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venerdì 15 gennaio 2021


LA MORTE DI SIDDHARTHA GAUTAMA BUDDHA 
 
Sentii parlare della sorprendente morte di Siddhārtha Gautama, più noto come Buddha, in una circostanza abbastanza curiosa, in un sito nichilista ormai sparito dalla Rete:  CounterOrder.com. Se si cerca di accedere all'url, compare una scritta desolante: "The domain counterorder.com is for sale". Fortunatamente esiste un backup su Oocities.org
 
 
Bizzarramente nell'url del backup compare un glorioso nome germanico, che sarebbe stato inteso in tutta la Germania e tra i Longobardi: Liudegast "Ospite delle Genti". È il nome che nel Nibelungenslied è dato al Re di Danimarca. Credo che sia anche il nick dell'artefice del salvataggio. Esiste una sezione del sito che riporta interessanti notizie biografiche di alcuni nichilisti celebri.
 
 
Essi sono i seguenti: 

Re Salomone
Buddha 
Gorgia 
Niccolò Machiavelli 
Mikhail Bakunin 
Friedrich Nietsche 
Sergei Nechayev 
Vera Figner 
Marcel Duchamp 
Andy Warhol 
La banda Baader-Meinhof 
I Sex Pistols 

Questa è la traduzione in italiano del testo relativo a Buddha:

Buddha Siddhartha nacque in Nepal. Alla fine, esaurito e annoiato dallo stile di vita edonistico come figlio privilegiato di un sovrano della casta guerriera dell'India, Buddha si rivolse all'introspezione e inventò il percorso verso l'illuminazione, attraverso l'amore, la serenità e specialmente la serenità amorevole. 

Rendendosi conto che la sofferenza è il denominatore comune dell'umanità, la meditazione e la pace interiore sono l'antidoto logico all'eterno conflitto esterno. Portando questo alla sua estrema conclusione, nullificando finalmente l'esistenza corporea, la sofferenza viene rimossa e non resta altro che l'illuminazione nello stato finale del Nirvana. Questo è l'obiettivo dei Buddhisti, il desiderio ultimo è raggiungere il Nulla. Una sorta di nichilismo si trasformò in religione, meno spirituale che logica, cosa che fu un virulento affronto al sistema dominante Indù.

Buddha parlava in Pali ma non scrisse mai nulla. Usando la lingua comune invece del Sanscrito elitario, molti non riuscivano a capire che egli includeva la persona media nei suoi sermoni, una nuova idea democratica che conquistò i convertiti that won converts della maggioranza ignorata. Dopotutto chiunque può essere sul cammino dell'illuminazione.

Buddha ha avuto alcune idee sorprendenti, considerato non soltanto il periodo storico, ma anche la longevità storica che attribuisco al notevole concetto di religione come metodologia: "il sentiero" anziché "la fede". E ancora oggi monumenti a sua somiglianza, grandi e ancora più grandi, ricoprono l'intera metà orientale del continente asiatico. E per inciso, le sculture e le immagini del Buddha intendono ritrarre la beatitudine attribuita allo stato di Nirvana - scherzosamente simile a uno sballo sonnifero da droghe o all'oppiaceo originale del Nulla.

Buddha morì a Kusinagara, in Nepal, dopo aver mangiato prosciutto contaminato; se fosse sopravvissuto, sono sicuro che il nono sentiero sarebbe stato "evita i piatti di carne di porco poco cotta". 
 
Questa narrazione pone alcuni problemi, come per esempio quello della dieta. Ebbene, Buddha non era affatto vegetariano. Condannava l'uccisione di animali ma non il consumo delle loro carni, a patto che il macellaio fosse di un'altra religione. Questo semplice dato di fatto non è stato accettato da alcune congreghe di monaci, che hanno anche cercato di nascondere la verità sulla morte di Gautama, dipingendolo come vegetariano. 
 
La fonte più attendibile sul delicato argomento è il Mahāparinibbāṇa Sutta, che è il Sutta 16 del Digha Nikāya, testo scritturale appartenente al Sutta Pitaka della tradizione Theravāda, la più antica del Buddhismo e la più vicina agli insegnamenti originali. Questa è la narrazione. Il ricco fabbro Cunda Kammāraputta ospitò Buddha e gli servì una speciale prelibatezza a base di carne di porco, oltre ad altri piatti, tra i quali del riso cotto nel latte. L'Illuminato ordinò che ai suoi monaci fossero dati soltanto i piatti a base di riso, mentre la carne di porco doveva essere servita soltanto a lui. Il nome di questa preparazione non vegetariana era sūkaramaddava. Mentre Buddha stava mangiando, si sentì molto male, avvertendo un fortissimo dolore addominale e defecando diarrea mista a sangue. Ordinò quindi che ogni avanzo di carne di porco fosse sepolto in una buca. Chiese poi al suo prediletto discepolo Ānanda di portargli dell'acqua. Questi non voleva portargliene, affermando che l'acqua del vicino ruscello era stata contaminata e resa torbida dal passaggio di carri. Buddha insistette per avere comunque quell'acqua. A questo punto fu trasportato in barella nella città di Kuśināgara, dove spirò prima che un medico potesse aiutarlo.   
  
In sanscrito la parola sūkaramaddava indica il prosciutto (da sūkara "porco, cinghiale" e maddava "cosa tenera"). Punto. Sono stati fatti grotteschi tentativi di reinterpretazione! Per evitare lo scandalo, negli ambienti di tradizione Mahāyāna ("Grande Veicolo") si è diffusa una falsa etimologia di sūkaramaddava, tradotto con "cosa tenera dei porci", osssia "cosa tenera gradita ai porci". I porci, sia domestici che selvatici, sono ghiottissimi di funghi. Queste manipolazioni semantiche sono infatti fondate sull'identificazione del cibo fatale con una specie di timballo di funghi. L'amico C., appassionato di Buddhismo, ha scritto: "La possibilità che sia morto per il consumo di funghi contenuti in quel misterioso piatto è riportato come possibile e probabile da alcune fonti". A parte il fatto che l'etimologia da me esposta non lascia adito a dubbi, a parer mio è estremamente improbabile che una preparazione a base di porco possa essere interpretata come una preparazione a base di funghi. Questo ho ribattuto all'amico: "Se il Papa venisse da te a cena, gli daresti un piatto preparato con funghi raccolti a caso? Funghi di cui ignori gli effetti?" E ancora: "Trovo difficile credere che un devoto possa mostrare una simile incuria verso l'oggetto della sua venerazione. Tra i funghi ci sono molti inebrianti, allucinogeni, psicotropi. Gautama evitava con cura ogni sostanza inebriante. Nessun devoto avrebbe rischiato di propinargliene una per ignoranza o per sbaglio." 
 
Ricordo una pubblicità che veniva trasmessa molto tempo fa, ancora nel XX secolo. Uno strano individuo, conciato come un adepto della setta degli Hare Krishna, lodava il "prosciutto alla tibetana". Questo nonostante il fatto che gli Hare Krishna sono notoriamente vegetariani (rifiutano sia la carne che le uova, ma non il latte, che definiscono "nettareo"). In realtà il "prosciutto alla tibetana" esiste. Consiste in un maialino, morto di morte naturale, che viene sepolto nel letame dopo che i mosconi azzurri l'hanno riempito di covata. Riesumato dalla sua tomba fecale, dopo un paio di settimane, il corpo del maialino viene divorato anche crudo. Anche senza arrivare a simili eccessi, forse il piatto preferito di Gautama era meno invitante di quanto potremmo pensare. Esistono persino raffigurazioni pittoriche dell'accaduto: in un dipinto si vede il fabbro Cunda Kumāraputta intento a preparare personalmente il porco per il piacere dell'Illuminato. Cosa interessante, si può notare la tetra figura di Māra, il Demone della Morte, che guida le azioni del cuoco.
 
 
Il dottor Mettanando Bhikkhu è l'autore di un testo estremamente interessante, in cui analizza con estrema cura  la causa della morte di Gautama, identificandola infine con l'infarto mesenterico. 

 
"L'ischemia mesenterica acuta è l'interruzione del flusso sanguigno intestinale causata da un'embolia, una trombosi o una condizione di basso flusso. Causa la liberazione di mediatori, infiammazione e infine infarto. Il dolore addominale è sproporzionato rispetto ai reperti obiettivi."
Fonte: Parswa Ansari, MD, Hofstra Northwell-Lenox Hill Hospital, New York 
 
Le conclusioni dell'autore lasciano comunque perplessi, perché quanto riportato nel Mahāparinibbāa Sutta è oscuro e contraddittorio. 
 
1) Buddha avverte che qualcosa non va nel cibo mentre lo sta mangiando;
2) Buddha dispone che gli avanzi siano seppelliti; 
3) Buddha, mentre sta per morire, afferma che Cunda non deve essere biasimato e che non è stata la carne di porco da lui offerta ad essere causa di morte. 

Quanto affermato nei punti 1) e 2) contraddice le conclusioni del punto 3). 
Forse Gautama intendeva, per misericordia, evitare che Cunda fosse oggetto di odio e di rappresaglie. Per ottenere questo scopo, avrebbe però mentito. Agendo così, l'Illuminato sarebbe venuto meno agli stessi precetti da lui insegnati alle genti. 

Il dottor Mettanando Bhikkhu afferma che non fu la qualità del cibo a uccidere Gautama, bensì la quantità. L'eccesso di cibo avrebbe causato la patologia intestinale, rivelatasi presto fatale. Questa conclusione non è affatto innocua: implica che l'Illuminato fosse goloso, ingordo, incline a ingerire più cibo del necessario. Se era goloso, come è inevitabile credere alla luce di quanto riportato, allora non poteva aver raggiunto il Nirvāa, stato che implica la cessazione di ogni concupiscenza. Le conseguenze di ciò sono devastanti e potenzialmente in grado di distruggere l'intero edificio dottrinale.  
 
Un altro notevole studio  (Chen, 2005), individua la causa della morte di Buddha in una colite necrotizzante causata dal batterio Clostridium perfringens, ma la sostanza delle cose non cambia. 
 
 
L'Illuminato, a cui è attribuita una conoscenza profondissima di tutte le cose, avrebbe dovuto capire che il cibo era infetto prima ancora di portarlo alla bocca.
 
Il karma di Buddha 
 
Le dottrine di Gautama portano a infinite altre aporie. Secondo quanto affermato dall'Illuminato, la liberazione dalla ruota delle rinascite può avvenire soltanto quando sono stati consumati tutti i semi del karma maturati nelle vite precedenti e in quella stante. Perché ciò avvenga è necessario conseguire un karma che non sia né oscuro (ossia funesto) né luminoso (ossia fausto). Quando questo avviene, si raggiunge il Nirvāa, il cui nome indica l'Estinzione, ossia uno stato particolare in cui non esiste concupiscenza. 
Il punto che sembra essere sfuggito a tutti è il seguente: essendo morto a causa di violentissimi attacchi di diarrea, Gautama aveva ancora dei semi del karma da consumare. Questo contraddice quanto si dice sul suo raggiungimento dell'Illuminazione. 
Vivere è dolore. Chi nasce, vive, muore, rinasce, sperimenta dolore in ogni fase del suo passaggio. La malattia fa parte di questo dolore. Il karma funesto è la causa della malattia. Essere colpiti da diarrea sanguinolenta e da atroci coliche addominali fino a morire è senza dubbio una malattia, è senza dubbio dolore, e la causa di ciò deve essere quindi il karma funesto. Ne consegue che Gautama era un uomo come tutti gli altri e non un Buddha
Un uomo che si contorce e smerda sangue, scaricandosi con estrema pena, desidera sommamente una cosa sola: che l'intestino smetta di essere squassato, che le coliche cessino. Quindi non può trovarsi in condizione di Nirvāa, per il semplice fatto che patisce e desidera qualcosa. 
 
Morte del sé personale e Illuminazione 
 
Emerge un'altra singolare contraddizione. Come è risaputo, Buddha afferma che l'attaccamento alle cose genera sofferenza e porta alla rinascita. Le stesse conseguenze porta anche l'attaccamento al sé personale (ātman). Secondo le dottrine buddhiste, non esiste infatti alcun sé personale immortale. Non vi è alcun protagonista immutabile che possa osservare le cose del mondo esterno, costituendo un riferimento duraturo. Il sé personale è un composto in cui è insita la morte: è destinato a dissolversi con la fine delle funzioni vitali del corpo. A questo insegnamento è dato il nome di anātman, ossia "non-sé". 
 
Come può la dottrina buddhista del karma essere compatibile con quella dell'anātman
Se il sé personale si dissolve con la morte, tutto è perduto. Come ha fatto Gautama a ricordare le sue precedenti esistenze quando ha avuto l'Illuminazione? 
Se l'ātman si dissolve con la morte, perché dicono che Gautama abbia ricordato le sue esistenze precedenti? Come avrebbe potuto? 
Se l'ātman si dissolve con la morte, perché dicono che Gautama sapesse prevedere quante esistenze terrene rimanessero a ciascuno dei suoi discepoli? Dall'anātman proviene l'impossibilità pratica di conoscere alcunché del passato o del futuro di un essere. 

Il concetto di rinascita secondo gli insegnamenti di Gautama è molto diverso da quello che popolarmente si crede. La rinascita è paragonata allo spegnimento della fiammella di una candela e all'accensione della fiammella di un'altra candela. Nessuno direbbe che la fiammella spenta della prima candela sia trasmigrata nella fiammella accesa della seconda candela. Non siamo di fronte alla migrazione fisica di un principio vitale.  
 
Come può un principio, pur deterministico come quello del karma, agire su inconsapevoli fiammelle ontologiche, quando il sé personale responsabile delle azioni si estingue con la morte? De facto, a ogni nuova vita si avrebbe un essere diverso, su cui però agirebbero le conseguenze di esseri ormai estinti, corrispondenti alle vite precedenti. Come è possibile stabilire un nesso tra un essere vivente e quelle che era in una sua esistenza passata? Non si può. Le conseguenze della rigorosa applicazione delle dottrine di Buddha portano in modo ineluttabile alla negazione dell'Essere.  

Conclusioni
 
Gautama era davvero un autentico nichilista. Credeva unicamente nel Nulla e perseguiva l'Estinzione di tutti i viventi come unica forma di Salvezza. Tutte le narrazioni sui miracoli, sull'ascesi, sulla santità, sul ricordo di esistenze passate, altro non sono che baggianate inventate da monaci ignoranti, avidi e superstiziosi. Se si tolgono queste futili incrostazioni morali, si ottiene il ritratto di un Profeta del Non-Essere. L'ho compreso di colpo in modo cristallino. Un universo entropico è incompatibile con la dottrina buddhista del karma.

giovedì 6 agosto 2020

UN GERMANISMO PRECOCE IN LATINO: MELCA 'LATTE AROMATIZZATO CAGLIATO CON ACETO'

I Sardi chiamano merca un formaggio ottenuto da latte di pecora salato. Google ci fornisce qualche utile informazione su questo latticino: "Si presenta in forma di piccoli parallelepipedi del peso di circa 150 - 300 g. A lunga conservazione, veniva usato dai pastori nei lunghi inverni trascorsi lontano dalle proprie case. Viene impiegato in Sardegna per realizzare i culurgiones e una gustosissima minestra." 
Secondo la maggior parte delle fonti reperibili nel Web gli ingredienti sono soltanto due: latte ovino acido e cagliato, sale. Questo latte acido viene ottenuto aggiungendo caglio di agnello o di capretto (giagiu) al latte appena munto. Una fonte che non riesco più a reperire parlava invece di un miscuglio di latte fresco e di latte acido; forse si tratta di un'informazione distorta, in cui per latte acido si intende proprio il caglio. 
Questa merca è tipica del Nuorese, in particolare della zona di Ogliastra e della Barbagia. Non deve essere confusa con un'altra merca, che è invece un piatto a base di muggine, tipico dell'Oristanese (si tratta di un semplice caso di omofonia). 
Sicuramente si tratta di preparazioni antichissime. Si potrebbe pensare a una derivazione dal nome cananeo del sale (cfr. ebraico melaḥ "sale"), forse qualcosa come *melḥa "salata". Secondo questa interpretazione, tanto la merca ottenuta dal latte acido salato quanto il muggine salato avrebbero proprio il sale come elemento caratterizzante comune. Questo è senza dubbio possibile, ed è la tesi sostenuta da Giovanni Fancello. 
 

Lo stesso autore interpreta melca come "latte cagliato", in parziale contraddizione con quanto prima sostenuto, e riporta quanto segue: 

"In Sardegna il latte cagliato, tipica pietanza dei pastori ormai in disuso, assume diversi nomi a secondo della zona, con piccole  varianti nella preparazione: merca, melca, mer’a, preta, preta purile, frughe, frue, frua, cazadu, giuncata, migiuratu, gioddu, giagada.
 
A questo punto è necessario riportare un fatto sorprendente: in latino è documentata la parola melca, che indica un preparato di latte cagliato con aceto e aromatizzato con vari ingredienti, tra cui il pepe e il garum (la ben nota e pestilenziale salsa di pesce). In pratica doveva essere una specie di budino, secondo altri uno yogurt, molto popolare già in tempi abbastanza antichi. Il famosissimo cuoco Marco Gavio Apicio (vissuto a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.) ci fornisce una sintetica ricetta nella sua opera De re coquinaria libri decem. Si trova nel libro VII (Polyteles, ossia "cibi prelibati"), cap. XI, Dulcia domestica et melcae
 
Melcas: cum piper et liquamen, vel sale, oleo et coriandro. 
 
Si nota subito un'incoerenza grammaticale, oltre all'assenza di ogni menzione dell'ingrediente principale, il latte. La preposizione cum regge l'ablativo: Apicio non avrebbe scritto "cum piper et liquamen", ma "cum pipere et liquamine". L'ablativo lo ritroviamo più avanti (sale, oleo et coriandro), ma unito al segmento precedente da vel "o".  
Qualche editore ha così emendato la lettura, in modo tale da renderla grammaticalmente corretta: 

Melcas: cum pipere et liquamine, vel sale, oleo et coriandro. 

Mi domando se sia lecito procedere in questo modo. Si scopre che in passato erano diffuse letture corrotte, in cui i dotti cercavano di risolvere in vario modo un termine a detta loro incomprensibile, dando origine a forme fantomatiche come "mel castum" o "mel caseum". Forse i sistemi di Ivan il Terribile li avrebbero spronati a fare di meglio! Non è finita. Si trova anche un'altra lettura, seppur meno comune: 
 
Melca: Lac acidum, piper et liquamen, mel, sale, oleo et coriandro.

Sembrerebbe ben più verosimile: "Latte acido, pepe e garum, miele, con sale, olio e coriandolo". C'è però un problema di non poco conto. Dopo approfondite ricerche, ho scoperto che nel 1910 uno studioso, Janko, ho proposto di emendare Melcas: cum piper et liquamen in Lac acidum, piper et liquamen, sostuendo anche vel con mel. Quindi sparirebbe melcas dal testo, nonostante la presenza di melcae nel titolo del capitolo. C'è anche un'ulteriore difficoltà. Qualcuno - non si sa chi - ha pensato di sintetizzare la lettura di Janko e quella tradizionale, sommandole e dando origine a Melcas: Lac adicum, piper et liquamen. Questa lettura sincretica ha una discreta diffusione nel Web e si trova anche in alcuni libri. Ha un'origine che è evidentemente memetica, così deve essere rigettata. 

Fortunatamente esistono diverse altre attestazioni del vocabolo, come mostrato da Isabella Andorlini nel suo lavoro Edizioni di papiri medici greci (2018, Le Monnier).

A pagina 62 del suddetto testo si legge che la prima attestazione di melca compare in  un  testo  poetico del  I  d.C., che appare sull'affresco  dell'Antiquarium  Comunale di Roma:

Priapus  /  ...  ea  melca  datur

Sia Columella (4 d.C. - 70 d.C.) che Plinio il Vecchio (23 d.C. - 79 d.C.) parlano del proficuo uso dell'aceto per cagliare il latte, utilizzando la parola greca oxygala (alla lettera "latte acido") per indicare il prodotto chiamato melca da Apicio. 
 
Quindi ci viene fornita dalla Andorlini un'altra informazione importante: il termine melca compare nell'opera del medico Galeno (129 d.C. - 201 d.C.). Queste sono le citazioni:  

ἐν οἷς ἐστι καὶ ἡ μέλκα, τῶν ἐν Ῥώμῃ καὶ τοῦτο ἓν εὐδοκιμούντων ἐδεσμάτων, ὥσπερ καὶ τὸ ἀφρόγαλα· τοῖς δ' αὐτοῖς τούτοις καὶ τὰς ψυχρὰς κατὰ δύναμιν ὀπώρας ὁμοίως ἀποψύχων ἐδίδουν·
(De methodo medendi libri XIV, vol. VII) 
 
καὶ σικύου δὲ καὶ πέπονος οὐ πολὺ προσενέγκασθαι τηνικαῦτα, καὶ μηλοπέπονος, ἔτι τε τῶν πραικοκίων ὀνομαζομένων ἢ Περσικῶν ἐγχωρεῖ, καθάπερ γε καὶ τῆς καλουμένης παρὰ Ῥωμαίοις μέλκης ἐψυχρισμένης, ἀφρογάλακτός τε καὶ τῶν διὰ γάλακτος ἐδεσμάτων, ὁποῖόν ἐστι καὶ τὸ καλούμενον ἀργιτρόφημα· καὶ σῦκα δὲ ὁμοίως ψυχρὰ καὶ κολόκυνθαι τοῖς οὕτω διακειμένοις ἐπιτήδειοι.  
(De rebus boni malique suci, vol. VI) 
 
Secoli dopo, Antimo (511 d.C. - 534 d.C.) scrive nella sua opera De observatione ciborum epistula
 
oxygala vero graece quod latine uocant melca (id est lac) quod acetauerit. 
 
Essendo vissuto alla corte di Teodorico il Grande, Re degli Ostrogoti, oltre che tra i Franchi, ad Antimo era chiaro che la parola melca doveva avere la sua origine in una lingua germanica e avere il significato originale di "latte" - mentre Apicio e Galeno non sembravano consapevoli della natura straniera del termine.  
 
Alcune note etimologiche  
 
Non ci sono dubbi sull'origine germanica di melca, come procedo a dimostrare. In altre parole, si tratta di un germanismo precoce in latino, molto anteriore alle migrazioni conosciute come "invasioni barbariche"
 
Si capisce subito che la radice di melca è la stessa del verbo latino mulgeō, mulgēs, mulsī, mulctum, mulgēre "mungere"; per motivi fonologici non può tuttavia trattarsi di una parola latina nativa. Deve essere giunta a Roma da una lingua indoeuropea con  ben precise caratteristiche. Non può provenire dal greco, che ha il verbo ἀμέλγω (amélgō) "mungo", chiaro parente del latino mulgeō. La protoforma indoeuropea ricostruita è *(a)meleg'-.
 
Vediamo che melca non può essere un prestito dal celtico, sempre per via del suo consonantismo.
 
Antico irlandese: 
    mligim "io mungo"
    do-om-malg "io munsi" 
    mlegun "mungitura" 
    melg n- "latte" 
    bó-milge "del latte di mucca"
    mlicht, blicht "latte" 
Gallese: 
    blith "lattante"  
 
Può soltanto trattarsi di un prestito da una lingua germanica, su cui ha agito la legge di Grimm, che trasforma il fonema indoeuropeo /g/ in /k/

Protogermanico: *meluks "latte"
Gotico di Wulfila: miluks "latte" 

A tutti sono ben noti alcuni esiti della forma protogermanica: basti pensare all'inglese milk e a tedesco Milch.
 
Gli studiosi russi, come Sergei Starostin, hanno optato per una scelta a mio avviso non condivisibile, spinti da una bizzarra forma di nazionalismo. Visto che il protoslavo ha *melko "latte", donde deriva il russo молоко (molokó), con una consonante sorda /k/ come quella del germanico, esistono due alternative: 
 
1) La forma protoslava è un prestito da una lingua germanica o da altra lingua IE non identifica con /g/ > /k/;
2) La forma protoslava proviene da una radice IE diversa da *(a)meləg'- e postulabile come *melk-
 
I russi sostengono la seconda soluzione, fittizia e politicizzata, giungendo all'assurdo di ritenere nativo il termine melca di Apicio. Vediamo chiaramente che il protoslavo *melko "latte" non è parte del lessico ereditario, essendo un prestito. Non significa nulla il fatto che non si riesca a tracciare storicamente questo prestito. Il fatto che i dettagli siano andati perduti non significa che si debba ricostruire una radice protoindoeuropea fantomatica. Vediamo anche che melca ha l'aspetto di una parola latina come gangster ha l'aspetto di una parola dell'idioma di Dante.  
 
Conclusioni 
 
Il vocabolo sardo merca, indicante il noto latticino acido, deve essere il naturale esito di un germanismo precoce giunto da Roma e molto anteriore la dominazione dei Vandali. Non è quindi possibile considerarlo, come si potrebbe pensare a prima vista, un prestito dal germanico orientale. Come è giunta la melca a Roma? Forse non lo sapremo mai, ma sono convinto che si tratti del frutto di una complessa serie di interscambi culturali tra il mondo germanico e quello romano. Non dimentichiamoci che i mercanti romani frequentavano i Germani, portando loro vino e altri prodotti. Non è improbabile che in questo ambito sia nato e si sia diffuso un nuovo tipo di latticino.

domenica 2 agosto 2020

UN IMPORTANTE VOCABOLO VANDALICO IN SARDO: GRISARE 'SCHIFARE'

Nella Cloaca Maxima di Facebook mi sono imbattuto in un flame il cui argomento era il formaggio sardo chiamato casu marzu, caratterizzato da infestazione di larve della mosca Piophila casei, avvezza a frequentare i cadaveri. L'amica Lina S., nativa della Sardegna, difendeva il bizzarro prodotto gastronomico, affermando che i vermi in esso brulicanti sarebbero "fatti di formaggio" e del tutto innocui. In tono di sfida, citava il fatto che i pastori sardi sono notoriamente assai longevi. Il suo commento ironico era qualcosa come: "Hanno più di cent'anni e il casu marzu l'hanno sempre grisau, vero?" - quindi aggiungeva la glossa: grisau = schifato. Qualcosa in me si è illuminato. Ho infatti compreso che il vocabolo in questione è un residuo della dominazione dei Vandali, che in Sardegna è durata circa ottant'anni. Credo che sia una cosa importante farlo notare, alla faccia dei romanisti che vorrebbero cancellare ogni eredità germanica dalla faccia della Terra. Del celebre formaggio verminoso, eredità neolitica, parleremo in un'altra occasione.
 
Informazioni di estremo interesse si trovano sul dizionario online di lingua e cultura sarda (Ditzionàriu in línia de sa limba e cultura sarda), della Regione Autonoma della Sardegna: 
 
 
grisai, grisare, crisare 
traduzione: schifare, provare ribrezzo 
sinonimi in sardo:
   provare ischifu, abborrèschere, afeai, ascamare, aschiai,
   ghelestiare, ischifare, ispucire 
glossa francese: éprouver du dégoût
glossa inglese: to loathe 
glossa spagnola: sentir asco, repugnar 
glossa tedesca: verschmähen. 

Nel suo vocabolario, Spano riporta le forme meridionali grìsu "ribrezzo; paura" e grisòsu "che ha ribrezzo".

Non è difficile risalite all'etimologia genuina di questi vocaboli. 
 
Protogermanico:
      *gri:sanan
"essere atterrito;
provare orrore
Corrispondente atteso nel gotico di Wulfila:
      *greisan /'gri:san/ "essere atterrito; provare orrore"
 
Corrispondenti in germanico occidentale:
Antico inglese: 
       âgrîsan "rabbrividire; temere" 
Antico frisone:
       gryslic "spaventoso" 
Medio olandese: 
      grîsen "rabbrividire"
Medio basso tedesco: 
       grisen, gresen "rabbrividire"; greselîk "spaventoso"
 
Non ho trovato in giro brillanti idee dei romanisti, tali da poter fornire materia di discussione e di confutazioni, così concludo qui la mia trattazione.  

lunedì 18 maggio 2020

IL MISTERO DELL'OSFAGARTA

Anni fa mi sono imbattuto nel bizzarro portale dell'Istituto Italiano di Coproterapia (ICC) di Roma, ospitato su Blogspot. "La coproterapia è una disciplina naturale che consiste nell'immersione del corpo in una vasca di feci umane calde, o nella loro somministrazione per bocca" (cit.). In un post dell'ICC, che ora sembra essere irreperibile, si parlava di coprofagia in relazione alla scienza gastronomica e si descriveva la pajata romana come una preparazione culinaria fecale. Cosa abbastanza sensata, vista anche l'autorevole opinione di Alberto Sordi, che nel film Il marchese del Grillo (Mario Monicelli, 1981), definiva i rigatoni con la pajata in un modo abbastanza crudo: "merda". In buona sostanza si tratta di intestino tenue di vitello da latte, non privato del chimo (che è il latte digerito) e da usarsi per fare una salsa con cui condire la pasta. È ben nota la scena in cui il Sor Marchese inizia a questa conoscenza misterica la splendida francesina, Olimpia. 
 
 
 
Orbene, accanto alla pajata il blog menzionava un altro piatto di origine fecale, ben più enigmatico. Il suo nome è OSFAGARTA. Secondo le scarne spiegazioni che erano fornite, l'osfagarta sarebbe in tutto e per tutto simile alla pajata, ma preparata con intestino di agnello anziché di vitello. Nel blog non erano indicate fonti convincenti, né alcuna nota etimologica dello stravagante vocabolo. Si accennava soltanto a un certo professor A. Veneziano, che avrebbe condotto uno specifico studio sull'interessante materia gastronomica. Il nome A. potrebbe stare per Alberto, Aldo, Adolfo, Agostino e via discorrendo. Non si ha informazione alcuna sul nominativo completo. A conti fatti, in Google non è emerso proprio un bel nulla su questo fantomatico studioso. Dopo una lunga ricerca, sono riuscito a ritrovare il testo che cercavo, servendomi della Macchina del Tempo di Internet (Wayback Machine). Non l'ho trovato nel blog dell'ICC, ma in un sito di Altervista che lo menzionava. Riporto il reperto: 
 
 
"La paiata e l’osfagarta  (ci ricorda A. Veneziano N.d.r.)  sono solo alcuni dei molteplici piatti a base uro-fecale tipici della cucina Italiana.  Nella nostra alimentazione (continua A. Veneziano N.d.r.)  ci sono sempre stati dei piatti con ingredienti  uro-fecali. Il problema è che nella maggior parte dei casi il “donatore” non è umano, cioè le feci provengono da animali di allevamento. Il che comporta il rischio di contrarre malattie di origine bovina (nel caso della paiata) e ovina (l’osfagarta) e riduce al minimo le proprietà benefiche dell’assunzione." 
 
L'autore del testo, humanfailure, si augura quindi l'introduzione di piatti a base di sterco umano!

"Feci e urina devono quindi provenire da un “donatore” umano. Per chi non lo sapesse ricordiamo che è vietata la vendita di escrementi di origine umana (non a caso si usa il termine “donatore”)." 

Tutta la faccenda ha l'aria di essere un fake. Tuttavia si ricorda che anche un fake deve avere un'origine, non può essere scaturito dal Nulla. 
 
All'inizio avevo pensato a una contrazione del latino ovis "pecora", al genitivo, con la consonante finale fossilizzata. Anche se os- per ovis sembrava verosimile dal punto di vista tecnico, la cosa mi è subito sembrata assurda, irreale, così mi sono destato dalla fantasia. La seconda parte del composto resisterebbe ad ogni tentativo di analisi. Come dare un senso a -fagarta? La formazione non si spiega in alcun modo, la terminazione -arta permane oscurissima e priva di paralleli. Siamo di fronte a una parola impenetrabile. Non si riesce a trovare nessuna informazione che ci possa permettere di far penetrare un po' di luce in tenebre tanto fitte. In tutto il Web, prima che mi occupassi della questione, non esistevano altre menzioni della parola. Non si è trovata alcuna citazione utile in Google Books o nei forum.

Ho persino provato con un sito di anagrammi. Questi sono i risultati della ricerca:
 
Target = osfagarta
[sfata fasta] [gora agro]
[strafa sfrata] ago
[stara sarta rasta] foga
grafo asta
[targa grata] sofa
[targa grata] fa so
[targa grata] sa fo
[sfato fasto] [gara agra]
[gastro argots] afa
[gasato agosta] fra
sagrato fa
forata gas
[sorga sargo] [fata afta]
[trago targo grato argot] fa sa
[sagra ragas] fato
sfoga [tara rata atra]
[sfara farsa] [toga gota]
[gara agra] sta fo
[gara agra] sto fa
saga tra fo
[tara rata atra] gas fo
foga tra sa
[gora agro] sta fa
[toga gota] fra sa
[atro arto] gas fa
fra ago sta
 

Non se ne cava nulla. Vano è stato anche un tentativo di ricorrere a Quora, il social in cui tutti possono porre domande su qualsiasi argomento, ottenendo risposte che qualche volta possono essere sensate. Proprio come in Facebook, gli utenti facevano una ricerca, si imbattevano nella menzione dell'osfagarta sul blog dell'Istituto Italiano di Coproterapia e in Altervista, dando per scontato che l'informazione fosse fidedigna e riproponendola ad infinitum.
 
L'amico Marco Ajello propendeva per un'origine sarda, cosa che anche a me in un primo momento pareva abbastanza verosimile. Questa è la sua interessante considerazione:
 
"Forse in Sardegna... guarda lì che fine ha fatto la parola ovis." 
 
E ancora: 
 
"ovis come genitivo mi sa che sia la strada più percorribile... anche se poi i mutamenti son singolari."
 
Così gli avevo risposto: 
 
"Forse è davvero così, ma non ho trovato traccia del misterioso vocabolo nel dizionario online di Rubattu; inoltre la presenza di un nesso /sf/ è ostica. Il sardo ama già poco il suono /f/. Un problema terribile è il silenzio dei motori di ricerca: non restituiscono nemmeno una menzione del vocabolo oltre a quella descritta. Come mai? Non si dovrebbe trovare un sito con frasi del tipo "sono andato a mangiarmi l'osfagarta", etc. Nulla. Com'è possibile che una forma così singolare, se davvero esistente su suolo italico, non abbia mai attirato l'attenzione degli studiosi? Se invece è una parola di una lingua non romanza, dovrebbe comunque trovarsene traccia da qualche parte.
 
E ancora: 
 
"Si potrebbe fare un esperimento antropologico. Girare per le osterie di Roma ordinando un piatto di osfagarta. Immagino l'espressione turbata e irosa dei pingui tavernieri. Deve essere un ambiente difficile. Ricordo che anni fa sono entrato in una pizzeria. Tutti si rivolgevano a me in inglese. Quando ho detto loro di essere di Milano, mi hanno guardato straniti come se avessi detto di venire da Betelgeuse!"
 
Va detto che all'epoca non era nemmeno indicizzata da Google la domanda che avevo fatto su Quora. Questa dunque è la seconda teoria formulata da Marco Ajello:  
 
"Altre ipotesi: un articolo? Oppure osfag- è proprio il nome dell'intestino dell'animale. O una qualche preposizione (come eso-fago)." 
 
In effetti, la cosa appariva più convincente di una contorta derivazione da ovis. In altre parole l'osfagarta sarebbe quello che in italiano chiameremmo *ESOFAGATA. Anche se non conosco nessun esito romanzo del latino oesophagus (dal greco oisophágos, formato da oísein "portare" e da phageîn "mangiare"), non sarebbe impossibile l'evoluzione volgare della parola in *OSFAGU, da cui si giungerebbe a un derivato collettivo *OSFAGATA. La semantica non crea troppi problemi: non dobbiamo credere che i parlanti di una forma di protoromanzo avessero la conoscenza dei moderni medici. Uno slittamento di significato da "esofago" a "primo tratto dell'intestino tenue" non dovrebbe dare grosse difficoltà. La ritrazione dell'accento, da esòphagus a *òsfagu non è impossibile: in fondo conosciamo un italiano antico stàrlogo, variante di astròlogo. Già, tutto questo sembra molto chiaro. Il termine greco oisophagos è attestato già in Aristotele; la forma latina sembra molto più tarda. In inglese compare oesophagus nel XIV secolo; in italiano compare esofago nel XV secolo. Non sono affatto sicuro che sia possibile postularne l'esistenza in protoromanzo. Si dovrebbe pensare che la nostra *ESOFAGATA sia ben più recente. Permane poi un problema di non poco conto: come spiegare la consonante rotica in OSFAGARTA
 
Anche su Quora un utente mi aveva risposto sostenendo la diretta derivazione di esofago (Juan Luis Pedrosa: "magari la parola de partenza sia "esofago"?"). Ormai mi ero quasi convinto. In un modo o nell'altro si doveva trattare di una derivazione abbastanza recente di *ESOFAGATA e al diavolo la rotica di troppo! Come un moscone nel cervello, qualcosa di subliminale mi infastidiva e ogni tanto riemergeva dal pelo dell'autocoscienza, allertandomi. 
 
L'amica Fabiana Cilotti ha scoperto una bizzarra assonanza nel nome del fiume Osfago, citato da Tito Livio, chiedendosi dove si trova questo corso d'acqua. Questa è la citazione in latino: "Movere itaque ex Pluvina Romani, et ad Osphagum flumen posuerunt castra". Così rispondevo: "Il fiume Osphagus è in Macedonia. Bizzarramente il correttore automatico di Google cerca di convertirne il nome in Esophagus."
 
A distanza di tempo, ho riletto l'intera conversazione su Facebook (un thread piuttosto caotico) e la mia attenzione è caduta su una proposta etimologica alternativa, sempre formulata da Marco Ajello: 
 
"Penso anche a "oxen" (buoi) inglese". 
 
Non ero stato particolarmente entusiasta di questa ipotesi ingegnosa, tanto che avevo risposto così:

"Però l'intestino usato è ovino, non bovino. Inoltre resta in ogni caso un residuo -fagarta che sfugge ad ogni analisi, come se provenisse da una lingua di Vega o di Altair." 
 
Adesso credo che potrebbe essere verosimile. Il residuo -fagarta potrebbe benissimo essere nient'altro che l'inglese faggot, fagot, un derivato diretto dell'italiano fagotto. Attualmente negli Stati Uniti d'America, questa parola indica soprattutto un omosessuale passivo, proprio a causa del riferimento gergale all'intestino, usato come cavità sessuale. Qualche pastore protestante ha come motto "God hates faggots", o qualcosa del genere. Esistono poi significati diversi di questa parola, come "fascina di legna da ardere", ma la cosa è irrilevante, trattandosi di sviluppi secondari. Trovo invece di un estremo interesse, il fatto che in Scozia la parola faggot sia usata per indicare una preparazione gastronomica fatta con lo stomaco di animali macellati. Si potrebbe dunque azzardare un percorso etimologico e semantico credibile. Presuppongo un composto OX FAGGOT, alla lettera "fagotto di bue", usato da qualche italo-americano per indicare la pajata romana. La pronuncia di questo OX FAGGOT in broccolino (gergo italo-americano di Brooklyn) sarebbe qualcosa come OSFAGAATA. L'ipercorrezione in OSFAGARTA, dati i problemi di pronuncia delle consonanti rotiche in inglese, sarebbe plausibilissima. Un oste romano che in una taverna avesse udito OX FAGGOT pronunciato come OSFAGAATA, OSFAGARTA, ne avrebbe tratto il vocabolo. Questo deve essere accaduto a Roma quando la pajata di vitello era proibita per via dell'epidemia di encefalopatia spongiforme di Creuzfeldt-Jacob (volgarmente detta "morbo della vacca pazza"). A causa di questo inconveniente poco piacevole, il taverniere romano serviva ai clienti un succedaneo della pajata, ottenuta da intestino di agnello. Si potrebbe anche pensare che il taverniere in questione fosse originario della Sardegna: nell'isola esiste la tradizione di produrre un formaggio a partire dal latte semidigerito dagli agnelli, estraendolo dal loro stomaco durante la macellazione. Il visitatore americano, probabilmente di Brooklyn, non si era avveduto della cosa, pensando di mangiare rigatoni con la pajata di bovino. Così ha chiamato il piatto OSFAGARTA e in qualche modo la cosa è finita su Internet.

sabato 16 maggio 2020


EVVIVA RANUCCIO II FARNESE,
IL DUCA DELLA MERDA!

Ranuccio II Farnese (Cortemaggiore, 1630 - Parma, 1694) è stato il sesto duca di Parma e Piacenza dal 1646 fino alla morte, oltre che il settimo e ultimo duca di Castro fino al 1649, anno di estinzione del ducato. Era figlio maggiore di Odoardo I Farnese e di Margherita de' Medici. Successe al padre nel 1646, governando per due anni con la reggenza della madre e dello zio, il cardinale Francesco Maria Farnese. Rifiutò un'offerta matrimoniale molto vantaggiosa: la Francia gli aveva offerto la mano di una nipote del cardinale Giulio Mazzarino, con una dote di 500.000 scudi. Il problema è che la giovane non era di rango principesco. Il ducato di Parma e Piacenza si mantenne neutrale nella lotta tra Francia e Spagna, anche se dall'attraversamento delle truppe di entrambe le nazioni derivò un gran nocumento agli abitanti.

Nel 1649 si innescò una catena di eventi che portò all'estinzione del ducato di Castro, situato nella Maremma laziale. Papa Innocenzo X accusò Ranuccio di aver commissionato l'omicidio del vescovo Cristoforo Giarda, dell'ordine dei Barnabiti. Si scatenò quindi una guerra. Le truppe pontificie espugnarono Castro, portandovi devastazione. L'esercito di Ranuccio, guidato da Jacopo Gaufrido, fu disfatto presso Bologna. Anni dopo, nel 1657, il Duca cercò di riscattare Castro, ma dovette rinunciarvi, non avendo il denaro necessario. Papa Alessandro VII, subentrato a Innocenzo X, decise di incamerare il ducato in via definitiva, ma Ranuccio riuscì comunque a far inserire una clausola che gli garantiva altri 8 anni di tempo per il riscatto. Quando ebbe messo insieme la somma dovuta, nel 1666, il suo pagamento fu rifiutato e Castro rientrò nel Patrimonium Sancti Petri

Ranuccio si sposò tre volte. Il primo matrimonio, celebrato nel 1659, fu con Margherita Violante di Savoia, che morì precocemente. La donna, che univa una devozione intensa all'amore per la caccia alla volpe, morì di parto nel 1663 e non ebbe discendenza. Il secondo matrimonio, celebrato nel 1664 fu con la cugina Isabella d'Este, figlia di Francesco I d'Este, duca di Modena e Reggio. Anche lei morì di parto nel 1666, ma riuscì a procreare un figlio maschio e due figlie femmine. Il terzo matrimonio, celebrato nel 1668, fu con Maria d'Este. Con lei il Duca ebbe molti figli, ma soltanto due maschi e una femmina arrivarono all'età adulta. 

Non essendo riuscito a riscattare il feudo di Castro, nel 1682 Ranuccio riuscì ad acquistare il principato di Bardi e Compiano. Nel 1691 il ducato fu invaso dalle truppe imperiali, che vi imperversarono con violenze, saccheggi e stupri, gravando per giunta sulla popolazione indifesa. Nel 1964 il Duca morì all'improvviso. Il decesso viene attribuito a una complicanza della sua obesità. Il suo regno, pur essendo afflitto da numerose criticità, non ebbe un bilancio del tutto negativo. Ranuccio si è segnalato per il suo mecenatismo e per il suo amore per la cultura in tutte le sue forme: fu collezionista di libri rari e amante della musica. Si diede da fare per apportare migliorie e per accrescere la prosperità delle terre che governava, anche se fu costretto a spese ingenti per mantenere una corte parassitaria. Fece coniare una moneta d'argento del valore di 40 soldi, detta quarantana o quarantano

Ranuccio II e la coprofagia

Abbiamo esposto in estrema sintesi quanto ci dice la storia monumentale, quella fatta di battaglie, trattati, date. Frugando nel vasto Web, mi sono imbattuto in qualcosa che ha destato subito la mia curiosità: un articolo di un blog di WordPress in cui si parla della coprofagia di Ranuccio II Farnese! Il Duca di Parma e Piacenza sarebbe stato un ghiottissimo trangugiatore di escrementi umani e persino animali. Purtroppo a un'attenta analisi sorge il sospetto che il documento sia un semplice pacchetto memetico fatto di informazione degenerata. In parole povere, potrebbe trattarsi di un fake, per quanto originale. Passiamo a discuterlo in dettaglio. 
 
Il blog si intitola Piazenza - Leggende & Misteri Piacentini e ha avuto vita effimera, dal novembre 2007 al gennaio 2008. Può quindi definirsi un portale estinto. Due sono gli autori che hanno pubblicato i testi: Sabanaumann e Raputt.


Anche se questi link dovessero in futuro "rompersi", e Piazenza scomparisse dal Web, spero che questa mia testimonianza rimarrà visibile a tutti. Certo, non depone molto a favore della serietà del blog la presenza di un articolo, pubblicato in due parti, che identifica il cardinale Ersilio Tonini con un agente segreto del KGB, con nome in codice Vakulincuk. Sarebbe però un grave errore sottovalutare la goliardia, nelle cui trovate stravaganti talvolta si nascondono cose di estremo interesse. 

Questi sono i tag surreali apposti all'articolo che sitamo analizzando:  

1500
afta epizootica 
copra
coprofagia 
Gianni Morandi
merda
Mozart
Parma
Ranuccio II Farnese
volley 

Alcuni sono incongruenti: 1500 non ha senso, visto che Ranuccio è vissuto nel '600; si capisce che copra è un'abbreviazione di coprofagia, quindi la sua aggiunta è superflua (in realtà la copra è la polpa di cocco essiccata). L'afta epizootica è una malattia che colpisce i bovini e non è tipica degli umani coprofagi. Non esiste un filo conduttore che unisca coprofagi vissuti in epoche diverse e in luoghi diversi: sarebbe come accomunare persone diverse perché hanno i capelli rossi o i porri. Sarò limitato, ma volley mi sembra incomprensibile in questo contesto. 

Il castello della merda di cavallo 
 
Nel luogo chiamato Bardi, il sovrano di Parma e Piacenza avrebbe fatto costruire una piscina, che a detta del blogger Sabanaumann veniva riempita di feci equine e usata da Ranuccio per prolungate immersioni escrementizie. Proprio da questo malsano costume avrebbe tratto origine un oscuro detto, supposto essere tuttora in uso: "Bardi, Bardi, castel ed merda ad cavai<i>", ossia "Bardi, Bardi, castello di merda di cavalli". Non ho potuto trovare alcuna prova sulla sua esistenza e tutto sembra indicare che è soltanto il parto di una fantasia. L'esistenza di una particolare razza equina locale, il cavallo Bardigiano, non costituisce di per sé una prova, neanche se si dimostrasse che tali animali sono grandi smerdatori. Si fa poi allusione a ricerche archeologiche, forse fantomatiche, volte a individuare la sunnominata piscina fecale. Sarei felice di poter contattare nativi di Bardi per cercare riscontri sul bizzarro detto e più in generale se nella memoria popolare esistono tracce del ricordo della figura del famoso Duca di Parma. Aggiungiamo qualche considerazione sull'etimologia del toponimo Bardi, che sta per Longobardi: quel luogo deve aver ricevuto il suo nome perché l'identità etnica e nazionale dei Longobardi vi perdurò più a lungo che altrove.    

Costituzioni merdose  

Uno degli atti più importanto di Ranuccio sarebbe stata la promulgazione di un editto noto come "Sulle cortesi e nobili genti che affollano il patrio suolo". Anche in questo caso il condizionale è d'obbligo, perché non si riesce a risalire al testo. Il documento è descritto da Sabanaumann come un insieme di regole di convivenza civica, qualcosa di molto simile ai regolamenti comunali dei nostri tempi. Si vuole che nell'ultimo foglio, in corrispondenza della firma del Duca e del suo sigillo, sia presente una chiazza brunastra, che a un'analisi accurata si sarebbe rivelata composta da materia fecale. Si ipotizza dunque, non sena ingegno e mirabile fantasia, che Ranuccio sia stato sorpreso con le mani grondanti di pastone intestinale e costretto a firmare così, all'istante, senza potersi ripulire. È un vero peccato che la Settima Arte perda il suo tempo in stupidissimi remake e non attinga a questo materiale... a piene mani!     

Esperimenti di cucina fecale 
 
Si riportano diverse citazioni piuttosto fantasiose quanto prive di qualsiasi riscontro. Certo, non voglio dire che se una cosa non si trova in Google debba essere inesistente, ma si converrà che la ricerca potrebbero incontrare ostacoli insormontabili. Questo è un estratto dalla fonte blogosferica:  
 
"Numerosi cronisti che vissero a corte, hanno costellato i loro resoconti con riferimenti curiosi riguardo al sovrano, spesso con parole che per il tempo suonavano enigmatiche e di non facile comprensione. Come se volessero far filtrare un messaggio per i posteri."
 
Si passa quindi a nominare i cronisti suddetti, con i rispettivi contributi. Essi sono tre: Francesco Antinori, Giovannone Potestì detto Busello (immagino per via del suo ano integro, mai rotto da sodomia) e Cassandro Zilioli. Alcuni commenti, che ritengo doverosi: 
 
1) Il mite Francesco Antinori avrebbe definito Ranuccio con parole moderate ma comunque poco lusinghiere: "Il Duca sturlissimo". Per chi non lo sapesse, nell'italiano antico esisteva l'aggettivo sturlo "ottuso, di intelletto tardo". In toscano si traduce con "grullo". Francesco di Vannozzo (XIV sec.) ha nelle sue Rime: "Chi sa mal darlo sa ben peggi[o] durlo; / tal va con ferle che già seppe farlo / e provò Carlo già tratte de curlo, / unde sei sturlo se non lassi starlo." 
2) A prestar fede a Giovannone Potestì detto Busello, Ranuccio sarebbe stato "Il Sovran che feci di tutti sue fea". La parafrasi non è poi difficile. Il verbo è fea "faceva". Così si deve tradurre in italiano moderno con "Il Sovrano che faceva sue le feci di tutti". Si rimarca l'assoluta promiscuità della coprofagia ranuccesca: ce lo immaginiamo mentre prende la merda a badilate, da chiunque la deponga, portandosela alla bocca e masticandola con frenesia. 
3) A un certo Cassandro Zilioli viene attribuita una frase sconcertante sul Duca: "Se marron la cena non parea, sua non la volea". Non credo sia necessaria la parafrasi. In ogni caso, per facilitare eventuali lettori non abituati all'italiano antico, spiego le forme verbali: parea "pareva", ossia "sembrava"; volea "voleva". Di questi tempi si direbbe così: "Se la cena non sembrava marrone, non voleva mangiarla"
 
Il livello di questo italiano antico è certamente abbastanza elevato, specie se confrontato con i maccheronismi del Brancaleone di Monicelli o di Feudalesimo e Libertà (che effettua addirittura perigliose mescolanze col latino fatto e finito). Purtroppo non ho notizia di cronisti o altri uomini illustri che rispondano ai nominativi di, Giovannone Potestì e Cassandro Zilioli. Peccato. Va però detto che un Niccolò Francesco Antinori (1633 - 1722) fu senatore e segretario di stato proprio a Parma, nel 1698, quando il Duca era morto da qualche anno. Se le frasi coprolaliche sopra riportate fossero autentiche, dovremmo dedurne che il buon Ranuccio faceva usare lo sterco in complesse preparazioni culinarie a lui specificamente destinate. E pensare che già la mia fantasia si era messa a galoppare. Sono persino riuscito, servendomi dei pochissimi elementi disponibili, a ricostruire due di queste ricette: la merda alla parmigiana e i tortellini ripieni di escrementi, conditi con ragù fecale. Sappiamo infatti che i tortellini sono comparsi proprio alla corte di Ranuccio II Farnese, basta fare due più due e si arriva a quattro. Per quanto riguarda la merda alla parmigiana, la mente va subito alla famosa scena in cui l'ispettore Nico Giraldi, interpretato dal mitico Tomas Milian, costringeva Bombolo a cibarsi di feci e infieriva dopo aver steso sugli stronzi una cucchiaiata di formaggio grattugiato. Bombolo abbozzava una timida protesta: "Sempre merda è!" Al che l'ineffabile Ispettore: "Sì, ma è merda alla parmigiana!" Come non collegare tutto ciò al nobile Ranuccio, Duca di Parma? 

L'importanza scientifica della coprofagia

Se anche l'intera faccenda della coprofagia ranuccesca dovesse rivelarsi interamente posticcia e fabbricata ad arte da alcuni blogger, resta un dato di fatto: sono esistite ed esistono tuttora persone dotate di un sistema immunitario molto peculiare, che permette loro di resistere ai patogeni fecali. Andrebbero condotti studi clinici rigorosi su questi individui. Eppure ciò non avviene. Non solo: la tendenza del mondo scientifico è quella di negare alla radice l'esistenza stessa del fenomeno. Per colpa del cieco moralismo di accademici ottusi, la Scienza perde molte opportunità di migliorare la condizione umana. 
 
Conclusioni 
 
Mentre si può documentare bene la coprofagia di Wolfgang Amadeus Mozart, il caso di Ranuccio II Farnese necessita di ulteriori e ardui studi. Allo stato attuale delle cose, la questione rimane indeterminabile. Resta la speranza che il futuro possa portare prove sostanziali e ci permetta di capire meglio anche le pagine più oscure della Storia. La spiegazione potrebbe trovarsi in una tradizione di campanilismo, in cui possono essersi preservate, seppur in forma vaga e distorta, antiche narrazioni. La cosa non dovrebbe soprendere: anni fa mi un amico mi raccontò di essersi imbattuto in alcuni vecchi toscani che litigavano in modo accanito per via della battaglia di Montaperti.
 
Etimologia del nome Ranuccio 

Tra i romanisti è diffusa la convinzione che l'antroponimo Ranuccio (con la variante Ranuzio) sia un ipocoristico di Rinaldo, in pratica una forma abbreviata di Rinalduccio. In realtà esiste un'etnimologia più probabile e diretta, dalle radici protogermaniche *raγina- "consiglio; decisione" e *nutja- "utile" (antico alto tedesco nuzzi "utile", tedesco moderno nütze). Possiamo così ricostruire una forma longobarda *RAHINNUZZI, il cui naturale esito è proprio Ranuzio, ipercorretto poi in Ranuccio. In antico alto tedesco si ha Regin- come primo elemento di nomi propri: la radice non è sopravvissuta in forma indipendente. Si noti la metafonesi palatale, a differenza di quanto accade in longobardo.