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venerdì 6 settembre 2019


IL TERRORE DEI BARBARI

Lingua originale: Italiano
Paese di produzione: Italia
Anno: 1959
Durata: 85 min
Rapporto: 2,35 : 1
Genere: Peplum, (pseudo)storico, epico, trash
Regia: Carlo Campogalliani
Sceneggiatura: Gino Mangini, Emimmo Salvi, Nino Stresa,
      Giuseppe Taffarel
Produttore: Emimmo Salvi
Casa di produzione: Alta Vista, Standard Produzione
Fotografia: Bitto Albertini
Montaggio: Franco Fraticelli
Musiche: Carlo Innocenzi
Scenografia: Oscar D'Amico
Costumi: Giorgio Desideri, Giovanna Natili
Interpreti e personaggi*:
    Steve Reeves: Emiliano
    Chelo Alonso: Landa
    Giulia Rubini: Lidia
    Luciano Marin: Marco
    Livio Lorenzon: Igor
    Andrea Checchi: Delfo
    Bruce Cabot: Alboino
    Arturo Dominici: Svevo
    Furio Meniconi: Gensérico
    Carla Calò: madre di Bruno
    Fabrizio Capucci: Bruno
     *Alcuni personaggi sono stati rinominati nella versione in inglese: Emiliano è
      diventato Goliath, Landa è diventata Lynda, mentre Gensérico è diventato
      Hulderich.

Doppiatori originali:
    Emilio Cigoli: Emiliano
    Lydia Simoneschi: Landa
    Fiorella Betti: Lidia
    Giuseppe Rinaldi: Marco
    Renato Turi: Igor
    Gualtiero De Angelis: Delfo
    Bruno Persa: Alboino
    Nando Gazzolo: Svevo
    Nino Bonanni: Gensérico
    Dhia Cristiani: madre di Bruno
    Manlio Busoni: voce narrante 
Traduzioni del titolo: 
    Inglese: Goliath and the Barbarians

Trama:
Una labile cornice storica viene illustrata dalla voce del presentatore, proprio mentre parte una grottesca musichetta. Ecco il testo:


"Nell'anno 568 dopo Cristo, Alboino, Re dei Longobardi, calò in Italia dalla vicina Pannonia. Le orde barbariche, costituite da genti di razze diverse, che la bramosia di conquista teneva unite, dilagarono nella Penisola da Cividale del Frìuli (sic), portando ovunque la distruzione e la morte."  

Li si vede cavalcare, questi Longobardi - diciamo così -, tutti coperti di pelli quasi ridotte a brandelli. Cavalcano a spron battuto, gli zoccoli dei cavalli che fanno il rumore del tuono. I gonfalonieri reggono vessilli alquanto primitivi che lo spettatore fa molta fatica ad interpretare, sembrano graticole di ferro nero levate verso il cielo. Sono più simili a Mongoli che a Germani, in molti casi hanno il cranio rasato e un codino di capelli corvini intrecciati: è proprio il famoso bunchuk di Taras Bulba. Le orde si abbattono su Verona come uno sciame di locuste, distruggendo tutto al loro passaggio. Saccheggiano la villa del più importante notabile della città e lo uccidono a sangue freddo, trapassandolo con una lancia. Suo figlio, l'erculeo Emiliano, giura vendetta. Tratti in salvo i suoi famigliari conducendoli sui monti, guida una guerriglia contro gli invasori. Robusto rappresentante della stirpe di Maciste, sembra appartenere più all'antichità classica che a un Alto Medioevo non ancora compiutamente cristiano. Emiliano ha un grande ingegno: si traveste con pelli e si maschera in modo tale da apparire ai suoi sconvolti nemici come un licantropo. Riesce ad organizzare un'efficace resistenza e a diventare un vero e proprio flagello per Alboino, che ancora cerca invano di espugnare Pavia allo scopo di farne la propria capitale. Allo scopo di ricondurre all'ordine il regno appena conquistato, il Re dei Longobardi invia alla frontiera settentrionale un feudatario idiota, il brutale Igor, che è un vero e proprio gorilla. Questo scimmione demente è innamorato follemente di Landa, la bella e mora figlia dello slavo Delfo. Quello che l'energumeno desidera è subito chiaro. Intende innanzitutto sopprimere Delfo per prendersi Landa e farla sua. Lei però sa che il suo pretendente, a dispetto delle sembianze da gorilla, ha un esiguo falletto, un budellino moscio, mentre Emiliano ha un immenso Schwanzstücker, in grado di schiacciare le noci col glande! Queste femminee valutazioni sono per così dire la spina dorsale dell'opera di Campogalliani.  

Recensione:
Dire che questo è un film spazzatura è in buona sostanza un insulto al concetto stesso di immondizia di celluloide. Forse la parola più giusta per descriverlo è imbarazzante. Certo, il mondo in cui viviamo ci ha dato orrori indescrivibili e infamie infinite, ma simili porcherie pseudostoriche non le dobbiamo sopportare più. Forse è meglio doversi sorbire filmati sui glory holes e sul sesso oro-anale praticato da Madonna ad autentici gorilla, che essere costretti a vedere i propri Antenati ridotti a macchiette inverosimili esposte al pubblico ludibrio dei bruti. 

Anacronismi e incoerenze à gogo! 

Sul sito Bloopers.it si fa notare giustamente che è anacronistico il comando di Alboino: "No Igor, andrai a Milano per sottomettere i valvassori". Nel VI secolo non esisteva la carica feudale dei valvassori e neppure la stessa parola per indicarla (valvassore deriva dall'antico francese vavassor, che a sua volta è dal latino vassus vassorum "servo dei servi").

Va detto che lo stesso nome Igor è anacronistico: è un adattamento slavo del nome norreno Yngvarr, importato in Russia dai Variaghi. Nel VI secolo non poteva esistere nessuno tra i Longobardi o tra i popoli loro associati a portare un simile antroponimo. Semmai avrebbe dovuto essere *INGUARI, che tuttavia non sembra documentato da nessuna parte. Allo stato attuale delle mie conoscenze non mi risultano attestazioni di composti longobardi formati a partire dal nome di divinità che in protogermanico doveva suonare *Ingwaz, molto produttivo in Scandinavia. La forma gotica sarebbe scritta in ortografia wulfiliana *Iggwaharjis.

Gensérico nun ze po' sentì, come si direbbe nell'Urbe. La pronuncia in italiano corretto è Genserìco (chi diamine pronuncerebbe mai Teodòrico??). Si tratta di un nome tipico dei Vandali, portato da un loro condottiero nel V secolo, che devastò Roma un anno dopo che l'aveva visitata Alarico. Genserico (Gensericus, Geisericus, etc.) è un adattamento della forma originale vandalica, scritta più correttamente Geiseric e attestata ad esempio in Iordane. L'accento della forma nativa è sulla prima sillaba, che ha un dittongo o una vocale lunga. In gotico wulfiliano sarebbe scritto *Gaizareiks e significa "Principe del Giavellotto". In longobardo l'elemento *gaiza- "giavellotto, lancia" si era evoluto in gaire-, gari-, con tipico rotacismo della sibilante sonora -z- protogermanica, conservata invece nel germanico orientale (gotico, vandalico, burgundico, etc.). 

Quando Alboino chiama a gran voce alcuni suoi scagnozzi, c'è da ridere fragorosamente. Uno è Ario, un altro è Arìchi, un altro ancora porta un nome a malapena distinguibile che suona quasi Jabba! Non è difficile scorgere in Ario il nome del famoso eresiarca le cui dottrine ebbero grande diffusione tra molti popoli germanici. Non mi pare che fosse attestato il suo uso come antroponimo tra i popoli germanici che pure aderivano alla confessione Ariana del Crisitanesimo. Arichi è un nome longobardo (Arichis, Arechis), ma l'accento è collocato in modo erroneo sulla penultima sillaba.

Ralfo, Delfo, Svevo e Landa. Campogalliani doveva avere una forte predilezione per i nomi brevi. Svevo è chiaramente un nome etnico tratto dalla confederazione degli Svevi, quelli che già Cesare e Tacito chiamavano Suebi. Potrebbe avere un senso, anche se non mi pare che sia documentato. Gli altri nomi citati non hanno fondamento alcuno. A un certo punto Igor replica al Re Alboino a proposito di Delfo, dicendo: "È vecchio ed è slavo". Landa stessa afferma di avere sangue slavo. All'epoca in Italia si aveva un'idea abbastanza nebulosa dei popoli slavi e delle loro caratteristiche. Li si confondeva spesso e volentieri con gli Zingari (endoetnici Roma, Sinti, etc.). Così Landa incarna lo stereotipo della femme fatale zigana, una maliarda abbronzata e sensuale, con occhi e capelli scuri come la notte, esperta di arti magiche. 

Le orge della corte di Alboino sono forse un po' troppo sensuali, troppo moderne. Non so se con le pratiche igieniche dell'epoca avrebbe fatto molto piacere ai nobiluomini di un popolo germanico avere tante donne discinte a mettere i propri piedi nudi all'aria, spingendoli sotto il naso degli ospiti. Sarebbe oltremodo interessante poter disporre di seri trattati antropologici sul modo di concepire il corpo femmile e il potere attrattivo di ogni sua parte in un tempo in cui ci potevano essere seri ostacoli allo stesso concetto di Eros. Sporcizia, smegma, sudore. Certo, in qualche modo ci si lavava anche allora, ma non c'erano le saponette antibatteriche, credo che oltre all'acqua semplice ci fossero ben poche risorse, al massimo qualche erba come la pianta chiamata aro o qualche impasto di cenere e sego suino. Non dimentichiamoci che il tracollo igienico nella tarda Antichità ha causato la scomparsa della fellatio dall'Occidente - con l'eccezione di pochi casi più che altro collegabili a perverse disposizioni d'animo (volontà di infliggere umiliazione, etc.).

I Longobardi saccheggiano un mulino, inviati da Igor. Si mettono a caricare sacchi di cereali sulle spalle, ammucchiandoli in un carro rudimentale. Ecco che dalla grande dimora di pietra ove è collocato il mulino esce una donna urlante. Chiama suo figlio e gli urla che la loro famiglia è rovinata. Il nome del bambino è Bruno. Ebbene, Bruno è un nome germanico. L'errore commesso dallo sceneggiatore è lampante: egli parte dal patrimonio onomastico italiano contemporaneo e lo proietta all'infinito nel passato, senza alcun senso critico, pensando che possa valere l'idea di italianità eterna e immutabile contrapposta all'ignoranza e all'estraneità assoluta dei "Barbari" - concepiti come alieni piovuti sulla Terra da un altro pianeta, del tutto privi di qualsiasi contatto con alcunché di noto. 

Si deve dire Friùli, non Frìuli. Come ben risaputo, il toponimo è derivato da Forum Iulii. Un accento sulla prima vocale -i- è di per sé una vera e propria assurdità. La tradizione vuole che la pronuncia Frìuli, del tutto erronea, sia stata diffusa da un cronista di poca conoscenza all'epoca del grande terremoto del Friuli del 1976. Ecco, basta guardare il peplum trash di Campogalliani per rendersi conto che l'errore di pronuncia risale a un'epoca anteriore a quella del sisma. 

La leggenda dei Cinocefali 

Non si capisce come Emiliano avrebbe potuto ingannare i gloriosi Longobardi con un travestimento pacchiano da uomo-lupo (o piuttosto da uomo-cane). Infatti sono stati proprio i Longobardi ad escogitare, come ci narra Paolo Diacono, l'inganno dei Cinocefali. Per atterrire i loro nemici, in un'occasione avevano diffuso una diceria sinistra: nei loro accampamenti sarebbero stati ospitati mostri con corpo umano e testa di cane, assai bellicosi e avidissimi di sangue. Quindi un simile imbroglio, essendo noto a tutti fin dall'infanzia, non avrebbe provocato alcuno scompiglio tra il popolo di Alboino! Non dobbiamo mai immaginare, come ha fatto Campogalliani, che i nostri Progenitori fossero più primitivi di noi nell'immaginazione: lo erano soltanto nei mezzi tecnologici! 

martedì 3 settembre 2019


AMAKUSA SHIRO TOKISADA -
THE REBEL 

Titolo originale: Amakusa Shirō Tokisada
AKA:
The Revolutionary; The Christian Revolt 

Anno: 1962
Lingua: Giapponese
Paese: Giappone
Regia:
Nagisa Ō
shima
Genere: Drammatico, storico
Durata: 100 min
Colore: B/N
Formato: Scope
Produzione: Hiroshi
Ōkawa per la Toei di Kyoto
Produttori associati: Yoshino Mori, Yurin Nakamura,
     Kimiharu Tsujino  
Distribuzione: Toei Kyoto 
Sceneggiatura: Nagisa
Ōshima, Toshirō Ishidō
Fotografia: Shintar
ō Kawasaki
Montaggio: Shintarō Miyamoto
Musiche: Riichir
ō Manabe
Trucco: Masanobu Hayashi
Interpreti e personaggi: 

    Hashizō Ōkawa: Amakusa Shirō Tokisada
    Ryûtar
ō Ōtomo: Shinbei Oka
   
Tetsuo Ashida:
Zanemon Yama 
    Minoru Chiaki: Sō
ho Tanaka 
    Tokue Hanazawa: Yozaemon 
    Ch
ōichirō Kawarasaki: Tamezō 
    Yoshi Katō
: Il nonno di Zanemon Yama 
    Mikijir
ō Hira: Katsuie Matsukura 
    Rentarō Mikuni: Uemonsaku 
    Sue Mitobe: Maki 
   
Kikue Mōri: Maruta 
    Takamaru Sasaki: Jinbei 
    Satomi Oka: Sakura (moglie di Shinbei)
    Kei Sat
ō: Taga Mondo 
    Rokk
ō Toura: Rōnin (samurai senza padrone)
   
Junko Matsukawa: Okiku (accreditata come Sayuri
          Tachikawa)
   
    Takao Yoshizawa
   
Mieko Kiuchi 


Trama: 
Siamo nel Giappone dell'epoca Edo, sotto il dominio dei Tokugawa, nella prima metà del XVII secolo. I fatti si svolgono dal dicembre 1637 all'aprile 1638. La penisola di Shimabara, proprio come la popolosa città di Nagasaki, era abitata da una popolazione in prevalenza cristiana. Per questo motivo c'erano gravi attriti sociali. I feudatari erano ferocemente anticristiani e opprimevano il volgo in modo crudele, tassandolo fino a ridurlo in condizioni di povertà estrema. La rapacità del fisco era insostenibile, al punto che il governo Monti sarebbe stato considerato una manna! Gli esattori pretendevano una tassa in riso, lasciando ai sudditi soltanto poche patate. Gli armigeri dello Shogunato compiono irruzioni nei villaggi e catturano i cristiani, gettandoli nelle segrete, scorticandoli a forza di frustate e torturandoli fino a rendere loro la vita impossibile. Coloro che si rifiutano di abiurare vengono messi a morte con supplizi atrocissimi. Il popolo giapponese è indomito e fiero, quale che sia la sua religione. Così quando l'estremo limite della sopportazione viene superato, la rivolta ha inizio. A guidare la ribellione è il giovane Amakusa Shirō Tokisada (nato Masuda Shirō, figlio di Masuda Jinbei). Gli insorti assediano ed espugnano un castello dopo l'altro e il loro numero cresce giorno dopo giorno fino a raggiungere le proporzioni di un esercito. La sorte sembra arridere loro, ma segni luttuosi di morte violenta e di sterminio iniziano a manifestarsi...


Recensione: 
Il film mi è piaciuto, anche se devo rilevare spaventose sproporzioni nella narrazione. Troppo spazio dedicato a conversazioni serrate, che il regista deve aver ritenuto più importanti della stessa rivolta e della sua repressione. Va detto che ho potuto visionare la pellicola soltanto nella versione originale in giapponese, senza alcun doppiaggio né sottotitoli in inglese. Del resto sono dell'idea che un film giapponese debba essere visto in lingua originale, anche a costo di capire poco o nulla dei dialoghi! Poi si scopre che spesso le parole degli attori sono superflue, visto che nella maggior parte dei casi l'unica cosa che conta è l'azione. Quando questo non accade, è divertente cercare di riempire i buchi narrativi con qualche inadeguata costruzione mentale.  Quello che ho più apprezzato è l'ambientazione cupissima, claustrofobica, tanto che nelle scene notturne la storia sembra ambientata su un pianeta nel cui cielo un sole nero irradia una tenebra aggressiva. A un certo punto, alla piena luce del sole, vengono bruciati vivi alcuni cristiani e tra questi ci sono anche bambini. I loro corpi vengono avvolti in quelli che sembrano tappeti fatti di sottili canne e di paglia, a cui i carnefici danno fuoco. La maestria del regista è sublime nel rendere l'orrore che stravolge il volto di un vecchio fedele, nascosto nella vegetazione, che assiste alla lenta agonia dei suoi correligionari. 


Un vivido ma fugace affresco dei costumi 

Il signore feudale era un pederasta e aveva un harem di fanciulli vestiti da geisha, su cui sfogava le proprie bramosie sodomitiche penetrandoli selvaggiamente nell'intestino. Il regista allude a questo in poche brevi ma chiare sequenze. Non si trovano molti film, giapponesi o prodotti in altri paesi, che riportino in modo esplicito e approfondito questa realtà, di cui pochi sembrano essere al corrente. Lo stesso Tokugawa Ieyasu e altri daimyō dell'epoca Edo erano dediti alla pederastia e avevano i loro harem di effeminati. Secondo il mio parere, questo punto dolente, che poneva la cultura giapponese in rotta di collisione con la religione cristiana predicata dai missionari, spiega gli sviluppi repressivi dell'epoca Edo. Anche il famoso inquisitore anticristiano Inoue Masashige era un notorio pederasta. Non soltanto: aveva avuto un'educazione cristiana e da giovane per poco non si era fatto prete. Ecco una prova del conflitto stridente tra una dottrina straniera e le inclinazioni sessuali di un uomo che ne poteva capire soltanto la forma. Una lotta i cui risultati hanno avuto portata storica. 


Olandesi volanti 

Gli Olandesi fanno la loro irruzione nel film come folletti infarinati, forse interpretati da attori nipponici truccati e impettiti, tanto che di primo acchito mi sono sembrate quasi caricature di occidentali. Guardando con attenzione i fotogrammi, mi sono poi accorto che non si tratta di un lavoro approssimativo: quelle facce sembrano proprio avere lineamenti batavici! I figli dei Paesi Bassi si manifestano per pochi secondi assieme a un grande cannone che spara una specie di fuoco artificiale. La scena è estemporanea, non integrata nella trama. Sembra quasi che i messaggeri di un mondo alieno invadano la Terra da un buco nel cielo, rompendo l'ordine cosmico come una lancia che dilania le viscere; invece si ritraggono quasi subito e scompaiono senza lasciare traccia alcuna nel tessuto narrativo. Il riferimento è alla nave da guerra olandese Rijp, che cannoneggiò il castello di Hara in cui i rivoltosi si erano asserragliati. Nella pellicola di Ōshima vediamo invece gli Olandesi sugli spalti di un castello. Tutto ciò che è estraneo al Giappone desta stupore misto a scandalo e in qualche modo deve essere isolato, neutralizzato. Sembra di essere di fronte alla reazione di un sistema immunitario vigoroso che aggredisce i patogeni giunti da un'oscena fonte di una sconosciuta infezione. 


Il pittore folle (e profetico)  

Alla corte del signore feudale dedito alla pederastia con i travestiti, viveva un pittore. Il suo incarico ufficiale consisteva nel dipingere elaborati ritratti del suo mecenate. La sua figura era ben singolare per essere un nipponico, al punto che a prima vista lo scambiai per un occidentale, forse uno spagnolo o un portoghese. Invece si trattava proprio di un nativo del glorioso paese di Yamato. Nessuna traccia di plica mongolica, i suoi occhi erano enormi e fissi come quelli di un cuculo. La pelosità abbondante indicava la discendenza da popolazioni aborigene pre-nipponiche, Ainu o Emishi. Quando viene scoperto che è un cristiano, viene sottoposto a una devastante bastonatura continua. Già in passato aveva avuto problemi per la sua religione: come il suo dorso viene messo a nudo, spicca un vistoso marchio a forma di croce, testimonianza dell'opera di un precedente carnefice che lo aveva lavorato col ferro rovente. Liberato dalla prigionia, lo stravagante pittore vaga nella notte in preda alla follia, come Re Lear nella tempesta. L'ultimo suo dipinto mostra un paesaggio annientato e pieno di gente crocefissa in mezzo alle fiamme, con colombe bianche che salvono verso il cielo nero. Un luogotenente dell'armata cristiana vede l'opera e capisce all'istante che è una funesta profezia di rovina, così in preda alla furia la fa a pezzi con la katana e uccide l'artista. Lo colpisce prima alla schiena, poi gli infligge profondi tagli al petto. Il sangue, simile a denso fango, esce copioso dalla bocca della vittima, che si accascia al suolo.


Un finale precipitoso  

Amakusa Shiro impugna la katana e il Crocefisso. Intorno a lui garriscono vessilli cristiani, simili a rozze bandiere spagnole o portoghesi con una croce in campo bianco. Vessilli crociati. Schegge di Occidente incastonate in Oriente. Molti dei contadini insorti hanno una massiccia croce di legno legata al cranio: a quanto pare consideravano quel manufatto una protezione soprannaturale. Pregano incessantemente. Quando l'esercito si incammina verso il suo destino, ecco che lo schermo grigio si pietrifica e compare un quadro di fitti ideogrammi. Senza dubbio è un riassunto del finale, che non vedremo mai: i rivoltosi di Shimabara, una volta espugnato il castello di Hara, sono stati tutti decapitati. Per secoli è rimasta impressa nell'eroico popolo nipponico l'immagine di quella montagna di teste recise. E io che mi pregustavo lo scontro finale e la carneficina! Niente da fare. La gestione del tempo e dell'azione da parte dei registi e degli sceneggiatori giapponesi non è affatto simile a quanto ci aspetteremmo. Non segue la stessa nostra logica. Non è euclidea, non è lineare. 

Curiosità varie 

Una donna cristiana sconvolta dal rogo di uomini, donne e bambini, esibisce vistose otturazioni d'oro agli incisivi - cosa impossibile nel Giappone del XVII secolo. Siamo di fronte a un anacronismo.

Amakusa Shirō è considerato un santo da molti cattolici giapponesi, ma non è mai stato canonizzato. Già quando era in vita gli venivano attribuiti miracoli. La Chiesa Romana non ha mai usato i fatti di Shimabara per la sua propaganda, adducendo una sconcertante ragione: gli insorti avrebbero avuto soprattutto motivazioni "materialistiche", come la protesta contro la tassazione. 

Amakusa Shirō è mostrato nel film come un uomo adulto, mentre aveva solo 17 anni quando è stato giustiziato dai carnefici dello Shogunato. La sua testa, spiccata dal busto, è stata esibita al pubblico come monito. L'impatto del personaggio nel mondo dei manga è stato notevole.

Viene mostrato il ruolo primario del riso nel Paese del Sol Levante. L'insurrezione cristiana ha inizio proprio con un atto di spreco in apparenza incoprensibile: viene scagiato a terra il vaso che contiene il riso raccolto come tributo per il feudatario. Ovvio. Quel riso appartiene al Demonio e quindi non può essere usato per l'alimentazione. Quando una dimora feudale viene espugnata, le donne cucinano il riso delle riserve signorili. Viene cotto fino a divenire una massa collosa, che i bambini stremati dalla fame divorano con avidità.  

Il film ci mostra il duello tra Amakusa e un suo luogotenente traditore, Yamada Emosaku. Nella realtà storica le cose sono andate diversamente: il traditore è stato l'unico superstite di quasi 40.000 ribelli. 

Note sulla pronuncia del giapponese  

Quando ero giovane ci si cullava in un'illusione puffesca: si credeva che la lingua giapponese avesse una fonetica elementare e che fosse facilissima da pronunciarsi. La vulgata corrente si fondava su un principio quasi banale per pronunciare le sillabe traslitterate in caratteri romani (romaji): vocali all'italiana e consonanti all'inglese. Per quanto riguarda l'accento, veniva collocato sulla penultima sillaba, a meno che la parola non finisse con un dittongo o con una vocale lunga, nel qual caso l'accento cadeva sull'ultima sillaba (con poche eccezioni per lo più dovute all'errata trascrizione di una vocale lunga come breve). 

I manuali suggerivano di pronunciare il verbo ausiliare onorifico gozaimashìta "è stato" come /gozaima'ʃita/, con l'accento sulla penultima sillaba. Con grande stupore, con gli anni, mi sono accorto che quei manuali erano stati scritti da incompetenti, che non solo inventavano una sillaba inesistente, ma collocavano anche su di essa l'accento. In realtà si deve pronunciare /go'zaimaʃta/, con l'accento sul dittongo. C'è un bel gruppo consonantico, tanto che dovremmo trascrivere la parola in caratteri romani come gozaimashta. Poi ho scoperto l'arcano. Quando una vocale breve i o u è compresa tra due consonanti sorde, o finale di parola preceduta da una consonante sorda, allora non si pronuncia affatto. In qualche trattato si dice che le vocali in questione sono sorde ma in grado di fungere da nuclei sillabici. Non ne sono affatto convinto: mi paiono semplicemente inesistenti. 

Il verbo desu "è" non si pronuncia /'desu/, bensì /des/. La vocale finale non si percepisce nemmeno, per quanti sforzi si facciano.
Il verbo ausiliare onorifico gozaimasu "è" non si pronuncia /gozai'masu/, bensì /go'zaimas/. L'accento è sul dittongo e il suono finale è una sibilante /s/

Allo stesso modo, il nome Amakusa non è affatto /ama'kusa/ con l'accento su una vocale u. Invece si deve dire /a'maksa/. Piaccia o no, nella parola c'è un bel gruppo consonantico /ks/.

Non posso nascondere un fatto scabroso. Esisteva anche un'altra scuola di pronuncia italianizzata del giapponese, che affermava la seguente aberrazione: non c'è una sillaba che ha un accento deciso e prevalente, perché ogni sillaba porta un accento proprio. Ricordo che in uno squallido programma domenicale, Pippo Baudo presentò alcuni giapponesi di Osaka e affermò che il nome della città avrebbe avuto tre accenti. Si sarebbe dovuto pronunciare Ò! SÀ! KÀ! Quando però il presentatore interrogò il nipponico sulla reale pronuncia del toponimo, incontrò non poche difficoltà. Quando gli chiese se si dovesse pronunciare Osakà (ovviamente con la sonora /z/), l'uomo del Sol Levante recisamente gli disse di no. Segnaliamo quindi l'abitudine tipicamente italiana di realizzare la /z/ fonemica giapponese, traslitterata in caratteri romani con z, come un'affricata sonora /dz/, ad esempio nella parola kamikaze. Infine c'è il mitico Luca Giurato, quello del Mudo li Merlino, che usa addirittura un'affricata sorda /tts/: nella sua pronuncia i kamikaze diventano KAMIKAZZI!  

martedì 16 gennaio 2018


SILENCE

Titolo originale: Silence
Lingua originale: Inglese, giapponese, latino
Paese di produzione: Stati Uniti, Taiwan, Messico,
     Italia, Regno Unito, Giappone
Anno: 2016
Durata: 161 min
Colore: Colore
Audio: Sonoro
Rapporto: 2.35: 1
Genere: Drammatico, storico
Regia: Martin Scorsese
Soggetto: Shūsaku Endō (romanzo)
Sceneggiatura: Jay Cocks, Martin Scorsese
Produttore: Barbara De Fina, Randall Emmett,
    Vittorio Cecchi Gori, Martin Scorsese, Irwin
    Winkler, Emma Tillinger Koskoff, Gaston
     Pavlovich
Casa di produzione: Cappa Defina Productions,
    Cecchi Gori Pictures, Corsan, Emmett/Furla/
    Oasis Films, Sikelia Productions, AI-Film,
    Fábrica de Cine, SharpSword Films, IM Global
Distribuzione (Italia): 01 Distribution
Fotografia: Rodrigo Prieto
Montaggio: Thelma Schoonmaker
Musiche: Kim Allen Kluge, Kathryn Kluge
Scenografia: Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo
Costumi: Dante Ferretti
Interpreti e personaggi:    
    Andrew Garfield: Padre Sebastião Rodrigues
    Adam Driver: Padre Francisco Garupe
    Liam Neeson: Padre Cristóvão Ferreira
    Tadanobu Asano: interprete
    Ciarán Hinds: Padre Alessandro Valignano
    Shinya Tsukamoto: Mokichi
    Yōsuke Kubozuka: Kichijiro
    Issei Ogata: Inoue Masahige
    Yoshi Oida: Ichizo
    Nana Komatsu: Monica (Haru)
    Ryo Kase: Juan (Chokichi)
    Yasunari Takeshima: Haku
    Tetsuya Igawa: gesuita
    Béla Baptiste: Dieter Albrecht
Doppiatori italiani:   
    Davide Perino: Padre Sebastião Rodrigues
    Gianfranco Miranda: Padre Francisco Garupe
    Alessandro Rossi: Padre Cristóvão Ferreira
    Niseem Onorato: interprete
    Stefano De Sando: Padre Alessandro Valignano
    Taiyo Yamanouchi: Mokichi
    Simone D'Andrea: Kichijiro
    Oliviero Dinelli: Inoue Masahige
    Hal Yamanouchi: Ichizo
    Jun Ichikawa: Monica (Haru)
    Raffaele Carpentieri: Haku
    Massimiliano Manfredi: gesuita
    Alessandro Budroni: Dieter Albrecht

Trama:

Il film inizia con un prologo che mostra il missionario Cristóvão Ferreira deportato assieme a un gran numero di convertiti in una valle piena di sorgenti termali, la cui acqua bollente e caustica è usata come strumento di tortura. Egli è impotente di fronte alle autorità giapponesi, impossibilitato a fornire qualsiasi assistenza ai convertiti. Qualche anno dopo, a Macao, il gesuita italiano Alessandro Valignano riceve una notizia ferale: sottoposto a torture raccapriccianti, Padre Cristóvão Ferreira ha abiurato. I giovani gesuiti portoghesi Sebastião Rodrigues e Francisco Garupe non vogliono crederci e decidono di partire per il Giappone alla ricerca del loro padre spirituale. In una taverna trovano un giapponese, il pescatore alcolizzato Kichijiro, che su compenso accetta di guidarli nell'arcipelago. Arrivati di notte nel villaggio costiero di Tomogi, i due preti sono sorpresi di trovare una comunità di miseri pescatori di fede cristiana che vivono nel terrore, nascosti come topi per sfuggire ai persecutori. Presto i due preti rimangono sconvolti nel vedere che un anziano samurai, conosciuto come "Inquisitore" dai villici, ne cattura alcuni e li fa crocifiggere su una scogliera, in modo che finiscano soffocati dall'alta marea. I martiri affrontano la morte cantando, e quando sono morti, i loro corpi vengono cremati per impedire che i loro resti ricevano esequie cristiane e diventino oggetti di culto. A questo punto Garupe e Rodrigues, credendo che sia stata la loro presenza a sppingere lo Shogunato a terrorizzare le genti di Tomogi, decidono di separarsi. Garupe si reca nell'isola di Hirado (nota ancor oggi per la presenza di albini dai capelli rossi), mentre Rodrigues si reca nell'isola di Goto, dove Ferreira è stato visto per l'ultima volta prima di apostatare. Quando Rodrigues giunge a destinazione, scopre che il villaggio di Goto è stato distrutto. Dopo varie peripezie, il prete viene tradito da Kichijiro, imprigionato e condotto a Nagasaki. Si ritrova in cella con altri convertiti e viene condotto davanti all'Inquisitore, il terribile e potentissimo Inoue Masashige, con cui ha un lungo dialogo. La sua sola possibilità è abiurare la sua fede calpestando una lastra di bronzo con l'immagine di un crocefisso, detta fumi-e in giapponese. Viene sottoposto a crudeli pressioni ed è costretto a vedere il suo compagno Garupe mentre viene affogato, senza poter fare nulla per aiutarlo. Kichijiro, avvezzo al tradimento come all'ubriachezza e al gioco d'azzardo, viene catturato e presto rilasciato dopo aver calpestato senza troppi problemi la fumi-e. La resistenza di Rodrigues è spezzata quando gli vengono mostrati alcuni cristiani che soffocano negli escrementi, appesi a testa in giù. L'Inquisitore gli spiega che essi hanno già rinnegato Cristo più e più volte, e che soltanto la sua apostasia li salverebbe da morte atroce quanto certa. A questo punto il gesuita sente la voce di Cristo che gli dice di cedere, di calpestare l'immagine. "Calpesta pure! È per essere calpestato da voi che sono venuto in questo mondo, è per condividere i vostri dolori che mi sono caricato della croce". Rodrigues viene condotto da Ferreira, che ha cambiato nome e ora si chiama Sawana Chūan. L'ex padre spirituale lavora in un tempio e compone confutazioni della dottrina cattolica. Prende con sé quello che fu il suo allievo e gli spiega l'arcano. Gli dimostra la futilità di ogni tentativo di cristianizzare il Giappone. Passano molti anni. Rodrigues ha sposato la vedova di un samurai, ereditando il nome del defunto, Okada San'emon. Assieme a Ferreira è incaricato di riconoscere gli oggetti cristiani: quelli che mostrano disegni a forma di croce o altre peculiarità usate dai fedeli per testimoniare in modo criptico la loro religione. Alla fine, quando l'ex gesuita muore, viene cremato. Proprio alla fine, prima che il suo corpo sia divorato dalle fiamme, si vede che in una mano tiene un minuscolo crocefisso, proprio quello che gli era stato donato quando era stato accolto a Tomogi.

Recensione: 

Questo film, che considero un capolavoro, è basato su Silenzio (沈黙 Chinmoku), un romanzo dello scrittore giapponese Shūsaku Endō, pubblicato nel 1966. Il tema su cui è incentrata la narrazione è quello di un Dio silenzioso, che non risponde alle invocazioni del credente nelle avversità, pur accompagnandoli. Endō fu influenzato in questo dalle sue dolorose esperienze di discriminazione religiosa in Giappone, di razzismo subìto in Francia e di consunzione causata dalla tubercolosi. Il regista, che pure ha ammesso qualche difficoltà nel rendere i temi spirituali più profondi del romanzo dello scrittore giapponese, riesce a rappresentare bene un Cristo che si annulla per amore degli esseri umani, delle loro debolezze e della loro natura fragilissima. Anche per amore di Giuda e di Kichijiro, pronto a tradire infinite volte e a chiedere con somma sfacciataggine l'assoluzione. Contenuti che di certo stridono con l'arroganza che la Chiesa Romana ha dimostrato nel corso dei secoli dovunque ha avuto il potere.  

Incomunicabilità 

Le difficoltà che le genti del Giappone hanno sempre avuto nel comprendere la natura del Cristianesimo sono ben spiegate da Ferreira a Rodrigues. All'inizio i missionari utilizzarono il termine dainichi per tradurre "Dio", perché pensavano che la parola nipponica esprimesse tale concetto. Il punto è che si sono inganati, in quanto i Giapponesi non comprendevano l'esistenza di un'entità corrispondente a Dio. Il nome dainichi indicava soltanto una personificazione del sole, identificato con Buddha nel corso di un complesso processo di sincretismo. Così fu abbandonato e sostituito con Deusu, adattamento alla fonetica giapponese del latino Deus. Il problema è che per un giapponese il nome Deusu non ha significato alcuno, è soltanto un'etichetta straniera applicata a un contenitore vuoto, come sarebbe per noi il nome Xenu. All'inizio i due gesuiti si illudono di vivere in una comunità paleocristiana dei tempi di Nerone, ma presto si rendono conto che in tutto questo c'è qualcosa di strano. Il loro mondo di illusioni comincia a incrinarsi quando una giovane sposa sostiene di essere in "paraiso", e padre Garupe smentisce seccamente. Il termine "paraiso" non era inteso come una fumosa destinazione ultraterrena, ma come uno stato di estasi puramente terrena provata durante la celebrazione della messa, in presenza del prete, che era considerato un essere soprannaturale.

Cristo, il Buddha dell'Occidente

Il buddhista Zen Sessō Sōsai nella sua opera Taji jasu ron "Repressione della fede nociva" (1648), argomenta che Cristo sarebbe stato un eretico occidentale che operò una sistematica sostituzione lessicale, cambiando Brahma in Deusu; i devas del Cielo di Brahma in anjos (angeli); il Palazzo Celeste (tentō) in Paraiso; il Regno degli Umani (nindō) in Purgatorio; l'Inferno (jigoku) in Inferno; l'unzione (kanjō) in Bautismo; la contrizione (sange) in Confissão; le Dieci Buone Leggi (jūzenkai) nei dieci Mandamentos; le monache (bikuni) in virgem; il bastone del prete (shakujō) in excomungado; il cibo originale (jihi-rintō) in maçã (mela); i grani del rosario buddhista (juzu) in contas. Certo, Sōssai doveva essere molto ingenuo per pensare che Cristo parlasse portoghese; tuttavia, per paradosso, proprio le argomentazioni del monaco anti-kirishitan dimostrano quanto fosse facile per un giapponese dotto assimilare il Cristianesimo al Buddhismo. Quando i missionari sbarcarono nell'arcipelago, la loro religione fu subito considerata una setta buddhista occidentale. Prima che si sviluppasse una feroce reazione alla fede straniera, in Giappone era normale pensare che Cristo fosse semplicemente un Buddha vissuto in terre sconosciute e remote. 

Non è nutella! 

L'unico difetto da me trovato in questo splendido film è relativo alla tortura spaventosa chiamata ana-tsurushi. Non è infatti mostrato chiaramente in cosa consisteva. Le cavità in cui i cristiani venivano messi ad agonizzare erano profonde, ma Scorsese le dipinge come superficiali, appena in grado di contenere la testa. La cosa più importante, tuttavia, è che non si mostra bene il contenuto di tali fosse, che rendeva quella tortura così temuta. In una scena del film si intravede per pochi istanti una sostanza marrone, insolitamente uniforme, cremosa e mantecata, tanto da sembrare golosa nutella. No, ragazzi miei, quella cosa non era nutella: era merda! Nonostante Scorsese si sia adoperato per evitare agli spettatori la scabrosa vista di una massa di sterco e di altre immondizie, ricordo ancora cosa accadde quando vidi il film al cinema: un'anziana signora brianzola rimase comunque inorridita, perché comprese che lì dentro c'erano le feci.

Un'assurda accusa da parte di Ferrara

Cercando recensioni nel Web, appena visto il film, mi sono subito reso conto che Giuliano Ferrara era sul piede di guerra. Sul suo quotidiano online, che evito come la peste, esprimeva opinioni confuse e rabbiose, affermando che nel film i preti avrebbero seguito "logiche mondane". Non ho potuto approfondire la cosa, essendo la piena lettura del quotidiano disponibile solo a pagamento e non avendo la benché minima intenzione di dare a un tale personaggio nemmeno il fantasma di un centesimo forato. Evidentemente la causa di tutto ciò è molto semplice: né Ferrara né i cattolici-belva hanno la benché minima idea di cosa significhi subire una persecuzione feroce. Essi sono forse convinti, credo per un'intossicazione ideologica, che un ecclesiastico non possa in alcun modo rinunciare alla propria fede cattolica. Beh, che dire? Possono strepitare quanto vogliono, ma l'abiura di Ferreira è realtà storica, non opinione. I preti perduti sono realtà storica: la figura di Rodrigues è ispirata al missionario siciliano Giuseppe Chiara. Come è realtà storica l'efficacia dell'opera dei Tokugawa nell'eradicazione della Chiesa Romana dal Giappone.

Il film di Scorsese è un remake

L'opera di Endō era già stata trasposta in pellicola nel lontano 1971. Guardando questo film, a quanto pare disponibile soltanto nell'edizione originale, si ha come l'impressione di vedere una copia "diminuita" e "contratta" del remake del 2016. Tuttavia si nota che molte riprese e ambientazioni devono essere state usate proprio da Scorsese come fonte di ispirazione.


SILENCE (1971)

Titolo originale: Chinmoku (沈黙)
Anno: 1971
Paese: Giappone
Lingua: Giapponese, inglese(1), latino(2)  
Sottotitoli: Giapponese
Regia: Masahiro Shinoda
Soggetto: Sh
ūsaku Endō
Durata: 129 min
Musica: Tōru Takemitsu
Fotografia: Kazuo Miyagawa
Distribuzione: Toho
Interpreti e personaggi:    
    David Lampson: Padre Rodrigues
    Don Kenny: Padre Garrpe(3)
    Tetsuro: Tamba
    Shima Iwashita

(1) Sono in inglese (sottotitolati in giapponese) i dialoghi di Padre Rodrigo con Padre Garrpe, che a rigor di logica avrebbero dovuto essere in portoghese.
(2) Le formule in latino hanno una pronuncia che ricorda quella accademia inglese.
(3) Anche nel romanzo di End
ō si ha Garrpe, che poi Scorsese ha saggiamente mutato in Garupe. La forma Garrpe viola la fonotattica della lingua portoghese ed è possibile che alla sua origine ci sia un refuso ormai non identificabile, che Endō avrebbe propagato.

martedì 24 ottobre 2017


IL SETTIMO SIGILLO

Titolo originale: Det sjunde inseglet
Lingua originale: Svedese
Paese di produzione: Svezia
Anno: 1957
Durata: 96 min
Dati tecnici: B/N
Rapporto: 1,37 : 1
Genere: surreale, epico, drammatico
Regia: Ingmar Bergman
Soggetto: Ingmar Bergman (dal suo dramma Pittura
   su legno
)
Sceneggiatura: Ingmar Bergman
Produttore: Allan Ekelund
Casa di produzione: Svensk Filmindustri (SF)
Fotografia: Gunnar Fischer
Montaggio: Lennart Wallén
Musiche: Erik Nordgren
Scenografia: P.A. Lundgren
Costumi: Manne Lindholm
Trucco: Nils Nittel
Interpreti e personaggi   
    Max von Sydow: Antonius Block, il cavaliere
    Gunnar Björnstrand: Jöns, lo scudiero
    Bengt Ekerot: la Morte
    Nils Poppe: Jof
    Bibi Andersson: Mia
    Inga Gill: Lisa
    Maud Hansson: strega
    Inga Landgré: Karin Block
    Gunnel Lindblom: giovane che segue lo scudiero
    Bertil Anderberg: Raval
    Anders Ek: monaco
    Åke Fridell: Plog, il fabbro
    Gunnar Olsson: Albertus Pictor
    Erik Strandmark: Jonas Skat
Doppiatori italiani   
    Emilio Cigoli: Antonius Block, il cavaliere
    Pino Locchi: Jöns, lo scudiero
    Bruno Persa: la Morte
    Gianfranco Bellini: Jof
    Maria Pia Di Meo: Mia
    Vittoria Febbi: strega
    Lydia Simoneschi: Karin Block
    Renato Turi: Raval
    Ferruccio Amendola: il monaco
    Giorgio Capecchi: Plog, il fabbro
    Manlio Busoni: Jonas Skat
    Gualtiero De Angelis: predicatore
Titoli internazionali:  
  Germania: Das siebente Siegel
  Francia: Le septième sceau
  Regno Unito, USA, Australia: The Seventh Seal
  Danimarca: Det syvende segl
  Finlandia: Seitsemäs sinetti
  Grecia:
I evdomi sfragida
  Spagna, Messico: El séptimo sello
  Portogallo, Brasile: O Sétimo Selo 
  Polonia: Siódma pieczęć

Premi:    
   1) Festival di Cannes 1957: Premio Speciale della Giuria (ex aequo con I dannati di Varsavia di Andrzej Wajda)
    2) Seminci 1960: Lábaro de oro
    3) Nastro d'Argento 1961: regista del miglior film straniero
   4) Cinema Writers Circle Awards 1962 (Spagna): migliore film straniero
    5) Fotogramas de Plata 1962 (Spagna): migliore attore straniero (Max von Sydow)

Trama:

Danimarca, XIV secolo. Un'epoca calamitosa. La peste infuria, mietendo innumerevoli vite, tanto che le genti pensano che sia giunta la Fine dei Tempi. Alcuni si abbandonano ai bagordi, sperando di poter godere dei frutti della vita anche soltanto un gorno in più, mentre altri si uniscono ai Flagellanti e si sottopongono a pratiche di mortificazione cruenta nella speranza di ottenere la Salvezza. In questo desolante scenario, fa il suo ritorno dalla Terra Santa il cavaliere crociato Antonius Block, sempre accompagnato dal suo fedele scudiero Jöns. Subito si accorge di una figura che lo segue. Senza tanti preamboli, questo compagno di viaggio si presenta al Cavaliere: è la Morte, che è venuta a prenderlo. Antonius Block cerca di giocare d'astuzia per prendere tempo, così sfida la Morte a una partita a scacchi. La Morte acconsente. L'incontro di scacchi avviene in modo discontinuo, a più riprese, man mano che la narrazione si sviluppa. Nel corso del loro vagabondare per la Danimarca, in direzione di Elsinore (Helsingør), il Cavaliere e il suo fido scudiero si imbatteranno in numerosi personaggi stravaganti. Tra questi spiccano l'attore Jof e sua moglie Mia, che vivono nel loro carrozzone in condizioni di povertà estrema col loro figlioletto Mikael. Proprio questa fragile famigliola, che sembra estranea al mondo in rovina che la circonda, restituirà ad Antonius la speranza e forse anche un barlume di fede: egli intratterrà la Morte nella partita il tempo sufficiente per permettere ai saltimbanchi di allontanarsi e di sfuggire alla predazione. Quindi, raggiunto il suo castello avito, ritroverà la moglie e insieme ai suoi compagni si abbandonerà al destino incombente senza opporre resistenza.       

Recensione: 

Questo vibrante e immortale capolavoro apocalittico è la trasposizione in pellicola della pièce teatrale Trämålning, ossia Pittura su legno, dello stesso Bergman (1955). Il regista svedese ebbe l'ispirazone di trasformare in pellicola il dramma mentre ascoltava i Carmina Burana di Carl Orff. Il produttore, Allan Ekelund, sulle prime non volle saperne, forse perché pensava che il film sarebbe stato un clamoroso fiasco. Si mostrò più accomodante solo quando Sorrisi di una notte d'estate trionfò a Cannes. Pensate un po' che sarebbe successo se Ekelund avesse insistito con la sua ostilità al progetto e se Bergman non fosse riuscito a reperire le risorse necessarie: il genere umano avrebbe perso per sempre qualcosa di unico! 


Il Cavaliere rappresenta il tipico modello di uomo del Medioevo, scisso e conteso tra Bene e Male. Tuttavia in lui si è fatto strada qualcosa di completamente nuovo: il dubbio. Come un tarlo, questo dubbio esistenziale mina l'intero edificio cosmologico del personaggio, minacciando di provocarne il crollo. Egli ha visto tali e tanti orrori durante la crociata e l'imperversare della peste, da non avere più la granitica certezza dell'esistenza di Dio. Cerca in ogni modo di salvare la propria fede, perché se Dio non esistesse, tutto sarebbe un immenso vuoto senza senso alcuno. Tale è la sua disperazione che spera di ottenere lumi dalla Morte. Non riuscendo ad averne, si spinge anche più in là nella sua ricerca angosciosa. Quando una giovane strega sta per essere condotta al rogo dai soldati, il Cavaliere si avvicina con prudenza a lei e la interroga, chiedendole di poter parlare col Diavolo per chiedergli informazioni su Dio e sulla vita oltre la morte. Subito scoprirà che la donna è semplicemente folle e febbricitante, che nessuna delle parole da lei pronunciate ha alcun senso. Il Diavolo, che la strega afferma essere presente, rimane invisibile agli occhi del cavaliere. Il conflitto interiore di Antonius Block può essere visto come una metafora del XIV secolo, periodo cruciale in cui hanno cominciato a manifestarsi gravi inquietudini spirituali, la cui conseguenza è stata una prima crepa nell'edificio della Cristianità.    


Lo Scudiero, a differenza del Cavaliere, è sostanzialmente un uomo moderno e pragmatico. Nichilista, materialista e ateo, non crede alla Weltanschauung dell'uomo medievale. Tutto ciò che ha visto lo ha indurito. Del resto, tutte le argomentazioni sulla religione sullo Spirito non avevano su di lui alcuna presa già prima della partenza per la Terra Santa. Non gli difetta un certo acume, dato che riesce a smascherare gli inganni dei religiosi. Così ritrova il teologo Raval che ha indotto il Cavaliere ad arruolarsi e a partecipare alla crociata: lo riconosce e lo vede trasformato in un volgare ladro dedito allo sciacallaggio. Incontra un pittore e lo trova intento a dipingere una danza macabra, così si mette a discutere con lui, esprimendo i suoi dubbi su tale opera, colpevole a sua detta di spingere ancor più la gente disperata tra le braccia dei preti. L'artista, nichilista come il suo interlocutore, fa notare di rimando che quel dipinto rappresenta la realtà delle cose e che ognuno è libero di trarne le conclusioni che vuole. Sempre arguto, Jöns fa notare a una donzella che potrebbe violentarla ma che l'atto lo stancherebbe troppo. Nessuna Asia Argento-Giovanna d'Arco in vista in Danimarca, quindi la libertà di battuta è sacrosanta.


La Morte non fornisce alcuna informazione. È un immane buco nero concettuale, che tutto inghiotte senza restituire nulla. Se Stephen Hawking teorizza la possibilità di fuga di qualche radiazione e di informazione da un buco nero nato dal collasso di una stella, allora dobbiamo pensare che la Morte antropomorfa incontrata dal cavaliere sia ancora più nera di un buco nero. Pirandello sosteneva l'impossibilità di penetrare i misteri della nostra condizione a partire dalla nostra visuale: "Non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte. Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscir da questo labirinto, il lume insomma deve venirci di là, dalla morte." Eppure quando la Morte sentenzia e dialoga col Cavaliere, non le sfugge alcuna affermazione che possa fare chiarezza. "Forse è così, forse non esiste", afferma parlando di Dio, come se non potesse definire altrimenti il problema, lasciando l'interlocutore annichilito ma capace di proferire una grande verità: "Allora la vita non è che un vuoto senza fine. Nessuno può vivere sapendo che dovrà morire un giorno come cadendo nel nulla, senza speranza." E ancora in un altro luogo del film essa afferma di non sapere alcunché: "Non mi serve sapere." La cosa ha una sua logica. Infatti alla Morte non serve conoscere. Essa arriva per ghermire la sua preda, non per discutere.

 

Il Guitto ha un'indole sognante ed è spesso colto da visioni allucinatorie, che tuttavia gli consentono talvolta di vedere cose che agli altri sfuggono. La moglie Mia lo schernisce, perché sa che egli ha l'abitudine di mentire e di parlare in modo iperbolico. Resta il fatto che non tutte le visioni del bizzarro saltimbanco sono del tutto vane. Se non possiamo credere che la Vergine Maria si sia davvero mostrata a lui nell'atto di incedere col Bambinello zampettante, verso la fine delle sequenze qualcosa cambia. Soltanto Jof è in grado di vedere la Morte che gioca a scacchi col Cavaliere, mentre gli altri credono che l'uomo conduca una partita solitaria. Il guitto, che riesce a percepire la presenza di Thanatos con gli occhi di carne, alla fine ne scorge la triste figura salire su un colle con il Cavaliere, lo Scudiero e tutti gli altri in fila, che procedono in una danza macabra verso la soglia da cui non c'è ritorno, verso l'annientamento. 


La partita a scacchi tra il Cavaliere e la Morte è stata ispirata a Ingmar Bergman da un affresco di Albertus Pictor nella chiesa di Täby. Senza dubbio è in assoluto uno dei motivi più potenti di tutta la storia del cinema. Moltissimi hanno ben presente le figure del Cavaliere e della Morte seduti davanti alla scacchiera, anche se poi non tutti hanno visto il film. In altre parole, queste immagini sono state scorporate dal loro contesto per diventare organismi memetici indipendenti e capaci di agire. Antonius Block crede fermamente di poter resistere alla Morte, di essere in grado, tramite l'intelletto, di ingannarla. Man mano che la battaglia procede, egli finisce logorato e commette piccoli errori che si accumulano, portando alla perdita della regina. Quando il mantello urta i pezzi, la Morte li dispone a modo suo con l'inganno e l'esito è segnato. La critica cattolica è avvezza a vedere nella fatidica partita la vittoria della fede su Thanatos, ma anche se così fosse si tratterebbe di una vittoria di Pirro. Sarebbe utile sapere cosa ne pensava lo stesso Bergman, che non era credente. Interessante la disamina di un wikipediano: "Nella analisi del film si legge che il cavaliere possiede la fede che però è oscurata al dubbio... Cosa sbagliata a mio avviso. Il film tratta della morte-silenzio di Dio, tematica molto legata al materialismo. Di questo sentimento si fa foriero Block e si può facilmente intuire come sia materialista, ancora più di quanto lo sia il suo scudiero, dalla scena, ad esempio in qui (sic) egli si confessa alla morte, chiedendo il perche (sic) appunto della non visibilità di Dio, volendo vederlo, conoscerlo a tutti i costi, poichè lo reputa una sostanza fisica da poter ipoteticamente uccidere. Invece lo scudiero, a mio avviso, rappresenta il raziocino (sic) puro, non contaminato da sentimenti di alcun tipo, cosa che può essere facilmente confondibile con il materialismo più rozzo." 


Anacronismi veri e presunti  

Alcuni sostengono che il Pittore fosse in realtà proprio Albertus Pictor, ma questo è impossibile: l'artista nacque intorno al 1440 a Immenhausen in Assia (Germania) e morì intorno al 1507 in Svezia - a quanto pare le date precise non si conoscono - quindi la sua vicenda terrena si svolse un secolo dopo i fatti narrati nel film. Questo errore è probabilmente dovuto anche al fatto che molti credono che Il settimo sigillo sia ambientato in Svezia, paese in cui Albertus Pictor fu attivo, mentre in realtà si svolge in Danimarca. La rappresentazione della danza macabra è documentata a partire dal XV secolo, ma essendo stata ispirata dalla Peste Nera del 1348 è ben possibile che sia più antica e che i primi dipinti di questo genere siano andati perduti. Non sono quindi sicuro che il tema sia anacronistico. I Flagellanti sono documentati in Danimarca già nel 1339 e non costituiscono un elemento incongruo. Numerose voci si sono levate per definire anacronismo la condanna al rogo della strega, ma questo non è di certo vero. Anche se la persecuzione sistematica delle streghe inizia nel XV secolo, è molto probabile che se ne dessero casi anche nei secoli precedenti, soprattutto in occasione di sciagure collettive. Non va dimenticato che la condanna al rogo delle streghe era già presente in epoca pagana. Nel mito finisce arsa viva Angrboða, lasciando tra le ceneri ardenti il cuore ancora palpitante, poi ingurgitato da Loki. Gli autori antichi ci tramandano che era costume tra i Celti ricercare le donne autrici di malefici e bruciarle vive. Il vero anacronismo, che a quanto vedo sembra sia sfuggito ai critici, è proprio la crociata. In concreto, a quale delle crociate si fa riferimento? Il film deve svolgersi intorno al 1350, perché in quel periodo la peste fece la sua comparsa in Danimarca, giungendo nel giro di poco tempo fino alla terra dei Lapponi. Quindi non si può trattare nemmeno della decima crociata (1271-1272). All'epoca in cui la grande epidemia di peste si diffuse in Europa, gli stati crociati di Oltremare erano da tempo estinti: San Giovanni d'Acri cadde nel 1291. Forse si allude alla cosiddetta crociata alessandrina del 1365? Inutile nascondere che gli eventi non collimano.       

Il settimo sigillo e il paganesimo

Non si deve dimenticare che le vicende narrate dal film si svolgono soltanto pochi secoli dopo l'affermazione della religione cristiana in Scandinavia. Di certo l'antico paganesimo non era così distante come potrebbe sembrare ai moderni. Ne è la prova l'importanza estrema dei portenti, chiamati rund in norreno (da non confondersi con l'omonima parola delle moderne lingue scandinave, rund "rotondo"). Turbamenti dell'ordine naturale sono descritti con forti accenti precristiani: 

«A Farjestad tutti parlavano di sinistri presagi e di altre orribili cose. Due cavalli si erano mangiati l'un l'altro di notte, e nel cimitero si erano scoperte le tombe, e i resti di cadaveri si erano sparsi dappertutto. Ieri pomeriggio sono stati visti quattro soli nel cielo.»

Sarebbe un errore credere che questo materiale abbia sic et simpliciter radici bibliche: all'Apocalisse si sovrappongono reminiscenze più antiche, incorporate nel complesso edificio della fede popolare. Pochi sanno che notevoli resti del paganesimo sono riusciti a perdurare in quelle terre settentrionali persino oltre la Riforma.

Citazioni: 

«Quando l'Agnello aperse il settimo sigillo, nel cielo si fece un silenzio di circa mezz'ora, e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio e furono loro date sette trombe.»
(Apocalisse 8,I)

«Questa è la mia mano, posso muoverla, e in essa pulsa il mio sangue. Il sole compie ancora il suo alto arco nel cielo. E io... io, Antonius Block, gioco a scacchi con la Morte.»
(Il Cavaliere)

«Voglio parlarti il più sinceramente possibile, ma il mio cuore è vuoto. Il vuoto è uno specchio che mi guarda. Vi vedo riflessa la mia immagine e provo disgusto e paura. Per la mia indifferenza verso il prossimo mi sono isolato dalla compagnia umana. Ora vivo in un mondo di fantasmi, rinchiuso nei miei sogni e nelle mie fantasie.»
(Il Cavaliere)

«Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse, e preghiere sussurrate, e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?»
(Il Cavaliere)

«Per dieci anni siamo stati laggiù lasciando che le serpi ci mordessero, le mosche ci divorassero, le fiere ci dilaniassero, gli infedeli ci accoppassero, il vino ci avvelenasse, le donne ci infettassero, le piaghe ci dissanguassero e tutto perché? Hah... per la gloria del Signore...»
(Lo Scudiero)

«In queste tenebre dove tu affermi di essere, dove noi presumibilmente siamo... in queste tenebre non troverai nessuno che ascolti le tue grida o si commuova della tua sofferenza. Asciuga le tue lacrime e specchiati nella tua stessa indifferenza...»
(Lo Scudiero)

«Scimmie tanto simili all'uomo da essere stupide quanto lui.»
(Lo Scudiero)

«In alto siede l'Onnipotente così lontano che è sempre assente, mentre il Diavolo suo fratello lo trovi anche al cancello.»
(Lo Scudiero)

«Mia! Li vedo, Mia! Li vedo! Laggiù contro quelle nuvole scure. Sono tutti assieme. Il fabbro e Lisa, il cavaliere e Raval e Jöns e Skat. E la morte austera li invita a danzare. Vuole che si tengano per mano e che danzino in una lunga fila. In testa a tutti è la morte, con la falce e la clessidra. E Skat è l'ultimo e ha la lira sotto il braccio. Danzano solenni, allontanandosi lentamente nel chiarore dell'alba, verso un altro mondo ignoto, mentre la pioggia lava e quieta i loro volti e terge le loro guance dal sale delle lacrime.»
(Il Guitto)

Dialogo tra lo Scudiero e il Pittore:
- Che cosa dipingi?
- La danza della morte.
- E quella è la morte?
- Sì, che prima o dopo danza con tutti.
- Che argomento triste hai scelto...
- Voglio ricordare alla gente che tutti quanti dobbiamo morire.
- Non servirà a rallegrarla...
- E chi ha detto che ho intenzione di rallegrare la gente? Che guardino e piangano.
- Aaah, invece di guardare chiuderanno gli occhi...
- E io ti dico che li apriranno... Un teschio, spesso interessa molto di più di una donna nuda.
- Se li spaventi però...
- ...Li fai pensare
- E se pensano...
- ...Si spaventano ancora di più.