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mercoledì 25 novembre 2020

 
SICARIO 
 
Titolo originale: Sicario
Lingua originale: Inglese, spagnolo
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 2015
Durata: 121 minuti
Rapporto: 2,39:1
Genere: Azione, thriller, drammatico
Regia: Denis Villeneuve
Soggetto: Taylor Sheridan
Sceneggiatura: Taylor Sheridan
Produttore: Basil Iwanyk, Thad Luckinbill, Trent Luckinbill,
       Molly Smith, Edward McDonnell
Produttore esecutivo: Ellen H. Schwartz, Erica Lee
Casa di produzione: Black Label Media, Thunder Road
       Pictures
Distribuzione in italiano: Lionsgate, 01 Distribution
Fotografia: Roger Deakins
Montaggio: Joe Walker
Musiche: Jóhann Jóhannsson
Fonico: William Sarokin
Costumi: Renée April
Scenografia: Patrice Vermette
Interpreti e personaggi:
    Emily Blunt: Kate Macer
    Benicio del Toro: Alejandro Gillick
    Josh Brolin: Matt Graver
    Victor Garber: Dave Jennings
    Jon Bernthal: Ted
    Jeffrey Donovan: Steve Forsing
    Raoul Trujillo: Rafael
    Maximiliano Hernández: Silvio
    Daniel Kaluuya: Reginald "Reggie" Wayne
    Julio Cesar Cedillo: Fausto Alarcón
    Hank Rogerson: Phil Coopers
    Bernardo Saracino: Manuel Diaz
    Edgar Arreola: Guillermo Diaz
    Kevin Wiggins: Burnett
    Jesus Nevarez-Castillo: Eliseo
    Dylan Kevin: Charlie (comandante Delta Force) 
    John Trejo: Agente Delta Force 
    Marty Lindsey: Ufficiale SWAT
    Vic Browder: Maresciallo Capo US
    Boots Southerland: Maresciallo US Keith
    Adam Taylor: Maresciallo US Kevin
    David Garver: Bob Fisks
    Lora Martinez-Cunningham: Jacinta
    Kim Larrichio: Moglie di Silvio
    Michael Sheets: Agente del Tesoro
    Julian Ortega: Figlio del boss Fausto Alarc
ón
    Ian Posada: Figlio del boss Fausto Alarc
ón
Doppiatori italiani:
    Francesca Manicone: Kate Macer
    Massimo Corvo: Alejandro
    Fabrizio Pucci: Matt Graver
    Luca Biagini: Dave Jennings
    Alessio Cigliano: Ted
    Giorgio Borghetti: Steve Forsing
    Gianni Giuliano: Rafael
    Alessandro Quarta: Silvio
    Andrea Mete: Reggie Wayne
    Francesco Prando: Fausto Alarcón
    Fabrizio Russotto: Phil Coopers
    Pino Insegno: Guillermo 
Budget: 30 milioni di dollari US
Box office: 84,9 milioni di dollari US 
Sequel: Soldado (), di Stefano Sollima

Trama: 
Chandler, Arizona. Kate Macer, una giovane agente dell'FBI, idealista e con poca cura dell'igiene intima, conduce una delicata operazione assieme al suo collega, il mandingo Reggie Wayne. L'obiettivo è Manuel Diaz, boss del Cartello di Sonora. Durante l'irruzione in una villetta intestata al criminale, per poco gli agenti non soffocano a causa dei pestilenziali lezzi cadaverici. La Macer scopre decine di cadaveri di uomini e donne, avvolti in sacchi di plastica e appesi come carcasse suine. È squassata dal vomito di fronte a quel piccolo genocidio. Proprio quando un agente sta per aprire un tombino, che permette di accedere a un sotterraneo stipato di centinaia di cadaveri, avviene una tremenda esplosione. Rimangono uccisi in due, dilaniati, trasformati in una pappa carnea sparsa dovunque. Terminata l'infelice operazione, la donna viene ricevuta dal suo capo, che la spinge ad accettare un gravoso incarico "volontario", facendola trasferire in una task force diretta dal rozzo Matt Graver e da un inquietante colombiano, Alejandro. Lei finisce con l'accettare, volendo ottenere vendetta. Il compito della squadra consiste infatti nel recarsi in Messico, a Ciudad Juárez, per estradare il fratello di Manuel Diaz, Guillermo. Tutto finisce in merda già fin dal primo momento. Kate si trova suo malgrado nel bel mezzo di una carneficina in cui vengono abbattuti numerosi sicari dei narcos; in più di un'occasione è testimone del modo di agire illegale dei suoi compagni di squadra. Alejandro non esita ad usare la tortura per estorcere informazioni da Guillermo Diaz, riuscendo ad apprendere l'esistenza di un tunnel usato per contrabbandare la droga negli Stati Uniti. Durante una serata tranquilla, il mandingo Reggie fa il paraninfo: porta la collega in uno squallido bar e le presenta un giovane agente di polizia locale, Ted, sperando così di favorire una relazione carnale. La scintilla scocca: la donna è attratta da Ted e gli si vuole concedere, ma la cosa non funziona, anzi finisce in una lotta disperata quando lei scopre che il poliziotto è in realtà un corrotto al soldo dei narcos. Alejandro la salva in extremis, proprio mentre sta per essere strangolata. Ted viene messo alla tortura e confessa tutto ciò che sa. Rivela i nomi di tutti gli agenti americani pagati da Diaz. C'è tutto il necessario per organizzare una nuova spedizione in Messico, percorrendo il cunicolo e giungendo nel cuore del regno dei narcos. La squadra si muove di notte usando visori a raggi infrarossi. Alejandro compie una carneficina: riesce a giungere fino alla dimora di Fausto Alarcón, al vertice del Cartello di Sonora, sorprendendolo con la moglie e i figli piccoli mentre stavano cenando. Prima ammazza la donna e i bambini, come se fossero insetti. Poi sopprime anche il boss, sparandogli nel cranio. Così si viene a sapere qualche antefatto sul misterioso personaggio: Alejandro aveva iniziato la sua carriera come assassino prezzolato del Cartello di Medellín, in Colombia. Poi era diventato procuratore in Messico; proprio Alarcón aveva fatto decapitare sua moglie e sciogliere sua figlia nell'acido. Ora la vendetta è compiuta. Kate Macer riceve una visita dal giustiziere e non regge alle sue rivelazioni. Il mondo non è un idilliaco giardino puffesco pervaso di valori e di sublimi ideali: è una massa di feci grasse e maleodoranti su cui ronzano nuvole di mosche, in mezzo all'acre fumo di olocausto. Gli incoscienti cittadini degli States si dimostrano essere la causa e il motore di questo orrido meccanismo: la loro incessante richiesta di droga alimenta il narcotraffico con annessi e connessi, mattanze in primis. L'unica possibilità è cercare di ridurre al minimo la complessità del problema, evitando la proliferazione dei Cartelli. Piena d'ira, la donna vorrebbe uccidere quello che è soltanto un sicario più intelligente e più dotato degli altri, ma non ci riesce. Troppo ligia alla morale e alla legge, non può concepire un simile rimedio all'orrore che la opprime. La narrazione si conclude con una partita di calcio tra ragazzi: all'improvviso si sentono rumori di mitra in lontanza, che annunciano l'avvento del dominio di Nyarlathotep, Caos Strisciante!   
 

Recensione: 
Questo è l'unico dei film di Villeneuve che mi abbia davvero esaltato. La prima volta che l'ho visto, la qualità del video era pessima e si notava una macchia nera il cui profilo sembrava quello di un grosso cranio bantoide, proprio nell'angolo in basso a sinistra: evidentemente si trattava della registrazione di uno schermo fatta con una telecamera rudimentale. La seconda volta che ho visionato le sequenze la qualità del video era perfetta e mi sono goduto appieno lo spettacolo. I personaggi sono come ombre che si muovono in un universo scuro, caliginoso, lugubre, truculento, soffocante, in cui ogni movimento comporta rischio di una morte atroce. Sempre palpabile è il senso di Morte Termodinamica. Il Cosmo in sfacelo è la sola realtà. Quello che emerge istante dopo istante è l'assoluta mancanza di un qualsiasi senso, anche abbozzato.   
 
Sesso smerdante! 
 
La protagonista attraversa una fase piuttosto difficile della sua esistenza. A un certo punto incontra Ted, un poliziotto brillante, provando presto un'insana passione per lui. Come accade spesso in America, i due finiscono subito a letto, senza tanti preamboli. Si baciano, poi gli eventi prendono una piega grottesca. Lui cerca di metterle la testa tra le gambe e di leccarle la vulva. Lei si vergogna da morire perché da un po' non ha curato molto l'igiene (come le aveva fatto notare il suo collega mandingo). Le puzza ed è piena di smegma. Non vuole che il grossolano amante senta il tanfo di formaggio e che resti schifato, così lo spinge via. Mentre la donna cerca di divincolarsi scalciando all'impazzata, nota che il poliziotto ha un bracciale variopinto che dimostra la sua connessione con il Cartello di Sonora. Questo dettaglio fortuito fa sorgere in lei una ribellione violenta. A volte anche un mancato bidet può salvare la vita: se il sesso non fosse stato smerdante, le cose sarebbero andate ben diversamente!  
 

Penetrazione auricolare!

Il poliziotto corrotto viene catturato e messo alla tortura. Lo gonfiano di pugni, fino a ridurlo a un cencio sanguinolento. Il truce Alejandro gli infila un dito in un orecchio, scavando in mezzo al cerume fino a raggiungere il timpano e a grattarlo. Ancora una lieve pressione ed ecco che la fragile membrana si lacera! Le urla sono atroci. Le implicazioni sessuali dell'accaduto sono annichilenti: l'agente non può più affermare di essere vergine nelle orecchie! Si converrà che non si vedono cose simili tutti i giorni. Questa trovata geniale compensa di certo le innumerevoli stronzate ideate dal regista canadese nel corso della sua carriera! Peccato che i fan villeneuviani non se ne siano nemmeno accorti.
 
Una distorsione percettiva  
 
Non so per quale ragione, ma mi ero convinto che il poliziotto protagonista della scena di sesso smerdante e poi torturato avesse il cranio pelato, liscio come quello del Tenente Kodak! Quando ho visionato il film una seconda volta, mi sono accorto che non era affatto così: il poliziotto corrotto, non solo non aveva nemmeno una vaghissima somiglianza con Teddy Savalas, ma era addirittura provvisto di una folta chioma nera. Come ho fatto a rimuovere alcuni particolari e a deformarne altri? Non so spiegarmelo! Evidentemente i ricordi che si accumulano nei banchi di memoria stagnante non sono statici e immutabili, non sono fatti acquisiti e messi sotto naftalina, come schedari di una biblioteca polverosa. Vivono di vita propria senza che me ne accorga, subiscono trasformazioni, si distorcono!  

 
I blogger macellati 
 
A Ciudad Juárez sono in vigore usanze a dir poco truculente. Ammazzano le donne per un nonnulla e le seppelliscono nella terra molle, senza nemmeno una bara, facendole marcire tra i vermi. Di questo i media hanno parlato a lungo, denunciando l'orrore di quel tristissimo recesso dell'Inferno. Hanno parlato molto meno del destino riservato ai blogger in Messico. Proprio così: da quelle parti macellano i blogger!  Villeneuve ce ne mostra alcuni appesi a un viadotto autostradale. I corpi nudi sono dilaniati, tagliati come quarti di bue, spesso privati delle braccia. Anche se il regista non lo dice in modo esplicito, non ho alcun dubbio: quelli che si vedono penzolare sono cadaveri di blogger! Numerose esecuzioni sono avvenute a Monterrey e altrove: i corpi dei blogger impiccati sono stati mostrati nel Web e tuttora si riescono a trovare foto delle mattanze senza troppe difficoltà. Perché proprio i blogger vengono macellati? Non bisogna faticare troppo per trovare una risposta a un simile interrogativo. Nella terra che ha dato i natali a personalità come Emiliano Zapata e Benito Juárez, i blogger sono convinti di poter migliorare il mondo attraverso opere di denuncia sociale. Ovviamente ai narcos non va molto giù che si diffondano notizie sul genocidio in atto da anni in Messico, con bilanci peggiori di quelli di una guerra. Non va loro a genio nemmeno che qualcuno pretenda di vivere in un mondo in cui regna la Pace, cosa che arrecherebbe non pochi danni a chi guadagna dalla morte altrui. Quindi questi blogger vengono perseguitati e abbattuti. La realtà, non compresa dagli stessi blogger, è che Huitzilopochtli è un essere reale che abita nel sottosuolo del Messico e chiede un tributo di sangue umano! Oggi come ieri.

 
Entropia dilagante 
 
Villeneuve descrive con toni estremamente vividi una società terminale in preda alle metastasi di un cancro ormai inestirpabile. Le stesse forze dell'ordine sono aggredite da un flusso incessante di materiale genetico tumorale, tanto che gli agenti sono diventati nuclei di corruzione. Se ne può anche neutralizzare uno, con sistemi illegali, ma tanto altri dieci prenderanno il suo posto. Le difese immunitarie non mirano nemmeno più alla salute dell'organismo sociale, scopo questo che sarebbe soltanto un pio desiderio: si limitano a rimuovere qualche massa cancerosa qua e là, qualche tentacolo del parassita alieno che ha contaminato ogni cosa. Non c'è speranza alcuna. Ogni ideale umano viene ad essere ridotto a un puro e semplice flatus vocis. La specie Homo sapiens si mostra in tutta la sua desolazione, in tutta la sua demente nudità, al culmine di un processo di degenerazione millenaria! Non esiste rimedio alcuno, a parte un conflitto termonucleare globale che cancelli ogni traccia di biologia dal coprolito chiamato Terra. Qualsiasi sforzo di risanamento in un dato luogo si traduce per necessità fisica in un aumento del disordine in regioni più vaste. Per produrre risultati limitati è necessario spendere risorse che non ci sono, arrecando danni ancora maggiori. La Termodinamica è ineluttabile come un carnefice!        
 

Curiosità e inconsistenze 

L'odioso Matt menziona la città di Sasabe, lungo la frontiera tra Arizona e Messico, affermando che si trova ad est di Nogales. In realtà è a ovest di Nogales. Il toponimo Sasabe deriva dalla lingua O'odham (Papago), appartenente alla famigia Uto-Azteca, e significa "fondovalle". Ovviamente non è spagnolo. 
 
Nella scena dell'attraversamento della frontiera, quando Alejandro sta cercando di disinnescare la situazione pericolosa, dice "compas" ai gangster. Questa parola è stato mostrata erroneamente nei sottotitoli come "con paz", ossia "con pace". Nel Messico settentrionale, come in altre parti dell'America Latina, compas è un'abbreviazione di compadres "compagni", ed è un'espressione che sarebbe con maggior probabilità usata per cercare calmare i manigoldi.  

Nelle scene di traffico ambientate a Ciudad Juárez si notano taxi gialli e rossi. Ci sono anche piccoli autobus grigiastri e verdi denominati "Peseros". In realtà questi veicoli non circolano a Ciudad Juárez, sono invece tipici di Città del Messico. 

Nel film ci sono numerose incoerenze in materia legale. Ad esempio, dopo gli arresti in banca si afferma che gli autori hanno effettuato depositi di $ 9.000 ogni giorno per evitare le segnalazioni del governo. Tuttavia, i dipendenti delle banche negli Stati Uniti sono addestrati a segnalare depositi di contanti sospetti. Depositare $ 9.000 al giorno ogni giorno per anni sarebbe sicuramente considerato sospetto (tecnicamente parlando è un illecito chiamato "structuring"). Molti altri dettagli errati riguardano il modus operandi dell'FBI e della CIA, le loro limitazioni materiali dovute a cavilli complessi, difficilmente traducibili in un linguaggio comprensibile.
 
Quando Alejandro sta parlando con il suo amico e collega alla stazione, il sottotitolo in inglese mostra Monterey. La città nello stato di Nuevo León, in Messico, è Monterrey, con una consonante rotica forte -rr-. È proprio il luogo dove sono stati impiccati numerosi blogger. 
 
Premi e riconoscimenti: 

 2016 - Premio Oscar
     Candidatura per la Migliore fotografia a Roger Deakins
     Candidatura per la Migliore colonna sonora a Jóhann Jóhannsson
     Candidatura per il Miglior montaggio sonoro a Alan Robert

        Murray
 2016 - Premio BAFTA
    Candidatura per il Miglior attore non protagonista a Benicio del 
        Toro
    Candidatura per il Miglior fotografia a Roger Deakins
    Candidatura per la Miglior colonna sonora a Jóhann Jóhannsson
 2016 - Critics' Choice Movie Awards
    Candidatura per il Miglior film
    Candidatura per la Migliore fotografia a Roger Deakins
    Candidatura per il Miglior film d'azione
    Candidatura per la Miglior attrice in un film d'azione a Emily Blunt
    Candidatura per la Miglior colonna sonora a Jóhann Jóhannsson
 2016 - Producers Guild of America Award
    Candidatura per il Miglior film
 2016 - Writers Guild of America Award
    Candidatura per la Miglior sceneggiatura originale a Taylor
        Sheridan
 2016 - Satellite Awards
    Miglior montaggio a Joe Walker
    Candidatura al Miglior film
    Candidatura al Miglior attore non protagonista a Benicio del Toro
    Candidatura alla Migliore fotografia a Roger Deakins
    Candidatura al Miglior suono 
  2015 - National Board of Review Award
    Migliori dieci film
    Spotlight Award
  2015 - Hollywood Film Award
    Miglior attore non protagonista a Benicio del Toro
 2015 - People's Choice Awards
    Candidatura Attrice film d'azione preferita a Emily Blunt
 2015 - Toronto International Film Festival
    Candidatura al People's Choice Awards
 2015 - Festival di Cannes
    Candidatura alla Palma d'oro
 2015 - Washington D.C. Area Film Critics Association Awards
    Miglior colonna sonora a Jóhann Jóhannsson
    Candidatura al Miglior film
    Candidatura alla Migliore fotografia a Roger Deakins
    Candidatura al Miglior montaggio a Joe Walker

domenica 5 aprile 2020

 
IL DIVO 
 
Titolo originale: Il Divo - La spettacolare vita di
     Giulio Andreotti
Paese: Italia/Francia 
Anno: 2008 

Durata: 110 min
 
Colore: colore 
Rapporto: 2,35 : 1
Audio: sonoro

Genere: biografico, drammatico

Regia: Paolo Sorrentino 

Sceneggiatura: Paolo Sorrentino

Produttore: Francesca Cima, Fabio Conversi,
     Maurizio Coppolecchia,
Nicola Giuliano, Andrea
     Occhipinti

Casa di produzione: Indigo Film, Lucky Red, Parco
     Film, Babe Film
(Francia)  
Distribuzione (Italia): Lucky Red 
Interpreti e personaggi:  
     Toni Servillo: Giulio Andreotti 
     Anna Bonaiuto: Livia Danese (moglie di
         Andreotti)
     Fanny Ardant: Moglie dell'ambasciatore francese 
     Giulio Bosetti: Eugenio Scalfari 
     Flavio Bucci: Franco Evangelisti 
     Carlo Buccirosso: Paolo Cirino Pomicino 
     Paolo Graziosi: Aldo Moro 
     Giorgio Colangeli: Salvo Lima 
     Alberto Cracco: Don Mario Canciani 
     Lorenzo Gioielli: Carmine Pecorelli 
     Gianfelice Imparato: Vincenzo Scotti 
     Massimo Popolizio: Vittorio Sbardella
     Achille Brugnini: Fiorenzo Angelini (cardinale)
     Aldo Ralli: Giuseppe Ciarrapico 
     Giovanni Vettorazzo: Roberto Scarpinato
        (magistrato)
     Simone Carella: Rino Formica
     Michele Chiadò: Giovanni Pellegrino
     Bruno Di Luia: Carlo Alberto Dalla Chiesa
     Valentina Rossi Stuart: Emanuela Setti Carraro
     Piera Degli Esposti: Signora Enea

     Enzo Rai: Totò Riina
     Natale Russo: Leonardo Messina
     Antonello Puglisi:  Vito Ciancimino
     Cristina Serafini: Caterina Stagno
     Marie Biondini: Diletta Petronio
     Antonio Sarasso: Francesco Di Carlo
     Alvaro Piccardi: Raul Gardini
     Mario Prosperi: Salvatore Pappalardo (vescovo di
         Palermo)
     Lorenzo Rapazzini Regis: Gianadelio Maletti
     Angelo Zito: Gian Carlo Caselli
     Giuseppe Pappada: Arnaldo Forlani
     Giuseppe Perri: Tano Badalamenti
     Paolo De Giorgio: Stefano Bontate
     Renato Di Pietro: Stefano Rodotà
     Nicola Giraudo: Gioacchino Natoli
     Victor Goubanov: Mikhail Gorbachev
     Pietro Biondi: Francesco Cossiga
     Domenico Centamore: Balduccio Di Maggio
     Claudio Bonis: Pippo Calò
     Orazio Alba: Gaspare Mutolo
     Dezio Bettini: Licio Gelli
     Gaetano Balistreri: Tommaso Buscetta
     Domenico Gennaro: Francesco Marino Mannoia
     Orlando Gerace: Nino Salvo
     Fernando Altieri: Oscar Luigi Scalfaro
 
Fotografia: Luca Bigazzi 
Montaggio: Cristiano Travaglioli 
Musiche: Teho Teardo 
Scenografia: Lino Fiorito  
Costumi: Daniela Ciancio 
Trucco: Vittorio Sodano 
 
 
ANDREOTTI E L'USO DEL POTERE 
 
Propongo in questa sede la visione di un brano tratto dal film in questione. Fratello Kopelev così lo ha commentato in Facebook: La terribile giustificazione di Andreotti all'uso del potere "Bisogna amare così tanto Dio per capire come sia necessario il male". 
 
Sì, tutto questo è terribile. Al di là del suo tormento, non vedo però nel personaggio una reale incoerenza o segni di contraddizione logica: infatti egli parla del Dio del Male, che è Signore di questo mondo. Siccome il benessere e lo sviluppo terreno non vengono dal Vero Dio, è naturale che chi voglia perseguirli si debba rivolgere a Satana. Quando si capisce che il Dio di cui Andreotti parla nel filmato è proprio il Principio Maligno, ciò che egli dice è del tutto logico e immediatamente comprensibile. 
 
E ancora: "La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene". Un bene che è tale soltanto in apparenza, perché i frutti dell'albero malvagio non possono né potranno essere mai buoni. Ciò che viene garantito in questo modo, del Bene ha così soltanto il nome, perché le genti delle nazioni tale lo reputano. Ecco la chiave di lettura: "Bisogna amare così tanto il Dio <di questo secolo> per capire come sia necessario il Male". La conseguenza è chiara, visto che il mondo che è il suo prodotto è in tutto e per tutto il Male. Si vede quindi che coloro che intendono detenere il potere non possono che trarre i loro intendimenti dalla sua sorgente sempiterna e increata. Per questo si chiamano Malvagi. Tutto ciò è mostruoso, inconfessabile e contraddittorio agli occhi dei cattolici, proprio perché reca scandalo alla loro fede nell'esistenza di un unico Principio. 
 
Di fronte all'opera dei Demoni bisogna essere fermi. Un Credente dei Buoni Uomini non deve perseguire né il benessere né lo sviluppo materiale, ma soltanto l'impegno nell'unica risposta possibile alla mostruosità del potere: astenersi dall'imprigionare nuove vite in questo orrore e predicare l'estinzione della Specie. Una risposta giusta e mai violenta.  
 
Molta gente si chiede tuttora perché i Buoni Uomini sono stati perseguitati con tanta ferocia dalla Chiesa di Roma e dalle potenze temporali a lei asservite. Non bisogna stupirsi più di tanto, anche se la risposta più esplicita non si trova nel luogo più ovvio - quale potrebbe essere un libro di storia - ma proprio nel film di Sorrentino. Risuonano inquietanti le parole dell'uomo che più di tutti sa come si sta al mondo: "Noi non possiamo consentire la fine del mondo nel nome di una cosa giusta, abbiamo un mandato noi, un mandato divino"... Lo stesso Innocenzo III deve aver pronunciato qualcosa di molto simile quando ha emanato il suo infame Decreto di Sterminio. 
 
(Il Volto Oscuro della Storia, 9 gennaio 2010)  
 
Trama e recensione: 
Inizi anni '90, Giulio Andreotti presenta il suo settimo governo. Una serie di morti insanguina l'Italia, e le vittime sono tutte personalità in qualche modo a lui connesse: il politico Aldo Moro, il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, il giornalista Mino Pecorelli, il magistrato Giovanni Falcone, i banchieri Roberto Calvi e Michele Sindona, l'avvocato Giorgio Ambrosoli. La narrazione prosegue con i caotici contrasti tra le correnti della Democrazia Cristiana: la fazione andreottiana briga per far eleggere il Divo alla presidenza della Repubblica. Questo piano ha tuttavia un esito fallimentare. Troppo pesanti i macigni che gravano sulla figura del callido leader politico, al punto da dimostrarsi inamovibili. Intanto prende corpo Tangentopoli, con la conseguente caduta della Prima Repubblica. Si arriva alla scottante questione dei rapporti tra Andreotti e Cosa Nostra, che lo porterà a subire un processo. L'esito, ancor più destabilizzante per la politica italiana è il seguente: i reati anteriori al 1980 sono accertati, ma estinti per prescrizione, mentre si ha assoluzione per i fatti successivi a tale anni. Assoluzione piena in un secondo processo, quello per l'omicidio di Pecorelli.   
 
Le battute al fulmicotone, annichilenti, mettono a nudo l'ontologia corrotta dell'Universo. Il regista ha trovato un modo geniale per far orientare lo spettatore nella vorticosa realtà politica, in mezzo a tutti quei malfattori: una didascalia in caratteri rossastri o di uno strano arancione, che illustra il nominativo e il ruolo di ogni personaggio alla sua prima comparsa in scena. Senza questo accorgimento, non sarebbe possibile capire quasi nulla della tumultuosa narrazione. La rappresentazione dei politici è realistica, ma al contempo presenta tratti grotteschi e satirici che rendono sopportabile la visione di una realtà tanto squallida. Se uno osserva bene la figura dell'Andreotti impersonato da Servillo, nota la stranezza delle orecchie, che presentano un angolo innaturale, a perpendicolo con le tempie, una caratteristica quasi vampiresca e certamente voluta. Ho trovato allucinante la figura di Cirino Pomicino che si esibisce in una danza scatenata, nel corso di una festa certamente poco consona all'ostentata morigeratezza dei dirigenti democristiani. L'attore che impersona Totà Riina è stato scelto davvero bene: gli occhi molto ravvicinati e la fisionomia massiccia del volto garantiscono una somiglianza quasi perfetta all'originale. Andreotti è mostrato senza infinigimenti come punciutu e omu d'unuri. Durante l'iniziazione mafiosa se ne esce con un poco virile "ahi!" quando l'ago gli penetra un polpastrello. Poi in una camminata rituale procede a fianco dei padrini imbracciando un fucile. Un elemento all'apparenza incongruo, innaturale, addirittura posticcio, ma che è in sostanza una visione apocalittica. 
 
Un breviario andreottiano 

"Livia, sono gli occhi tuoi pieni che mi hanno folgorato un pomeriggio andato al cimitero del Verano. Si passeggiava, io scelsi quel luogo singolare per chiederti in sposa – ti ricordi? Sì, lo so, ti ricordi. Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea. Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. A tutti i familiari delle vittime io dico: sì, confesso. Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. Lo stragismo per destabilizzare il Paese, provocare terrore, per isolare le parti politiche estreme e rafforzare i partiti di Centro come la Democrazia Cristiana l'hanno definita "Strategia della Tensione" – sarebbe più corretto dire "Strategia della Sopravvivenza". Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo, per vocazione o per necessità ma tutti irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa e lo so anch'io."  
(Giulio Andreotti) 
 
"Lei ha sei mesi di vita", mi disse l'ufficiale medico alla visita di leva. Anni dopo lo cercai, volevo fargli sapere che ero sopravvissuto, ma era morto lui. È andata sempre così: mi pronosticavano la fine, io sopravvivevo, sono morti loro. In compenso per tutta la vita ho combattuto contro atroci mal di testa. Ora sto provando questo rimedio cinese, ma ho provato di tutto. A suo tempo l'Optalidon non accese molte speranze. Ne spedii un flacone pure ad un giornalista, Mino Pecorelli. Anche lui è morto.
(Giulio Andreotti)

"Chi non vuol far sapere una cosa, in fondo non deve confessarla neanche a se stesso, perché non bisogna mai lasciare tracce."
(Giulio Andreotti) 

"Mi creda, io so cos'è la solitudine; non è una gran bella cosa. Per il mio ruolo, per la mia storia, avrò conosciuto nella mia vita approssimativamente 300.000 persone. Lei crede che questa folla oceanica mi abbia fatto sentire meno solo?"  
(Giulio Andreotti) 

"Guerre puniche a parte, mi hanno accusato di tutto quello che è successo in Italia. Nel corso degli anni mi hanno onorato di numerosi soprannomi: il Divo Giulio, la Prima-lettera-dell'-alfabeto, il Gobbo, la Volpe, il Moloch, la Salamandra, il Papa Nero, l'Eternità, l'Uomo-delle-tenebre, Belzebù. Ma non ho mai sporto querela, per un semplice motivo: possiedo il senso dell'umorismo. Un'altra cosa possiedo: un grande archivio, visto che non ho molta fantasia, e ogni volta che parlo di questo archivio chi deve tacere, come d'incanto, inizia a tacere."
(Giulio Andreotti) 

Don Mario: "Montanelli diceva: «De Gasperi e Andreotti andavano insieme a messa e tutti credevano che facessero la stessa cosa. Ma non era così. In chiesa De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il prete»."
Giulio Andreotti: "I preti votano, Dio no."  
 
Colonna sonora

Riporto la tracklist dell'album della colonna sonora (le tracce sono di Teho Teardo, quando non specificato):

1) Fissa lo sguardo
2) Sono ancora qui
3) I miei vecchi elettori
4) Toop Toop - dei Cassius
5) Che cosa ricordare di lei?
6) Un'altra battuta
7) Il cappotto che mi ha regalato Saddam
8) Notes for a New Religion
9) Gammelpop - di Barbara Morgenstern & Robert
     Lippok
10) Non ho vizi minori
11) Ho fatto un fioretto
12) Possiedo un grande archivio
13) Double Kiss
14) Nux Vomica - dei The Veils
15) Il prontuario dei farmaci
16) La corrente
17) 1. Allegro - da Il cardellino di Antonio Vivaldi
18) Pavane, Op.50 (1901) - di Gabriel Fauré
19) Da, da, da, ich lieb' Dich nicht, Du liebst mich
     nicht - dei Trio
20) E la chiamano estate - di Bruno Martino
21) Conceived (Michael Brauer Radio Mix) - di Beth
     Orton

Frammenti musicali incorporati nella colonna sonora: 

Pohjolan tytär (La figlia di Pohjola, op. 49) di Sibelius
Concerto per violino e orchestra (op. 47) di Sibelius
Sinfonia nº 2 (op. 43, detta "l'italiana") di Sibelius
Estratti dalla Danse macabre (op. 40) di Saint-Saëns.
I migliori anni della nostra vita di Renato Zero
La prima cosa bella (scritta da Mogol e Nicola Di Bari), cantata dai Ricchi e Poveri.
Un pezzo del proprio repertorio di batucada della scuola campana di samba G.R.E.S. Unidos do Batacoto. 

Premi e riconoscimenti 
 
Oscar - 2010
  Candidatura miglior trucco
Festival di Cannes - 2008
  Premio della Giuria
David di Donatello - 2009
  Premio miglior acconciatore
  Premio miglior colonna sonora a Teho Teardo
  Premio miglior truccatore
  Premio migliore attore protagonista a Toni Servillo
  Premio migliore attrice non protagonista a Piera
       Degli Esposti
  Premio migliore fotografia a Luca Bigazzi
  Premio migliori effetti speciali visivi
  Candidatura miglior costumista
  Candidatura miglior film
  Candidatura miglior fonico di presa diretta
  Candidatura miglior produttore a Andrea
       Occhipinti, Nicola Giuliano, Francesca Cima,
       Maurizio Coppolecchia
  Candidatura miglior regista a Paolo Sorrentino
  Candidatura miglior scenografo
  Candidatura migliore attore non protagonista a
       Carlo Buccirosso  
  Candidatura migliore montatore a Cristiano
      Travaglioli
  Candidatura migliore sceneggiatura a Paolo
      Sorrentino

lunedì 28 ottobre 2019


LO SPIONE 

Titolo originale: Le Doulos
Anno: 1962
Paese: Francia, Italia
Lingua originale: Francese
Durata: 109 min
Colore: Bianco e nero
Rapporto: 2,35 : 1
Genere: Noir, poliziesco
Regia: Jean-Pierre Melville
Soggetto: Pierre Lesou (romanzo)
Sceneggiatura: Jean-Pierre Melville
Produttore: Carlo Ponti, Georges de Beauregard
Direttore della produzione: Jean-Pierre Melville
Pubblicità della produzione: Bertrand Tavernier
Casa di produzione: Studio Canal, Rome-Paris-Films
Distribuzione in italiano: Cecchi Gori Home Video
Fotografia: Nicolas Hayer
Fotografo di scena: Raymond Voinquel
Montaggio: Monique Bonnot,
      con l'assistenza di Michèle Boëhm
Operatore: Henri Tiquet,
     con l'assistenza di André Dubreuil ed Etienne Rosenfeld
Musiche: Paul Misraki,
      con la collaborazione di Jacques Loussier (piano bar)
Direttore di orchestra: Jacques Météhen
Fonico: Julien Coutelier,
     con l'assistenza di Jean Gaudelet e Victor Revelli
Scenografia: Pierre Charron
Costumi: Daniel Guéret,
      con l'assistenza di Donald Cardwell
Gioielli: René Longuet
Interpreti e personaggi:
    Jean-Paul Belmondo: Silien
    Serge Reggiani: Maurice Faugel
    Jean Desailly: Commissario Clain
    René Lefèvre: Gilbert Varnove
    Marcel Cuvelier: Il primo ispettore
    Jacques Léonard: Il secondo ispettore
    Philippe March: Jean, l'amico di Faugel
    Monique Hennessy: Thérèse, la ragazza di Faugel
    Philippe Nahon: Rémy
    Fabienne Dali: Fabienne, la ragazza di Silien
    Christian Lude: Il medico
    Paulette Breil: La moglie di Jean
    Daniel Crohem: Ispettore Salignari
    Michel Piccoli: Lushenco, proprietario del Cotton Club
    Charles Bouillaud: Il barista del Cotton Club
    Robert Blome: Un barista
    Georges Sellier: Un barista
    Charles Bayard: Il vecchio guardiano della villetta
    Carl Studer: Kern, l'uomo conosciuto da Faugel in carcere
    Jacques De Leon: Armand, proprietario del Cotton Club
    Volker Schlöndorff: Un uomo nel bar
    Dominique Zardi: Un picciotto di Lushenco
Doppiatori italiani:
    Renato Cominetti: Silien
    Ubaldo Lay: Maurice Faugel
    Sergio Rossi: Commissario Clain
    Mirella Pace: Thérèse, la ragazza di Faugel
    Aldo Silvani: Il medico
    Marisa Fabbri: La moglie di Jean
Titoli tradotti:  
    Tedesco: Der Teufel mit der weißen Weste (lett. Il diavolo
          col gilet bianco)

    Spagnolo: El confidente
    Catalano: El confident
    Inglese: The Finger Man (titolo usato per l'uscita in sala;
         per le uscite in video e DVD fu mantenuto il titolo in 
         francese)
    Russo: Стукач
    Polacco: Szpicel
    Greco (moderno): Ο Χαφιές
Date di uscita:
    13 dicembre 1962 (Italia)
    8 febbraio 1963 (Francia)


Trama:
Siamo in una Parigi spettrale. Dopo quattro anni di carcere per rapina, Maurice Faugel torna in libertà. Si reca subito dal ricettatore Gilbert Varnove, un vecchio amico (se così si può dire) verso cui cova un odio feroce quanto segreto. Mentre Varnove sta valutando una gran quantità di gioielli, proventi di un colpo in una gioielleria, ecco che Faugel si impossessa della sua pistola e lo uccide. Aveva con lui un conto in sospeso. La cosa desta un certo sconcerto nello spettatore: non emerge mai alcun cenno di ostilità da parte di Varnove nei confronti del suo carnefice, anzi, si notano solo segni di generosità, come l'offerta di ospitalità e di un pasto a base di stufato. Nella vittima non c'è il benché minimo segno di consapevolezza di quanto sta per accadere. Faugel prende la pistola dell'esecuzione proprio dal cassetto indicatogli dall'uomo destinato a morire pochi istanti dopo, farcito di piombo. Ogni azione dell'assassino è dettata da una determinazione glaciale. Uscito dalla casa di Varnove prima che possano giungere visitatori importuni, il malvivente riesce a seppellire i gioielli e l'arma del delitto nei pressi di un lampione, quindi si allontana nella notte che sembra eterna. Giunto nella propria casa, dove convive con la bionda e sensuale Thérèse, Faugel riceve la visita di altri esponenti del microcosmo criminale. Prima giunge il suo vecchio e fidato amico Jean, poi l'ambiguo quanto elegante Silien. I tre parlano dei dettagli tecnici per una rapina in una villa isolata nel sobborgo di Neuilly, abitata soltanto da un vecchio custode e sede di un'ambita cassaforte. Appena uscito, Silien usa un telefono pubblico per contattare l'ispettore Salignari. Più tardi Faugel lascia l'appartamento per andare a compiere il colpo assieme all'amico Rémy. A questo punto Silien torna da Thérèse e la percuote selvaggiamente, la lega a un calorifero e infierisce su di lei, costringendola così a rivelargli l'indirizzo della villa ove è in atto la rapina. Mentre Faugel e Rémy sono alla villa di Neuilly, dove hanno preso in ostaggio il custode, i poliziotti piombano loro addosso: c'è stata una soffiata. Durante la precipitosa fuga Rémy viene colpito a morte da Salignari, che a sua volta è abbattuto sul colpo da Faugel con un proiettile nel cuore. Ferito a sua volta nello scontro a fuoco, Faugel riesce a far perdere le sue tracce, finendo privo di sensi in un vicolo buio. Quando si risveglia, scopre di essere in un letto: è a casa di un dottore fidato, da cui è stato portato dalla moglie di Jean in seguito a una telefonata. Il medico estrae la pallottola dalla spalla ferita e consiglia all'uomo di riposare, ma questi decide di andarsene non appena ha recuperato un po' le forze. Prima di uscire, il gangster disegna di suo pugno una mappa in cui mostra dove ha sepolto la refurtiva sottratta al defunto Varnove, quindi dà istruzioni alla donna di consegnare quella rozza opera d'arte a Jean e di non farla vedere a nessun altro. Un odio cieco e assoluto lo anima, pervadendo ogni fibra del suo essere. La sua misera e violenta esistenza ha adesso un unico fine: riuscire a trovare il traditore e ucciderlo. Naturalmente i suoi sospetti cadono su Silien. Nel frattempo il commissario Clain, succeduto a Salignari, torchia il bellimbusto, pressandolo affinché collabori nella cattura del fuggitivo Faugel, ormai sospettato di essere proprio l'assassimo di Varnove. Ciò che preme ai poliziotti è proprio recuperare la refurtiva. Data la sua astuzia, Silien trova il modo di non affondare nella melma. Subito si affanna a telefonare a un gran numero di squallidi bar dove il ricercato potrebbe trovarsi, riuscendo così a gettare fumo negli occhi ai poliziotti, che non brillano certo per acume. Fatto questo, piomba nel Cotton Club, il locale di Armand, dove incontra la sua fiamma, la bellissima Fabienne, che desidera ancora in modo lancinante. L'ostacolo che deve rimuovere non è di poco conto, dato che la donna è una puttana al servizio del gangster-pappone Lushenco, l'autore del colpo alla gioielleria il cui bottino, finito a Varnove, è stato poi sottratto e inumato da Faugel. Nel frattempo Faugel cade nelle mani degli agenti del commissario Clain e finisce rinchiuso in cella, dove conosce un energumeno di nome Kern, che gli promette aiuto contro il delatore. Silien escogita uno stratagemma degno di Odisseo. Dopo aver recuperato il tesoro sepolto accanto al lampione, si introduce nella casa di Lushenco e con la complicità di Fabienne lo attira lì. Quando il tristo figuro è giunto davanti a lui, prima gli mostra la refurtiva sul tavolo, poi lo fulmina con una pistolettata. Subito dopo arriva anche Armand, che in breve finisce stecchito allo stesso modo. Silien lascia la cassaforte aperta per far credere che i due si siano uccisi a vicenda nel corso di un regolamento di conti, ma porta con sé i gioielli. L'inganno va a buon fine, i poliziotti ci cascano e liberano Faugel, che è così stremato da essere facilmente circuibile. Silien lo incontra e gli racconta una bella fiaba. Gli fa credere che la bionda Thérèse fosse una spia infiltrata nel mondo malavitoso da Salignari e che era stata proprio lei ad informare l'ispettore della rapina alla villa a Neuilly. Stando al suo mendace resoconto, sarebbe stata lei la spia. Fatto sta che Jean ha tramortito la donna, caricandola di peso su un'auto spinta in una cava e fatta precipitare in una voragine. Con queste parole Silien convince appieno Faugel, a cui consegna l'intera refurtiva. Faugel, che ormai lo vede come un angelo, si sente in colpa e capisce che deve fermare Kern, il sicario dalle mani stritolatrici come macine, prima che sia troppo tardi. In una giornata cupa, piovosa e cenerognola, Faugel si reca nella casa lussuosa che Silien si è fatto costruire a Ponthierry. Kern, che è lì nascosto in agguato, lo scambia per lo spione e gli spara, infliggendogli una ferita mortale. Silien arriva e riesce a uccidere l'energumeno, ma viene a sua volta colpito da un proiettile nella schiena. Prima di spirare fa appena in tempo a raggiungere il telefono e ad avvisare Fabienne che non potrà raggiungerla per cena. La narrazione termina così, con l'eliminazione di tutti i protagonisti, mentre cade una pioggia battente che sembra non dovere avere mai fine.


Recensione: 
Questo film di una complessità sorprendente, capolavoro assoluto del noir, è un vero e proprio trattato di gangsterologia. Se storcete il naso di fronte al neologismo da me usato, sappiate che la gangsterologia è la scienza esatta che studia i malviventi noti come gangster, riducendo a leggi razionali e deterministiche il loro agire. Potrebbe anche essere considerata un ramo della criminologia e più in generale dell'antropologia, ma credo che una simile definizione sarebbe un po' riduttiva. Tale è l'intensità della pellicola, che quando l'ho vista per la prima volta mi è balenata l'idea di non avere davanti ai miei occhi un semplice bianco e nero. Siamo sicuri che si tratti di un'intuizione tanto folle? Si ha l'impressione nettissima che la vicenda gangsterolica intessuta da Melville, fosca e labirintica fino all'estremo, si svolga su un pianeta solo in apparenza simile alla nostra Terra, come se ne fosse un gemello infero. Il suo sole è grigio, non giallo come il nostro. Appartiene all'Erebo. L'astro mortifero irradia solo in parte fotoni luminosi, per il resto le sue emissioni sono composte da fotoni neri, particelle chiamate Feyaden nell'antica Lingua Nera di Gavalan. Come effetto di questa natura non interamente compatibile con la fisica convenzionale, il mondo melvilliano conosce una sola sorgente significativa di luce utile agli occhi umani: le lampade a incandescenza. Ne deriva un'atmosfera opprimente, fatta di disperazione assoluta e di morte ontologica. Il Nichilismo non è una semplice idea in quell'ambiente, è una vera e propria presenza materiale, densa e greve. Sotto il Cielo del Nulla le creature non sperimentano la vita come noi la conosciamo. La loro condizione può solo essere chiamata "Morte in Vita" o "Vita nella Morte". Tutto ciò che esiste è immerso nell'Etere dell'Abisso. Spira un vento occulto e demoniaco dalle sorgenti stesse del Non Essere, una corrente gelida che pervade ogni cosa e offende ogni organo di senso. Quella che il regista disegna nei minimi dettagli è una vera e propria Francia incubica. Come H. P. Lovecraft ha evocato un New England incubico infestato dalla presenza di abominazioni senza nome e dai Grandi Antichi, così Melville è il demiurgo di questa desolazione francese noir in cui la coscienza dei senzienti si disgregra, muore ogni istante in eterno. Già all'inizio della pellicola vediamo sequenze molto significative. Faugel percorre un lungo passaggio che costeggia una linea ferroviaria in una periferia degradata. Tutto è fatiscente. La ringhiera di ferro battuto del tunnel sembra infinita. Le travi bullonate del soffitto, fatte dello stesso scuro metallo, paiono resti di antiche architetture ciclopiche, messe in posa quando Cthulhu ancora si aggirava a R'lyeh. Ogni blocco di pietra che compone il muro è una tomba in cui l'anima si decompone senza poter mai raggiungere la pace dell'Estinzione. Intorno alla ferrovia si estende una sterile landa di pietrisco, in cui non cresce nemmeno un filo d'erba, dove non potrebbe allignare nemmeno una blatta. Quando Faugel scava a mani nude nel terriccio per seppellivi il tesoro e la pistola con cui ha freddato Varnove, sembra di avere davanti agli occhi la natura di ciò che è stato fatto senza il Verbo. I fiochi fotoni generati dal vicino lampione si perdono in una tenebra compatta che li divora. Non siamo di fronte a una banale assenza di luce, bensì a qualcosa di dotato di una propria essenza oscura e aggressiva. Tale è l'annichilimento nel contemplare questi paesaggi funesti che non possiamo credere all'esistenza di una sola particella di Bene e di Luce in quel deserto di orrore assoluto! Sì, siamo di fronte alla definizione stessa di Inferno.


Etimologia di doulos 

In francese gergale la parola doulos significa "cappello" (per l'esattezza indica il képi, tipico copricapo dei gendarmi), ma anche "informatore della polizia", "spione". Secondo alcuni lo slittamento semantico da "cappello" a "informatore, talpa" sarebbe derivato dal costume degli spioni di riconoscersi dall'indumento in questione. Formulata in questi termini, una simile spiegazione è fallace e abbastanza stupida: se esistesse un copricapo tipico dei delatori, questo li renderebbe riconoscibili all'istante, cosa che ovviamente tali elementi non vogliono affatto. La pronuncia del vocabolo è /du'los/: la -s finale non è muta. Si tratta di un termine dell'argot usato dai criminali e dai poliziotti, in cui le parole con un suffisso -os non sono rare.

La stessa Wikipedia in francese menziona Melville nella pagina dedicata al lemma (il grassetto è mio): 

Plus tard, ce sera un feutre, un doulos, comme on dit dans les films de Melville, et je le vois le repousser en arrière, presque sur sa nuque, quand il est à la synagogue, ou le rajuster en avant, sur ses yeux, quand il sort de la maison pour aller faire ses visites.
(Martin Winckler, Plumes d'Ange, 2003)

L'etimologia è in ultima analisi abbastanza incerta. C'è chi vuol far derivare questa parola dal greco δοῦλος (doulos), che però significa "servo, schiavo": lo slittamento semantico non sarebbe razionale e credibile, a meno che il senso di "informatore, spione" non sia quello originale. Si avrebbe pertanto un passaggio da "servo" a "individuo servile", quindi a "informatore della polizia". Il punto è che il senso originale della parola è quello di "cappello". Una simile proposta etimologica è pertanto da rigettare senza indugio, anche se in Francia gode di un certo plauso da parte degli studiosi (ad esempio, è riportata nel dizionario di Wikipedia come se fosse un dato di fatto). Sono più incline a ritenere che doulos sia un derivato di douil "piccola tinozza da vendemmia", a sua volta dal latino dōlium "giara, orcio, barile, fusto". Questa è la catena di slittamenti semantici più verosimile:

"tinozza" => "képi" => "amico di chi porta il képi" => "uomo che fraternizza con la polizia" => "informatore, spione".

Certo, sarebbe stato più semplice e naturale se dal significato di "képi" si fosse evoluto direttamente quello di "gendarme", ma non sempre la lessicologia gangsterologica segue percorsi lineari. Il colmo del paradosso è che nel mondo di Melville il képi non lo porta nessuno: i costumi, sia dei poliziotti che dei gangster, sono completamente americani, fin nel più insignificante dettaglio (solo per fare un esempio, si beve whisky anziché l'acquavite nazionale francese, il cognac).


Il diavolo dal gilet bianco

Il titolo in tedesco è davvero singolare: Der Teufel mit der weißen Weste, ossia "Il diavolo col gilet bianco". Una scelta simile secondo me non può essere casuale. Trovo anzi che sia densissima di significati. Non bisogna lasciarsi ingannare da Silien, che è un maestro dell'ipnotismo. Quando racconta a Faugel come gli eventi si sarebbero svolti, cercando di allontanare da sé ogni possibile sospetto di tradimento, in realtà mente in modo spudorato. L'ingenuo Faugel finisce incantato, intontito come una vipera satolla di latte e rallentata dai processi di digestione fino a non potersi muovere. Innanzitutto Faugel avrebbe dovuto rendersi conto, stante il rigido codice dei malviventi, che l'amicizia tra Silien e l'ispettore Salignari era qualcosa di altamente sospetto. Non si può tralasciare il fatto che Silien menziona spesso l'affetto che lo legava a Salignari, tanto da chiamarlo col vezzeggiativo Sali. Non ho ben capito se i due fossero amici d'infanzia. Non si può nemmeno scartare a priori l'idea che tra loro ci fossero rapporti carnali sodomitici. In ogni caso si capisce che Silien si è compromesso con le sue stesse parole. Già solo per questo, Faugel non avrebbe dovuto dargli ascolto. Non si tratta di un dettaglio di poco conto, visto che per le leggi che governano la gangsterologia, il solo sentimento che un malvivente può provare nei confronti di un poliziotto è l'odio. Un odio assoluto e fiero, che impedisce qualsiasi tipo di contatto. C'è anche un'altra questione che reputo importante: non dobbiamo dimenticarci che Silien tratta Thérèse con inaudita brutalità, massacrandola, e tutto questo scempio non certo per punirla in quanto spia messa lì dal carissimo amico Salignari. Assolutamente no! Silien riduce Thérèse a un cencio sanguinolento per estorcerle un'informazione cruciale e lo fa proprio perché questa informazione serve a Salignari, pronto a calare come un rapace - e con grande subitaneità - sulla villa dove stanno Faugel e il suo compare stanno iniziando ad armeggiare con la cassaforte. Il sadismo mostrato da Silien contro Thérèse è qualcosa di inaudito e di inesplicabile. E se l'avesse punita per aver osato mettersi tra lui e Salignari? Soltanto la relazione intrattenuta dall'elegantissimo gangster con Fabienne mi rende difficile pensare che a muoverlo sia un odio assoluto verso il genere femminile - a meno che non coltivasse Fabienne per mero opportunismo. Se fosse così, potremmo pensare che si trattasse di un omosessuale virile, violento e sadico nei confronti delle donne. Personalità simili un tempo dovevano essere frequenti, soprattutto in ambienti militari... e nei bassifondi, nelle carceri. Erano oggetto di odio e di paura, ma esistevano. Al giorno d'oggi non se ne può neppure parlare, perché altrimenti insorge la setta dei buonisti politically correct, con la sua ideologia che vorrebbe ridurre tutti gli uomini che compiono atti sodomitici a creature femminili in un corpo maschile. Può darsi che questa mia ipotesi sia cervellotica e vana. So che molti insorgeranno all'idea di Salignari intento a ciucciare l'uccello a Silien e ad accoglierlo tra le chiappe. Ragazzi, vi capisco. Le mie elucubrazioni potrebbero essere insensate e senza riscontri con ciò che Melville intendeva, lo ammetto. Forse nemmeno il regista aveva chiaro tutto questo. Forse si è limitato a evocare qualcosa. A questo punto non lo sapremo mai. Dubito che possa esserci di grande aiuto il romanzo che ha fornito il soggetto: di certe cose negli anni '3o non si poteva parlare, né tantomeno scrivere. Possiamo trarre soltanto una conclusione certa, al di là di ogni dubbio: il diavolo col gilet bianco è un individuo stravagante che non rivela i suoi segreti allo spettatore, è destinato a portarsi nella tomba la sua natura contraddittoria e magmatica.


La gangsterosfera: ecosistemi e gradienti

Come accennato, la gangsterologia si fonda su pochi princìpi, che tuttavia sono ferrei. Uno di questi consiste nel comminare la morte a chiunque violi il codice d'onore, feroce, tribale e non scritto. C'è un solo modo per evitare una simile spietata condanna, che si abbatte sui delatori e credo anche sui pederasti: essere tanto intelligenti da far sì che nessuno si accorga che il codice stesso è stato violato. Se un uomo compie un'azione definita infame, deve anche avere la capacità di nasconderne ogni traccia. Silien è un esperto conoscitore della natura altamente entropica dell'ambiente in cui si trova immerso e sa bene come aggirare qualsiasi minaccia alla propria incolumità. O almeno crede di saperlo: alla fine lo tradisce la sicumera. Sa bene che per trarre profitto da un'esistenza così precaria bisogna sapersi giostrare in un luogo turbolento che può comunque dare anche qualche vantaggio di non poco conto. Basta capire come sfruttare i gradenti tra microcosmi confinanti che interagiscono di continuo. Possiamo dire che Silien è un prodotto delle forze evolutive descritte da Charles Darwin: ha compreso come adattarsi e aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza in un mondo ostile. Vediamo di spiegare tutto ciò in termini molto concreti. Nel milieu del crimine descritto dal film di Melville esiste una forma di mutua solidarietà contro il nemico comune, le forze dell'ordine. Al contempo, ogni singolo gangster è essenzialmente solo ed è soggetto a una spietata concorrenza da parte dei suoi simili. Tensioni anche insanabili possono essere provocate in ogni momento per i più disparati motivi, come un inganno, la scoperta di un tradimento, una vendetta e via discorrendo. Nell'ecosistema gangsterologico nessuno è insostituibile. Quando un malavitoso viene ucciso, subito ne sorge un altro a prenderne il posto. Non sembra esserci spazio per realtà davvero organizzate e gerarchiche, come quelle oggi tristemente famose: nella massima parte dei casi i vincoli sono labili, è come se ognuno fosse un cane sciolto. Non si trova nemmeno traccia di elementi esoterici come cerimonie d'iniziazione con cappucci neri e santini bruciati. Silien è più furbo degli altri, sa come difendere la propria nicchia ecologica. Si assicura un vantaggio evoluzionistico ed adattivo eliminando i gangster concorrenti tramite la delazione, di cui è maestro, rendendo impossibile la determinazione della verità. La sua relazione omoerotica con Salignari (Sali nell'intimità) gli rende possibile compiere quest'opera con la massima efficienza. Salignari gli para il culo (non glielo rompe di certo, essendo passivo): lo protegge dagli agenti e da altri investigatori, gli permette di accumulare refurtiva e di non incappare in controlli e ispezioni. In cambio, Silien fornisce al suo amico poliziotto informazioni in grado di risolvere casi e quindi di aumentarne la posizione e il prestigio. Senza il gradiente tra la gangsterosfera e la società poliziesca, Silien non sarebbe nulla, avrebbe meno opportunità di conservazione e di arricchimento. Il suo sogno è la fuga dai bassifondi da incubo, dagli angiporti caliginosi dove le creature camminano come morti viventi. Vorrebbe rifugiarsi nella sua villa a Ponthierry, che è in qualche modo il frutto della sua relazione con Salignari. Un'evasione che si rivela impossibile: quando uno porta su di sé il marchio di una maledizione, non riuscirà mai a riscattarsi. Melville non permette allo spettatore facili idealismi e stereotipi. Esiste soltanto il Male. Si ha l'impressione che ci sia ben poca differenza tra i gendarmi e i furfanti, visto che hanno in comune la natura brutale. Uno degli agenti del commissario Clain sembra un gorilla. Potrebbe benissimo essere lui stesso un gangster. Probabilmente non è diventato un criminale soltanto per mancanza di iniziativa, perché troppo attratto da una paga sicura, seppur modesta.

L'enigma di Nuttheccio

Quando ho visto il film, mi sono subito reso conto che uno dei gangster ha un cognome ucraino: Lushenco. Non è difficile individuare nella terminazione -enko una caratteristica di molti cognomi ucraini. Aveva un cognome di questa origine anche il famoso scrittore di noir Giorgio Scerbanenco (nato Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko). Eppure in alcune versioni di Wikipedia, e tra queste quella in francese, al posto di Lushenco si riporta un cognome (o è un soprannome?) scritto in modo del tutto diverso e neppure troppo assonante: Nuttheccio (a volte ricorre la variante Nutheccio). Francamente non so dire granché di questo Nuttheccio. Non mi è neppure chiaro come si debba pronunciare, per non parlare dell'etimologia. Ancor più difficile è comprendere per quale assurda ragione sia stato possibile rendere Nuttheccio con Lushenco nella versione del film in italiano, visto che la fonetica sembra abbastanza dissimile. Troviamo Nuttheccio non soltanto nella Wikipedia in inglese e in quella in francese, ma anche in svariati siti con recensioni. Questo è un estratto da un articolo in inglese, intitolato Belmondo and Melville, che menziona il nome del gangster:


"Piccoli has a bluff everyman demeanor; he looks older than his years, and he brilliantly shows how Nutheccio’s mask of coolness soon slips in the presence of Silien, of whom he is afraid. By contrast, even when Silien is himself endangered later on, at his lowest ebb he maintains his cool, not even breaking sweat while injured by a gun."

Come si vede, questo enigmatico Nuttheccio non è una mia invenzione e non si deve a un mio fraintendimento. Ero convinto che fosse un parto dell'ingegno di Melville, le cui motivazioni ultime sembrano destinate a sfuggire per sempre. Invece ho constatato che  Nuttheccio è già presente nel romanzo di Pierre Lesou, di cui il film è un adattamento. Il che non porta lumi sulla sua origine ultima. Il mistero si infittisce se pensiamo che tutte le menzioni del bizzarrissimo antroponimo reperibili in Google sono relative proprio al film Le Doulos. Sembra che in concreto nessuno si sia mai chiamato Nuttheccio in tutta la storia di questo pianeta. Sarò sempre grato a chiunque mi porterà informazioni in grado di far luce sulla questione, anche se ho il sospetto che non accadrà mai. Per capire un po' meglio la pronuncia ci possono venire in aiuto le trascrizioni riportate nelle varie sezioni di Wikipedia. In russo abbiamo Нуттеччо, che lascia presupporre una pronuncia italiana, quasi fosse la deformazione di un ipocoristico Nuccio, pur non potendo spiegare l'inserimento di una sillaba mediana -te-. Le trascrizioni in caratteri cirillici, ricordiamocelo, sono ammirevoli per la loro precisione fonetica. In greco abbiamo invece Νουτέτσιο, come se la pronuncia originale fosse Nuttezzio. La trascrizione della vocale -u- è un'ulteriore prova che si deve pronunciare come in italiano, non come in francese. Un rompicapo. Mi spiace, non riesco a trovare il bandolo della matassa, getto la spugna. Una domanda mi angoscia. Cosa si era fumato Lesou? 


Salignari: un cognome misterioso

Stranamente non sono riuscito a trovare nel vasto Web quasi nessuna traccia del cognome Salignari, a parte le sue numerose menzioni in testi collegati con il film di Melville. All'inizio avevo pensato che si potesse trattare di un cognome còrso. È risaputo che la Francia è stata molto generosa con le genti della Corsica, distribuendo loro un immenso numero di posti nelle gerarchie poliziesche. Non stupirebbe quindi se l'ispettore Salignari fosse originario proprio dell'isola. Eppure del suo cognome non si trova traccia alcuna. Non sono riuscito nemmeno a reperire qualche variante a cui il nostro Salignari possa essere ricondotto. Nel sito GENS (www.gens.info/italia/, un tempo noto come Gens Labo) non si trova traccia né di Salignari né di Salignaro. Non sono riuscito a trovare nulla nemmeno in siti di ricerca di cognomi della Francia. L'unica menzione è in un sito genealogico, Ancestry (www.ancestry.com), in cui ho trovato che un certo Gasper James Samuel Murphy, australiano, avrebbe avuto come moglie Seraphine Veronica Salignari.  Si deve convenire che l'etimologia del cognome non è affatto immediata. In latino esistono i due aggettivi (verosimilmente dotti) SALIGNUS e SALIGNEUS, entrambi tradicubili con "di salice, di vimini", derivati da salix "salice; verga di salice" (gen. salicis, acc. salicem, da cui l'italiano salice, salce). Immagino che proprio da SALIGNUS si sia formato SALIGNĀRIUS, che a quanto apprendo nelle mie ricerche è realmente attestato in Spagna. Nella Gallia Narbonense esisteva un luogo chiamato SALIGNARO o SALIGNANELLO (indeclin.), citato in diversi documenti. "In pago Nemausense, in suburbio de castro Mormelico, villa Salignaro seu Salignanello, in ipsas villas totam quartam partem ab integritate" (815 d.C., vedi Provost, 1999). Sembra che sia il borgo oggi chiamato Salinelles. Alla luce di quanto esposto fin qui, il significato più plausibile di Salignari dovrebbe essere pertanto "intrecciatore di vimini". Se qualche latinista mi porterà un'ipotesi migliore, sono pronto a ringraziarlo fin d'ora. Altrimenti vorrà dire che siamo di fronte a un altro mistero destinato a restare avvolto in una cappa di oscurità impenetrabile. 


Altro materiale antroponimico  

Il cognome Silien è particolarmente comune a Landenne (Provincia di Namur, Belgio), dove ci sono più di cento persone che lo portano. Stando a quanto ho potuto reperire con grande fatica nel Web, Silien è anche un nome di battesimo. Compare in un interessantissimo elenco dei nomi francesi rari:


Credo che sia dal latino SĪLIĀNUS, aggettivo formato dal nome della Gens SĪLIA e attestato nell'onomastica (es. Licinius Nerva Silianus). Foneticamente la derivazione sarebbe ineccepibile. In bretone abbiamo silien "anguilla" (pl. siliou), che mi pare poco probabile come sorgente dell'antroponimo francese. Lamento la mancanza di studi etimologici seri.

Il cognome Faugel è raro, seppur presente su un territorio abbastanza vasto: lo portano una quindicina di persone a Rocroi, nelle Ardenne, ma si trova anche a Parigi. Al momento non riesco ad avanzare alcuna ipotesi sulla sua origine. Trovo decisamente strana la terminazione -el, che nonostante l'aspetto fonetico non può provenire dal latino -ellus (il cui esito sarebbe stato -eau). A quanto ho potuto appurare, è di origine ebraica ashkenazita.

Il cognome Kern del compagno di cella di Faugel è tedesco ed è molto comune in vaste aree del mondo germanico. Deriva chiaramente dal tedesco Kern "nòcciolo". Non si può nascondere un'ipotesi alternativa. C'è qualche possibilità che l'energumeno avesse le sue radici in Bretagna, anche se non risulta molto probabile: in bretone kern significa "mucchio di pietre". E se fosse un soprannome anziché un cognome?  

Il cognome Varnove è stranissimo e non riesco a documentarlo. A prima vista si direbbe di origine celtica: la sua iniziale fa pensare al prefisso celtico ver-, di chiara origine indoeuropea e corrispondente al latino super-. Se è così, non si comprende bene la seconda parte, -nove. Esiste un toponimo simile, Vernove, che potrebbe essere germanico. Per alcuni è dall'antroponimo Berno con l'aggiunta di en hof "nella corte"; ritengo più agevole pensare che la prima parte sia bero "orso". Così Vernove "Orso nella Corte", di cui Varnove sarebbe una variante. Il ricettatore Varnove potrebbe però avere un cognome slavo, basti pensare alla parola russa ворон (voron) "corvo". Si noti che esisteva una tribù slava degli Obodriti conosciuta come Varnove.

Uno strano neologismo

Parlando della produzione di Melville, si è spesso usata la parola polar. Si tratta di un portmanteau, ossia di una parola macedonia. La derivazione è dalle parole francesi policier "poliziesco" e noir. Semplice: policier + noir => polar /po'laR/. L'ortografia è fonetica, per ovvie ragioni, non storica come quella di noir. Un ipotetico *poloir /*po'lwaR/ sarebbe senz'altro suonato male. Mi sorgono alcune perplessità. Chiaramente non tutti i polizieschi sono anche noir. Esistono innumerevoli polizieschi non noir. I gialli classici sono un esempio. Questo arrivo a capirlo. Non sono un grande esperto, tuttavia a lume di naso mi sento di dire che tutti i noir sono anche polizieschi. Quindi non si vede la necessità del termine polar, che può apparire di etimologia poco chiara ai lettori. Eppure è una parola che ha avuto uno strepitoso successo. In un sito dell'estinta piattaforma di Geocities già ne era menzionata una sintetica definizione: 


"Polar : ce mot couvre à lui seul l'entièreté de la littérature policière moderne.
Dans nos pages, nous ne retiendrons cependant que la frange noire du spectre, celle qui a remis le crime dans la rue, comme le disait si bien Raymond Chandler."

Come spesso accade, la consapevolezza dell'etimologia della parola è andata smarrita e si è addirittura ritenuto necessario dire polar noir, con osceno pleonasmo. Sarebbe infatti come dire "policier noir noir"! Ecco le meraviglie linguistiche di quest'epoca in cui le facoltà più nobili dell'essere umano sono in via di disgregazione!     

Altre recensioni e reazioni nel Web

Se si dovessero raccogliere tutte le recensioni di questo film trovate nel Web, per poi pubblicarle in un volume cartaceo, questo avrebbe proporzioni colossali e sarebbe più pesante di un blocco di basalto. Si trovano molte osservazioni interessanti, anche se purtroppo sono disperse in un oceano di banalità. Va detto che tutti sono concordi nel riconoscere la grandezza di Melville e del suo immortale capolavoro. Sono felice di non aver trovato nemmeno l'ombra di una critica, fosse anche larvata. La recensione di Davide Chiappetta, pubblicata su www.mymovies.it, è molto utile e densa di informazioni. Ne riporto alcuni estratti particolarmente significativi, a beneficio dei lettori:  


"Melville ispirandosi ai grandi registi americani, in primis John Huston, diede nuova linfa al genere gangster (di necessità virtù visto che gli ambienti francesi sono totalmente diversi da quelli americani) e in seguito i grandi registi americani (dalla New Hollywood in poi)  presero a prestito, se non copiarono, proprio il suo stile."

"Anche se 'Le Doulos' è un adattamento del romanzo di Pierre Lasou (sic) con idiomi dei classici film noir americani e toccchi esistenzialisti francesi, le sue preoccupazioni centrali, lealtà, tradimento, vendetta, paranoia e inganno, sono ugualmente portatori informativi delle sue esperienze durante la guerra (da giovane combattè nelle file della resistenza francese con il nome di battaglia di Melville in onore del poeta e scrittore americano Herman Melville), Questo film, come il successivo 'L 'Armée des Ombres' (1969), rivela la continuità tematica tra film di resistenza  (Léon Morin, prêtre) e il genere 'polar'; e il set di 'Le Doulos' ricorda molto di più la Francia occupata durante la guerra, che Parigi degli anni sessanta."