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martedì 28 giugno 2016


L'ESPLOSIONE DELLE INFLUENZE
NEL PICCOLO MONDO

Nonostante secoli di straordinario progresso della medicina e della biologia, non è, questo, un momento incoraggiante per la storia dell'umanità.
Non vi è motivo di essere ottimisti: vi è semmai motivo di temere epidemie globali. Come ha scritto il compianto Jonathan Mann, professore di epidemiologia e immunologia di Harvard: "Il mondo è assai più di prima soggetto allo scoppio e, peggio, alla diffusione ampia o addirittura globale di vecchie e nuove malattie infettive... Motore del fenomeno è il notevole aumento della mobilità di persone, merci e idee... Un individuo che ospita un microbo micidiale può facilmente salire su un aereo di linea e trovarsi in un altro continente al manifestarsi dei sintomi della malattia. L'aereo e il suo carico spesso conducono insetti e agenti infettivi in nuovi contesti ambientali".
Questa vulnerabilità è l'ovvia conseguenza del "piccolo mondo" e della rete internazionale del trasporto aereo che la sorregge.

Mark Buchanan - NEXUS
(Esilio a Mordor, 18/08/2008)

Quando il benemerito autore di NEXUS scriveva queste profetiche parole, l'attenzione della comunità scientifica era focalizzata soprattutto sulla pandemia di AIDS causata dal retrovirus HiV. Soltanto qualche anno dopo si sarebbe cominciato a parlare di una nuova catastrofe incipiente: la fine dell'Età degli Antibiotici. Un evento epocale capace di cambiare in modo significativo le nostre vite, che sta generando batteri virtualmente indistruttibili, contro cui i mezzi a disposizione dell'attuale scienza medica nulla possono. Con buona pace dell'immaginario collettivo, non esiste soltanto il contagio ad opera di microrganismi che si diffondono tramite l'aria, come ad esempio il virus dell'influenza. Conseguenze luttuose hanno anche gli agenti patogeni che si trasmettono per contatto diretto, come ad esempio i responsabili delle infezioni veneree. La mobilità di persone, merci e idee comporta in modo ineluttabile la moltiplicazione degli atti sessuali. I corpi umani sono giganteschi banchetti per agenti patogeni di ogni tipo e il contatto tra i fluidi corporei degli amanti è come un processo coloniale che porta alla conquista di nuovi continenti. Il pericolo non è soltanto la rete "piccolo mondo" del trasporto aereo, ma sopra ogni altra cosa la rete "piccolo mondo" dei contatti sessuali, che è molto più estesa e pervasiva. 

Ne sono sicuro e lo vado dicendo da anni: Nemesi è all'opera. Un giorno o l'altro scaturirà dagli orifizi della Nappi qualcosa che ci ammazzerà tutti. Seguiamo il percorso di questo messaggero di morte, la cui venuta al mondo è prossima: nato da infinite sessioni di sesso promiscuo e privo di barriere tra sangue e mucose di innumerevoli copulanti, questo microrganismo fatale è il prodotto di un'accurata selezione occorsa in tempi assai rapidi. Le generazioni di batteri e di virus negli orifizi durano ben poco in confronto alla vita umana, quindi svariate mutazioni genetiche inattese possono sorgere e propagarsi in modo tempestivo. Quelle cavità sessuali sono laboratori di terrorismo biologico e come tali andrebbero trattate. Una turca è molto più pulita e asettica della vagina, dell'ano e della bocca di una donna dedita a molteplici amplessi. Per tenere sotto controllo l'emergere di continue infezioni - spesso nemmeno batteriche - è deleterio costume dei moderni gaudenti riempirsi di antibiotici, cosa che sta portando alla fine dell'efficacia di tali farmaci. Le sequenze genetiche responsabili della resistenza superano le barriere tra le specie batteriche, rendendo esiziali anche patologie non veneree. Questa è soltanto una delle conseguenze. Si vede che nello stesso ambiente anche organismi drasticamente diversi come virus e batteri interagiscono tra loro, accelerando il mutamento in modo esponenziale: ne nascerà un morbo portentoso e funesto in sommo grado, pronto a diffondersi come un invincibile Male fuoriuscito dall'apertura del Vaso di Pandora.

LA MORTE DI PAN

Io ho sentito la storia di un uomo che non era né uno sciocco né un imbroglione. Alcuni di voi hanno ascoltato il retore Emiliano, che era figlio di Epiterse, mio concittadino e maestro di grammatica. Proprio lui mi raccontò che una volta si era imbarcato per l'Italia su un mercantile con molti passeggeri a bordo: alla sera quando già si trovavano presso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo, e la nave fu trasportata dalla corrente fino a Paxo. Quasi tutti i passeggeri erano svegli, e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo. All'improvviso si sentì una voce dall'isola di Paxo, come di uno che gridasse il nome di Tamo. Tutti restarono sbalorditi. Questo Tamo era un pilota egiziano, ma quasi nessuno dei passeggeri lo conosceva per nome. Due volte la voce dell'uomo lo chiamò, e lui stava zitto. Alla terza rispose, e allora quello con tono più alto disse: "Quando sarai a Palode, annuncia che il grande Pan è morto". A queste parole, diceva Epiterse, tutti restarono sbalorditi, e si domandavano se fosse meglio eseguire l'ordine oppure non darsene cura. Allora Tamo decise che, se ci fosse stato vento, avrebbero costeggiato la riva in silenzio; se invece giunti là avessero trovato bonaccia, avrebbe riferito la notizia. Quando infine arrivarono a Palode, non un soffio di vento, non un'onda. Allora Tamo, sulla poppa, guardò verso terra e gridò: "Il grande Pan è morto". Non aveva quasi finito di dirlo che subito si levò un gran gemito, non di una persona sola, ma di tante, pieno di stupore.  

Plutarco - Il Tramonto degli Oracoli
(Esilio a Mordor, 19/12/2006)

Eventi come quello descritto da Plutarco segnano la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra. Non sono soltanto dati di fatto, ma fungono da geroglifici che condensano in sé l'angosciante simbolismo della frattura col passato. Quando una tale rottura si è consumata, non è più possibile tornare indietro. Su questo non si mediterà mai abbastanza. Come insegna la termodinamica, nell'Universo esistono solo processi irreversibili. Tutto è senza rimedio: dalla lenta cottura di un uovo, in cui mutamenti microscopici sono responsabili del rassodarsi dell'albume e del tuorlo, alle ineluttabili forze che plasmano i popoli e le religioni. La cesura storica muta lo stesso sentire delle genti. Nulla è più riconoscibile: si ha la fortissima impressione di procedere verso l'Ignoto. Si arriva fatalmente al punto in cui tutto ciò che esiste appare all'improvviso estraneo, come se la sua stessa sostanza ontologica si fosse stemperata.

lunedì 27 luglio 2015


LA TRENTUNESIMA ORA 

Sceneggiatura:
    Sandro Battisti
    Francesco Cortonesi
    Giovanni De Matteo
Basata su un soggetto di:    
    Sandro Battisti
    Giovanni De Matteo
    Marco Milani
Regia:
    Marco Cerilli
Interpreti:     
     Francesco Trani
     Giulia Tramentozzi
     Sandro Battisti
Durata: circa 30 min
Colore: colore 

Sinossi (da Hyperhouse):

Un matematico è prossimo alla morte, un cancro lo sta divorando così come un gusto per lo studio dei numeri primi sta divorando la sua creatività: egli è convinto che dietro ogni numero primo si celi un messaggio, un criptico esistere delle dottrine occulte che hanno attraversato le ere degli uomini. Feynman, il matematico, ha una storia con Ilaria, che è anche l’infermiera che segue i suoi frequenti soggiorni in ospedale; lei non sembra interessarsi ai numeri primi e non riesce a capire perché lui si ostini a rincorrere quelle bizzarre teorie, perdendoci il sonno e quel residuo di salute che gli è rimasta. Feynman è tormentato e fa fatica a discernere la realtà dai suoi pensieri, vede cose strane accadergli intorno che s’intrecciano, apparentemente, con i suoi deliri; tutto l’universo sembra parlargli e lui è ora certo di aver trovato la soluzione ai suoi supplizi cerebrali. Ma Feynman è davvero al sicuro quando ritiene la sua scoperta attinente soltanto al mondo sottile delle dottrine occulte e non, invece, passibile di applicazioni pratiche?

Recensioni:

Il primo cortometraggio connettivista (o mediometraggio, la definizione esatta appare un po' problematica). Un esperimento iniziato nel gennaio 2006, che ho seguito fin dall'inizio sul blog che descriveva ogni fase del suo sviluppo. I risultati si sono rivelati eccellenti, di estremo interesse. Segnalo la magistrale interpretazione di Sandro Battisti nel ruolo di Nephilim, l'agente alieno. Così scrivevo nel resoconto della Prima NextCon, svoltasi a Vimercate il 3 marzo 2007, sul blog splinderiano Supernova Express, purtroppo scomparso:

"Ho rivisto con estremo piacere La trentunesima ora, e mi sono immerso in complessi turbini di purissimi memi matematici. Intuizioni sui numeri primi mi hanno sfiorato come tentacoli, sfuggendomi sempre. Per un attimo mi è quasi parso di poter cogliere il segreto di Feynman, ma la musica delle quasar ancora una volta si è dissolta in me. Più consono alla mia natura, il personaggio di Nephilim rappresenta un'epifania dell'insondabile sempre viva in me."

Il blog di Paolo Marzola, oggi estinto, conteneva una notevole recensione del mediometraggio connettivista, ma purtroppo soltanto un breve frammento si è potuto salvare: il link al portale è attualmente soltanto una pagina piena zeppa di geroglifici informatici, e in tutto il Web non si trova null'altro. Riporto così quanto sono riuscito a recuperare dal mio vecchio blog Esilio a Mordor:

"La trentunesima ora è film di contenuti, poetico senza dubbio, con una storia che potrebbe vagamente ricordare Pi greco il teorema del delirio ma che in realtà cela al suo interno come scatole cinesi svariati argomenti, diciamo che può essere, come molte opere concettuali, analizzato e percepito secondo vari livelli di interpretazione. Personalmente, dopo averlo visto paio di volte per meglio coglierne tutti i riferimenti, sono riuscito ad apprezzare il lato indubbiamente nostalgico e onirico che circonda questa opera prima, l’andamento a spirale della storia che confonde finzione e realtà. I temi che la permeano sono importanti: il mistero della morte prima di tutto che si presenta in forma di visioni e allucinazioni da parte del protagonista, l’amore, il mistero dell’infinito, il dolore che ognuno di noi cela nei momenti di difficoltà o di malattia, per fluisce in un finale estremamente poetico e rivelatore."

Riporto anche la recensione trovata sul blog Neurone Proteso di Masque, a quanto pare ormai spento (l'ultimo post è del 2013):

"Il corto, mi ha ricordato un po’ PI di Darren Aronofsky (ma l’associazione, era abbastanza scontata, avendo entrambi dei matematici ossessionati e malati come protagonisti ;-) ).
Belle le inquadrature, ed anche i colori mi sono piaciuti molto, specie il contrasto fra i colori accesi delle scene nell’ostello ed il buio delle inquadrature esterne. Non so se l’effetto grana nelle inquadrature notturne fosse voluto, ad ogni modo, ci stava bene. :-)
È un film che, mentre lo guardi, al pari di PI, riesce a trasmetterti la paranoia e l’ossessione del protagonista. Capiterà di accorgersi di fare particolare attenzione ai numeri degli autobus che si vedono ed, in generale, a qualsiasi numero che appare sullo schermo. Verrà spontaneo cercare di trovare dei pattern nella grana delle inquadrature notturne. Gli eventi non seguono una cronologia lineare, quindi, è necessaria una seconda visione per cogliere certi particolari. Questo anche perché i dialoghi o, più comunemente, le didascalie (essendo un film quasi muto), sono molto ermetici. La trama sembra quasi funzionale all’atmosfera ed allo scopo dichiarato di coinvolgere lo spettatore nelle paranoie del protagonista."

Altre informazioni e link: 

Un tempo era possibile visualizzare il filmato in streaming, ed esiste tuttora una pagina di Fantascienza.com che ne reca testimonianza. Ho potuto constatare che tutte le pagine che lo permettevano sono sclerotizzate. In Youtube è presente il trailer: 



Per maggiori informazioni, per la storia del corto e per i dettagli sulla lavorazione si rimanda all'attuale blog di Sandro "Zoon" Battisti:


La sceneggiatura completa è consultabile seguendo questo link: 


Esiste tuttora una pagina con le informazioni necessarie per ordinare il cortometraggio. Non so se siano ancora valide, in ogni caso fornisco il link:   

sabato 16 maggio 2015

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL'ETIMOLOGIA DI CANNETO DI CARONIA

Si è appurato che i fuochi che divampavano a Canneto di Caronia, in Sicilia, erano un imbroglio ovvero il prodotto delle macchinazioni e degli artifizi di un sofisticato piromane. Per molto tempo il fenomeno ha tenuto in scacco la comunità scientifica, al punto che molti vedevano con favore una spiegazione soprannaturale. In particolare si segnala l'opinione di padre Gabriele Amorth, che attribuiva gli incendi alla supposta abitudine dei paesani di partecipare a riti satanici. Se la memoria non m'inganna, a parer suo le offerte di pane con mandorle seguendo un antico rito pagano sarebbero state in grado di materializzare dal nulla lingue di fuoco infernale. Alla luce dei fatti, simili affermazioni si sono rivelate inconsistenti. Resta in ogni caso una singolare coincidenza etimologica che non mi era sfuggita già all'epoca.

Così scrivevo qualche anno fa (10/11/2007) sul blog Esilio a Mordor:

L'inquietante fenomeno dei incendi spontanei occorsi a Caronia ha fatto strepitare giornalisti, scienziati ed esorcisti. Nessuno sembra però aver notato un fatto singolare: il nome Caronia è di origine greca e significa senza dubbio LUOGO DI CARONTE. Dovrebbe così essere chiaro a tutti che già nell'antichità quel sito era ritenuto un ingresso del Mondo Infero. Riporto la definizione del termine, tratta da un ottimo dizionario online

Chârôn-ios (later Chârôn-eios), on, A. of or belonging to Charon: hence, 1. Ch. thyra the gate through which criminals were led to execution, Zen. 6.41, Suid.; also Charônion, to, Poll. 8.102, Hsch. 2. Ch. klimakes, a staircase in the theatre, leading up to the stage as if from the underworld, by which ghosts entered, Poll. 4.132. 3. charônia, ta, caverns filled with mephitic vapours, being looked on as entrances to the nether world, Str. 12.8.17; sg., Id. 14.1.11,44: charônêïa, prob. in Aret. SA1.7; in full, charôneia barathra Gal. 17 (1).10; ch. chôria Id. 15.117.

Si sorvoli sulle fittissime citazioni di autori, non sono necessarie per la comprensione del concetto. Riporto una traduzione per chi non conoscesse l'inglese:

Chârôn-ios (tardo Chârôn-eios), -on, A. appartenente a Caronte: da cui, 1. Ch. thyra, il cancello attraverso il quale i criminali erano condotti all'esecuzione, Zen. 6.41, Suid.; anche Charônion, to, Poll.8.102, Hsch. 2. Ch. klimakes, una scala nel teatro, che conduce al palcoscenico come se salisse dal mondo infero, attraverso la quale fanno il loro ingresso i fantasmi, Poll. 4.132. 3. charônia, ta, caverne piene di vapori mefitici, viste come l'entrata del mondo infero, Str. 12.8.17; sg., Id. 14.1.11,44: charônêïa, prob. in Aret. SA1.7; in forma completa, charôneia barathra Gal. 17 (1).10; ch. chôria Id. 15.117. 

CHARONEIA BARATHRA significa ABISSI DI CARONTE. 

domenica 10 maggio 2015


LA MOSTRA DELLE ATROCITÀ
di James G. Ballard
Recensione di 7di9

Pubblicato in Italia nel 1992, e quindi con notevole ritardo rispetto all'anno di uscita dell'edizione originale risalente al 1969, La mostra delle atrocità è una conferma dell'intento profondamente analitico di cui è portavoce James G. Ballard, autore forse tra i più rappresentativi di quel filone letterario fantascientifico che predilige l’analisi sociologica dell’interazione tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda alla mera creazione di mondi alternativi rispetto alla normalità, alieni.
Il romanzo è diviso in quindici capitoli, ciascuno composto da varie sezioni, più un’appendice, costituita da cinque racconti, e aggiunta dall’autore successivamente alla pubblicazione della prima edizione. Ogni capitolo può essere letto come un racconto a sé stante, essendo l'intero romanzo un puzzle di frammenti tra loro incastrati e legati, nonostante la specifica e relativa autonomia che distingue i singoli passi. Come frattali, i passi sviluppano tematiche che possono essere rintracciate con continuità in tutto il romanzo. La mostra delle atrocità è principalmente – ma non esclusivamente – la storia di un uomo, il cui nome varia in ogni capitolo, anche se mantiene la T iniziale (Travis, Talbot… Molteplicità che rappresenta le diverse fasi del suo io) e del suo rapporto con la realtà,vista in particolare in quei elementi che in un qualche modo sono connessi alla sessualità e al modo in cui essa viene alterata dagli eventi, biologici e non – in particolare massmediatici – che la investono.
Ma La mostra delle atrocità non è una semplice opera di fantasia. E’ anche, e potremmo dire soprattutto, un romanzo tendenzialmente autobiografico. Come simbionti, i ricordi e l'esperienza biografica di Ballard si mescolano al plot, alternandosi in maniera omogenea al flusso narrativo,creando un'interessante ed equilibrato – e volutamente fuorviante – effetto di estraneità. L'autore sembra quasi voler ricoprire due ruoli: interprete del proprio processo creativo – e quindi non solo scrittore, ma anche esegeta del proprio testo – e allo stesso tempo reale protagonista della storia, “anima” nascosta dietro le maschere indossate dai vari personaggi che la popolano. Ne emerge una lettura estremamente complessa, stratificata. Di fatto fortemente coinvolgente, poiché soddisfa, per mezzo del suo carico di note esplicative e spiegazioni – scientificamente fondate o del tutto inventate – la profonda curiosità, spesso latente, di chi legge.
Ballard sembra quasi voler divenire egli stesso cavia della sua tesi sociologica. Voler dimostrare come la psiche del cittadino moderno – e in particolare la sfera riguardante le sue pulsioni sessuali 1 – sia ormai divenuta un'estensione della società circostante, dei media, della tecnologia, del parco giochi costituito da quella che è l’attuale (del suo tempo come del nostro) società postindustriale. Per supportare questa prospettiva, Ballard viviseziona la propria personalità attraverso un’attenta e minuziosa autopsia dei personaggi del romanzo, elencando, come in una dettagliatissima cartella clinica, l'insieme dei processi psicologici e associativi che lo hanno portato alla stesura delle varie parti della storia, spesso anche facendo ricorso a veri e propri interventi di autoanalisi, ora puramente letteraria, ora invece psichiatrica. L'autore si fa rappresentante di quella stessa realtà sociale che ha deciso di analizzare, come in un processo di identificazione tra paziente e medico.
In generale, il romanzo può essere analizzato attraverso l'enucleazione di tre elementi fondamentali: la memoria dell'autore (nella quale è bene far confluire anche il carico delle variabili esterne: le vite private dei personaggi dello spettacolo che ne hanno influenzato l’immaginario sessuale e non, i fenomeni mediatici ecc.), il processo creativo (apparentemente unico spazio veramente libero concesso a chi scrive: a chi vive?) e il romanzo stesso, l'ibrido finale scaturente dalla fusione dei primi due elementi, “mostra delle atrocità” della quale si è in fin dei conti semplici spettatori e protagonisti solo parziali.
Da un punto di vista della storia della letteratura, appare evidente come l'intero percorso di costruzione del romanzo di Ballard costituisca una cesura rispetto ai canoni del romanzo dei primi anni del novecento, il cosiddetto romanzo moderno, la cui linearità e chiarezza diegetica lo differenziano radicalmente dall'estetica postmoderna abilmente sublimata ne La mostra delle atrocità. Non più la semplice narrazione, l'invenzione fine a se stessa, ma anche, e soprattutto,l'indagine attenta, vera – o almeno verosimile – dei processi che conducono alla creazione, alla selezione delle componenti “altre” rispetto al processo meramente letterario – stimoli biografici, curiosità, eventi storici, sapere tecnico e così via – che per mezzo della penna dello scrittore confluiscono in maniera voluta e tangibile nella sua psiche. Se in sintesi è questo il nucleo della poetica postmoderna, allora La mostra delle atrocità ne è un illustre ed esemplare rappresentante. A tal proposito però, è necessario un distinguo nell'analisi del confronto tra l'opera di Ballard e l'antro letterario dal quale questa è emersa. Se infatti il citazionismo (sia letterario che di altra natura) si pone come ingranaggio centrale delle letteratura definita dal postmodernismo, nel romanzo di Ballard esso supera il suo significato stretto, divenendo dichiarazione espressa, dunque esso stesso romanzo, oltre che strumento di sovrapposizione tra la vita dell'autore e il plot, tra le impressioni –spesso contingenti e slacciate da quello che potrebbe costituire un unicum letterario – e le necessità strutturali della narrazione. 2
Lo stile di Ballard è impeccabile. La prosa risulta fluida, di altissimo livello, elegante, sia da un punto di vista strettamente sintattico che di gestione del periodo. L'autore, inoltre, attingendo dalla sua esperienza di studente di medicina, ricorre spesso all'uso di termini appartenenti a questo specifico campo del sapere. Nel pieno rispetto della tesi sopra sostenuta, avviene che la scrittura risulta irrimediabilmente contaminata dalla cultura personale dello scrittore, dalla sua stessa vita,che è messa a nudo nella sua totalità. La scelta stilistica descritta appare pienamente condivisibile, anche alla luce dell'intento decostruttivo del romanzo stesso: le architetture, i corpi, sono sezionati nelle loro componenti di base, quasi fossero oggetti da laboratorio, vittime di un intervento di chirurgia sintattica, oltre che riflessiva. Ballard pone sotto il suo sguardo attento – ma sempre soggettivo – la complessità del mondo che lo circonda, nel quale vive, decostruendola attraverso un sistema che potrebbe risultare paradossale: il caos letterario, che nella sua pur (illusoria) non-linearità, costituisce concretamente un museo di quella che è la realtà attuale, una mostra di efferatezze “alla quale i pazienti” non sono stati invitati e che presenta “un segno inquietante: tutti i temi” insistono “sul tema della catastrofe planetaria”. 3 

1 Scrive William S. Burroughs nella prefazione al romanzo "[...] le radici non sessuali della sessualità".  
2 Esempio pregevole di questo tipo di letteratura è dato certamente da Thomas Pynchon, manipolatore colto del genere del pastiche e della contaminazione, degli stili letterari così come dei vari settori del sapere.
3 Citazioni tratte del primo capitolo del romanzo, intitolato La mostra delle atrocità

LA PROMESSA DELL'ASSASSINO 

Titolo originale: Eastern Promises
Paese di produzione: USA, UK, Canada
Anno: 2007
Durata: 100 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: thriller
Regia: David Cronenberg
Sceneggiatura: Steven Knight
Distribuzione (Italia): Eagle Pictures
Fotografia: Peter Suschitzky
Montaggio: Ronald Sanders
Musiche: Howard Shore
Scenografia: Carol Spier
Costumi: Denise Cronenberg
Trucco: Stephan Dupuis

Interpreti e personaggi

Viggo Mortensen: Nikolai Luzhin
Naomi Watts: Anna Khitrova
Vincent Cassel: Kirill
Armin Mueller-Stahl: Semyon
Sinéad Cusack: Helen
Donald Sumpter: Yuri
Jerzy Skolimowski: Stepan
Josef Altin: Ekrem
Mina E. Mina: Azim
Aleksandar Mikic: Soyka
Sarah-Jeanne Labrosse: Tatiana
Lalita Ahmed: Cliente
Badi Uzzaman: Farmacista
Raza Jaffrey: Dottor Aziz

Doppiatori italiani

Pino Insegno: Nikolai Luzhin
Barbara De Bortoli: Anna Khitrova
Riccardo Rossi: Kirill
Franco Zucca: Seymon
Aurora Cancian: Helen
Sandro Iovino: Yuri
Dario Penne: Stepan
Flavio Aquilone: Ekrem
Carlo Reali: Azim
Michele D'Anca: Soyka
Giulia Tarquini: Tatiana

Riporto una magistrale recensione di 7di9, pubblicata all'epoca su Real Dark Dream e a fatica sottratta all'Oblio:

Dopo il convincente A History of Violence, La Promessa dell’Assassino segna il ritorno del regista canadese David Cronenberg al genere noir.
Ambientato in una Londra piovosa e grigia, l’ultimo parto del padre della “nuova carne” è un thriller dalla trama piuttosto semplice, lineare, ma che riesce ad imporsi con tensione visiva e grande eleganza registica grazie a diversi fattori, primo tra tutti la notevole interpretazione del cast attoriale, dal quale emerge con possanza il camaleontico Viggo Mortensen, già protagonista del precedente lavoro di Cronenberg, A History of Violence, e che come in quest’ultimo veste i panni di una personaggio ambiguo, dai contorni morali indefiniti e difficilmente codificabili. Tra gli altri interpreti, è d’obbligo evidenziare Vincent Cassel, perfettamente a suo agio nel ruolo di un mafioso un po’ toccato e dalle scelte avventate; Naomi Watts, la cui sensualità traspare da ogni fotogramma, anche nei momenti di maggiore statica; e il bravissimo Armin Mueller-Stahl, veterano della settima arte capace di dare vita ad un boss della mala tra i più convincenti visti al cinema negli ultimi anni.
David Cronenberg, sin dalle sue prime opere, ha segnato il mondo del cinema con i suoi horror per nulla convenzionali, giocati sul rapporto tra normalità ed infezione, nel senso di contaminazione del vivere quotidiano, di decostruzione della realtà così come convenzionalmente percepita. La sua poetica è spesso attraversata dal concetto del doppio: a cominciare dal dittico Il demone sotto la pelle / Rabid - Sete di sangue, che analizza gli effetti causati dall’introduzione di una variabile virulenta nel tessuto della quotidianità, capace di toccare le corde più basse – e primitive – della natura umana; il duo filmico Scanners / La Zona Morta, strumento di analisi della sete di potere dell’uomo, quando amplificata e deformata da forze di origine sovrumana; Inseparabili (probabilmente il suo capolavoro), storia di due gemelli legati dalla carne e dalla psiche, condannati a condividere gioie, scelte e sofferenza in un inestricabile sistema vitale di alimentazione biunivoca; eXistenZ, film di fantascienza intessuto sulla contrapposizione tra ciò che è ritenuto reale e ciò che invece è considerato virtuale, e sull’ambiguità del concetto di verità ; e infine proprio l’opera gemellare “illegittima” costituita da A History of Violence e da La Promessa dell’Assassino.
Storia sulla disintegrazione del sogno americano il primo, con il suo messaggio anti-mediatico e per nulla rassicurante, La Promessa dell’Assassino è invece un noir puro, la storia di un mistero metropolitano.
Anna, levatrice in un ospedale di Londra, dopo aver assistito alla morte post-parto di una giovane quattordicenne, ritrova tra gli effetti personali della stessa un diario, scritto in russo. Con l’aiuto di un suo zio originario della Russia – ed ex membro del KGB, il servizio segreto sovietico – ne tradurrà le pagine, scoprendo un intrico di relazioni torbide ed inquietanti tra gli ambienti della mafia russa e il mondo della prostituzione.
Lo script è di buona fattura, anche se pecca sul versante psicologico, lasciando in ombra la personalità e il background di molti personaggi, primo tra tutti del “becchino” Nikolai. Un altro difetto della sceneggiatura, questa volta relativo alla costruzione dell’intreccio, riguarda la risoluzione dei principali snodi narrativi della trama, la quale in alcuni tratti appare piuttosto forzata, quasi un’applicazione frettolosa e sbrigativa della tecnica del deus ex machina. È evidente, sin dalle prime fasi del film, come il regista non abbia voluto porre l’accento sulla complessità del plot o sul suo intreccio, quanto invece sullo scorrere inesorabile e oscuro della staticità del quotidiano verso mondi nascosti dietro anche il più insignificante e insospettabile degli eventi. Nonostante questo però, Steven Knight, dopo la pregevole prova offerta con la sceneggiatura di Piccoli affari sporchi – per la regia di Stephen Frears – si dimostra comunque ancora una volta perfettamente a suo agio tra i sentieri sotterranei e fumosi di una Londra che nasconde più di quanto mostra, regalando al pubblico una narrazione efficace e sostenuta da un cast in stato di grazia.
Il nero, il grigio e il rosso sono i colori predominanti della pellicola. Il rosso del sangue – che scorre, ma che non eccede in quantità , e che per questo si fa strumento, evitando l’esagerazione, l’ipertrofia – il nero degli abiti, e infine il grigio, dell’ambiente londinese così come dei tatuaggi, i quali si pongono come veicolo metacinematografico di narrazione, ponte comunicativo atipico che lega – ma spesso allontana – i personaggi della storia.
Altro elemento visivo che caratterizza e che definisce La Promessa dell’Assassino è costituito dalla fisicità. A tal proposito, risulta perfetta ed emblematica la scena di nudo integrale di Viggo Mortensen, nei panni di un faccendiere della mafia, costretto ad affrontare due sicari della criminalità russa mentre si trova all’interno di un bagno turco. La scena, girata senza alcun accompagnamento musicale, è la sublime dimostrazione di due elementi: la bravura indiscussa di un attore, Viggo Mortensen, in grado di “parlare” con la sola mimica del viso, con il movimento del corpo, con il sangue, e di un regista, che in pochi minuti riesce a regalare un climax narrativo che coinvolge la mente, per l’eleganza registica; le viscere, per la truculenza del combattimento e i rumori naturali prodotti dall’impatto dei corpi; e i sensi, per la sensualità perversa e trascinante capaci di imporsi con un movimento di macchina che in apparenza indugia esclusivamente su Viggo Mortensen, ma che in realtà è pura e semplice adorazione dell’estetica cinematografica e del “vero” rivelato attraverso lo scontro delle carni. Quello di Cronenberg è l’atto d’amore di un cultore della contaminazione – dei corpi, dei mondi – che diviene mezzo di trasmissione che trascende il limite comunicativo dell’arte fine a se stessa, e che si pone come unico punto di contatto tra la percezione addomesticata dello spettatore medio e il nucleo stesso dell’umano.
La Promessa dell’Assassino è un capolavoro del cinema moderno, la conferma della grandezza artistica di un regista in continua evoluzione – come i protagonisti delle sue storie – perfettamente a suo agio con la cinematografia mainstream, ma sempre fedele alle coordinate della propria poetica. Un regista capace di dirigere ottimamente un cast multietnico, di far convivere un numero enorme di sensibilità e stili recitativi, e a un tempo di sostenere con mestiere il fardello della coerenza artistica, della rappresentazione della propria visione del cinema, senza compromessi di alcun tipo: solo espressione, immagine, nuda e cruda. 

Considerazioni: 
Aggiungo all'intervento di 7di9 alcune note, soprattutto di carattere antropologico, su questa cupissima pellicola, il cui effetto è quello di un pugno nel plesso solare.

La mafia russa e la sodomia

L'intero film è pervaso dall'odio mafioso verso i sodomiti passivi. Sarebbe troppo banale parlare di "omofobia", come si fa in quest'epoca. Non si tratta infatti di una fobia, ossia di una paura. Si tratta invece di volontà di torturare e annientare una vittima, definita in base a feroci tabù tribali. In un simile ecosistema criminale l'omosessuale che subisce penetrazione nel retto non ha diritto di esistere: se viene trovato non ha pace nemmeno da morto, il suo cadavere viene mutilato e lasciato senza sepoltura. Viene cosparso di sputi e ingiuriato. Eppure lo stupro sodomitico è una forma ritualizzata di punizione nei confronti di chi ha infranto la legge. John Carpenter ha dato la più acuta definizione di demone: "un essere che esiste al solo scopo di infliggere dolore e morte a qualcuno". Queste cose sono troppo orribili per la futile società odierna, che cerca di rimuoverle blaterando di "paura".   

Le origini della mafia russa

Pochi sanno che la mafia russa ha le sue radici nella camorra napoletana. Nel corso della guerra di Crimea (1853 - 1856) accadde che alcuni prigionieri russi vennero in contatto con camorristi campani che li iniziarono ai propri riti e trasmisero tra le altre cose la costumanza dei tatuaggi, destinata a subire un'evoluzione propria nel corso dei decenni. La conoscenza di questa origine camorrista viene in qualche modo ostacolata dal Web: sono numerosi i siti che attribuiscono ai tatuaggi criminali russi una genesi diversa, ad opera dei marinai inglesi nel primo dopoguerra. I sostenitori dell'origine inglese non sono tuttavia in grado di spiegare la natura esoterica dei simboli. Nel film di Cronenberg è mostrata l'iniziazione del killer russo al rango di Padrino: gli vengono tatuate sul corpo alcune stelle nere, simbolo del suo potere demoniaco. Queste opere d'arte corporea gli sono praticate con un'apposita penna, mentre ai carcerati va molto peggio, essendo i loro corpi decorati con una mistura di orina, cenere e gomma bruciata, in condizioni non precisamente asettiche. A qualcuno va male e si becca una cancrena.

Il linguaggio dei tatuaggi

Nella mafia russa gli elaborati tatuaggi degli affiliati esprimono concetti anche molto complessi. Costituiscono un vera e propria selva di simbolismi, una forma di codice comunicativo non verbale. Si potrebbe dire che riassumano per sommi capi l'intera storia del soggetto che li porta. Quando un uomo viene incarcerato in Russia, subito i suoi compagni di cella, che sono lì da più tempo, gli chiedono di mostrare i propri tatuaggi. Se ne possiede, esaminano ogni dettaglio, quindi gli domandano: "I tatuaggi dicono il vero su di te?" Si informano con cura sul suo curriculum criminale. Se dovesse emergere che il carcerato in questione è solo uno sbruffone che si è fatto tatuare senza averne il diritto, gli abradono ogni lembo di pelle tatuata servendosi di cocci di vetro, di carta vetrata o di coltelli. Colui che copia i tatuaggi altrui viene punito con la morte.

Razzismo sovietico

La protagonista ha un'accesa discussione col padre, un vecchio russo tutto d'un pezzo ed estremamente testardo, che millanta l'appartenenza al KGB. La donna, avendo avuto un aborto dal suo precedente compagno, si sente rivolgere dal genitore una sanguinosa accusa: la gravidanza non è andata a buon fine perché il seme di un uomo non russo non sarebbe mai potuto attecchire nell'utero di una donna russa. Come se russi e non russi fossero due specie diverse, separate da un abisso di differenze genetiche incolmabili. Come se l'unione tra una donna russa e un uomo non russo fosse un atto di bestialità, simile al sesso con un animale. E non è forse questa una forma di feroce razzismo?       

Sequenze memorabili

La ragazza incinta che perde sangue in una farmacia, irritando il gerente che la crede una tossicomane; il momento in cui si scopre che il vecchio boss ha un bordello privato in cui le prostitute sono ragazzine, e lo frequenta assiduamente; il killer costretto dal figlio del boss a possedere carnalmente da tergo una giovane prostituta ucraina, per dimostrare di non essere un sodomita; il cadavere di un gangster rivale, sputato dal figlio del boss e apostrofato come "pederast!", prima di essere gettato in un canale.

lunedì 2 febbraio 2015

LAMARCKISMO

Teoria di Lamarck I
Un organo non utilizzato si atrofizza. Osservo la blogosfera, e mi imbatto in sempre più casi in cui quest'organo è il cervello. 


Teoria di Lamarck II
Un organo utilizzato di continuo si ipertrofizza.

Corollario:
Un organo utilizzato a scapito di altri prende il predominio e li soffoca fino a farli sparire.

Anno 2000 dell'Era Blogosferica 
Dell'Umanità in quanto tale non c'è più traccia da lungo tempo. Alcuni extraterrestri passano per la Terra e si domandano quale sia l'origine dei giganteschi genitali deambulanti che saltellano dappertutto. Dalle autopsie fatte su alcuni esemplari abbattuti risulta evidente un residuo di sistema nervoso centrale.

Marco "Antares666" Moretti, dicembre 2008

VENTRILOQUI 

La semplice attribuzione di un nick e di un avatar è il primo passo verso lo sprofondamento in un mondo percettivo di grande inconsistenza. Nome e immagine possono costituire un sinistro binomio capace di portare allo scoperto debolezze inconfessabili e pazzie latenti. Il processo è favorito dalla natura anarcoide della Rete e dall’illusione di non tracciabilità, che spesso basta a trasformare l’utente in un primitivo, concentrato esplosivo di rancore e di pulsioni belluine. Varie tipologie di disturbatori erano già ben note anche nell’epoca pre-splinderiana. Chi non ricorda i pestilenziali troll che infestavano i gruppi di Yahoo? Con il potenziarsi dei mezzi espressivi offerti, anche le possibilità di costruire personalità fittizie a scopi offensivi si è naturalmente evoluta, generando un nuovo personaggio: il sockpuppet. La parola trae origine dalla denominazione inglese del pupazzo usato dai ventriloqui per i loro spettacoli, che in origine era confezionato con una semplice calza. La sezione italiana della Wikipedia ne dà la seguente definizione: 

Il termine sockpuppet (proveniente dalla lingua inglese, la cui traduzione letterale è calzino fantoccio) nel gergo di internet, si riferisce ad un account aggiuntivo creato da un membro già iscritto ad una comunità di Internet. Un particolare tipo di sockpuppet è il cosiddetto "uomo di paglia" (dall'inglese straw man sockpuppet), creato da utenti che, avendo un certo punto di vista su un argomento, si comportano ad arte come se ne avessero uno diametralmente opposto, per ottenere lo scopo di far apparire quest'ultimo come sbagliato e cattivo. Spesso questi utenti fanno esprimere ai loro finti oppositori argomenti particolarmente deboli, in modo da poterli controbattere e facilmente confutare. Il sockpuppet diventa così la personificazione degli argomenti dell'uomo di paglia, il quale finisce per apparire, a seconda dei casi, stupido, disinformato, bigotto, settario, prepotente. Il risultato finale è quello di creare una sorta di rumore di fondo che rende incomprensibile e oscuro il dibattito, fino a poter impedire del tutto un serio dialogo dei punti di vista.  

Definizione tecnica e riduttiva, che non rende bene l’idea del fenomeno e del ruolo che ha assunto nel contesto blogosferico. La proprietà peculiare di questo tipo di troll è infatti la graduale separazione schizofrenica tra i suoi diversi nick, fantasmi pur generati con semplici operazioni compiute dallo stesso individuo nella stessa vita reale. Una volta data la conferma della creazione di un account alternativo, ecco che un’entità compiuta prende lentamente sostanza, germoglia fino ad assumere una personalità anche complessa. A un certo punto, mirabile dictu, il sockpuppet non sa resistere: le molteplici personalità da lui generate cominciano a parlare tra di loro come se fossero esseri del tutto distinti! Simulando vite reali del tutto differenti, si incitano a vicenda nell’assaltare un nemico o nel lodare le doti amatorie di un partner, si insultano con acrimonia, si attribuiscono addirittura soprannomi nuovi da cui possono nascere ulteriori personaggi. La metamorfosi si è completata, il Demiurgo dell’Homo Cyberneticus presenta il suo nuovo modello di splendore antropoide.

Ombra e cenere.

sabato 31 gennaio 2015


CONTRATTO PER UCCIDERE

TITOLO ORIGINALE: The Killers
     (Ernest Hemingway's The Killers)
REGIA: Don SIEGEL
PRODUZIONE: U.S.A.
ANNO: 1964
GENERE: Drammatico, thriller, noir, poliziesco
DURATA: 90'

INTERPRETI E PERSONAGGI:
 Lee Marvin: Charlie Strom
 Angie Dickinson: Sheila Farr 
 John Cassavetes: Johnny North 
 Clu Gulager: Lee
 Claude Akins: Earl Sylvester
 Norman Fell: Mickey Farmer
 Ronald Reagan: Jack Browning
 Virginia Christine: Miss Watson
 Don Haggerty: Postino
 Robert Phillips: George Flemming
 Kathleen O'Malley: Maggiordomo
 Ted Jacques: Assistente ginnico
 Jimmy Joyce: Commesso
 Davis Roberts: Maitre D'
 Seymour Cassel

SCENEGGIATURA: Gene L. Coon
     (da un racconto di Ernest Hemingway)
FOTOGRAFIA: Richard L. Rawlings
SCENOGRAFIA: Frank Arrigo, George B. Chan
MONTAGGIO: Richard Beling
COSTUMI: Helen Colvig 
MUSICHE: John Williams

Recensione di 7di9:

Charlie Strom e Lee sono due assassini professionisti. Il loro ultimo contratto prevede l’uccisione di un ex pilota di corse automobilistiche, Johnny North, impersonato da John Cassavettes. Tutto fila liscio. Eppure il killer interpretato da Lee Marvin non riesce a liberarsi di un dubbio che lo assilla: perché la vittima non ha tentato la fuga dinanzi alle canne da fuoco silenziate dei suoi aguzzini? 

Sono queste le premesse di Contratto per uccidere, splendido noir diretto dal regista Don Siegel e ispirato al racconto The Killers di Ernest Hemingway, nonché remake di The Killers, film diretto nel 1943 da Robert Siodmak e sempre ispirato all’opera dello scrittore statunitense. 

I due assassini sono creature spietate, fredde. La scena iniziale li relega immediatamente, senza possibilità di appello, nel girone dei criminali incalliti; Charlie Strom e Lee sono due portatori di morte immuni a qualunque morale, guidati dal solo istinto omicida e dalla prospettiva del guadagno. Fino alla loro ultima missione. 

Il film venne commissionato dalla rete televisiva NBC. Giudicato troppo violento per il piccolo schermo, fu successivamente distribuito nella sale con il titolo di Ernest Hemingway’s The Killers

Considerazioni: 

Aggiungo all'intervento di 7di9 alcune note, soprattutto di carattere antropologico.

La luce e le falene

Il microcosmo del gangsterismo è come un abisso di oscurità assoluta in cui spicca subito ogni sorgente di luce, per quanto fievole possa essere. Così la donna bellissima e fascinosa è come un lampione che attira a sé nugoli di falene, condannandole presto all'impazzimento e alla morte. Per questi insetti l'unica possibilità di salvezza sarebbe fuggire lontano dalla luce e rintanarsi negli anfratti più tenebrosi. Invece cadono nell'inganno, si ammassano attorno al lume e vengono divorati dai pipistrelli. Eppure non c'è speranza nemmeno per chi comprende la natura della trappola luminosa, se ha la disgrazia di aver a che fare con qualcuno che ne è stato attratto!   

La Mantide

Non bisogna lasciarsi ingannare dall'aspetto esile e delicato della maliarda, che è una terribile predatrice. Il pilota si ritiene forte e virile, così si avvicina a lei per avere contatto col suo corpo vellutato. Un contatto che crede salvifico. Le conseguenze di questo errore di valutazione sono fatali e non tardano a manifestarsi: l'amata non è affatto un oggetto di conquista, come il volgo stoltamente crede. Non appena ha intrappolato la sua preda, la blocca e la dilania, la squarcia, ne beve l'anima e ne causa l'annientamento.   

Un caso di sospetta censura

Nel finale vediamo che il killer più anziano, magistralmente interpretato da Lee Marvin, prima di spirare spara e abbatte la bellissima pupa piantandole un proiettile nel cranio. La pistola ha il silenziatore. Si sente solo che lei cade, ma la sua morte non viene ripresa, è fuori campo. Uno spreco assurdo, direi. Ricordo una sequenza simile in un telefilm italiano con Giuliano Gemma, in cui una pornodiva bionda veniva fulminata da un colpo in testa, sparato da un'arma col silenziatore. Si vedeva cadere a terra la donna, morta all'istante. La cosa aveva un effetto straniante, lasciava attoniti. Non c'è nulla di più assurdo e sorprendente di un passaggio improvviso e imprevedibile dalla vita all'assenza di vita. Perché dunque nel film di Don Siegel non si vede nulla? Posso supporre che sia stata la censura a tagliare quei fotogrammi, ritenuti troppo traumatizzanti e conturbanti.

Gangster, pupe e sodomia

Non ci sono dubbi. Emerge la natura sodomitica dei due killer. Ovviamente alla cosa non si poteva alludere a quei tempi, ma sembra che sia una conclusione abbastanza ovvia. Tutto il film è pervaso dall'omosessualità, anche se non viene mai menzionata in modo esplicito. Nel contesto malavitoso era una cosa che doveva essere tenuta nascosta, ma neanche il pubblico ne voleva sentir parlare. Ecco la mia analisi. Sylvester è un omosessuale passivo, che sognava di fellare il pilota, rimanendo annichilito quando il suo oggetto del desiderio si è perso dietro alla splendida pupa. L'odio di Sylvester verso le pupe è fortissimo e misto a gelosia. Non che l'avversione misogina dei due sicari sia minore.

Feticismo dei piedi nel '64

In una scena il pilota accarezza un piede alla sua amante. Strano che i censori incaricati di applicare il Codice Hays non si siano accorti di questo dettaglio pruriginoso. Sono convinto che questo contatto tra l'uomo e la donna non sia affatto qualcosa di casuale. Siegel ha studiato tutto nei minimi particolari. Voleva che lo spettatore venisse a conoscenza della natura della maliarda, che è una dominatrice. L'uomo la adora. Le tributa onori divini perché la propria essenza è stata svuotata dall'interno. Egli sopravvive come un mero simulacro. Soltanto la donna dà senso alla sua esistenza. Proprio come l'eroina dà senso all'esistenza di un tossicomane. Poi all'improvviso la droga gli viene portata via ed ecco che il nero Drago della Disperazione spalanca le proprie fauci per divorarlo!

sabato 3 gennaio 2015

LA REALTÀ SOSTITUITA

Già ai tempi di Splinder si era posto il problema tutt'altro che ozioso dell'occupazione blogosferica. Così scrivevo su Esilio a Mordor (01/09/2009):

Mi è balenata in mente una questione splinderologica forse un po' oziosa. Se un utente cancella un blog, l'url corrispondente è all'istante disponibile per un portale nuovo creato da un utente diverso. Per fissare le idee, se nero.splinder.com dell'utente black viene cancellato, è sempre possibile che l'utente Puffo crei un blog del tutto diverso al quale dà come url proprio nero.splinder.com. Orbene, se io avessi questo nero.splinder.com nel blogroll e non facessi una costante manutenzione, mi troverei senza saperlo con un link non voluto. Un link che dà su uno spazio del tutto differente da quello da me scelto tempo prima. Mettiamo che il primo nero.splinder.com parlasse di pessimismo cosmico, ora potrei trovarmi un blog dedicato all'allevamento di canarini. Tutto questo ha ingenerato in me un flusso impetuoso di riflessioni mortificanti. Le sequenze di parole e di numeri sono come contenitori, il cui contenuto può mutare senza che neanche ce ne rendiamo conto. La realtà circostante rivela sempre più la sua degradazione, l'impietoso disfarsi di ogni parvenza di noumeno in gretto e transeunte fenomeno. Quello che oggi affligge il mondo virtuale, un giorno si estenderà ad ogni cosa: alle città, alle case, alle persone. Uno si renderà conto, stordito dalla sorpresa, che un suo conoscente non è altro che un vuoto simulacro, improvvisamente abitato da un'ontologia altra. Grasse larve bianchicce già rodono dall'interno gli esseri, umani, e alla fine rimarranno soltanto tracce di esistenza simulata per ingannare i nostri sensi. 

Ricordo il commento stizzito di Zorrokamikaze: "cr****, nero.splinder.com è in mano a uno schifoso fascista... avrei preferito i canarini".

Avendo notato che il gestore del portale era impegnato in una serrata diffusione di idee nataliste, così ho risposto: "Ho molto riflettuto su questo bizzarro caso, tra una soffiata di naso e l'altra. In buona sostanza detesto la spudorata propaganda procreativa, e mi sembra di capire che è comune a molti marxisti; or della fine i fanatismi politici di moda si equivalgono. Ho deciso: se cancella il blog mi prendo l'url e dedico il nuovo spazio ai ramarri"

GLI STRULDBRUG

Jonathan Swift, nel terzo libro dei Viaggi di Gulliver, narra che tra le genti di Luggnagg nascono alcuni individui, gli Struldbrug, con un segno sulla fronte, che li destina ad essere immortali. Quale sorte potrebbe essere più felice per uomini liberati dalla paura della morte, pieni di sapere, ricchi ed in grado di dedicarsi, senza affanni, a grandi scoperte o ad elevate considerazioni filosofiche? Eppure non è così, perchè gli Struldbrug "verso i trent’anni cominciano ad essere malinconici e sempre più lo diventano con il passare del tempo. Ad ottant’anni essi sono soggetti alle infermità ed alle debolezze degli altri vecchi, e a molte altre ancora, dovute alla prospettiva paurosa di non morire mai. Non solo sono testardi, fastidiosi, avidi, bisbetici, vanitosi, ciarlieri, ma anche incapaci di amicizia, e sordi ad ogni affetto naturale, che non supera mai i pronipoti. Sono divorati da due passioni: l’invidia ed i desideri impotenti. Ricordano soltanto ciò che hanno visto ed imparato nell’età matura, e questo pure in modo molto imperfetto. Quelli che rimbambiscono e perdono completamente la memoria sono i più fortunati, almeno circondati da pietà e da assistenza più degli altri, poiché non hanno gli stessi difetti. A ottanta anni vengono dichiarati civilmente morti; gli sposi (se sono entrambi immortali) si separano. A novanta perdono i denti e i capelli e non distinguono il sapore dei cibi. Quando parlano, non trovano più le parole e non possono nemmeno più leggere. Poiché la lingua si evolve, essi non la comprendono più. Conoscono pertanto l’afflizione di vivere da stranieri nel loro stesso paese."

giovedì 25 dicembre 2014


LA LEGGENDA DI BEOWULF

Titolo originale: Beowulf
Nazione: USA
Anno: 2007
Genere: fantasy
Durata: 115
Produzione: Warner Bros
Distribuzione: Warner Bros
Regia: Robert Zemeckis
Attori:
  Ray Winstone: Beowulf
  Anthony Hopkins: Re Hrothgar 
  John Malkovich: Unferth 
  Robin Wright Penn: Regina Wealtheow
  Brendan Gleeson: Wiglaf
  Crispin Glover: Grendel
  Alison Lohman: Ursula
  Charlotte Salt: Estrith 
  Chris Coppola: Olaf
  Sebastian Roché: Wulfgar
  Lesle Zemeckis: Yrsa
  Angelina Jolie: Madre di Grendel 
  Costas Mandylor: Hondshew
Doppiatori italiani:  
  Francesco Pannofino: Beowulf
  Dario Penne: Re Hrothgar
  Roberto Pedicini: Unferth
  Chiara Colizzi: Regina Wealtheow
  Emanuela Rossi: Madre di Grendel
  Roberto Draghetti: Wiglaf
  Massimo Popolizio: Grendel
  Domitilla D'Amico: Ursula
  Oreste Baldini: Hondshew
 Emanuela D'Amico: Yrsa
 Giacomo Vitullo: Olaf 
 


Note:
La storia narrata nel film è l’adattamento di un antichissimo poema epico scritto in lingua inglese arcaica, e datato intorno al VII secolo. Il nome del suo autore, o dei suoi autori, è sconosciuto. Unica certezza è che si tratti del più lungo poema epico in lingua anglosassone mai scritto.

Recensione:
Riporto questo scritto del carissimo amico 7di9: una bellissima recensione de La leggenda di Beowulf, pellicola diretta da Robert Zemeckis, su Real Dark Dream. Il testo, pubblicato a suo tempo su Esilio a Mordor, per fortuna non è andato perduto, dato che è ancora consultabile in questa pagina:


Eroe di una tribù di origine svedese e figlio di un sovrano, Beowulf è un guerriero, nel senso più puro del termine, un combattente che decide di partire per una fredda regione della Danimarca al fine di uccidere il temibile demone che la infesta. E' questa in sintesi la trama del film diretto da Robert Zemeckis, il quale ripropone, dopo Polar Express, una tipologia di cinema visivamente costruito attraverso la grafica virtuale generata al computer.
 La colonna sonora è certamente uno degli elementi maggiormente riusciti della produzione. Alan Silvestri svolge un lavoro egregio, salvifico per certi versi. Il ritmo delle melodie è sempre incalzante e ben orchestrato quando le scene di guerra o di combattimento lo richiedono. Ed è incontrovertibile quanto questo aspetto aiuti sicuramente a meglio immedesimarsi nella storia. E' dunque d’obbligo riconoscere l’effetto riparatore che la musica opera in certe scene, le quali sarebbero risultate sicuramente meno digeribili e meno fluide, oltre che maggiormente macchinose, se private del loro accompagnamento orchestrale. Non si può dire lo stesso dell’effetto prodotto dalla recitazione dei personaggi, i cui volti perlopiù immobili e le cui pupille prive di vita non fanno che spingere lo spettatore lontano da una qualunque parvenza di partecipazione, di immedesimazione con le vicende narrate. Nonostante però la tendenziale, e a tratti fastidiosa, rigidità  dei volti dei personaggi, le cui espressioni sono limitate, la tecnica tridimensionale è sicuramente di buona fattura – anche se ancora lontanissima da un’accettabile verosimiglianza in grado di sostituire, nella forma e nella sostanza, la recitazione, ma soprattutto la profondità recitativa – di attori in carne e ossa. In ogni caso, nota di merito deve essere riconosciuta per l’ambientazione, perfettamente ricostruita: il freddo, la neve e la temperatura proibitiva sono realmente percepibili. Bisogna ammettere che da questo punto di vista la regia ha svolto un ottimo lavoro, contrapponendo i colori freddi della flora danese ai toni accessi e maggiormente caldi degli abiti dei personaggi, che sembrano quasi ricoperti di fuoco e lapilli.
 L’intera storia è costantemente immersa in una densa atmosfera di mistero, lugubre, profondamente oscura, che riesce a conferire maggiore forza alle figure dei demoni che la infestano. Particolarmente coinvolgente, e ben fotografata, è la scena del primo attacco di Grendel, il mostro che Beowulf ha promesso di uccidere. Violento al punto giusto, e caricato di un’equilibrata dose di effetti sanguinolenti, il momento dell’attacco del mostro è una sapiente macchina di suspense, dove le urla della creatura si mescolano alle luci blu, spettrali, del luogo, schiacciando le parole e le grida degli abitanti impauriti e alla disperata ricerca di una via di fuga.
 Anche se accademica e sufficientemente fluida, la regia risente di un movimento di macchina troppo stereotipato, raramente arricchito da guizzi originali, che in molti tratti tende ad un tipo di ripresa vicina a quella di un moderno videogioco, con riprese che risultano poco plausibili, e per questo abbastanza inaccettabili per l’occhio dello spettatore: l’effetto fake del film è comunque diffuso più o meno in tutti gli strati della pellicola, e difficilmente viene via, contribuendo non poco ad alienare dallo schermo chi assiste alla proiezione.
 I dialoghi, funzionali, risentono dell’arcaicità  del testo originario dell’opera. Sopra le righe, la sceneggiatura potrebbe risultare irritante in certi frangenti, anche se mediata da diversi e ben dosati spunti ironici. Le esigenze da epopea sono però pienamente rispettate: l’intera storia è a tutti gli effetti un inno atto a glorificare le gesta dell’eroe Beowulf, nel bene e nel male. A parte questo, la scelta degli sceneggiatori Roger Avary e Neil Gaiman di non adattare il tono leggendario e altisonante dei dialoghi originali dell’poema ad un linguaggio filmico maggiormente fruibile è da premiare, soprattutto considerando la tendenziale piattezza –  tanto dialogica quanto sintattica – di molti degli script moderni, soprattutto quelli destinati ad un pubblico eterogeneo.
 La trama è semplice – potrebbe definirsi minimale –  ed è giocata su di un paio di nodi narrativi che vengono reiterati per ben tre volte fino alla conclusione del film. Visti i difetti evidenziati finora, è palese come un simile intreccio diegetico non possa che peggiorare la già  precaria stabilità  del film. L’effetto finale sarebbe sicuramente cambiato se sullo schermo ci fossero stati attori reali, con espressioni realmente umane. L’empatia abita altrove, ed è un vero peccato, poiché l’operazione di voler riproporre una storia tanto antica, ancestrale, nel nostro tempo è scelta da ammirare, sicuramente coraggiosa.

Considerazioni: 
Aggiungo a questo punto qualche mio breve commento. Ottima la recitazione del poema in anglosassone, verso la fine del film. Non mancano però gli anacronismi: solo per fare un esempio si cita l'Islanda, che all'epoca della stesura del poema non era ancora stata raggiunta dai coloni norvegesi. Il tentativo di inserire in un contesto storico eventi più o meno liberamente ispirati al Beowulf, genera talvolta effetti surreali, ma questo è inevitabile: si è forse mai dato un solo americano in grado di produrre un film seguendo alla lettera una fonte senza apportarvi alcuna modifica? La mia opinione sul film è in ogni caso nettamente positiva. L'unica cosa davvero inguardabile è la strega con i tacchi a spillo.

sabato 6 dicembre 2014


TABÙ - GOHATTO 

Titolo originale: Gohatto 
Regia: Nagisa Oshima
Produzione: GB/Jap/Fra
Anno: 1999
Genere: Drammatico
Durata: 100'


Interpreti:
 Takeshi Kitano: Capitano Toshizo Hijikata
 Tadanobu Asano: Samurai Hyozo Tashiro
 Shinji Takeda: Tenente Souji Okita
 Ryuhei Matsuda: Samurai Sozaburo Kano
 Yoichi Sai: Comandante Isamu Kondo
 Koji Matoba: Samurai Heibei Sugano
 Tomoro Taguchi: Samurai Tojiro Yuzawa
 Jiro Sakagami: Tenente Genzaburo Inoue
  Masa Tommies: Ispettore Jo Yamazaki
 Masato Ibu: Agente Koshitaro Ito
 Zakoba Katsura: Wachigaya
 Kei Sato: Narratore

Doppiatori italiani: 
 Mattia Sbragia: Capitano Toshizo Hijikata
 Simone Crisari: Samurai Sozaburo Kano
 Oreste Baldini: Tenente Souji Okita
 Roberto Draghetti: Samurai Hyozo Tashiro
 Massimo Corvo: Comandante Isamu Kondo
 Pino Ammendola: Tenente Genzaburo Inoue
 Mario Bombardieri: Samurai Heibei Sugano
 Stefano De Sando: Ispettore Jo Yamazaki
 Alvise Battain: Agente Koshitaro Ito
 Massimo Lodolo: Samurai Tojiro Yuzawa
 Saverio Indrio: narratore

Sceneggiatura: Nagisa Oshima
Fotografia: Toyomichi Kurita
Scenografia: Yoshinobu Nishioka
Montaggio: Tomoyo Oshima
Costumi: Emi Wada
Musiche: Ryuichi Sakamoto

Il carissimo 7di9 scrisse una splendida recensione, già pubblicata a suo tempo sul blog Esilio a Mordor e da lungo tempo scomparsa dal Web. Per contrastare l'Oblio che assedia e sommerge ogni cosa, la ripropongo senz'altro in questa sede:    

La decadenza serpeggiante nell’ambiente dello shogunato viene accelerata dall’arrivo di Kano, giovane samurai dai tratti femminei, arruolatosi alla corte dello shogun locale per il solo gusto di uccidere. Il dubbio che tutte le concessioni fatte a Kano siano frutto di un’attrazione generale provata nei suoi confronti non è mai enunciato, ma solo sussurrato, spesso con ironia, soprattutto attraverso le didascalie che sottolineano i passaggi della storia. Per tutta la durata del film si assiste a una contrapposizione continua tra l’austerità e la quasi perfezione formale degli ambienti e delle consuetudini, delle regole samurai e delle gerarchie, e il veleno biologico che incrina la patina appariscente ma vuota della superficie visibile. Il personaggio di Kano è una figura malefica, porta in sé i germi dell’apocalisse, giunge tra i puri per corromperli, motivato solo dal desiderio di vederli perire ai suoi piedi, come navigatori alla corte di una sirena. Kano assomiglia al male assoluto, perché chiunque lo sfiora, con lo sguardo, con le dita, ne è attratto, rapito, condannato. Il tema dell’omosessualità non è certamente primario nell’economia della pellicola, costituendosi piuttosto come metafora di qualcos’altro: la Bellezza, questa forza ammaliante dinanzi alla quale nemmeno il più valoroso dei guerrieri riesce a resistere. Dinanzi alla caduta dei samurai, consumata al di fuori di un sistema bellico rigido quanto fragile, il regista racconta la lenta disgregazione del regime dello shogunato di fronte all’avanzata meccanica dell’Occidente e delle forze aliene che vengono dal mare. Kano è anche un fantasma, lo spettro di carne di quell’Occidente temuto ma ammaliante, che porta in sé il germe della distruzione. Il capitano Hijikata, interpretato da un perfetto Takeshi Kitano, si muove sulla scena con fluidità, sospeso tra il proprio ruolo diegetico e la funzione di narratore. Con abilità, il regista Nagisa Oshima, decostruisce la struttura dei dialoghi e delle situazioni, così come lo spettatore lo recepisce, ora affidando il compito disvelatore ai pensieri di Hijikata, ora concentrando la potenza del messaggio nella splendida scena finale: il taglio di un ciliegio in fiore, quale sfogo di un sistema morale che non riesce più – ma è stato mai realmente in grado di farlo? – ad affrontare e abbattere le tentazioni della carne e del degrado dei costumi. 
 
Considerazioni: 
Aggiungo all'intervento di 7di9 alcune note, soprattutto di carattere antropologico.

Un sostrato cristiano

A un certo punto si nota un piccolo santuario buddhista, una sorta di edicola con una svastica. Lo Shogunato Tokugawa ha cercato di promuovere il Buddhismo con ogni mezzo per contrastare il Cristianesimo, che continuava ad essere praticato in segreto nonostante le misure repressive draconiane. Fu proprio l'inquisitore anticristiano Inoue Masashige (1585 - 1661), un omonimo dell'Inoue del film di Oshima, a ordinare l'edificazione di moltissimi templi buddhisti a Nagasaki e nelle aree vicine.

La penisola di Shimabara, descritta come pullulante di bordelli all'epoca della narrazione, era stata teatro di una ribellione cristiana, soffocata nel sangue dagli eserciti dello Shogunato, non senza ingenti perdite. Per scongiurare il riaccendersi delle braci della dissidenza religiosa, da allora in quel luogo sono state deportate popolazioni da ogni parte del Giappone.

La presenza di idee cristiane emerge in tutto il film. Ad esempio quando a Hijikata, capitano della milizia Shinsengumi, viene chiesto di desistere dalla persecuzione del clan Igo e gli viene ricordato che un samurai deve soprattutto essere misericordioso. Il punto è che questo concetto di misericordia è cristiano e del tutto estraneo alla tradizione nipponica.

Le ferree regole della milizia Shinsengumi sono volte ad evitare la corruzione. Così è fatto divieto ad ogni suo membro di dare o di ricevere denaro in prestito. La corruzione nell'antico Giappone era qualcosa di inconcepibile e di terrorizzante, perché vanificava il culto dell'onore. Il primo caso che emerse, destando un immenso scandalo, risale agli inizi del XVII secolo e fu subito notato che i soggetti coinvolti erano cristiani. Questo fece sì che la nuova religione, che già aveva moltissimi proseliti, fosse vista dalle autorità come un pericolo esistenziale per la stessa Nazione.   

I dialetti

Un agente del clan Igo viene identificato dal modo in cui parla, dal suo dialetto, a dimostrazione del fatto che esisteva una certa varietà linguistica, anche se la comprensione non era comunque pregiudicata. Molto probabilmente la differenza consisteva soprattutto nella collocazione e nella qualità degli accenti, più che non nell'uso di parole particolari.

Uno strano gioco di parole

Il vecchio Inoue racconta una storiella buffa a Kano, sperando di ottenere da lui sesso orale. Così comincia a parlare di ricordi d'infanzia e di un suo omonimo vissuto a quei tempi, Inoue, soprannominato Patata-uè perché era un appassionato coltivatore dei succulenti tuberi. In giapponese è tutto chiaro: il gioco di parole è tra Inoue e Imoue, dove imo significa "patata". I traduttori in italiano non hanno potuto mantenere la forma Imoue, che sarebbe risultata incomprensibile, così hanno pensato bene di renderla in qualche modo con un ridicolo Patata-uè.

Un'epidemia di effeminatezza

Il giovane Kano, concupito più o meno segretamente da tutti, si concede a un ufficiale e viene mostrato l'atto sodomitico. L'amante focoso penetra il giovane da tergo, gemendo di godimento mentre gli scarica lo sperma nell'intestino. Senza dubbio per questo motivo il film di Oshima è stato considerato problematico. 7di9 non ritiene l'omosessualità il fulcro della narrazione. Eppure le labbra carnose di Kano sono inquadrate di continuo, con estrema malizia, suggerendo un loro uso sessuale.

Sull'ufficiale pederasta che sodomizza Kano vengono fatte alcune considerazioni bizzarre: si dice che è tale perché proviene da un distretto isolato. Semplice: la religione cristiana non vi era mai penetrata. In epoca precedente alla cristianizzazione, sembra che la pederastia fosse ben considerata. Ad esempio Tokugawa Ieyasu aveva un harem di ragazzi effeminati e travestiti da geisha.

Un brago di gran lunga più turpe

Il capitano Okita, un samurai giovane come Kano, ambiguo e alla fine artefice della sua rovina tramite tradimento, lo fa eliminare proprio per via dell'omosessualità passiva. Tuttavia lui sguazza in un brago di gran lunga più turpe: quello della pedofilia. Quando va al fiume, ci sono alcuni bambini piccoli che pescano per lui. Si ha l'impressione che il suo interesse non fosse tanto per il pesce, quanto per i bambini. Simili abusi dovevano esistere e forse erano comuni.  

Il samurai, la sodomia e il ciliegio reciso

Hijikata, appresa l'uccisione di Kano, estrae la katana e recide con un colpo secco un bel ciliegio fiorito, restando poi immobile a meditare nella notte sulla giovane vita appena stroncata. Il film si conclude con questa immagine carica di significati occulti, di fatto un geroglifico della Morte dell'Essere. L'albero reciso rappresenta il samurai effeminato, che Hijikata considerava contaminato dal Male. Quello a cui assistiamo non è un semplice passaggio della morale cristiana nel pensiero giapponese. Il concetto cristiano di peccato viene ad assimilarsi a quello giapponese di kegare "colpa ontologica". Il peccatore non è tale per libero arbitrio e il peccato non viene a dipendere dalla volontà di chi ne è colpito. In questo modo, quando tra le genti di Nagasaki l'omosessualità è diventata peccato, è stata intesa come kegare. Proprio come l'essere colpiti dal fulmine, dalla miasi o dalla lebbra, tutte condizioni di impurità. 
   
Una sequenza memorabile

L'esecuzione di un militare della Shinsengumi ad opera di Kano, che senza esitare gli taglia la testa con la katana, facendo scaturire getti di sangue dal collo reciso.