stessa lingua d'origine, che correva il rischio di dimenticare in favore dello spagnolo. Finiti i corsi, in occasione del suo diciottesimo compleanno la ragazza si reca in vacanza dai suoi genitori, che posseggono una vasta tenuta nell'Amazzonia lungo il corso dell'Orinoco (che nella mia ingenuità infantile ritenevo essere un'immensa distesa di orina). Durante una gita sul fiume, la comitiva subisce un attacco da parte di una tribù di indigeni armati di cerbottana, che ne fa strage. Il padre e la madre di Catherine finiscono uccisi e decapitati, mentre lei viene presa prigioniera e condotta via, nelle profondità della foresta pluviale. Il catturatore della ragazza è un impavido e nerboruto guerriero di nome Umukai, che comanda il gruppo. Dopo una lunghissima ed estenuante marcia nella foresta, i nativi arrivano con la prigioniera in un villaggio costituito da una grande capanna a forma di anello intorno a un grande spiazzo. Subito il cacique Rumuani decide di vendere Catherine all'uomo più ricco della comunità, Fameteri, che la tratta male e cerca di possederla con la forza. Umukai si offre di diventare uno schiavo pur di riscattare la ragazza, che nel frattempo è stata sverginata con un dildo, ma l'uomo a cui è stata venduta rifiuta l'offerta e la percuote. Ne nasce una lotta in cui Umukai ha la meglio e riesce a colpire a morte l'avversario. Dopo il funerale di Fameteri, il cui corpo viene cremato su una grande pira tra canti ossessivi, Umukai prende Catherine come propria donna, secondo le usanze della tribù; lei però rifiuta di concedersi, dato che lo crede l'uccisore dei suoi genitori. Lui la ama alla disperazione e cerca di fare di tutto per conquistarla, invano. Per poter sopravvivere, l'inglese rimane nella tribù e si adatta al modo di vivere dei nativi, indossando il perizoma d'erba e portando collane di conchiglie. A questo punto fa la conoscenza della sorella di Umukai, Luamari, con cui scopre di essere in grado di comunicare, anche se in modo stentato: la giovane nativa aveva avuto contatti con una missione e aveva appreso qualche parola di di inglese o più probabilmente di spagnolo. Le due diventano ottime amiche. I tentativi fatti da Catherine per apprendere la lingua degli indigeni all'inizio si rivelano presto fallimentari, mentre Umukai con l'aiuto della sorella riesce ad imparare quel tanto che basta per poter comunicare con la sua amata. La verità salta subito fuori: la bionda dice a Umukai che lo ritiene responsabile dell'uccisione dei suoi genitori, al che lui riesce a dimostrare che le cose non stanno affatto in questo modo. Le spiega che gli autori di quelle morti sono stati alcuni bianchi con la complicità di guerrieri di una tribù diversa dalla propria. Catherine capisce come stanno le cose e cede all'amore del suo corteggiatore, a cui chiede di accompagnarla nelle terre dei genitori morti. Arrivata a destinazione, vede che suo zio e sua zia, a parole tanto amichevoli, si sono impossessati della proprietà. Scopre che sono proprio loro i responsabili di tante atrocità, così entra nella loro camera da letto e li uccide senza pietà, decapitandoli a colpi d'ascia dopo averli paralizzati con frecce avvelenate. Umukai ha visto tutto ed è preso dallo sgomento: secondo le usanze della sua gente, nessuna donna può uccidere. Il guerriero deve quindi rinunciare all'amore di Catherine, perché non può violare un gravissimo tabù. I due salgono sulla canoa, ma a un certo punto lei si tuffa, nuotando verso la riva, mentre lui si allontana, sparendo nelle profondità della foresta. Rimasta sola, la giovane decide di consegnarsi alle autorità. Viene processata per omicidio, ma il suo avvocato difensore riesce a farne riconoscere l'infermità mentale. Il giudice la condanna quindi a breve periodo di reclusione in un istituto psichiatrico. Una volta libera, Catherine fa ritorno in Inghilterra, dove sposa un architetto e genera con lui una figlia. Non riuscirà però a dimenticare il suo amore per Umukai che, come lascia intendere la voce narrante, è morto suicida. 
 
 
Recensione: 
Scoprire sempre nuovi escrementi di celluloide mi procura una certa soddisfazione. Secondo alcuni (es. I Cinenauti), il filone dei Cannibal Movies, iniziato da Umberto Lenzi, in Italia si estinse con il film di Mario Gariazzo nel 1985. Altri invece affermano che tale estinzione fu segnata qualche anno dopo, nel 1988, da Natura contro di Antonio Climati. In ogni caso non sono previste resurrezioni zombesche. A dire il vero in questa pellicola di Gariazzo non ci sono scene di cannibalismo (come in quella di Climati, del resto), tuttavia viene considerata parte del genere cannibalesco per via dell'ambientazione, della sceneggiatura e delle tecniche di ripresa. La tribù protagonista di Schiave bianche non è antropofaga, anche se in un'occasione si vede Umukai portarsi alle labbra il sangue della giovane Catherine e assimilarlo. Si mostra poi l'assalto di guerrieri di una tribù ostile, i Tamuri o Isiwé, e si dice che sono cannibali. Quindi non è del tutto vero che il cannibalismo non è mai menzionato. In ogni caso il titolo, per essere franchi, è ingannevole. Ricordo ancora quando il film uscì. Mi capitò di vedere una sua locandina su un muro mentre mi trovavo a Genova e subito ebbi fantasie incredibilmente morbose. Ero in macchina e il conducente aveva la radio accesa a tutto volume. Le note che trasmetteva erano quelle di Sounds Like a Melody degli Alphaville. Mi immaginavo una specie di film porno-cannibal, in cui una fiera e bellicosissima tribù amazzonica si impossessava di un gran numero di donne bianche per sfogare su di loro la propria libidine. Sesso estremo, anche anale. In pratica una gangbang, un bukkake. Poi, una volta coperte le prigioniere di boli spermatici, le macellavano, le grigliavano su un gigantesco barbecue e le mangiavano. Come potevo immaginarmi queste cose? Neanche avevo 18 anni! Beh, ero un enfant terrible! Non potei vedere il film a Genova e la cosa mi passò presto di mente. Poi, molti anni dopo, quel ricordo - che molti riterranno osceno e disdicevole - mi tornò alla memoria come un rigurgito acido. Passati i 50 anni, mi sono confrontato con quelle che erano le mie inverosimili aspettative sul film. Inutile cercarvi qualcosa di simile a ciò che la mia perversa immaginazione aveva concepito. Questo lo avevo ben presente. Fatto sta che il titolo dice "Schiave bianche", ma qui la schiava bianca è una sola. Una schiava bellissima, affascinante, su questo non ci sono dubbi. Il titolo francese è più onesto: L'Esclave blonde. L'attrice che ha interpretato Catherine Miles, Elvire Audray, l'abbiamo già vista come protagonista di Assassinio al cimitero etrusco (Sergio Martino, 1982). Nata a Parigi nel 1960, è morta suicida nel 2000, all'età di soli quarant'anni. R.I.P.       
 
Una storia vera?  
 
Il film si apre con questa implausibile dichiarazione:

"The Producers wish to thank the Criminal Court of Ciudad Rodaz for allowing them to consult the records of the trial depicted here." 
 
La voce narrante ci informa: 
 
"Questo film è la rigorosa ricostruzione di una vicenda realmente accaduta. I luoghi sono gli stessi ove dieci anni fa Catherine Armstrong Miles visse la sua agghiacciante avventura. Oggi Catherine vive a Londra e ha svelato il suo segreto custodito gelosamente per tanto tempo ad un giornalista italiano, autorizzandone la realizzazione cinematografica . "
 
Ovviamente è un fake. Ciudad Rodaz, che dovrebbe trovarsi in Venezuela o in Colombia (in quelle nazioni scorre l'Orinoco), è un luogo immaginario. Eppure la vicenda di Catherine Miles non è campata in aria come si potrebbe pensare. In altre parole, è esistito un caso abbastanza simile, quello di Helena Valero. Nel 1944 il biologo italiano Ettore Biocca organizzò una spedizione scientifica in Amazzonia e cercò invano di visitare gli Yanomami, considerati demoni dalle guide. Non molto tempo prima la giovane Helena Valero, figlia di un venezuelano e di una brasiliana, era stata rapita e portata nella foresta. Dopo una ventina d'anni, nel 1963, lo scienziato italiano organizzò una seconda spedizione e riuscì finalmente ad incontrarla, registrando la sua affascinante narrazione della vita che aveva condotto nella foresta amazzonica. Sottratta alla sua famiglia di agricoltori di sussistenza quando era una bambina (tra i 10 e i 13 anni), Helena rimase ferita e si trovò a vivere tra gli Shameteri, una tribù Yanoama. Qui ha ucciso accidentalmente un bambino dandogli un rospo velenoso, e il padre della vittima voleva ucciderla. Per salvarsi la pelle fuggì nella foresta e raggiunse infine la tribù dei Namoeteri. Dopo un nuovo tentativo di fuga, fu ricatturata e presa in sposa a Fusiwe, cacique dei Namoeteri, divenendo la sua quarta e più giovane moglie. Dopo aver avuto da lei due figli, Fusiwe fu ucciso in battaglia. Saputo che i nemici dei Namoeteri complottavano per uccidere i suoi figli, temendo che li avrebbe cresciuti nella vendetta, Helena li trasse in salvo portandoli presso una tribù non coinvolta nella guerra. Conobbe un uomo di nome Akawe, lo sposò e gli diede due figli, un maschio e una femmina. Col tempo Akawe si rivelò un uomo brutale, paccianesco. Per sottrarsi ai maltrattamenti, la donna decise di tornare nelle terre dell'uomo bianco, portando con sé i quattro figli. Era l'Anno del Signore 1956. Nemmeno nel suo paese d'origine poté trovare la pace: la sua famiglia la rifiutò perche "contaminata dagli Indios" (e pensare che il padre era un individuo orrendo con la faccia da uomo-pesce di Innsmouth). Costretta a una vita miserabile in una missione protestante, Helena decise di tornare tra gli Yanomami. Nel 1989 fu trovata assieme ai figli nel villaggio di Lechosa, alla confluenza tra il Rio Ocamo e il Rio Mavaca. Era in condizioni di miseria assoluta. Morì nel 2002.  
 
 
Una gigantesca incoerenza 
 
Il film parte con questi dati di fatto: Umukai, conducendo i suoi guerrieri all'attacco, uccide i genitori di Catherine e li decapita, prendendo con sé le teste. Proseguendo nella visione, si viene invece a sapere che invece Umukai non è il responsabile di queste morti. Non ha ucciso lui i genitori della giovane inglese. Sorge quindi una domanda. Se non è stato Umukai a uccidere i genitori della bionda Catherine, perché ne ha reciso le teste prendendole come trofei? Tra i cacciatori di teste unicamente chi uccide qualcuno ha diritto al trofeo. Nessuno prenderebbe mai la testa di una persona uccisa da qualcun altro! Altra incoerenza folle. Se Catherine perdona Umukai come viene a sapere che non ha ucciso i suoi genitori, come mai gli perdona anche il fatto di aver reciso la testa ai loro cadaveri? Come dire: "Tu non hai ucciso i miei genitori, hai solo tagliato loro la testa quando erano già morti. Quindi è tutto OK". Questa è una cosa folle, vero?  Sembra quasi che il regista abbia iniziato le riprese partendo da un'idea per poi abbandonarla e impantanarsi verso la metà del film, una volta resosi conto che la sceneggiatura era inconsistente, a dir poco. Avrebbe quindi disperatamente cercato di porvi rimedio, senza alcun successo.      

Lo pseudo-Yanomami di Prosperi 

I nativi protagonisti del film di Gariazzo sono chiamati Guainirá. Non ho avuto riscontro di alcuna tribù con questo nome, ma ciò potrebbe doversi alle mie limitate conoscenze. Ho notato alcune stranezze. Una caratteristica non troppo comune in una lingua amerindiana dell'Amazzonia è la presenza del fonema /f/, che si trova ad esempio nell'antroponimo Fameteri /fame'teri/. Uno dei problemi con le lingue usate nei film è quello delle fonti da cui sono state elaborate. Si tratta di invenzioni parziali o complete? Non è sempre facile rispondere. Una cosa è certa: anche l'invenzione di una lingua richiede un certo grado di competenza, di consapevolezza e di sensibilità. Vediamo subito che Fameteri è un nome fabbricato a partire da quello di due tribù presso cui visse Helena Valero: gli Shameteri e i Namoeteri. Gli Shameteri erano già stati visti in Cannibal Holocaust (Ruggero Deodato, 1980). Il suffisso -teri / -tari si trova anche in altri etnonimi come Parimiteri e Pubmatari. Nelle lingue Yanomami non sussiste un fonema /f/, anche se il suono si trova come allofono in alcune varietà; invece vi abbondano le vocali nasali, che non si trovano affatto nella lingua udita nella pellicola gariazziana.
 
Un raffronto anche superficiale evidenzia una diversità lessicale profonda tra le lingue Yanomami e quella parlata dalla fantomatica tribù Guainirá. La tipica abitazione di paglia è chiamata da Catherine shapó /ʃa'po/, con una pronuncia identica a quella del francese chapeau "cappello". Si tratta di una mera coincidenza. All'inizio pensavo che di non poter escludere una trovata furbesca dello sceneggiatore. Poi ho trovato che tra gli Yanomami la casa collettiva è in effetti chiamata shabono (scritto anche xabono, shapono, yano).
 
Queste sono alcune glosse di parole e brevi frasi che è possibile ottenere dall'attenta visione del film:
 
Anaé "Terra dei Bianchi"
arégua!
"attingi!", "prendi l'acqua!" 
ashiníni! "mangia!"
éve! "su!", "forza!", "via!", "vai!":
   éve Umukai! "Vattene, Umukai!"
   evé! "presto!"; "vai via!" 

kanatá "scimmia" 
nakíru "cielo" 
tatukané "liquido lattiginoso usato per pescare" 
washimíni! "lavatela!" 
weassí ashamé kawametéri! "tu hai ucciso mio padre e mia
     madre!" 
shana kudu ikí! "attenzione al serpente!"

Il nome della scimmia, kanatá, è un indizio importante. Nelle lingue Yanomami non sembra esserci un nome generico per indicare il concetto di "scimmia": vi esistono invece molti nomi di particolari specie di primati. La sorella di Umukai, che schernisce una scimmia su un albero, non dà alcuna importanza alla tassonomia. In altre parole, il suo concetto della nomenclatura degli animali non sembra quello tipico dei popoli amazzonici. Un altro indizio della natura posticcia delle creazioni linguistiche dello sceneggiatore, Prosperi. 

Il teonimo Tupa /'tupa/ è senza dubbio di origine Tupí: è un prestito da Tupã "Dio". Va tuttavia rilevato che mentre la parola Tupí indica la divinità uranica, nella lingua degli Indios del film Tupa indica invece una divinità delle rapide, a cui sono offerte vittime umane. Probabilmente il responsabile dei dialoghi venne a conoscenza della parola Tupí, alterandone il significato.  

Non sono riuscito a trovare un'etimologia credibile per il nome Umukai. Durante le mie ricerche mi sono però imbattuto in una singolare coincidenza. Nella lingua polinesiana delle Isole Cook, umukai significa "festa, banchetto". Non ha alcuna connessione con l'Amazzonia, ma non è improbabile che Prosperi abbia trovato questa stessa parola e abbia deciso di utilizzarla per il suo suono.

Il quadro dei fonemi della lingua di Umukai è molto diverso da quello delle lingue Yanomami, che presentano un minimo di ben undici vocali, potendo arrivare addirittura a tredici. Oltre alle vocali /a/, /e/, /i/, /o/, /u/, troviamo /ɨ/, /ə/, oltre alle nasalizzate /ã/, /ĩ/, /ũ/, /ə̃/. Il sistema consonantico prosperiano presenta maggiori somiglianze con quello delle lingue Yanomami, ma non è comunque identico. Per fare un esempio, in Yanomamö è presente la consonante fricativa glottidale /h/, che manca nella lingua di Umukai. Quest'ultima per contro presenta una consonante occlusiva labiovelare /gw/ e una fricativa labiodentale /v/, che mancano in Yanomamö. Potrei essere accusato di sprecare le mie risorse mentali e di perdere il mio tempo in questioni di lana caprina, quindi non proseguo oltre. Questo è il link a un dizionario della lingua Yanomamö, dalla cui consultazione si possono ottenere conoscenze di estrema utilità:  
 
 

Scene memorabili 

Un tronco è coperto da grossi bruchi di un color nero chiaro, che si dibattono senza sosta. Umukai li raccoglie in una rudimentale ciotola e si mette a mangiarli. Una voce in sottofondo (non quella di Catherine) commenta in italiano: "Che schifo!" Quando Umukai prende i bruchi con le dita e li porta alla bocca, questi sono immobili e sembrano pezzi di sterco! La ragazza vomita. 
 
Catherine nuda al cospetto del cacique e dei suoi guerrieri, quel corpo statuario, sensualissimo, quelle natiche all'aria; le cure delle donne della tribù che la lavano, la frugano dappertutto...

Fameteri prende la nuda Catherine e cerca di consumare il matrimonio. Al primo contatto del glande con l'imene, l'uomo desiste all'istante dalla penetrazione. Così commenterà la ragazza alla corte durante il processo: "La mia verginità li meravigliava. I Guainirá stuprano artificialmente le bambine a quattro anni"

Catherine condotta dalla donna-sciamano dopo un tentativo di fuga e privata della verginità tramite un simulacro fallico, lo stesso che gli antichi Romani chiamavano mutinus titunus - anche se più rudimentale. Quando la donna-sciamano rompe la prigioniera, leva verso l'alto il fallo finto, con la punta sporca di sangue. Una scena simile si trova anche in un film di Lenzi, Mangiati vivi!, del 1980.    

Catherine, dopo aver rubato le teste putrefatte dei suoi genitori, scava a mani nude nel terriccio molle e le seppellisce. Sono interessanti alcune sequenze di putrefazione. Le mosche si avvicinano a una lucertola campestre (Podarcis sicula) morta da poco, poi si accalcano sulla carogna un serpente, quasi ridotta a uno scheletro. Una massa di lunghi vermi simili a lombrichi esce da un cranio umano che sporge dalla terra nuda. 

Citazioni:

”Tienitela stretta la tua vita, ovunque tu sia, su un trono o in una fogna, non rinunciarci mai, la vita è tutto, vivila, rimane sempre la tua vita, tutto il resto non conta."
(Il padre di Catherine)  

Curiosità: 

Per quanto mi sia sforzato, non sono riuscito a trovare nel Web la lista completa dei personaggi del film. Ho riportato attori e attrici, ma a parte pochi casi mancano le informazioni sui personaggi interpretati. Ad esempio non ho la benché minima traccia di chi ha interpretato Fameteri o la sorella di Umukai, Luamari. Non sono riuscito neppure a trovare informazioni sugli attori, ad esempio loro fotografie, in modo tale da risalire ai personaggi. Chi è Alma Vernon? Non si sa. Sembra quasi che sia una donna inesistente!  

Steven Pinker, il moderno Dottor Pangloss, noto per il suo iperottimismo nonché acceso sostenitore di Jair Messias Bolsonaro, a quanto pare ritiene che proprio gli Yanomami siano la causa di tutti i mali del mondo. Il film di Gariazzo deve aver lasciato un segno su di lui! Se avesse visto Cannibal Holocaust al massimo sarebbe stato traumatizzato da Barbareschi!     

giovedì 12 novembre 2020

 
ASSASSINIO AL CIMITERO ETRUSCO 
 
Titolo originale: Assassinio al cimitero etrusco
Titolo in francese: Crime au cimetière étrusque
Titolo in inglese: The Scorpion with Two Tails
Paese di produzione: Italia, Francia
Lingua: Italiano, etrusco
Anno: 1982
Durata: 98 min
Genere: Orrore, thriller
Regia: Christian Plummer (Sergio Martino)
Soggetto: Ernesto Gastaldi, Dardano Sacchetti
Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi, Maria Chianetta, Jacques
     Leitienne
Produttore: Luciano Martino
Casa di produzione: Dania Film S.r.l. (Roma), Medusa Film 
    (Roma), Imp.Ex.Ci.Sa (Nizza), Les Filmes Jacques
    Leitienne (Parigi)
Distribuzione in italiano: Medusa Film
Fotografia: Giancarlo Ferrando
Montaggio: Eugenio Alabiso, Daniele Alabiso
Effetti speciali: Paolo Ricci
Musiche: Fabio Frizzi
Scenografia: Antonello Geleng
Costumi: Antonello Geleng
Trucco: Franco Rufini, Giovanni Rufini
Interpreti e personaggi:
    Elvire Audray: Joan Mulligan Barnard
    Paolo Malco: Mike Grant
    Claudio Cassinelli: Archeologo Paolo Dameli
    Marilù Tolo: Contessa Maria Volumna
    Wandisa Guida: Heather Hull
    Gianfranco Barra: Commissario
    Franco Garofalo: Fotografo Gianni Andrucci
    Maurizio Mattioli: Masaccio
    Carlo Monni: Senaldi
    Anita Sagnotti Laurenzi: Prof.ssa Sorensen
    Jacques Stany: Nick Forte
    Luigi Rossi: Vecchio suonatore di aulos
    John Saxon: Arthur Barnard
    Van Johnson: Mulligan, padre di Joan
    Nazzareno Cardinali: Guardia del corpo della Contessa
    Angela Doria: Hilda
    Antonino Maimone: Boss a New York
    Fulvio Mingozzi: Ufficiale doganale
    Lucia Monaco: Julie
    Mario Rovelli (Novelli): Guadia del corpo della Contessa
    Gennarino Pappagalli: Archeologo
    Bruno Alias 
    Giuseppe Marrocco
    Mario Cecchi
    Bruno Rosa
    Ettore Martini
    Anna Maria Perego
Doppiatori originali:
    Paila Pavese: Joan Barnard
    Pino Colizzi: Paolo Dameli
    Sandro Iovino: Arthur Barnard
    Luciano De Ambrosis: padre di Joan, Mulligan
    Vittorio Stagni: Gianni Andrucci
Location: Volterra, Cerveteri, Formello, New York, R.P.A.
     Elios Studios di Roma

Trama: 
Joan, la bionda moglie dell'archeologo americano Arthur Barnard, ha le notti sconvolte da incubi atroci in cui assiste a sacrifici umani officiati dagli Etruschi in un'orrida grotta. Le modalità dell'offerta agli Dei Inferi sono terribili: il sacrificatore afferra il cranio della vittima e lo gira a 180 gradi, facendo sì che la faccia venga trovarsi proprio sopra alla parte posteriore della spina dorsale. Joan è scossa da premonizioni e teme per la vita del flaccido marito, impegnato in importanti scavi. A un certo punto l'uomo le telefona, cercando di dirle qualcosa, ma nel corso della chiamata viene ucciso. L'assassino parla in etrusco nella cornetta: "Ecn turce Šarún". Joan, sconvolta, decide di mettersi in viaggio per l'Italia, determinata a far luce sul mistero. Giunge in una Toscana molto diversa da quella che conosciamo, caratterizzata da fenomeni di vulcanismo, abitata da un'accozzaglia di truci banditi intabarrati e tombaroli. Ne sono certo, non è un frutto di qualche distorsione percettiva: questi manigoldi hanno un aspetto rignanesco! L'aristocrazia ha cognomi di origine etrusca: una tipica nobildonna è la contessa Maria Volumna. Alcuni cognomi dei violenti popolani sono invece di origine longobarda, come ad esempio Senaldi. La statuaria Joan nel corso delle sue indagini si imbatte in diversi personaggi. Incontra l'affascinante contessa Volumna, ma non riesce a ottenere dalla sua conoscenza alcun risultato utile. In bosco trova un vecchio suonatore di flauto doppio, che sa molte cose sugli antichi abitanti di quelle terre, da lui chiamati Raséni. Pian piano emerge la verità, che ha un sapore spiritico. Joan conosce la lingua etrusca senza mai aver compiuto alcuno studio, proprio perché è la reincarnazione di una sacerdotessa. Colpo di scena, non è una vera bionda, in realtà ha i capelli castani! Grazie al potere della reminiscenza l'ardimentosa eroina riesce a ritrovare la grotta che ha visto nei suoi sogni. L'anziano auleta si rivela essere proprio il sacrificatore che all'epoca le ha girato la testa fino a spezzarle il collo. A queste arcane rivelazioni si intrecciano vicende più prosaiche: si scopre che l'ingenuo Arthur nel corso dei sui scavi archeologici è rimasto coinvolto in un brutto affare coi gangster rignaneschi, che depredavano le tombe per poi nascondervi colossali quantità di letale polvere bianca (non certo borotalco o zucchero a velo, è ovvio). Il culmine si ha quando la protagonista raggiunge un luogo occulto, il Sancta Sanctorum degli Etruschi, in cui le stesse leggi della fisica sono violate! 
 
 
 
Recensione: 
Mi si perdonino i francesismi, ma ogni volta che guardo film come questo mi sento immerso in pieno nella stagione degli escrementi di celluloide, veri e propri ammassi di scorie espulsi dall'ano della senescente Settima Arte. Un ano che non è certo sensuale e desiderabile come quello di Rita Hayworth! Credo che non sia poi un caso se lo stesso regista abbia in seguito rinnegato la sua opera, motivando la sua ardua scelta con le seguenti parole: "<Il film> non ha aggiunto nulla alla mia carriera, nemmeno dal punto di vista economico". Detto questo, la pellicola di Martino è uscita dieci anni dopo il capostipite del giallo italiano archeologico, L'etrusco uccide ancora (Armando Crispino, 1972). Sembra quasi che le due opere in questione segnino l'inizio e la fine di un'epoca. In origine Martino intendeva dirigere una serie televisiva in ben otto parti, il cui titolo doveva essere Il mistero degli Etruschi, o in alternativa Lo scorpione a due code. Negli archivi SIAE si trovano due diverse sceneggiature, una di Ernesto Gastaldi e l'altra di Dardano Sacchetti, entrambe risalenti al 1982. Il nome del produttore cinematografico francese, Jacques Leitienne, compare per ragioni legate a un'asfissiante burocrazia. Un dettaglio tecnico: nonostante l'opera martiniana sia stata concepita per essere trasmessa in televisione, è stata girata in 16mm e montata come se dovesse essere proiettata nei cinematografi. La fonte di queste informazioni è Roberto Curti, Italian Gothic Horror Films, 1980-1989, McFarland, 2019. Gli sviluppi successivi sono stati prettamente berlusconiani: il film, acquistato da Reteitalia, è stato trasformato in una miniserie TV per essere trasmesso in due puntate su Canale 5. Questo riarrangiamento, firmato da Claudio Lattanzi, non è tuttavia mai stato trasmesso, né sulle reti di Berlusconi né altrove. In buona sostanza, Assassinio al cimitero etrusco è un pastone acido che mescola elementi polizieschi e horror come se fosse stato vomitato da un gigante ingozzatosi di trash. Non ha affatto goduto dello stato di cult raggiunto dal film di Crispino, pur dando un contributo all'immagine degli Etruschi sepolcrali, lugubri, posseduti dall'ossessione del proprio annientamento nell'Ade. In realtà non tutto è da buttare, qualche trovata buona c'è: ad esempio il senso della putrefazione immanente connessa alla reminiscenza, un orrore ontologico che prende forma tramite i cagnotti. Molto bella la musica, composta da Fabio Frizzi, storico collaboratore di Lucio Fulci: a cui si deve la colonna sonora di film horror fulciani come Zombi 2 (1979) Paura nella città dei morti viventi (1980), ... e tu vivrai nel terrore! - L'aldilà (1981).
 
 
Il fantaetrusco di Gastaldi-Chianetta  

La caratteristica precipua della lingua etrusca ricostruita dagli sceneggiatori è la trasformazione delle consonanti velari in palatali davanti alle vocali anteriori -e-, -i-. Così turce "donò", che i Rasna pronunciavano /'turke/, suona invece /'turtʃe/, con la cosiddetta "c di cena". Allo stesso modo muluvanice "donò, diede in dono" viene pronunciato /mulu'vanitʃe/. Manca la benché minima nozione di grammatica. Locuzioni corrette come tular Rasnal "i confini dell'Etruria" sono ripetute durante il rito che si vede all'inizio del film, soltanto perché sono prese di peso dalle attestazioni reali e incorporate nella trama. Quando si tratta di costruire una frasettina, tutto è sbagliato: non viene nemmeno compreso il concetto di declinazione. Il capolavoro di Gastaldi-Chianetta è la frase "Ecn turce Šarún", che dovrebbe significare "Egli è stato dato a Šarún". Qualcosa non quadra: il verbo è attivo, il pronome ecn è chiaramente all'accusativo: Šarún non è il destinatario, bensì il soggetto. La frase dovrebbe quindi tradursi con "Šarun lo ha dato", che significa poco. Se ecn "lui" (complemento oggetto) e turce "ha dato" sono ineccepibili (a parte la pronuncia della forma verbale), dovremmo domandarci cosa possa essere Šarún, con quell'accento anomalo sull'ultima sillaba. Stando all'intenzione degli sceneggiatori, Šarún sarebbe una sorta di divinità ctonia dell'Etruria, che presiede ai fenomeni vulcanici. Non stupisce che non risultino corrispondenze né attestazioni, trattandosi di un'invenzione. Se gli sceneggiatori fossero stati furbi, avrebbero usato il nome estrusco di Efesto, Šeθlans, oppure avrebbero formato un teonimo dalla ben nota parola verse "fuoco", qualcosa come Versens (non attestato). Al pubblico le parole con troppe consonanti piacciono poco. Perché una parola sconosciuta che finisce con una o più consonanti possa colpire l'immaginazione, è preferibile che l'accento cada sull'ultima sillaba. Ecco com'è nato l'improbabile Šarún. Con tutti i nomi etruschi di donna che si conoscono, bellissimi e affascinanti, la sacerdotessa ne ha ricevuto uno tutto sommato banale e inverosimile: Cere. Com'è ovvio attendersi è pronunciato come in italiano. Si tratta chiaramente del nome dell'antica città di Cere, in latino Caere, attestato in etrusco come Caisra, Cisra, Ceizr-, Χaire-. Che altro dobbiamo dire? Considerato che la lingua etrusca non ha avuto un'immensa fortuna cinematografica, dovremmo accontentarci e non pretendere troppo. Magari in qualche spettatore incuriosito si sarà acceso il nobile interesse per l'etruscologia!

 
Il mito dei Criptoetruschi  
 
Pellicole di etruscheria spicciola come quella di Martino hanno contribuito a diffondere il mito dei Criptoetruschi, ossia l'idea che da qualche parte, nei distretti più impervi e selvosi della Toscana, sopravvivano ancora oggi in un segreto catacombale persone continuatrici della lingua e della religione etrusca. Ne avevo già parlato qualche anno fa in un mio brevissimo contributo pubblicato su questo stesso portale: 
 

In un paese, credo fosse nel Casentino, si era diffusa una favola. I suoi abitanti si reputavano genuini discendenti degli Etruschi, mantenutisi nei secoli senza senza alcuna contaminazione esterna. In un articolo su una rivista c'erano anche fotografie di queste persone, di cui ricordo le sembianze oltremodo grottesche - cosa che confermerebbe la presenza di una lunga tradizione endogamica. Lovecraft avrebbe di certo preso spunto da queste cose per uno sconvolgente racconto su qualche antichissimo orrore dalla Toscana. Il problema è che la rivista in questione era ben lungi dall'essere fidedigna; con ogni probabilità si trattava di una squallida trovata per attrarre turisti in un borgo remoto e non certo prospero. In ogni caso, non c'è stata alcuna rivendicazione di una pretesa conoscenza della lingua etrusca o della pratica di sacrifici pagani. Come ho già fatto notare nel 2014, si trovano alcuni individui col cognome Rasna in un'area montuosa a nord di Firenze. 
 
Elementi  di fantafisica etrusca 
 
L'accesso dantesco al Sancta Sanctorum degli Etruschi emerge a causa dei sommovimenti di Šarún. Joan vi si inoltra, arrivando a un luogo che potrebbe essere uscito dalla fantasia di H.R. Giger o di Ridley Scott, tanto ricorda il pianeta degli Ingegneri del film Alien: Covenant (2012). Si vedono alcune teste gigantesche scolpite nella nuda roccia, massi a cui sono state date sembianze umanoidi. Le loro proporzioni ciclopiche opprimono e schiacciano chiunque si trovi in quel tempio, illuminato da un enorme diamante appeso al soffitto come un sole artificiale. Arriva anche Paolo Dameli, l'archeologo, che si rivela corrotto e pericolosissimo. Anzi, è proprio l'assassino che ha ucciso Arthur, il marito di Joan. Ecco il surreale dialogo che si svolge nell'arcana cripta:
 
Joan: "L'ultimo grande potere: la Sfera Cosmica, l'Anti-Universo. La Spirale del Tempo."
Paolo: "Joan, dov'è il tesoro? Joan, Joan, il posto è questo, tu l'hai trovato. Il sacro tesoro della Dodecapoli. Dimmi dov'è il tesoro!"
Joan: "I ciechi non sanno che la luce esiste, mostrargliela sarebbe inutile, non la vedrebbero. Paolo, il tesoro è là. Là c'è la Fine e l'Inizio del Tempo e la materia ha il segno contrario e opposto."
Paolo: "Sembra un grosso diamante. Se lo fosse varrebbe più di mille Kon-ai-Noor (sic!). Se riesco..."
Joan: "Non lo toccare, Paolo! Non lo toccare! Antimateria! Antigravità! Se lo tocchi, Paolo, se tu lo tocchi!" 
(- Paolo rimane colpito da una forte scossa, accompagnata da un rumore simile a quello di un gigantesco flipper! -)
Joan: "Il cristallo è completamente avvolto dal vuoto, è protetto da una forza che è contraria alla forza di gravità e respinge via l'aria. Altrimenti non potrebbe esistere, si sarebbe dissolto all'inizio del Tempo. La materia e l'antimateria non potrebbero coesistere se non ci fossero anche la gravità e l'antigravità. Solo così l'Universo può essere."
Paolo: "Da quanto tempo sai tutto questo?"
Joan: "È come se voci antiche mi parlassero dentro. Andiamo via da qui! Qui tutto appartiene agli Immortali!" 
Paolo: "Allora sei tu l'ultima degli Immortali. Sei tu. Adesso mi dirai dov'è il tesoro! E mi dirai la verità questa volta! Altrimenti... ho già spezzato il collo a molta gente e potrei farlo anche a te!"
Joan: "Allora sei tu che hai ucciso Arthur e tutti gli altri!" 
Paolo: "Certo. A volte con l'aiuto di quelli che volevano la droga."
Joan: "E adesso tu vuoi uccidere anche me." 
Paolo: "Se tu sei veramente immortale, non dovresti avere nessuna paura, non credi?"
Joan: "Io sono la Guardiana del Sacro Tesoro!" 
Paolo: "E se non mi dici subito dove si trova, resterai qui per il resto dell'Eternità!"
Joan (esagitata): "L'ultima conoscenza è il Tesoro degli Dei!!"   
 
A questo punto arriva il Deus ex Machina, che salva una situazione catastrofica. Collega di Joan e agente segreto in incognito, Mike Grant fa la sua irruzione, vincendo il malvagio e riportando l'ordine. Direi che la lunga digressione fantafisica della sacerdotessa etrusca reincarnata non era proprio necessaria. 

Dameli o Domelli? 

L'archeologo corrotto si presenta come Paolo Dameli, ma in diversi siti del Web il suo nominativo è scritto Paolo Domelli. Probabilmente Domelli, pronunciato Dameli nella versione in inglese, è stato mantenuto anche nella versione in italiano con la pronuncia americanizzata.
 
Scene memorabili 
 
I cagnotti che escono dagli occhi di un'antica scultura raffigurante un auleta. Pullulano, spingono, trascinano con sé anche alcune ributtanti pupe rossicce, cadono in massa e si spargono dovunque, contorcendosi.
 
Mike Grant che emerge dagli Inferi, simile a uno zombie avvolto dai gas sulfurei del vulcanismo, procedendo in modo retrogrado come un gambero, guidato dalla testa girata sulla schiena.   
 
Altre recensioni e reazioni nel Web 
 
Arrivati a questo punto, non resta che riportare alcuni significativi estratti davinottiani.  
 

Cotola ha scritto: 
 
"Desolante thriller di Martino (che si firma con uno pseudonimo) che non provoca il benché minimo spavento nello spettatore e non avvince per nulla. Che dire poi della pasticciatissima sceneggiatura che serve un finale a dir poco delirante e ridicolo? Meglio stendere un velo pietoso e passare avanti" 
 
Deepred89 ha scritto:  
 
"Mediocre film di Sergio Martino che combina con scarsi risultati thriller, horror e poliziesco. La regia è insolitamente rozza e la sceneggiatura arranca stancamente senza decidere che strada prendere, fino ad un finale con uno dei colpi di scena più ridicoli di tutto l'horror made in Italy. Cast interessante sfruttato nel peggiore dei modi e penalizzato da un doppiaggio indegno. Insufficiente." 
 
Puppigallo ha scritto:
 
"Pagliacciata horror poliziesca con attori dati in pasto a un copione ridicolo, che li trasforma inevitabilmente in macchiette viventi, credibili come l'esistenza di un politico onesto. Se non altro, si sorride quando subentrano le visioni della bionda e, soprattutto quando viene recitata la "raggelante" frase, o formula antica "Echen turce sciarù!". Da non dormire la notte...E non dimentichiamo le uccisioni tramite rottura del collo "Crac!" ed è tutto finito (gli etruschi erano per la rapidità). La colonna sonora è riciclata da vari zombimovie, mentre il resto è O.T. (Original Trash)."
 
Markus ha scritto:
 
"Tra le grotte degli etruschi con qualche rancore di troppo trascinato ai nostri giorni e la modernissima New York si consuma uno pseudo-horror con venature poliziesche. Sergio Martino dirige senza nerbo un film che ha la pecca maggiore nel non suscitare la benché minima paura. Resta però un certo desiderio di vedere come andrà a finire e un secondo tempo stranamente più avvincente del primo, quasi a voler tenere le scene "migliori" per il gran finale. Si nota una certa povertà di mezzi (statue di evidente cartongesso, attori perlopiù mediocri)."

martedì 10 novembre 2020

 
L'ETRUSCO UCCIDE ANCORA 
 
Paese di produzione: Italia, Germania, Jugoslavia
Anno: 1972
Durata: 105
Genere: Thriller, giallo, orrore
Regia: Armando Crispino
Soggetto: Lucio Battistrada, Armando Crispino, Bryan Edgar
     Wallace (storia breve), Lutz Eisholz
Sceneggiatura: Lucio Battistrada, Armando Crispino 
Produttore: Artur Brauner
Casa di produzione: Mondial Te.Fi, Inex Film, CCC
      Filmkunst
Distribuzione in italiano: Titanus
Fotografia: Erico Menczer
Montaggio: Alberto Gallitti
Effetti speciali: Armando Grilli
Musiche: Riz Ortolani
Scenografia: Giantito Burchiellaro
Costumi: Luca Sabatelli
Trucco: Nilo Jacoponi
Interpreti e personaggi
    Alex Cord: Jason Porter
    Samantha Eggar: Myra Shelton
    John Marley: Nikos Samarakis
    Enzo Tarascio: Commissario Giuranna
    Horst Frank: Stephen
    Enzo Cerusico: Alberto
    Carlo De Mejo: Igor Samarakis
    Nadja Tiller: Leni Schongauer Samarakis
    Daniela Surina: Irene
    Vladan Holec (Vladan Milasinovic): Otello, il custode
    Christiane von Blank: Velia
    Mario Maranzana: Brigadiere Vitanza
    Rodolfo Bigotti: Il motociclista
    Wendy D'Olive: Giselle
    Pier Luigi D'Orazio: Minelli
    Ivan Pavicevac: Poliziotto
    Cinzia Bruno: La ragazza del motociclista
    Carla Brait: Una danzatrice
    Carla Mancini
    Rosita Toros
    Alessandro Angeloni
    Pietro Fumelli
Doppiatori italiani
    Michele Kalamera: Jason Porter
    Lorenza Biella: Myra
    Roberto Villa: Nikos Samarakis
    Carlo Valli: Igor Samarakis
    Luciano Melani: Otello 
Traduzioni del titolo: 
    Tedesco: Das Geheimnis des Gelben Grabes
           (lett. Il segreto  della tomba gialla)
    Inglese: The Dead Are Alive (lett. I Morti sono vivi)
    Spagnolo: El dios de la muerte asesina otra vez
 
Trama: 
Jason Porter è un archeologo americano biondiccio ad alta gradazione alcolica, che quindi mi è naturalmente simpatico. Lavora agli scavi di una necropoli etrusca a Cerveteri, dove sono state scoperte da poco alcune tombe. Servendosi di una sonda, Porter riesce a fotografare l'interno di un grande ambiente sepolcrale, scoprendovi un affresco che raffigura il Demone della Morte, Tuchulcha, intento ad uccidere con una gigantesca mazza una coppia di giovani amanti. Presto lo studioso si rende conto di aver subìto un grave furto: la sua preziosa sonda gli è stata sottratta! Come se Tuchulcha si fosse materializzato in pieno XX secolo per un'insondabile maledizione, inizia una serie di uccisioni di coppiette in un'area che va dalla zona degli scavi a Spoleto. I corpi delle vittime sono ritrovati col cranio sfondato, disposti come per un sacrificio ai Demoni. Siccome l'arma del delitto è proprio la sonda sottratta, ecco che il corrotto e incompetente commissario Giuranna nutre il sospetto che proprio Porter possa essere l'autore dei delitti. Non sorprende che in una Toscana rignanesca e paccianesca, mostrata come un luogo più sudicio e turpe della fuliggine, qualsiasi forestiero un po' strano sia in automatico accusato delle peggiori scelleratezze, mentre le azioni dei banditi passano in cavalleria. La polizia di Giuranna, losca e brutale, sembra un'associazione di camorristi. In realtà si capisce presto che la situazione è più complessa di quanto non sembri a prima vista. Il proprietario dei terreni in cui sorge la necropoli è il famoso direttore di orchestra Nikos Samarakis, un vecchio coriaceo che con Porter ha qualcosa a che fare, avendo sposato la sua ex moglie Myra. La bellissima donna fulva aveva lasciato l'archeologo perché non ne sopportava la propensione ad alcolizzarsi e pretendeva di farlo cambiare, di renderlo un salutista. Dal canto suo, pur essendo il matrimonio finito, Porter non si rassegna, è ancora ossessionato da Myra e vorrebbe riconquistarla, arrivando in un'occasione persino a conati di violenza. Oggi, imperversando la narrazione ideologica boldrinesca, sarebbe considerato uno stalker per via della sua insistenza, quindi anche più deprecabile del serial killer. Prima che l'Ispettore Giuranna possa uscire dal buio in cui brancola, gli eventi precipitano e il moderno Tuchulcha si rivela essere qualcuno che è sempre stato vicino a Myra: il figlio pazzo di Nikos Samarakis, Igor. Scoperto e affrontato in un'epica tenzone dal coraggioso Porter, troverà la sua Nemesi, con lo stomaco perforato dall'acuminata scheggia di uno specchio infranto (e non di marmo, come pure si legge nel Web).  

 
Recensione:  
Questo film di Crispino è ricordato come un importante giallo all'italiana che dato origine del filone archeologico, fiorito negli anni '70. È stato anche tra i primi, forse addirittura il primo, ad aver tentato importanti contaminazioni con il genere horror. Senza dubbio potrebbe essere definito un capolavoro, ma del cinema grottesco, analogamente a perle radiose come Non si sevizia un paperino (Lucio Fulci, 1972), quello in cui la Bouchet interpretava il ruolo inquietante di una pedofila. Eppure c'è sempre qualcosa di interessante in questo genere di pellicole, che mi diverto a recuperare per immergermi in un mondo perduto. Qui l'antropologia criminale si fonde con una visione distorta e incubica di un'antica civiltà, da lungo tempo estinta. Non esistono realmente gli Etruschi, esistono i loro fantasmi, dotati di forza propria e in grado di schiacciare l'individuo, di annichilirlo.    

Così ebbe a dire lo stesso regista, oppresso e sconvolto dalla percezione nitida delle oscurissime forze soprannaturali emanate dai luoghi degli Etruschi: 

"Il film è nato da una visita occasionale alla necropoli di Cerveteri. Ho provato una sensazione di disagio, che di solito si prova di fronte a qualcosa che non si conosce."
(Armando Crispino) 
 
Certo, se guardiamo L'etrusco uccide ancora, a distanza di tanti anni ci appare stonato, irreale, a dir poco fragile, quasi senza traccia di coerenza interna. I personaggi non sempre sono convincenti. Talvolta sembrano appena abbozzati. Tra i più degni di attenzione c'è la figura del regista rossiccio e sodomita passivo, chiara allusione a un'importante personalità il cui nome mi astengo dal menzionare, anche se ormai da tempo appartiene ai Quondam. Non ci è difficile intuire quale sia la principale occupazione di questo bizzarro individuo: fellare gli energumeni di cui si circonda! In una sequenza lecca languidamente un gelato, pensando di dedicare le proprie attenzioni al solco balano-prepuziale di un fallo eretto. Vediamo poi Nikos Samarakis, ritratto come un turpe vecchio prostatico, che ha sposato Myra per farsi titillare con la lingua il perineo e lo sbocco naturale del "tristo sacco che merda fa di ciò che si trangugia" (cit.). Geloso e vendicativo, violento e sadiano, quest'uomo malvissuto fa una brutta fine: schiatta per un arresto cardiaco provocato ad arte, liberando l'infelice consorte dalla schiavitù e permettendole di ritornare assieme all'archeologo collerico. Poi c'è Leni Schongauer Samarakis, l'ex moglie del vetusto direttore d'orchestra. All'apparenza è una donna splendida e affascinante, di classe. Nessuno nota qualcosa di disgustoso in lei. Eppure i suoi capelli, nerissimi e pettinati a caschetto, altro non sono che una parrucca, indossata per nascondere le piaghe ripugnanti che le ricoprono il cuoio capelluto. La muove l'odio verso l'ex marito, colpevole di quelle oscene ustioni craniche che l'hanno rovinata per sempre. Questo microcosmo fosco e deforme è accompagnato da una bellissima colonna sonora, densa e penetrante, opera di Riz Ortolani. Alcune scene erotiche sono interessanti. 

Dario Argento sul film di Crispino 
 
Riporto queste parole di Dario Argento, che saranno certo notevoli e molto interessanti, per chi ha in alta stima questo genere di critica: 

"Il giallo italiano non si sa esattamente quando nacque. Uno dei primi film è quello di Camillo Mastrocinque realizzato nel 1948, L'uomo dal guanto grigio, un giallo tipicamente inglese. Nel 1959 Pietro Germi realizzò un giallo stupendo: Un maledetto imbroglio, tratto dal romanzo di Emilio Gadda. Segue La commare secca (1962) di Bernardo Bertolucci, quindi due film di Mario Bava, molto belli e interessanti: La ragazza che sapeva troppo e Sei donne per l'assassino. C'è stato un periodo di interregno, sinché sono usciti i miei film (L'uccello dalle piume di cristallo e Il gatto a nove code) e da allora c'è stato un uragano di imitazioni, sempre con gli animali nel titolo: la farfalla, la lucertola - e così via - che portarono il numero di gialli italiani a circa 200 in pochi anni. Poi, fortunatamente, questo uragano si fermò."
(Dario Argento) 

Mi rammarico di non avere una cultura cinematografica sufficiente ad apprezzare appieno questo torrente di citazioni. Ciò che so del cinema e della sua storia lo accumulo lentamente, film dopo film, recensione dopo recensione. In altre parole, non sono un adepto della religione dei Citazionisti Estremi. Comprendo però l'allusione alla cosiddetta "trilogia zoonomica" di Dario Argento, costituita oltre che da L'uccello dalle piume di cristallo (1970) e da Il gatto a nove code (1971) anche da 4 mosche di velluto grigio (1971). Crispino doveva essere consapevole del problema. Vediamo infatti Otello di Rignano, il custode della necropoli, che si diverte a bruciare animaletti come ragni e locuste, a quanto pare proprio come mezzo simbolico di insurrezione contro la dittatura della "trilogia zoonomica" e delle infinite imitazioni a cui diede origine (si parla addirittura di "generazione di un filone"). Il bellimbusto si accende una sigaretta e col fiammifero cerca di ustionare il pingue addome di esemplare di un ragno vespa (Argiope bruennichi), senza peraltro riuscire ad arrecargli gravi danni. Gode ad infliggere dolore, i suoi occhi sono illuminati dalla luce del sadismo. In realtà sembra essere stato proprio L'etrusco uccide ancora, un giallo di matrice argentiana, ad avere a sua volta influenzato lo stesso Argento, ispirandogli il motivo centrale di Profondo Rosso (1975), quello del trauma infantile di origine sessuale. Eppure pochi sembrano ricordare che proprio in Profondo Rosso c'è una scena di violenza estrema su una lucertola, che viene seviziata con uno spillo da una bambina dai capelli rossi come il fuoco, morbosa e sadica. Quindi, stando alla critica, cosa dovremmo dire? Che Dario Argento ha voluto protestare contro la sua stessa "trilogia zoonomica"? Queste tesi non mi paiono il prodotto di menti lucide.  
 

Trasmigrazioni spiritiche degli Etruschi 

Un bambino è rimasto sconvolto dall'attività sessuale della madre, che è stata scoperta dal cornuto e ha rimediato un'orrida ustione al cranio. Così il giovane cresce odiando ogni in modo viscerale ogni manifestazione della sessalità, finché la tensione insopportabile lo spinge ad uccidere coppiette il cui comportamento gli ricorda il trauma subito. Sviluppa una sua inquietante ritualità, che ha tutti i caratteri dell'ossessione. Come avviene questo passaggio? Cosa lo spinge a un certo punto a tradurre le sue fantasie in azione? Il cambiamento avviene tramite la visione dell'affresco etrusco in cui Tuchulcha ammazza a colpi di clava gli amanti. Ecco che ha luogo una trasmigrazione, a prima vista improbabile: Tuchulcha possiede il ragazzo e ne fa un omicida seriale. L'ossessione diviene azione acquisendo un carattere etrusco, pur mantenendo elementi moderni, come l'uso del Requiem di Verdi e delle scarpette rosse, riconducibili alle memorie dell'assassino. Non si ha quindi una trasmissione culturale di elementi etruschi sopravvissuti in qualche modo al trascorrere dei secoli, come in altri film, bensì un passaggio diretto, in cui la visione di un antico dipinto funge da catalizzatore. Questa trasmigrazione ha l'ontologia della possessione demoniaca: uno spirito che aleggia nell'aria entra nel corpo della vittima, utilizzandolo per muoversi ed operare nel mondo. L'annientamento di giovani vite lo sostenta e lo rafforza, proprio come il sangue offerto da Odisseo alle Ombre dell'Ade le rende dense, consapevoli, memori del proprio passato. Quando l'essenza di Tuchulcha abbandona il posseduto, su questi cade all'improvviso tutto l'immane peso delle atrocità compiute, lasciandogli come unica via di uscita il suicidio!  

Etimologia di Tuchulcha 

Raffigurato nella Tomba dell'Orco, Tuchulcha è ritratto con un aspetto ben più orribile di quello mostrato da Crispino: è un demone alato, con orecchie d'asino, becco da avvoltoio e vipere che gli escono dalle chiome; la sua pelle è giallastra e in mano tiene lunghi serpenti barbuti. Mi inoltro in alcune considerazioni sull'etimologia del nome. Nel Liber Linteus esiste la parola tuχlac, il cui significato è verosimilmente "mortale, funubre". La terminazione -c è un tipico suffisso aggettivale: la radice è tuχla- e doveva esprimere il significato di "morte", "lutto", distruzione". Con un suffisso -χa ecco formato il nome del Demone della Morte, Tuχulχa. Questo suffisso si trova anche in altri casi e doveva servire a formare sostantivi concreti. In un'iscrizione (REE 55 n91) abbiamo ali-χa con il significato di "dono", dal verbo al- "dare". Nel Liber Linteus abbiamo siml-χa, formato in modo simile a Tuχul-χa. Peccato che la radice siml- sia tuttora oscura e non si sia al momento in grado di specificarle il significato. Questo suffisso -χa deve essere nettamente distinto dal pronome ca "questo; egli": non è pensabile allo stato attuale delle conoscenze poter scambiare liberamente le consonanti occlusive con le aspirate, come tendeva a fare in modo ingenuo Pallottino. Nel film di Crispino gli attori pronunciano /tu'kulka/, con l'accento sulla seconda sillaba e la consonante /k/ non aspirata. Una chiara pronuncia ortografica. Si hanno prove del fatto che in etrusco l'accento cadeva sulla prima sillaba delle parole. La pronuncia doveva essere /'tukhulkha/, con l'accento sulla prima sillaba e la consonante /kh/ fortemente aspirata. Si capisce che la vera pronuncia etrusca sarebbe stata difficile, però immaginatevi l'effetto straniante che avrebbe avuto se fosse stata adottata in un giallo-horror italiano! 
 
Citazioni: 
 
"Figli di gran puttana, 'sti etruschi! Loro, sì, sapevano vivere, non si facevano mancare mai niente: mangiare come maiali, bere come cammelli e a letto come mandrilli!"
(Jason Porter) 
 
"Sembra un termitaio ma non lo è. Là sotto ci sono i miei amici etruschi, gli unici veri amici che ho al mondo. Non vedo l'ora di scendere laggiù tra quelle tombe per sentirmi un pò vivo. Sì, sono morti più di duemila anni fa secondo l'anagrafe della storia, ma per me sono più vivi di questa specie di robot che manovra questa trappola volante."
(Jason Porter)  
 
Altre recensioni e reazioni nel Web  
 
Sul sito del Davinotti si leggono moltissimi interventi. Ne riporto alcuni particolarmente significativi. 

 
Rebis ha scritto:

"Melodramma borghese camuffato da thriller esoterico, o viceversa… Crispino è più interessato a fomentarne il volume che la sostanza e informa il narrato in un'architettura fatta di stacchi repentini al montaggio, flashback e flashforward, immagini subliminali: ma lo sprezzo per linearità crea più inverosimiglianza che disorientamento, e il linguaggio avanguardista si fa concretamente enfatico, isterico quando non proprio ridicolo. Samantha Eggar sfoggia in ogni inquadratura un'acconciatura diversa: poteva essere valorizzata con maggiore sottigliezza. Saccheggiato da Dario Argento. Bel finale." 
 
Homesick ha scritto:

"Personale contributo di Crispino al giallo italiano, che prende le distanze dagli imperanti paradigmi di Argento - anzi, arriva a dettarne coordinate future, quali la rappresentazione del trauma infantile accompagnato dalla musica come in Profondo rosso e legato ad un paio di scarpe femminili come in Tenebre - e ammanta del fascino arcano della civiltà etrusca e delle sue necropoli. Molto feroce e sanguinario il primo delitto; personaggi adeguatamente bifronti. Rilevante e insolito per il genere l'inseguimento in stile poliziesco tra le anguste vie.
MEMORABILE: Il primo omicidio con la sonda per fotografare; gli affreschi di Tuchulcha; il confronto finale nella chiesa."

Rufus ha scritto:

"L'ambientazione nella necropoli etrusca è suggestiva (anche il tutto si limita a una superficiale fascinazione), la storia ben congegnata e adeguatamente morbosa; e Crispino sa dirigere i propri attori (bravi Marley, Frank e Tarascio) con l'eccezione del buon Cord, costantemente sopra le righe. Alcuni spunti (l'ossessivo Requiem verdiano, le scarpette rosse) faranno scuola. Peccato per alcune (brevi, ma fastidiose) cadute nella melassa (la liaison Cord-Eggar)." 
 
Markus ha scritto:

"Il grandioso titolo e la bella locandina raffigurante un ipotetico demonio etrusco lasciavan presagire un thriller straordinario, in realtà Crispino non sa gestire l'occasione: il film (tolti pochissimi momenti di tensione che durano pochi secondi) è di una noia mortale e fatica a decollare per la mancanza di ritmo, di colpi di scena che dovrebbero esserci e invece tardano ad arrivare. Lo spettatore è costretto a sorbirsi dialoghi logorroici e passaggi privi di interesse. Resta la piacevole ambientazione nel centro Italia. Mediocre."