giovedì 8 aprile 2021

ETIMOLOGIA DI NERONE E UN'INASPETTATA SOPRAVVIVENZA ITALICA

L'etimologia del nome Nerone non è affatto banale come potrebbe sembrare a prima vista. Molti tenderanno naturalmente ad associare il nome dell'inclito Imperatore all'aggettivo nero, cosa assurda per chiunque abbia anche una minima conoscenza della lingua latina. 
Famoso a questo proposito è un gioco di parole che ricordo fin da quando ero un moccioso: la frase latina "Cane Nero" significa "Canta, Nerone". È un ingegnoso trabocchetto usato per scherzi e indovinelli, che si è formato tra gli studenti di latino, anche se non è facile tracciarne con esattezza l'origine. Ne esiste anche una versione estesa, "Cane Nero magna bella Persica", che in latino significa "Canta, Nerone, le grandi guerre persiane", mentre il romanesco ha tutt'altro senso, parlando banalmente di un cane nero che mangia una bella pesca. 
Detto questo, Nerone non ha nulla a che fare con il colore nero, che in latino è niger (femminile nigra, neutro nigrum). Il glorioso cognomen romano Nerō (gen. Nerōnis), la cui origine è con ogni probabilità sabina, significa "Forte, Valente". Deriva dall'antica radice italica *ner-, di chiarissima origine indoeuropea, che significa "virile, forte".

Mirate tutti la potenza della Scienza linguistica! Da cose oscure e poco note, tramite le attestazioni e la forza delle ricostruzioni, fondate sulla Logica, in molti casi è in grado di illuminare l'Oscurità del passato, rendendo perfettamente comprensibile ciò che non si capiva. Riporto in questa sede ciò che serve allo scopo che mi sono prefisso. Certo, si tratta di cose acclarate da tempo. Eppure credo che sia sommamente utile divulgarle. 
 
Protindoeuropeo: *(a)ner- "uomo" 
Ricostruzione glottalica: h2nḗr "uomo; potere, forza, energia vitale" 

Anatolico: Ittita innarawatar "potere vitale", innarawant- "forte"; Luvio annar-ummi- "forte" (vedi Tischler); lidio nãrs "virtù, valore".

Sanscrito: nṛ́,
nár- "uomo, eroe", nára- (m.) "uomo; persona", nā́rī (f.) "donna, moglie"; nárya- "virile, umano"; sū-nára- "giovane uomo; giovanile".

Iranico: avestico , nar- "uomo, persona", nāirī "donna"; nairya- "virile"; curdo; ossetico næl "maschio"; persiano moderno nar /nær/ "virile, maschio; marito, stallone", nari "pene".

Armeno: ayr "uomo, persona" (gen. aṙn); aru "virile".
 
Frigio: αναρ (anar) "marito".
 
Greco antico: ἀνήρ (anḗr) "uomo", gen. ἀνδρός (andrós), acc. ἄνδρα (ándra), acc. epico ἄνέρα (anéra); epico ὴνοαέη (ǟnoréǟ) "virilità"; δυσ-ᾱ́νωρ (dus-ā́nōr) "che ha un cattivo marito".
 
Latino: neriōsus "forte, vigoroso; resistente" (di origine sabina); Nerō "Nerone" (antroponimo).
 
Altro italico: Osco niir, ner /ne:r/ "uomo", gen. pl. nerum; umbro acc. pl. nerf, dat. nerus "primi cittadini, nobili, prìncipi" (Tabole Iguvine); sud piceno nír "uomo", acc. pl. nerf  "uomini" (vedi Zamponi).
 
Celtico: *nerto-m "forza, virilità": gallico Esu-nertus, Nerto-marus, Nertacus (antroponimi), celtiberico Nerto-briga (nome di città); antico irlandese nert "forza, virilà"; gallese nerth "forza, virilità", cornico nerth "forza, virilità", medio bretone nerz "forza", bretone moderno nerzh "forza"; 
*nero-s "eroe": gallese nêr "eroe"; antico irlandese ner "cinghiale" (simbolo della virilità); celtiberico Neri (una tribù celtica della Galizia).
 
Albanese: njeri "uomo, persona" (antico albanese njer, proto-albanese *nera). 

Un'inaspettata sopravvivenza italica: 
la nerchia
 
La radice ner- "forte, virile" è sopravvissuta come relitto nella parola nerchia "pene, membro virile", molto diffusa nel Lazio (ad esempio si trova a Viterbo). Si può ricostruire una protoforma italica *ner-tlā- "pene, membro virile": con buona pace delle femministe convulsionarie, questo nome fallico è di genere grammaticale femminile - come spesso accade (vedi anche verga e minchia). Il Dizionario Treccani riporta la voce nerchia soltanto come una delle tante glosse di vocaboli fallici ma non la tratta, si trincera dietro il silenzio dell'ignoto. Molta gente, in modo stolto, ritiene che nerchia sia semplicemente una variante di minchia (da latino mentula "pene"), cosa impossibile per motivi fonetici. A sostenere questa pretesa derivazione di nerchia da minchia ci sono i fallocefali di Quora, è ovvio. Come di costume, stigmatizzo e fustigo i romanisti, che non hanno dedicato nemmeno mezza parola su una così importante testimonianza di un sostrato preromano indoeuropeo! Per loro, tutto ciò che non può essere ricondotto al vocabolario di latino che usavano al liceo, deve essere di "etimologia sconosciuta" o di "origine incerta". Per fortuna abbiamo trovato nel Web il meritorio sito di Aracne Editrice, in cui l'utente Nessuno ha pubblicato un interessante contributo, riportando l'etimologia di nerchia dalla radice italica *ner- e confermando la diffusione del vocabolo anche in Calabria, terra degli antichi Bruzi: 
 

L'etimologia è inclusa in un volume dello studioso John Bassett Trumper: Geostoria linguistica della Calabria (2016). Questa è la sinossi: 
 

"L’attuale divisione geopolitica della Calabria non corrisponde certo con esattezza alla terza Regio romana; non è quindi utile descrivere le centinaia di parlate singole della regione che oggi chiamiamo Calabria, spesso molto diverse tra loro, unite solo perché hanno una comune origine nel tardo latino. Questa regione non ha mai avuto, nella sua lunga storia, alcun centro dominante in senso culturale, politico–economico e soprattutto linguistico, nessun luogo, o luoghi, identificabile con un centro urbano, o un agglomerato consistente, che livellasse e koinizzasse l’intera area. Storicamente, il punto d’inizio sarà l’“italicizzazione” dell’odierna Italia nel periodo 3200–2800 a.C., discutendo la formazione di un gruppo italico Umbro–Sabino–Sudpiceno–Osco e considerando se una denominazione quale Enotro/Enotria sia riferita a uno stadio antico di questo stesso gruppo. L’autore si è concentrato principalmente sullo studio dei rapporti (biculturali) tra i microgruppi sabellici più meridionali e i Dori; è notevole che, mentre i Campani e gli Osci si alfabetizzano tramite le rivisitazioni etrusche dell’alfabeto greco, con la formazione dell’alfabeto detto “osco nazionale”, gli Osci più meridionali – che si chiamino Brettii o Enotri, non ha eccessiva rilevanza – ricevono l’alfabeto direttamente dai Dori, con lievi adattamenti."

martedì 6 aprile 2021

IL CULTO DI NERONE: ELEMENTO DI CONTINUITÀ TRA L'IMPERO ROMANO E IL MEDIOEVO

Esiste una zona di Roma chiamata Tomba di Nerone. È la cinquantatreesima zona di Roma nell'Agro Romano, indicata con Z. LIII; è nota con lo stesso nome anche la zona urbanistica 20C del Municipio Roma XV. Il toponimo è davvero singolare, ne converrete tutti. Il toponimo Tomba di Nerone trae la sua origine dalla presenza di un grande monumento sepolcrale sulla via Cassia, che la tradizione popolare attribuisce all'Imperatore Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico (Anzio, 15 dicembre 37 d.C. - Roma, 9 giugno 68 d.C.), nato Lucio Domizio Enobarbo, ultimo appartenente alla dinastia giulio-claudia. In realtà è la tomba di Publio Vibio Mariano, proconsole e preside della Sardegna e prefetto della Legio II Italica, vissuto nel III secolo d.C.; nel sarcofago è sepolta anche sua moglie Reginia Maxima. Il monumento fu fatto erigere dalla figlia della coppia, Vibia Mària Maxima.  

 
L'epitaffio
 
Questo è il testo dell'iscrizione sepolcrale in latino, tuttora visibile: 

D M S  
P. VIBI P.F. MARIANI E M V PROC
ET PRAESIDI PROV SARDINIAE PP BIS
TRIB COHH X PR XI VRB III VIG PRAEF LEG
II ITAL PP LEG III GALL FRVMENTARIO
ORIVNDO EX ITAL IVL DERTONA
PATRI DVLCISSIMO
ET REGINIAE MAXIMAE MATRI
KARISSIMAE
VIBIA MARIA MAXIMA C F ET HER 

Così può essere restaurato:
 
D(is) M(anibus) S(acrum) 
P. VIBI P.F. MARIANI E(gregiae) M(emoriae) V(iro) PROC(uratori)
ET PRAESIDI PROV(inciae) SARDINIAE P(rimo)P(ilo) BIS
TRIB(uno) COHH(ortis) X PR(aetoriae) XI VRB(anae) III VIG(ilum) PRAEF(ecto) LEG(ionis) 
II ITAL(icae) P(rimo)P(ilo) LEG(ionis) III GALL(icae) FRVMENTARIO 
ORIVNDO EX ITAL(ia) IVL(ia) DERTONA 
PATRI DVLCISSIMO 
ET REGINIAE MAXIMAE MATRI 
KARISSIMAE 
VIBIA MARIA MAXIMA C(larissima) F(emina) ET HER(es)  

Vediamo subito che il sepolto era un importante politico nativo di Tortona (all'epoca Iulia Dertona). L'abbondante uso di abbreviazioni ha contribuito a rendere l'iscrizione poco comprensibile anche alle poche persone tra il volgo dotate di qualche dimestichezza con le lettere dell'alfabeto.  
 
 
Veniamo al dunque. Da dove è nata e si è diffusa la credenza popolare che in questo monumento riposassero le spoglie dell'Imperatore Nerone, a dispetto dell'iscrizione che dimostra il contrario? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro nella Storia e proiettarci agli inizi del XII secolo. 
 
 
La tomba perduta 
 
La vera sepoltura di Nerone si trovava sul Colle degli Ortuli, dove oggi sorge la basilica di Santa Maria del Popolo, proprio a Piazza del Popolo. Questa tomba era denominata Mausoleo dei Domizi Enobarbi. Le ceneri dell'Imperatore, morto suicida il 9 giugno dell'anno 68 e cremato, vi erano conservate in un'urna di porfido sormontata da un altare di marmo di Luni. Il sepolcro era dominato da un immenso albero, un noce secolare tra le cui fronde si accalcavano corvi chiassosi in gran numero. Proprio questi sinistri volatili destarono terrore in Papa Pasquale II (regno: 1099 - 1118), che li riteneva esseri funesti e demoniaci. Il Pontefice, ossessionato da una rudimentale applicazione della scienza teologica ebraica conosciuta come Ghematriah, era convinto che Nerone fosse l'Anticristo e che sarebbe risorto presto dalla sua tomba, scatenando l'Apocalisse, portando il caos sulla Terra e riprendendosi il suo trono. Stando alla tradizione, tra il volgo correvano voci insistenti sulle streghe di Roma che si riunivano in quel luogo spettrale a mezzanotte ed evocavano gli spiriti maligni. Accadde così che nel primo anno del suo regno, Papa Pasquale ordinò di abbattere il noce e l'altare, facendo distruggere l'urna cineraria e disperdere nel Tevere i resti mortali dell'Imperatore (secondo un'altra versione ci sarebbero state ancora delle ossa, combuste insieme al noce). A consigliare il Pontefice sarebbe stata addirittura una supposta apparizione mariana avuta in sogno, in cui una figura che diceva di essere la Madre di Dio gli avrebbe chiesto di distruggere la tomba imperiale e di cancellare ogni traccia di Nerone da Roma. Questi resoconti, anche se in parte contraddittori, rendono l'idea del clima didelirio mistico e di terrore soprannaturale imperante! Come "riparazione", il Pontefice fece erigere sul luogo una cappella commemorativa dedicata alla Vergine, che secoli dopo si sarebbe sviluppata nella basilica di Santa Maria del Popolo. Secondo la narrazione ecclesiastica ufficiale, sarebbe stato lo stesso popolo romano a implorare Papa Pasquale di praticare il rito esorcistico e di demolire la tomba, versando contributi per la costruzione della cappella (che in realtà prende il nome da un albero: popolo = pioppo). C'è poi un problema di non poco conto. Per il popolo romano, Nerone era una figura molto riverita. Era ricordato come un sovrano il cui governo fu felice, illuminato e prospero: l'esatto contrario di quanto andavano sostenendo da molti secoli i Cristiani. In occasione dell'anniversario della sua morte, il 9 giugno, gli venivano portati fiori. Questo affetto per un passato imperiale tanto scomodo era considerato dal Papato uno scandalo insopportabile, da reprimere e di cui cancellare ogni memoria. La distruzione dei resti di Nerone ebbe le sue conseguenze immediate. Accadde che si scatenarono gravi tumulti. Per sedare gli insorti fu diffusa artatamente la falsa voce secondo cui le ceneri dell'Imperatore sarebbero state traslate nottetempo - per non meglio precisate ragioni di sicurezza - proprio nel sepolcro di Publio Vibio Mariano sulla via Cassia. Paradossalmente il luogo non era molto lontano da quello in cui Nerone si era suicidato. Comunque ci fu chi non credette alla voce e continuò a portare fiori nella cappella al Colle degli Ortuli. Altri intrapresero pellegrinaggi per visitare la nuova tomba del Divo, nonostante si trovasse ben al di fuori delle mura della città e non fosse agevole da raggiungere. In ogni caso il culto non si estinse e le speranze del Pontefice andarono deluse. Da questa usanza di recarsi una volta all'anno sulla via Cassia a portare fiori a Nerone nacque la famosa "gita fuori porta".  
 
Nerone e il Numero della Bestia  
 
Veniamo ora alla Ghematriah. Una delle ossessioni più potenti del Cristianesimo, associata al Libro della Rivelazione scritto da Giovanni di Patmos, è senza dubbio il cosiddetto Numero della Bestia, ossia 666 (seicentosessantasei). Ecco il passo (Apocalisse 13, 16-18): 
 
"Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della Bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della Bestia: infatti è numero d'uomo, e il suo numero è seicentosessantasei."
 
Questo è il testo in greco: 
 
"καὶ ποιεῖ πάντας, τοὺς μικροὺς καὶ τοὺς μεγάλους, καὶ τοὺς πλουσίους καὶ τοὺς πτωχούς, καὶ τοὺς ἐλευθέρους καὶ τοὺς δούλους, ἵνα ⸀δῶσιν αὐτοῖς ⸀χάραγμα ἐπὶ τῆς χειρὸς αὐτῶν τῆς δεξιᾶς ἢ ἐπὶ τὸ μέτωπον αὐτῶν, καὶ ἵνα μή τις ⸀δύνηται ἀγοράσαι ἢ πωλῆσαι εἰ μὴ ὁ ἔχων τὸ χάραγμα, τὸ ὄνομα τοῦ θηρίου ἢ τὸν ἀριθμὸν τοῦ ὀνόματος αὐτοῦ. ὧδε ἡ σοφία ἐστίν· ὁ ἔχων νοῦν ψηφισάτω τὸν ἀριθμὸν τοῦ θηρίου, ἀριθμὸς γὰρ ἀνθρώπου ἐστίν· καὶ ὁ ἀριθμὸς ⸀αὐτοῦ ⸂ἑξακόσιοι ἑξήκοντα ἕξ⸃."
 
Il latino Nero Caesar "Cesare Nerone" è stato adattato in greco come Νέρων Καίσαρ (Nerōn Kaisar). I nomi maschili latini in (III declinazione) sono adattati in come nomi maschili in -ων (-ōn). La trascrizione di Νέρων Καίσαρ in lettere ebraiche è נרון קסר. Ad ogni lettera dell'alfabeto ebraico (e allo stesso modo di quello aramaico) è associato un valore numerico, come accade anche per l'alfabeto greco. Ecco il calcolo che secondo Giovanni avrebbe dovuto fare chi ha intelligenza: 
 
נ  N (nun) = 50
ר  R (resh) = 200
ו  W (waw) = 6
ן  N (nun) = 50
ק  Q (qof) = 100
ס  S (samekh) = 60
ר  R (resh) = 200
 
Totale: 50 + 200 + 6 + 50 + 100 + 60 + 200 = 666 
 
Alcuni criticano la riportata trascrizione in lettere ebraiche, che è invece ineccepibile. La lettera samekh è la consonante adatta per trascrivere la sibilante di Caesar. La grafia קסר QSR (variante קיסר QYSR) è attestata e non è frutto di fantasia. La mater lectionis waw in נרון NRWN non deve essere omessa, mentre può essere omessa la mater lectionis yod, che è presente nella grafia קיסר QYSR.

Notiamo che alcuni codici antichi hanno 616 (seicentosedici) come Numero della Bestia. Ireneo riteneva che questa discrepanza fosse dovuta e errori di copiatura. Non è così. La dimostrazione è presto fornita. Trascrivendo la forma latina Nero Caesar in lettere ebraiche, senza passare attraverso la mediazione greca, otteniamo questo calcolo: 
 
נ  N (nun) = 50
ר  R (resh) = 200
ו  W (waw) = 6
ק  Q (qof) = 100
ס  S (samekh) = 60
ר  R (resh) = 200
 
Totale: 50 + 200 + 6 + 100 + 60 + 200 = 616

La differenza tra i due numeri è proprio il valore numerico della lettera nun finale nel nome dell'Imperatore, presente in un caso e assente nell'altro! Non c'è quindi alcuna contraddizione tra 666 e 616. Questo risultato è un fortissimo indizio a favore dell'interpretazione del Numero della Bestia come forma cifrata del nome di Nerone col suo epiteto Cesare (ossia "Imperatore"). 
 
Sono da rigettarsi tutte le infinite interpretazioni strampalate che si leggono nel Web. Non stiamo nemmeno a citarle tutte. Basterà riportare quella che vede nel numero 6 qualcosa di difettoso rispetto al numero 7, esprimente invece la perfezione; la ripetizione del 6 per tre volte indicherebbe un'imperfezione indefettibile, diabolica. Eppure Giovanni dice chiaramente che 666 è "numero d'uomo". Evidentemente molti fanatici biblici le Scritture nemmeno le leggono. Ancor più assurda è l'identificazione del 666 con i vaccini o con i chip sottocutanei: se anche Giovanni avesse visto tali cose, non avrebbe saputo interpretarle. Invece egli scrive che chi ha intelligenza sa come eseguire il calcolo. Si rivolgeva ai suoi correligionari, a cui bastava saper leggere, scrivere e far di conto. Nulla di trascendentale! 
 
Alcuni sostengono che il Libro della Rivelazione sarebbe stato composto all'epoca di Domiziano, quando Nerone era già defunto da tempo. Va detto questo: 
1) Secondo autori come Origene, Clemente di Alessandria e San Gerolamo, il Libro della Rivelazione fu invece composto all'epoca di Nerone; 
2) Esisteva l'idea secondo cui Domiziano sarebbe stato Nerone redivivo. In altre parole, Nerone era diventato per molti Cristiani (non per tutti) un epiteto dell'Anticristo.  
 
Si evidenzia uno dei gravissimi limiti della Ghematriah, che ora della fine ne dimostra l'intrinseca inconsistenza, è proprio questo: non riesce a distinguere le radici dei nomi (portatrici di significato) da elementi come suffissi e terminazioni dei casi; non riesce a tenere conto dei piccoli cambiamenti fonetici e morfologici dovuti all'adattamento di una parola da una lingua a un'altra.

Il terrore del Ritornante 

Questo afferma Agostino d'Ippona nel De Civitate Dei (20, 19, 3):

"Vi sono perciò persone che affermano che Nerone risorgerà e diventerà l’Anticristo, mentre altri suppongono che egli non sia morto, ma sia scomparso in modo da farlo credere ucciso, e sia ancora vivo e nascosto e nel pieno dell’età che aveva al tempo della sua presunta morte, finché «non venga rivelato al tempo giusto per lui» e rimesso sul suo trono. Quanto a me, sono assai stupito dalla grande presunzione di coloro che azzardano simili congetture."

Anche se l'Ipponate non approvava queste credenze, ne ha documentato l'esistenza e la diffusione ancora nella sua epoca. Sono le stesse che terrorizzavano Papa Pasquale II molti secoli dopo! 

Deduzioni su un culto di grande importanza 
 
Sono dell'idea che non si possa trascurare un fatto di per sé evidente: gli onori tributati alla memoria di Nerone dal popolo romano si sono trasmessi dall'Antichità imperiale al Medioevo in modo diretto e senza soluzione di continuità. La costumanza di portare fiori a Nerone comparve subito dopo la sua morte e la ritroviamo tal quale ai tempi di Pasquale II. La storiografia tradizionale si è affannata per lungo tempo a sostenere la discontinuità tra il Medioevo e l'Evo Antico, interpretati come due universi senza alcuna connessione, fatti di sostanze del tutto dissimili. A quanto possiamo dimostrare con questi studi, una simile concezione non è ben fondata, perché presenta almeno una grave falla.          

Alcuni siti utili 

Riporto alcuni link a interessanti siti del Web che trattano questi argomenti, purtroppo negletti dalla storiografia e non sufficientemente indagati dagli studiosi.
 
 
 
 
 
Le fonti menzionate nella Wikipedia in italiano sono le seguenti: 

1) Filippo Coarelli, Guida archeologica di Roma, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1984;
2) Massimo Fini, Nerone. Duemila anni di calunnie, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1993; 
3) Edward Champlin, Nerone, Editori Laterza, 2010. 
 
Ho potuto avere accesso agli ultimi due lavori. In particolare quello di Champlin è eccellente. Una vera e propria miniera di informazioni preziose. 

 
Il Belli e il ricordo di Nerone  

Giuseppe Gioachino Belli (1791 - 1863) scrisse nel 1831 un sonetto intitolato Un deposito, in cui fa menzione della tomba di Vibio Mariano e della sua attribuzione a Nerone.
 
"Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca. Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che imparano per tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge. Sterili pertanto d’idee, limitate ne sono le forme del dire e scarsi i vocaboli." 

Questo è il sonetto:
 
Un deposito 
 
Dove nasce la cassia, 
a mmanimanca, nò a ppontemollo, tre mmía piú llontano, 
ce sta ccome un casson de pietra bbianca
o nnera, cor P. P. der posa-piano.


Lí, a Rromavecchia, ha dditto l’artebbianca, 
ce sotterronno un certo sor Mariano, 
che mmorze de ’na palla in una scianca 
a la guerra indov’era capitano.

Duncue, o cqui er morto è stato sbarattato;
e allora me stordisco de raggione
ch’er governo nun ciabbi arimediato.


O cchi ha scritto er pitaffio era un cojjone:
perché, da sí cch’er monno s’è ccreato,
questa è la sepportura de Nerone. 

Si menziona una rudimentale conoscenza del latino da parte di un fornaio (denominato artebbianca, ossia "arte bianca"), che riesce a identificare il nome del personaggio sepolto, Mariano, pur attribuendogli gesta anacronistiche: sarebbe morto sul campo di battaglia per un proiettile in una gamba. Di fronte alla stridente incongruenza tra la tradizione e i dati raccoglibili tramite i sensi, il popolano trova soltanto due spiegazioni possibili: o hanno sgombrato i resti di Nerone mettendoci dentro quelli di un certo Mariano, oppure il lapicida era un idiota che ha scritto "Mariano" anziché "Nerone" per incompetenza.    
 
Gli idioti di Quora  

Nel triste e turpissimo social network denominato Quora mi sono imbattuto in una lunghissima serie di dementi fallocefali e stolitissimi, la cui cultura è essenzialmente cinobalanica, oltre che autoreferenziale. Il loro ragionamento è questo: se una cosa non è scritta sui libri di scuola su cui hanno studiato al liceo, allora non esiste. Sic et simpliciter. Quando qualcuno riporta loro qualcosa che non hanno mai sentito, reagiscono con stizza e lo aggrediscono, accusandolo di inventare di sana pianta. Così questi saputelli gnè gnè gnè, senza alcuna cognizione di causa, negavano l'esistenza stessa del culto di Nerone, pur essendone documentata la persistenza. Mi faccio una domanda. Perché non si calano in un crogiolo di fonderia per ricevere addosso una colata di ghisa? 
 
 
Il culto non muore!
 
Alla faccia di Pasquale II e degli stolti che hanno creduto alle sue boiate, in qualche modo il culto di Nerone è sopravvissuto fino ai nostri giorni. Esistono prove inconfutabili di questo fatto. Ancora oggi qualcuno lascia fiori a Santa Maria del Popolo, per onorare il Benefattore la cui fama immensa ha sfidato i millenni, caso quasi unico in tutta la Storia. Nel 2010 è stato inaugurata ad Anzio una statua di bronzo dedicata a Nerone, opera dello scultore Claudio Valenti, con una targa commemorativa riportante la seguente iscrizione: 
 
"Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico, nato ad Anzio il 15/12/37 d.C. con il nome di Lucio Domizio Enobarbo,  figlio di Gneo Domizio Enobarbo e di Agrippina Minore, sorella dell'imperatore Caligola. Nel 54 d.C. divenne imperatore per acclamazione dei pretoriani. Durante il suo principato l'impero conobbe un periodo di pace, di grande splendore e di importanti riforme. Morì il 9/06/68 d.C." 
 
Queste sono le parole di Luciano Bruschini, all'epoca sindaco di Anzio:

"Probabilmente è l'unico monumento al mondo dedicato all'Imperatore Nerone, nostro concittadino. Non a caso abbiamo posizionato la statua davanti all'antico porto neroniano e nelle immediate vicinanze del Parco Archeologico della Villa di Nerone. Infatti diverse vicende della vita dell'Imperatore Nerone sono legate al luogo natale, sede di una residenza imperiale che, nei secoli, ha assunto le dimensioni monumentali che tuttora ammiriamo nell'area tra il faro, il Porto Neroniano e l'Arco Muto".
 
E ancora: 
 
"A distanza di venti secoli finalmente gli storici seri stanno rivalutando la figura di Nerone: un grande Imperatore, amato dal suo popolo, per le sue coraggiose riforme sociali e per il lungo periodo di pace che ha caratterizzato il suo principato che con questo monumento contribuiamo a ricordare come merita, superando ridicole ricostruzioni storiche e cinematografiche."
 
Questo riporta Champlin nella nota 44 del suo utilissimo libro:
 
"Nel 1909 Lanciani osservò a proposito di Anzio, la città dove erano nati l’imperatore e la sua unica figlia: «Nerone è ancora l’eroe popolare di Anzio e il protagonista di molte leggende del suo folklore» (Lanciani 1909, 340). Si paragonino le storie sul bagno di latte di Poppea narrate ancora oggi nella zona del suicidio di Nerone a nord di Roma: Quilici e Quilici Gigli 1986, 102, n. 125."
 
Tutto ciò si contrappone all'irriverenza di Petrolini, che guittescamente schernì l'indimenticabile Cesare, ritraendolo nelle sue squallide macchiette come un decerebrato dall'aspetto oltremodo grottesco. Ancor più esecrabile è la rappresentazione fatta da Mel Brooks, che nel film demenziale La pazza storia del mondo (History of the World, Part I, 1981) ha ritratto Nerone come un odioso panzone calvo e sostanzialmente imbecille - cosa che non era affatto - e per giunta intento a spappolare pomodori che non potevano esistere! 

 
Meritoria opera di ricostruzione 
 
Uno studioso e artista spagnolo, Salva Ruano, ha prodotto una serie di statue iperrealistiche per il suo progetto Césares de Roma, dedicato ai grandi protagonisti storici dell'Urbe. La base su cui si fonda la sua opera immensa ed ingegnosa sono le raffigurazioni scultoree dell'epoca antica e le fonti letterarie, che permettono di ricreare il passato con una precisione che ha dell'incredibile. Riporto le sue commoventi parole: "Questo è il progetto artistico più importante della mia vita, unisce le mie grandi passioni: l’arte e la storia". Il volto di Nerone è stato ricostruito a grandezza naturale servendosi di silicone, acrilico e capelli naturali. Così riporta Gaio Svetonio Tranquillo: "La sua statura si avvicinava alla media, il suo corpo era coperto di macchie", aggiungendo "Gli occhi erano incavati e deboli alquanto, il collo grosso". Le macchie sul corpo erano efelidi. La chioma era di un bel colore rosso, gli occhi erano chiari.      

Conclusioni
 
Naturalmente sono un grandissimo fan dell'Imperatore Nerone e reputo che egli sia la soluzione ideale alle piaghe che affliggono Roma e l'Italia intera. Possa risorgere dall'Ade! 

sabato 3 aprile 2021

LA VITA E L'OPERA DI BRUNO SCHULZ, ADORATORE DEI PIEDI FEMMINILI

Bruno Schulz fu un artista polacco, che si distinse come disegnatore, scrittore, pittore, critico letterario e insegnante d'arte. Nacque nel 1892 a Drohobyč (Drohobycz), in Galizia, che all'epoca faceva parte dell'Impero Austroungarico, divenendo dopo il 1918 parte del Voivodato di Leopoli, divisione amministrativa della Polonia interbellica (attualmente appartiene all'Ucraina). La sua stirpe era ashkenazita. Tecnicamente è da considerarsi polacco, anche se ai nostri giorni le idee sono abbastanza confuse: quelle strane terre dell'Est hanno più volte cambiato denominazione e appartenenza nazionale, dando origine a migrazioni e rimescolamenti di popoli. Il padre di Bruno, Jakub Schulz, era un mercante di stoffe, mentre la madre si chiamava Henrietta Kuhmärker. Nonostante il suo cognome germanico, la sua lingua nativa era il polacco. Pur conoscendo molto bene il tedesco, si trovava abbastanza a disagio con lo yiddish, che a rigor di logica avrebbe dovuto essere la sua prima lingua. Disgraziatamente molte sue opere letterarie furono perdute nel corso dell'Olocausto: tra queste diversi racconti brevi e il romanzo incompiuto Il Messia (Mesjaz). Una raccolta di lettere dell'autore è stata pubblicata in polacco nel 1975, intitolata Il libro delle lettere (Księga listów), così come una serie di saggi critici scritti per vari giornali. 

 
Riporto nel seguito una succinta cronologia della tormentata esistenza di questo artista, purtroppo ancora poco conosciuto al grande pubblico.
 
1910: Bruno si iscrive al Politecnico di Leopoli (attuale Ucraina).  
1915: Muore il padre di Bruno, malato da anni (per motivi di salute aveva chiuso il negozio di stoffe dal 1910). Il lutto ha come conseguenza l'interruzione degli studi e il trasferimento a casa della sorella, Hanna Hoffman, vedova con due figli.      
1917: Bruno si trasferisce a Vienna. Riprende gli studi di architettura ma con scarso successo. Non riuscendo a conseguire la laurea, torna in Galizia. Svolge il ruolo di insegnante in un ginnasio della sua città di origine, dedicandosi al contempo al disegno e alla letteratura. 
1920-1922: Bruno compone il Libro Idolatrico (Księga Bałwochwalcza). È un'opera sensualissima che mostra lo stesso autore intento a tributare adorazione assoluta alla Femmina Dominatrice.
1931: Muore la madre di Bruno. Sono assolutamente certo che l'artista fosse legato a lei in modo morboso. Le tragedie non si fermano: dopo quattro anni muore anche suo fratello maggiore Izydor, che lascia tre figli.  
1933-1937: Gli amici di Bruno, tra cui la scrittrice Zofia Nałkowska, lo spingono a pubblicare racconti. Questi suoi scritti compaiono nelle seguenti raccolte: Le botteghe color cannella (Sklepy cynamomowe, 1933; titolo inglese The Street of Crocodiles) e Il sanatorio all'insegna della clessidra (Sanatorium pod Klepsydra, 1937), quest'ultimo con 42 illustrazioni di suo pugno. Le amiche sono in genere le peggiori torturatrici: se la Nałkowska si fosse concessa a lui, facendosi adorare, avrebbe evitato una tragedia della Natura. Invece no. Da sempre le donne uccidono gli spasimanti con frasi di questo tipo: "Ti vedo come un amico", "Possiamo essere soltanto amici", "Grazie della tua amicizia". Perché? Perché preferiscono fellare gli energumeni. Ecco perché. Per fare sesso bisogna essere bruti come i gorilla. Chi ha l'animo sensibile è dannato. 
1938: Bruno pubblica il racconto La cometa (Kometa). Porta avanti la scrittura del romanzo Il Messia (Mesjasz), iniziato nel 1934. In questo periodo le sue opere attirano importanti esponenti della cultura polacca più innovativa: Roman Ingarden, Stanisław Ignacy Witkiewicz e Witold Gombrowicz. Allaccia con loro rapporti di amicizia e inizia con loro carteggi, purtroppo perduti. Grazie a questa attività collabora con diverse riviste, pubblicando articoli e recensioni, raccolte dopo la sua morte. Nello stesso anno è insignito del prestigioso premio dell'Accademia Polacca di Letteratura (Polska Akademia Literatury, PAL). 
1939: Patto Molotov-Ribbentrop. La città natale di Bruno viene invasa dall'Unione Sovietica. Il dominio russo è effimero e presto si scatenano conflitti etnici tra polacchi e ucraini, con persecuzioni antisemite all'ordine del giorno. Bruno ha completato la traduzione in polacco de Il processo (Der Prozess) di Franz Kafka, in collaborazione con Józefina Szelińska. Questa era la sua fidanzata, che aveva con lui un "rapporto complicato" (in pratica si traduce così: "prendeva vagonate di uccelli ma non il suo"). 
1941: Operazione Barbarossa. La città natale di Bruno viene invasa dalla Germania Nazionalsocialista. I nazionalisti ucraini scatenano un pogrom che infuria per tre giorni, col sostegno della Wehrmacht. Bruno viene rinchiuso nel ghetto. Data la sua conoscenza della lingua tedesca, è utilizzato come interprete da Felix Landau, un ufficiale delle SS che ammirava le sue opere artistiche. 
1942 (19 novembre): Bruno termina il suo infelice cammino terreno, brutalmente ucciso per rappresaglia da Karl Günther, un ufficiale della Gestapo. Infatti Landau aveva ucciso un ebreo al servizio di Günther, un dentista di nome Löw. Günther non si era lasciato sfuggire l'occasione di vendicarsi, colpendo Bruno al cranio con una piccola pistola mentre camminava nel ghetto portando con sé una pagnotta. Il corpo dell'artista viene sotterrato in una fossa comune e non è mai stato trovato. 
 
Espulso dalla vita 
 
Questa fu la descrizione che Witold Gombrowicz fece del tormentato artista, nel 1961:  

"Gnomo, minuscolo, dalla testa enorme, quasi troppo spaurito per aver il coraggio di esistere, era un espulso dalla vita, uno che sguscia furtivo, sul margine. Bruno non riconosceva a se stesso alcun diritto all’esistenza e cercava il proprio annichilimento: non che sognasse il suicidio, soltanto tendeva al non essere con tutto il suo essere." 

A dispetto della grande diversità nel fisico, quanto mi riconosco in questa descrizione!

L'Abisso dei Sensi  

Le visioni oniriche di Bruno Schulz erano popolate da figure distorte e nanesche! Si notano individui bizzarri e deformi, macrocefali, senili, a volte quasi focomelici, sproporzonati in ogni membro del corpo, in qualche caso persino negroidi, intenti ad adorare i piedi di donne bellissime! Questi individui prendevano in bocca piedi dell'amata, coprendoli di baci e leccandoli avidamente. Non ci sono dubbi: mentre facevano queste cose, il loro cazzone diventava durissimo, tanto che alla fine il piacere provato diventava insopportabile ed emettevano fiotti di sperma incandescente. Altre volte prevalgono invece fantasie di castrazione e di annientamento. Il terrificante potere della Femmina si manifesta in tutto il suo fulgore, annichilisce il maschio, lo riduce a un lombrico. Tutta questa rappresentazione spasmodica aveva un suo significato profondo: il disegnatore stesso si vedeva come un nano distorto, anche se artisticamente era un gigante! Le sue passioni erano assolute, totalizzanti! Gli autoritratti di Schulz mostrano parallelismi con autori come lo psichedelico Marc Chagall e il tenebroso Alfred Kubin.    
 
Susanna e i vecchioni (Zuzanna i starcy)

Stalloni ed eunuchi (Ogiery i eunuchy)

L'Infanta e i suoi nani (Infantka i jej karły)

 Donna con frusta (Kobieta z biczem)

Senza titolo noto  
 
 Undula agli artisti (Undula u artystów)

 I pellegrini (Pielgrzymi)

La città incantata II (Zaczatowanie miasto II) 

Fiaba eterna (ideale) (Odwieczna baśń (ideał))

Illustrazione per Le botteghe color cannella  

Senza titolo noto
 
Nell'ultimo disegno riportato, di cui non sono riuscito a reperire il titolo e il contesto, si nota addirittura un uomo-verme, intento a supplicare la Domina per poterle leccare i piedi, che lei mette su una coppia di mandingo! L'uomo-verme è una creatura che sembra scaturita da un incubo delirante: la testa e il tronco sono di un essere umano di sesso maschile, mentre la parte inferiore del corpo sembra il grasso bruco di una tarma della farina! Tutto ciò è di una potenza allucinante! Non si era mai visto nulla di simile dai tempi della formazione della mitologia ellenica, in cui l'assunzione di funghi muscarinici aveva portato gli inebriati a concepire spaventose epifanie ibride e teriomorfe della Natura turbata, come i Centauri, il Minotauro e le Arpie!   

La controversia dei murales 

Nel febbraio 2001, Benjamin Geissler, un regista di documentari tedesco, ha scoperto i murales che Bruno Schulz aveva creato per Felix Landau. I lavoratori della conservazione polacchi, che avevano iniziato il meticoloso compito di restauro, hanno informato dei risultato lo Yad Vashem, autorità ufficiale israeliana per la memoria dell'Olocausto. Nel maggio dello stesso anno i rappresentanti israeliani si sono recati a Drohobyč per esaminare l'opera, asportandone cinque frammenti e trasportandoli a Gerusalemme. Ne è nata una controversia internazionale. Lo Yad Vashem ha affermato che le parti dei murales erano state acquistate legalmente, ma il proprietario della proprietà sosteneva che non era stato stipulato alcun accordo del genere. Lo Yad Vashem non avrebbe ottenuto il regolare permesso dal Ministero della Cultura Ucraino. Alcuni frammenti lasciati in loco dallo Yad Vashem sono stati da allora restaurati; dopo essere stati esposti nei musei polacchi, fanno ora parte della collezione del Museo Bruno Schulz di Drohobyč. Ciò ha suscitato indignazione pubblica sia in Polonia che in Ucraina, dove l'artista è molto amato. La questione ha raggiunto una soluzione nel 2008, quando Israele ha riconosciuto le opere come "proprietà e ricchezza culturale dell'Ucraina", e il Museo Drohobyčyna ha accettato di lasciare che lo Yad Vashem le tenesse come prestito a lungo termine. Nel febbraio 2009 lo Yad Vashem ha aperto al pubblico la sua esposizione dei murales.  
 
Adattamenti cinematografici 

L'opera di Bruno Schulz ha ispirato il film La clessidra (Sanatorium pod klepsydra, 1973) del regista polacco Wojciech Jerzy Has, che ha ricevuto il Premio della giuria al Festival di Cannes del 1973. 
Si segnala anche il cortometraggio in animazione stop motion Street of Crocodiles diretto dai fratelli Stephen e Timothy Quay e rilasciato nel 1986. È basato sulla raccolta Le botteghe color cannella
Conto di visionare queste pellicole e di pubblicarne una recensione appena mi sarà possibile. 
 
Adattamenti teatrali e musicali
 
Nel 1992 Simon McBurney ha ideato e diretto The Street of Crocodiles, uno spettacolo teatrale sperimentale basato su Le botteghe color cannella, prodotto dal Theatre de Complicite in collaborazione con il National Theatre di Londra. L'adattamento è dello stesso Simon McBurney e di Mark Wheatley. Ha influenzato un'intera generazione di produttori di teatro britannici. 
Sempre nei primi anni '90, i compositori russi Vladimir Martynov e Alfred Schnittke hanno attinto alle storie, alle lettere e alla biografia di Bruno Schulz dando vita a un intreccio ipercomplesso immagine, movimento, testo, marionette, manipolazione di oggetti, performance naturalistiche e stilizzate. Non riesce agevole reperire nel Web informazioni più dettagliate su queste produzioni musicali. 
Nel 2006, Skewed Visions ha creato la performance/installazione multimediale The Hidden Room, come parte di una serie "site-specific" in uno storico edificio per uffici di Minneapolis. Combinando aspetti della vita di Schulz con i suoi scritti e disegni, il pezzo ha rappresentato le complesse storie della sua vita attraverso il movimento, le immagini e la manipolazione altamente stilizzata di oggetti e pupazzi. 
Nel 2007 uno spettacolo intitolato Republic of Dreams, basato sulla vita e sulle opere di Bruno Schulz, è stato presentato in anteprima dalla compagnia teatrale Double Edge Theatre
Nel 2008 Frank Soehnle ha diretto un'opera teatrale basata su Le botteghe color cannella, rappresentata dal Puppet Theatre di Białystok al Jewish Culture Festival di Cracovia.
Tra il 2006 e il 2008, Hand2Mouth Theatre (Portland, Oregon) e Teatr Stacja Szamocin (Szamocin, Polonia) hanno creato una performance basata sugli scritti e sull'arte di Bruno Schulz, intitolata From A Dream to A Dream, in collaborazione da  sotto la direzione di Luba Zarembinska. La produzione è stata presentata per la prima volta a Portland nel 2008.
 
Metempsicosi letterarie 
 
Bruno Schulz ha vissuto una complessa vita postuma anche nella letteratura. 
Un romanzo della scrittrice americana Cynthia Ozick, Il messia di Stoccolma (The Messiah of Stockholm, 1987), narra la storia  di un uomo svedese che è convinto di essere il figlio di Bruno Schulz, entrando in possesso di quello che crede essere un manoscritto del progetto finale dell'artista, Il Messia
Bruno Schulz appare di nuovo come personaggio di un romanzo dello scrittore israeliano David Grossman, Vedi alla voce: amore (See Under: Love, 1989). In un capitolo intitolato "Bruno", il narratore immagina l'artista che si imbarca in un fantasmagorico viaggio per mare per non rischiare di essere ucciso a Drohobyč. L'intero romanzo è stato descritto da Grossman come un omaggio a Bruno Schulz. 
Nel romanzo breve dello scrittore cileno Roberto Bolaño, Stella distante (Estrella distante, 1996), il narratore legge in un bar un libro intitolato "Le opere complete di Bruno Schulz", mentre aspetta la conferma per identificare un nazista. Quando questa conferma giunge, "le parole delle storie di Schulz ... avevano assunto un carattere mostruoso che era quasi intollerabile".
Lo scrittore e critico polacco Jerzy Ficowski ha trascorso sessant'anni alla ricerca e alla scoperta degli scritti e dei disegni dell'artista. Il suo studio, Regions of the Great Heresy, è stato pubblicato in una traduzione inglese nel 2003. Contiene due capitoli aggiuntivi rispetto all'edizione polacca; uno al romanzo perduto, Il Messia, l'altro sulla riscoperta dei murales. 
Il romanzo di China Miéville La città e la città (The City & the City, 2009) inizia con un'epigrafe tratta da Le botteghe color cannella: "Nel profondo della città si aprono, per così dire, strade doppie, strade doppelgänger, strade mendaci e illusorie".  
Nel 2010 Jonathan Safran Foer ha ottenuto un cut-up tagliando le pagine di un'edizione inglese di The Street of Crocodiles, ottenendone un'opera allucinatoria intitolata Tree of Codes.
Anche il sulfureo Philip Roth ha dato il suo contributo. La sua opera Zuckerman scatenato (Zuckerman Bound, 1985) raccoglie narrazioni sul personaggio di Nathan Zuckerman pubblicate in precedenza, aggiungendovi un epilogo, L'Orgia di Praga (The Prague Orgy). È la storia del tentativo di recuperare i manoscritti di una vittima dell'Olocausto in Europa orientale, uno scrittore ceco di lingua yiddish, Sisovsky: si tratta di ben duecento storie inedite. Zuckerman viene convinto dal figlio dell'autore a tentare il recupero dei racconti perduti. Ebbene, Sisovsky era stato ucciso da un ufficiale delle SS in modo del tutto simile a quanto accaduto a Bruno Schulz. 
 
Estratti come schegge d'Infinito
 
Riporto in questa sede alcuni brani tratti dall'opera Le botteghe color cannella, che bene illustrano l'immensità della sua produzione artistica, dotata di una vera e propria capacità cosmogonica. 
 
A luglio mio padre partiva per la cura delle acque e mi lasciava con mia madre e mio fratello maggiore in pasto alle giornate estive arroventate e abbacinanti. Inebriati di luce, sfogliavamo il gran libro delle vacanze, le cui pagine avvampavano tutte di sole e avevano nel fondo la polpa, dolce fino alla nausea, delle pere dorate. 
 
Adela tornava nei mattini luminosi, come Pomona dalle fiamme del giorno infuocato, e versava dal canestro le bellezze variopinte del sole: lucide ciliegie, gonfie d’acqua sotto la buccia trasparente, visciole nere, misteriose, il cui profumo prometteva assai più di quel che il gusto manteneva; albicocche, che celavano nella polpa dorata il succo di lunghi pomeriggi; e accanto a quella schietta poesia della frutta, Adela scaricava ancora quarti di carne, turgidi di forza e di sostanza, con la tastiera delle cotolette di vitello, e verdure algiformi, simili a meduse o cefalopodi uccisi: materiale crudo del pranzo, dal sapore ancora indefinito e sterile, ingredienti vegetali e tellurici dal profumo selvatico e campestre.  
 
Ogni giorno la grande estate trapassava da parte a parte il buio appartamento al primo piano dell’edificio che dava sulla piazza del mercato: silenzio di sprazzi d’aria tremolanti, rettangoli di luce immersi in un loro sogno rovente sul pavimento; una melodia d’organo di Barberia strappata alla più profonda vena dorata del giorno; due, tre battute di un ritornello, suonato chissà dove su un pianoforte, sempre ripetute, svanenti nel sole sui marciapiedi bianchi, perdute nel fuoco delle profondità del giorno. Finite le pulizie, Adela faceva ombra nelle stanze abbassando le tende di tela. I colori calavano allora di un’ottava, la stanza si riempiva d’ombra, quasi fosse immersa nella luce di profondità marine, riflessa ancor più nebulosamente negli specchi verdi, e tutto l’ardore del giorno respirava sulle tende, appena ondeggianti nei sogni dell’ora meridiana.
 
Noi ci sedemmo al loro fianco, quasi al margine del loro destino, un po’ confusi della passività con cui si abbandonavano a noi senza ritegno, e bevemmo acqua e sciroppo di rose, bevanda meravigliosa, che mi parve racchiudere l’essenza profonda di quel torrido sabato.

Zia Agata si lagnava. Era quello il tono fondamentale della sua conversazione, la voce di quella carne bianca e feconda, che pareva straripare dal corpo stesso, a stento e sconnessamente raccolta dalla massa, nei gladi di una forma individuale, e in quella massa già moltiplicata, pronta a ingrossarsi, a ramificarsi, e a riprodursi in famiglia. Era, la sua, una fecondità quasi autogenica, una femminilità priva di freni e morbosamente rigogliosa.
 
Quando mio padre si immergeva nello studio di grossi manuali di ornitologia e ne sfogliava le pagine colorate, pareva che proprio da esse prendessero il volo quei fantasmi pennuti e riempissero la stanza di uno svolazzio colorato, di lembi di porpora e brincelli di zaffiro, verde rame e argento. Al momento dei pasti essi formavano sul pavimento una falda colorata e ondeggiante, un tappeto vivente che ad ogni incauta intrusione si dileguava, si dissolveva in fiori mobili, svolazzanti nell’aria e si andava infine a posare nelle regioni superiori della stanza. Mi è rimasto particolarmente impresso nella memoria un condor, un uccello immenso, dal collo nudo, dalla faccia rugosa e cosparsa di escrescenze. Era un asceta magro, uno di quei lama buddisti dall’atteggiamento pieno di imperturbabile dignità, che osservano il cerimoniale ferreo proprio della loro grande casta. Quando sedeva di fronte a mio padre, immobile nella posizione scultorea delle secolari divinità egizie, l’occhio coperto da un velo biancastro che spostava di lato fin sulla pupilla, per chiudersi completamente nella contemplazione della propria augusta solitudine, sembrava, col suo profilo di pietra, il fratello maggiore di mio padre. Uguale il tessuto del corpo, dei tendini e della pelle dura e rugosa, uguale il volto secco e ossuto, identiche le orbite profonde e corneiformi. Persino le mani, le lunghe, magre, nodose mani di mio padre, dalle unghie ricurve, rassomigliavano agli artigli del condor. Vedendolo così addormentato, non potevo sfuggire all’impressione di trovarmi di fronte a una mummia, alla mummia rinsecchita, e perciò rimpicciolita, di mio padre. Credo che questa straordinaria rassomiglianza non fosse sfuggita neppure a mia madre, benché non abbiamo mai sollevato questo argomento. È significativo che il condor e mio padre usassero in comune il vaso da notte.
 
Ero sconcertato. Ricordavo in realtà quell’invasione di scarafaggi, il flusso nero e brulicante che aveva riempito l’oscurità di un notturno andirivieni da ragno. Tutte le fessure erano piene di antenne tremolanti, ogni spiraglio poteva vomitare all’improvviso uno scarafaggio, da ogni spaccatura dell’impianto poteva sbucare una di quelle folgori nere, lanciata in un folle zig zag lungo il pavimento. Ah, quel selvaggio delirio di panico, tracciato con una linea nera guizzante sulle mattonelle! Ah, quelle grida terrorizzate di mio padre, che balzava di sedia in sedia con un giavellotto in mano! Senza toccare cibo né bevanda, il volto chiazzato per la febbre, una smorfia di disgusto impressa attorno alla bocca, mio padre era completamente inselvatichito. È evidente che nessun organismo può sopportare a lungo una simile carica di odio. Una spaventosa repulsione aveva trasformato la sua faccia in una pietrificata maschera tragica, in cui soltanto le pupille, nascoste sotto la palpebra inferiore, erano all’erta, tese come corde, in perenne sospetto. Con un urlo selvaggio balzava all’improvviso dal sedile, correva alla cieca in un angolo della stanza e già alzava il giavellotto con infilzato un enorme scarafaggio che agitava disperatamente il groviglio delle sue zampe. Adela giungeva allora in soccorso di mio padre, pallido per l’orrore, e prendeva in consegna la lancia insieme col suo trofeo per annegarlo nel secchio. E tuttavia, già allora non avrei saputo dire se queste immagini mi venivano istillate attraverso i racconti di Adela, o se io stesso ne ero stato testimone. Mio padre, a quel tempo, non possedeva più quella capacità di resistenza che protegge le persone sane dal fascino della repulsione. Invece di tenersi lontano dalla terribile forza d’attrazione di quel fascino, mio padre, ormai in preda alla follia, vi si assoggettava sempre più. Le tristi conseguenze non si fecero attendere. Ben presto i primi sintomi sospetti apparvero riempiendoci di paura e di tristezza. Il comportamento di mio padre cambiò. La sua pazzia, l’euforia del suo eccitamento svanirono. Nei gesti e nella mimica cominciarono a mostrarsi segni di cattiva coscienza. Prese ad evitarci. Si nascondeva per giornate intere negli angoli, negli armadi, sotto la trapunta. Lo vedevo talvolta mentre si osservava pensieroso le mani, si esaminava la consistenza della pelle, delle unghie, sulle quali cominciavano ad apparire macchie nere, simili a scaglie di scarafaggio. 
 
– Smerciare, Jakub! Vendere, Jakub! – gridavano tutti, e quelle grida ripetute in continuazione ritmavano in coro e si trasformavano lentamente nella melodia di un ritornello intonato da tutte le gole assieme. Allora mio padre si dette per vinto, saltò giù dall’alta cornice e con un grido si gettò sulle barricate di stoffa. Ingigantito dall’ira, il capo rigonfio in un pugno purpureo si lanciò come un profeta in lotta sulle scorte di tessuti e prese a scatenarsi contro di quelle. Faceva forza con tutto il peso del corpo sulle possenti balle di lana, sollevandole dal loro posto, si infilava sotto immense pezze di stoffa e le scaricava sul banco con sordo fracasso. Le balle volavano dispiegandosi con un frullo nell’aria a formare immensi stendardi, gli scaffali esplodevano da ogni parte in scoppi di drapperie, cascate di stoffe, come sotto i colpi della verga di Mosè.

Così si disperdevano le provviste degli armadi, violentemente espulse, rovesciandosi in ampie fiumane. Così scorreva via il contenuto variopinto degli scaffali, cresceva, si moltiplicava, inondando tutti i banchi ed i tavoli.

Le pareti del negozio sparirono sotto le potenti formazioni di quella cosmogonia di tessuti, sotto quelle catene montuose che si accatastavano in impotenti massicci. Ampie vallate si aprivano fra pendii scoscesi, mentre le linee dei continenti tuonavano nel vasto pathos delle vette. Lo spazio del negozio si ampliava nel panorama di un paesaggio autunnale, pieno di laghi e di lontananze: su quello sfondo mio padre si aggirava fra le pieghe e le valli di una fantastica terra di Canaan, vagava a grandi passi, le mani profeticamente levate al cielo, e plasmava il paesaggio a colpi di ispirazione. E in basso, ai piedi di quel Sinai sorto dalla collera di mio padre, il popolo gesticolava, imprecava, adorava Baal e contrattava. Affondavano le mani dentro le pieghe morbide, si drappeggiavano nelle stoffe colorate, si avvolgevano in dòmini e mantelli improvvisati, e parlavano confusamente e senza posa.

Mio padre sorgeva improvvisamente al di sopra di quei gruppi di acquirenti ingigantito dalla collera, e tuonava dall’alto contro gli idolatri col suo verbo possente. Quindi, trascinato dalla disperazione, si arrampicava ancora sulle alte gallerie degli armadi, correva all’impazzata lungo le tavole degli scaffali, lungo le assi rimbombanti delle impalcature nude, inseguito dalle immagini di spudorata lussuria che supponeva svolgersi alle sue spalle nelle profondità della casa. I commessi avevano proprio allora raggiunto il balcone di ferro all’altezza della finestra e, appesi alla balaustra, avevano afferrato Adela alla vita e la tiravano verso la finestra, mentre lei sbatteva gli occhi e si trascinava dietro le gambe snelle inguainate di seta. Mio padre, annichilito dall’odiosità del peccato, si integrava, mediante la collera dei gesti, nell’orrore del paesaggio; e intanto in basso lo sconsiderato popolo di Baal si abbandonava a un’allegria sfrenata. Una passione parodistica, un’epidemia di riso si era impadronita di quella marmaglia. Come si poteva esigere serietà da loro, da quel popolo di batacchi e di schiaccianoci? Come si poteva esigere comprensione per le gravi angosce di mio padre da quei macinini che macinavano incessantemente una colorata poltiglia di parole? Sordi ai fulmini di quella collera profetica, i mercanti in cappe di seta si accovacciavano a piccoli gruppi intorno alle montagne sinuose di tessuto, discutendo animatamente, in mezzo a scoppi di risa, sulla qualità della merce. Quella borsa nera polverizzava nelle sue lingue veloci la nobile sostanza del paesaggio, la triturava in un impasto di chiacchiere e quasi l’inghiottiva. 
 
Tutto ciò è sublime! Rimando a un articolo davvero eccellente, pubblicato sul sito letterario Nel territorio del diavolo.
 
 
Si dà poca importanza a un evidente refuso nel testo, che ha fatto nascere l'artista nel 1982 anziché nel 1892, creando uno straniante anacronismo in cui l'Impero Austroungarico era vivo e vegeto sul finire del XX secolo, mentre le bandiere con lo Hakenkreuz sono destinate ad incombere sul nostro presente.