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domenica 19 settembre 2021

UN RELITTO ETRUSCO IN TOSCANO: BISCHERO 'STUPIDO', 'PENE'

Qual è l'origine della notissima parola toscana bischero? Quanti se lo saranno chiesto, senza poter trovare una risposta! Nell'uso comune, bìschero significa "stupido, minchione", ma questa semantica è di chiara origine peniena. Il bìschero è innanzitutto il membro virile. Ricordo ancora che in un fumetto erotico alcune signore chiacchieravano dalla parrucchiera, lamentandosi che i mariti pretendevano la fellatio, incuranti che i loro bischeri fossero bisunti e maleodoranti. Il passaggio da "membro virile" a "scemo" è molto ben documentato in un gran numero di casi. Basti pensare a parole come minchione, pirla, baggiano, citrullo, etc. Gli organi genitali sono per loro natura la negazione dell'intelligenza, maschili o femminili che siano: hanno reazioni puramente impulsive e devono essere controllati perché non facciano disastri.
 
Come al solito, la fantasia dei romanisti si è scatenata. Si può partire dal responso di Google alla chiave di ricerca "bischero":  

Dizionario
Definizioni da Oxford Languages

bischero
/bì·sche·ro/
sostantivo maschile


    1. Ciascuno dei cavicchi che servono a tirare o allentare le corde degli strumenti a seconda che si girino in un senso o nell'altro.
    2. TOSCANO • POP.
    Il pene.
  •         FIG.
    Grullo, buono a nulla; persona che si crede furba e invece si rivela stupida e minchiona (in questo sign. anche f. -a ).
Origine

Prob. alterazione di pìspolo, altra voce tosc. equivalente a bischero nei sign. di ‘cavicchio’ e ‘pene’, con attrazione del pref. bis- con valore pegg. e cambio di suff. •1521.
 

Per completezza, riporto anche la definizione della parola cavicchio, visto che non è di uso comune. La fonte è sempre quella indicata da Google. 

Dizionario
Definizioni da Oxford Languages  
 
cavicchio
/ca·vìc·chio/
sostantivo maschile


    1. Legnetto rotondo piantato su una parete per appendervi oggetti.
  •  Legno cilindrico, aguzzo a un'estremità, con cui si fanno buchi nel terreno per piantare o seminare erbaggi.
  •  Piolo delle scale di legno portatili.
  •  Piccola zeppa troncoconica di legno duro per turare i fori lasciati dai chiodi nei fasciami.
  •  Bischero (per strumenti a corda).
    2.    ESTENS.
    Cavicchio osseo, prominenza dell'osso frontale nei Ruminanti Cavicorni.

Origine

Der. di cavicchia •sec. XVI.

L'opinione della Crusca 


Matilde Paoli (Accademia della Crusca), fa riferimento all'articolo di Alberto Nocentini, Bischero: un caso apparentemente risolto, "Archivio Glottologico Italiano", XC - 2005, f. 1, pp. 114-116: 114. Il suo contributo è del 2009.

"Nello stesso articolo Nocentini, oltre a delineare il percorso semantico della forma, percorso ormai riconosciuto da tempo dagli studiosi di etimologia, formula l'ipotesi che essa risalga, anziché alla radice *bisc-/*pisk- 'dondolare, girare, muoversi', come proposto precedentemente in LEI (vol. VI, coll. 84-90),  al lemma *pipa con il probabile significato originale di 'cannuccio, cannello', a cui sarebbero da connettersi anche l'aretino pipo o pipi 'membro virile dei bambini' e l'aretino e senese pìrolo che ha lo stesso valore, oltre a quello di 'qualsiasi oggetto affusolato'."
 
Le conclusioni della Crusca sono quindi le seguenti: tra il pippo, il pirla e il bischero sussisterebbe assoluta identità e l'etimologia sarebbe da cercarsi in un'onomatopea.
 
La bischerata dei banchieri Bischeri 
 
Nell'abominevole social Quora mi sono imbattuto in un'invereconda stronzata, che tuttavia è molto diffusa tra il volgo: il solito tentativo di far derivare l'origine di un vocabolo da un cognome.   
 
 
L'utente Daniele Bologna ha scritto quanto segue:
 
I Bischeri erano una ricca famiglia di banchieri della Firenze medievale.
Il loro cognome è diventato sinonimo di stupido in vernacolo fiorentino per un fatto avvenuto alla fine del '200 e legato alla fondazione del Duomo: quando il Comune di Firenze decise di costruire la cattedrale di Santa Maria del Fiore si decise di edificarlo in un'area dove la famiglia Bischeri aveva diverse proprietà immobiliari. (più o meno nella posizione dove oggi c'è la cupola del Brunelleschi).
Il Comune allora offrì loro una cifra enorme per poter acquistare quelle proprietà per liberare il terreno e iniziare il cantiere.
I Bischeri pensando di poter speculare sul prezzo rifiutarono più volte le offerte del Comune, finché il governo cittadino perse la pazienza e decise di passare all'esproprio forzato di quei terreni dando ai Bischeri una miseria come indennizzo.
Per questo motivo i Bischeri divennero lo zimbello della città. Cambiarono perfino cognome in Guadagni perchè già allora Bischero era diventato un nomignolo beffardo. 
 

Questi Bischeri sono esistiti realmente. Così Wikipedia in italiano: 

"I Bischeri furono una cospicua famiglia fiorentina, il cui cognome costituisce una famosa etimologia popolare, che gode però di scarsa considerazione tra i linguisti[1] per bìschero, il tipico appellativo toscano indirizzato a persone ingenue e poco furbe."

[1] Vedi Nocentini (2005), di cui sopra. 

E ancora: 

"Si hanno tracce dei Bischeri in Firenze fin dalla metà del XIII secolo e nei decenni successivi questi si imposero come ricchi possidenti e mercanti, conseguendo molte cariche pubbliche, tra cui ben 15 priorati dal 1309 al 1432 e due gonfalonieri di Giustizia (Noferi e Giovanni). La famiglia Bischeri aveva le proprie case nella zona tra Piazza del Duomo e Via dell'Oriuolo, nota oggi come "Canto dei Bischeri" ed il suo stemma era bardato di otto di nero e di oro."
 
I Bischeri non sono stati la causa dell'uso della parola bischero; semmai sono stati scherniti e messi in satira dal volgo proprio per via del loro nomen omen
 
Un'attestazione antica 
 
Anche se i romanisti pensano di ridurre tutto a formazioni onomatopeiche, il bischero era già noto nell'Etruria dell'antichità. Il vocabolo viscri è attestato in un'iscrizione su statuetta bronzea recante un testo in scriptio continua. Questa è la traslitterazione: eitviscriture/arnθalitlepumpus (Ar 4.4, CIE 2627). La prima parte del testo è da separarsi in eit viscri ture "così dona il membro", mentre la seconda indica il soggetto della frase, ossia il nome del donatore: Arnθ Alitle Pumpus.  
 
eit "così" 
viscri "membro" 
ture "dona" 
 
Traduco viscri in modo generico con "membro" oppure "organo interno". Marzolla era convinto che si trattasse di una fallo, rappresentato "con crudo realismo" (1984). Forse aveva ragione. Si noterà che l'uomo rappresentato dalla statuetta non indossa le vesti di un aruspice. La trafila semantica deve essere stata questa: "organo" => "budello" => "pene".  
 
Il toscano bischero "pene", "stupido" è senz'altro il più chiaro e glorioso relitto etrusco ben vivo e vitale ai nostri tempi. 
 
Pallottino riteneva probabile l'evoluzione dell'approssimante /w/ in una fricativa /v/ o /β/ in etrusco, che sarebbe avvenuta precocemente rispetto al latino. Si può citare a questo proposito il toponimo Velzna, corrispondente al latino Volsinii (Novi), da cui si è sviluppato l'italiano Bolsena, con una consonante iniziale occlusiva. Ecco, la derivazione del toscano bischero dal sostrato etrusco sarebbe un altro notevole esempio di questo sviluppo. Possiamo ricostruire un latino volgare *bīscru(m) come antenato diretto della parola in analisi. 

A questo punto i romanisti potrebbero obiettare che il termine toscano è attestato a partire dal XVI secolo, trovandosi però nel cognome Bischeri già nel XIII secolo: c'è una grande distanza temporale tra l'etrusco, verosimilmente spentosi agli inizi del I secolo d.C. o forse poco oltre. Questa non è una prova convincente, anche considerando che non si tratta di un dottismo. I resti delle lingue di sostrato hanno spesso una considerevole tenacia e possono continuare la loro esistenza occulta come fiumi carsici per molti secoli, emergendo poi all'improvviso. 
 
Possibili prestiti dal proto-tirrenico
al proto-italico e al proto-germanico
  

Indago alcuni possibili prestiti dall'etrusco al latino, più antichi di quello che ha dato origine alla parola bischero

Traduco quanto riportato dalla Wikipedia in inglese: 

 
vīscus n. (genitivo vīsceris); terza declinazione (soprattutto plurale)
  1. Ogni organo interno del corpo.
  2. (anatomia) interiora, viscere, intestini, organi interni  
  Sinonimi: intestīnum, interāneum, exta, prōsicium, 
      prōsecta, hīllae

Etimologia 

Di origine non chiara[1]; forse dal proto-indoeuropeo *weys- (“girare, ruotare”).

[1] De Vaan, Michiel (2008).
 
La ricostruzione proto-indoeuropea è abbastanza discutibile e potrebbe essere fallace: a quanto se ne sa, la radice è presente soltanto in latino; al limite sarà stata presente in altre lingue derivanti dal proto-italico, anche se all'attuale stato delle conoscenze non lo sappiamo. Reputo più probabile pensare che dall'antico etrusco sia giunta al proto-italico questa parola come prestito.  

Traduco quanto riportato dalla Wikipedia in inglese: 


virga f. (genitivo virgae); prima declinazione 
   1. ramoscello, giovane germoglio 
   2. asta, 
   3. bastone, bastone da passeggio 
   4. bacchetta (magica) 
   5. (in senso figurato, latino tardo, latino medievale) pene
 
Etimologia 

Dal proto-italico *wizgā, probabilmente dal proto-indoeuropeo *wisgeh₂ (“asta o ramo flessibile”). Possibilmente imparentato col proto-germanico *wiskaz (“fascio di fieno o di paglia, ciuffo”).[1] Dal proto-indoeuropeo *weys- (“produrre, procreare”), o in alternativa da una radice *weyḱs- (vedi *weyḱ-)(2). Indipendentemente da ciò, è probabilmente un doppione di viscum(3)
 
[1] Alberto Nocentini, Alessandro Parenti, “l'Etimologico - Vocabolario della lingua italiana”, Le Monnier, 2010
(2) La radice *weyḱ- ha il significato di "entrare; stanziarsi; stanziamento" (nota mia).
(3) Latino viscum "vischio" (nota mia).

La ricostruzione proto-indoeuropea è abbastanza discutibile e potrebbe essere fallace: a quanto se ne sa, la radice è presente soltanto in latino e in germanico. Questa radice ha l'aria di essere un termine di sostrato o di adstrato, preso proprio da una lingua tirrenica. I Neogrammatici lo hanno preso e lo hanno proiettato nelle Steppe, come è loro costume. 
 
Questa è la trafila da me presupposta: 

Proto-tirrenico: 
    *wisk- 
Significato: "membro", "organo"
     per estensione: "budello", "pene"
=> Proto-indoeuropeo occidentale:
    *wizg- / *wisk- / *wi:sk- 
Significato: "asta flessibile", "membro"; "organo", "budello" 
=> Proto-italico, Proto-germanico.  

mercoledì 15 settembre 2021

ETIMOLOGIA LONGOBARDA DI GUITTO E DELL'ANTROPONIMO GUITTONE

Negli anni della mia gioventù, ero convinto che la parola guitto fosse derivata dalla stessa radice germanica dell'inglese wit "detto sagace", "motto di spirito". Nonostante la sua grande bellezza, questa ipotesi si rivelò presto del tutto fallace. In estrema sintesi, i fatti sono questi:
 
1) Se ammettiamo l'etimo di cui sopra, la parola non può essere genuinamente longobarda, dato che manca della Seconda Rotazione Consonantica, che l'avrebbe resa *guizzo
2) Il termine "guitto" non aveva un tempo il suo significato attuale di "attorucolo": indicava piuttosto il vagabondo, inteso come "individuo inutile e sudicio". In toscano la parola è tuttora usata come aggettivo col significato di "meschino, misero, povero" e anche di "avaro, gretto", "squallido"
 
Vediamo ora di ingegnarci a chiarire l'origine della parola in esame, combattendo contro difficoltà di ogni genere pur di tirarla fuori dal pantano etimologico in cui sembra sprofondata. 
 
I guitti, cittadini di Guittalemme

Chi si ricorda di Erminio Macario? Certamente tra i Millennials, e ancor più tra la Z Generation, nessuno ha la benché minima idea dell'esistenza di questo personaggio, che iniziò la sua carriera come "comico grottesco". Ricordo che in un documentario, visto molti anni fa, si parlava della formazione giovanile di Macario a Guittalemme. Il toponimo Guittalemme stava a indicare una fantomatica città popolata dai guitti, forse addirittura il luogo d'origine di tutti i guitti. La formazione del toponimo immaginario è ben chiara: la radice è la parola guitto "attore vagabondo", mentre il suffissoide -lemme, interpretato popolarmente come "città", è stato estratto dai toponimi di origine ebraica Gerusalemme e Betlemme. Ovviamente si tratta di un procedimento abusivo e infondato, la cui causa è l'ignoranza della lingua ebraica. Infatti Gerusalemme è da יְרוּשָׁלַיִם Yerushalayim, tradizionalmente interpretato come "Fondazione di Pace", nonostante -ayim abbia l'aspetto di un suffisso duale fossilizzato; invece Betlemme è da בֵּית לֶחֶם Beth Lechem "Casa del Pane" (לֶחֶם lechem significa "pane"). Nel documentario su Macario si parlava delle "guittate", trovate da attorucoli privi di mezzi. Due esempi di guittate: salire sul palco con residui del trucco dello spettacolo precedente; simulare il passaggio dei soldati pestando ritmicamente dei manici di scopa sul pavimento dietro un tendone, da cui emergeva solo la paglia delle ramazze, che dovevano far venire in mente agli spettatori una fila di copricapi militari. Riporto a pubblica edificazione questi frammenti di memorie di un mondo perduto.
 
Alcune etimologie tradizionali 

Ipotesi catalana: 
Il Michaelis, citato nel Dizionario Etimologico Online, propone l'origine della parola guitto dall'aragonese e catalano guit, guito "cattivo, sfrenato, indocile", che a quanto pare sarebbe stato detto soprattutto dei muli - quegli equini caparbi, dotati di smisurato priapo e scorreggioni, che in preda a crisi convulsive tirano calci a destra e a manca. Così una mula guita significa "una mula recalcitrante". Il Diccionari de la llengua catalana glossa guit con "Que acostuma a tirar guitzes", ossia "che è solito tirare calci". In aragonese e in catanano, dalla stessa radice sarebbe derivato anche guiton "vagabondo, ozioso, mendico". Per quanto riguarda l'origine ultima, nel Dizionario Etimologico Online è indicato il basco gaitz "cattivo", cosa impossibile già soltanto per motivi di fonetica. Altre proposte etimologiche riportate in quella fonte sono ancora più stravaganti e implausibili (gallese gwid "vizio"; latino vietus "floscio, marcescente").   


Si nota che il catalano guit, guito, è pronunciato con un'occlusiva velare semplice e senza -u-, e tale era anche in epoca medievale, tanto che in italiano sarebbe stato adattato come *ghitto. In spagnolo esiste una variante güito "indocile" (detto di animale), pronunciato /'gwito/. Tuttavia proprio questa peculiarità fonetica della parola spagnola fa pensare che si tratti piuttosto di un prestito dall'italiano. Tutte le forme citate, aragonesi, spagnole e catalane, sono a parer mio prestiti dall'italiano guitto: il flusso è proprio l'inverso di quello descritto dai romanisti. 

Ipotesi olandese: 
Il Vocabolario Treccani sostiene l'origine della parola guitto dall'olandese guit "briccone, furfante". Com'è costume dei romanisti, nessuno sembra preoccuparsi minimamente di fornire una traccia etimologica in grado di spiegare la voce olandese.


Si deve ricorrere a fonti più aggiornate e decenti. Nel Wiktionary in inglese, si trova quanto segue: guit deriva dal medio olandese guyte, di origine incerta e probabilmente connesso con ghoiten "rimproverare" e con guiten, guten "prendere in giro, schernire". Possibili paralleli in altre lingue germaniche sono: norreno gauta "parlare molto" e antico alto tedesco gauzen "insultare con un nomignolo". Un problema di non poco conto è la pronuncia stessa della parola olandese, che ha un dittongo discendente /œy/, con l'accento sulla prima vocale: /γœyt/. Il dittongo era discendente anche in epoca medievale, per sua derivazione da un dittongo protogermanico. I romanisti hanno dato per scontato che la pronuncia fosse */gwit/, con un dittongo ascendente. In pratica, hanno ciccato! La parola del medio olandese non avrebbe mai potuto dare guitto in toscano. 


Per quanto riguarda la semantica, la somiglianza è abbastanza notevole, ma questo conta assai poco. Che una provenienza olandese della parola fosse abbastanza improbabile, è facile da capire.

L'antroponimo Guittone 
 
Nel XIII secolo esisteva in Toscana l'antroponimo Guittone, chiaramente derivato da guitto. Ci è ben noto Guittone d'Arezzo (Santa Firmina, 1230/1235 - Firenze, 1294). Aveva moglie e figli ed era libidinosissimo, poi ebbe una crisi religiosa e divenne un fratacchione... gaudente! Di lui si ricorderà certamente la poesia immortale "Stavasi un eremita in Poggibonsi"... 😀 Il nomen omen è una realtà!
 
La vera etimologia 
 
Si deve evitare il marasma, visto che in questo caso specifico esiste modo di farlo. Presento dunque la sorgente etimologica a cui bisogna fare riferimento. 
 
Proto-germanico:  *wiχtiz "essenza, essere; cosa, creatura" (genere: femminile). 

Singolare 

nominativo: *wiχtiz 
genitivo: *wiχtīz 
dativo: *wiχtī
accusativo: *wiχtin 
vocativo: *wiχti 
strumentale: *wiχtī
 
Plurale
 
nominativo: *wiχtīz
genitivo: *wiχtijōn
dativo: *wiχtimaz
accusativo: *wiχtinz 
vocativo: *wiχtīz
strumentale: *wiχtimiz

Discendenti (l'elenco non è esaustivo e non riporta tutte le varianti ortografiche): 

Gotico: waihts "cosa"
Norreno: véttr, vætr "creatura, specie di gnomo"
Antico inglese: wiht, uht "cosa" 
  Medio inglese: wight "creatura, cosa; persona; mostro; 
     piccola quantità" (pl. wightes
  Inglese moderno: wight "creatura, entità", whit "piccola 
    quantità" 
Antico olandese: wiht "creatura; bambino; ragazza"
  Medio olandese: wicht, wecht "creatura; bambino;
      ragazza"  
   Olandese moderno: wicht "creatura; bambino; ragazza"
Antico sassone: wiht (f.) "creatura, cosa; persona"
Antico alto tedesco: wiht "creatura; cosa"
  Medio alto tedesco: wicht "creatura; cosa" 
  Tedesco moderno: Wicht "piccola creatura; nano"
 
Esiste anche una variante i cui esiti non sono sempre facili da distinguere, specialmente nelle lingue moderne. Eccola: 
 
Proto-germanico *wiχtan "cosa; creatura" (genere: neutro).  

Singolare 

nominativo: *wiχtan
genitivo: *wiχtas, *wiχtis  
dativo: *wiχtai
accusativo: *wiχtan
vocativo: *wiχtan  
strumentale: *wiχtō
 
Plurale
 
nominativo: *wiχtō
genitivo: *wiχtōn
dativo: *wiχtamaz
accusativo: *wiχtō 
vocativo: *wiχtō
strumentale: *wiχtamiz
 
Discendenti (l'elenco non è esaustivo e non riporta tutte le varianti ortografiche): 
 
Gotico: ni waiht "nulla" 
Antico inglese: wiht "creatura, cosa";
     āwiht "qualcosa";
     nāwiht, nōwiht "niente"
  Medio inglese: wight "creatura, cosa, persona; mostro; 
     piccola quantità" (pl. wighten);  
     ought "qualcosa";
     naht, noht, noght, naght, naught "niente"
  Inglese moderno: wight "creatura, entità";
     nought
, naught "niente", not "non"
Antico olandese: wiht "creatura; bambino; ragazza"; 
      niewiht, nuwieht, niuweht "niente" 
  Medio olandese: wicht, wecht "creatura; bambino;
      ragazza"; 
      niwet, nit, niet "niente"  
   Olandese moderno: wicht "creatura; bambino; ragazza";
      niet "non", "no"
Antico sassone: wiht (n.) "creatura, cosa, persona"; 
     neowiht, niowiht, nieht "niente"  
   Medio basso tedesco: wicht, wucht (n.) "cosa"
Antico alto tedesco: wiht (m., n.) "creatura; cosa";
      niowiht "non"
  Medio alto tedesco: wicht "creatura; cosa"; 
     niuweht, nieweht, niht, nit "niente, nessuno; non"
  Tedesco moderno: Wicht "piccola creatura; nano";
      nicht "non"
 
A questo punto è chiarissima l'origine longobarda di guitto e di Guittone
 
Longobardo ricostruito: 
  GUICT "creatura, cosa"; "buono a nulla, vagabondo"; 
  NIGUECT, NEIGUECT, NAIGUECT "niente".
Il pronome indefinito ha lasciato importanti esiti in alcuni dialetti gallo-italici della Lombardia: milanese nigòtt "niente", brianzolo nigòtt, nagòtt "niente"; in bergamasco ho sentito vergòt, ergòt "qualcosa". 
 
Non ho dubbi sul fatto che il catalano guit provenga da una forma germanica, la stessa che troviamo nell'antico alto tedesco wiht. Si potrebbe pensare che l'origine sia nella lingua dei Franchi. Tuttavia si nota che non risulta un esito di questa radice passato al francese o al provenzale. Potrei sbagliarmi, ma se esistesse, i romanisti lo avrebbero già usato come fonte etimologica. Non credo che i Franchi avessero potere in Catalogna. Non può trattarsi di una parola del germanico orientale a causa del vocalismo. Resta un'unica soluzione: è provenuta dall'Italia. 
 
Conclusioni 
 
Con questo contributo ho fatto chiarezza su alcuni punti controversi. 
 
1) Ho dimostrato che l'italiano guitto non deriva dall'olandese guit
2) Ho dimostrato che l'italiano guitto non deriva dal catalano guit, essendo vero il contrario. 
3)  Ho enunciato l'origine longobarda dell'italiano guitto e dell'antroponimo Guittone.

sabato 11 settembre 2021

ETIMOLOGIA DI GIAGGIANESE, GIARGIANESE

Cos'è un giaggianese? Molti se lo saranno chiesto. La parola, che ha la comune variante giargianese, in sostanza significa "persona che parla in modo incomprensibile". Ha una connotazione intrinsecamente spregiativa, giungendo a indicare anche chi parla in modo incomprensibile a bella posta, al fine di imbrogliare, di raggirare gli ingenui. L'idea portante è che colui che parla in modo oscuro, lo debba per forza fare per un cattivo fine. 
 
Formazione e diffusione del termine  

La parola in questione, attestata alla fine del XIX secolo, in ultima analisi deriva dal napoletano ggiaggianése, plurale ggiaggianise. Dopo un periodo di declino, negli anni '40 dello scorso secolo la parola ha ripreso vita e da Napoli si è irradiata anche a Settentrione. Nella città Partenopea, giaggianese ormai è più che altro in uso per indicare una lingua incomprensibile, non tanto colui che la parla. La locuzione tipica è "parlare il giaggianese". Per un napoletano, ogni lingua che non riesce a capire è automaticamente una forma di giaggianese. Sembra comunque che la locuzione fosse più diffusa in passato e che attualmente stia scomparendo. A Milano è in uso la forma abbreviata giaggiana o giargiana. Esempio: "L'è un giaggiana" o "L'è un giargiana". L'accezione più comune nella metropoli è quella di "persona non nativa di Milano e non assimilata agli usi locali", quindi anche di "zotico". La traduzione nel gergo dei Paninari sarebbe "tamarro". Pare che sia tuttora considerato un "giargiana" anche chi proviene dalla periferia della città, indipendentemente dalla sua origine etnica. La scomparsa del suffisso -ese e l'uscita maschile in -a sono comuni in milanese, basti pensare a cuménda "commendatore" e a Berlüsca "Berlusconi". Sembra che la parola in questione sia del tutto ignota in Veneto e in Sardegna. A Torino non è ignota, ma a quanto pare è desueta e il suo uso identifica immediatamente la persona come milanese.
 
Esperienze personali: 
giargianese = che parla un diverso dialetto
 
In Puglia, nelle province di Foggia, Bari, Barletta, Andria e Trani, il giargianese (giargianaise) è il forestiero, colui che parla un dialetto differente da quello locale. Quindi il giargianese può anche essere un pugliese egli stesso. Ricordo che due giovani pugliesi, uno di Trani e l'altro di Lecce, non riuscivano affatto a intendersi quando parlavano nelle loro rispettive lingue locali: erano costretti a ricorrere all'italiano come lingua franca. In quell'occasione il pugliese di Trani ebbe a dire, forse scherzosamente, che quelli di Lecce sarebbero "di un'altra razza".

Esperienze personali:
giaggianese = meridionale

Ricordo ancora la frase pronunciata in un'occasione dall'amico P., nativo della Brianza, ai tempi in cui frequentavamo l'università. Quando gli chiesi cosa significasse la parola "giaggianese", rispose così: "I giagianés hinn i teruni", ossia "I giaggianesi sono i terroni". Il termine "terroni", comunemente usato per indicare le genti del Meridione, ha una connotazione abbastanza spregiativa. Lo si sente usare soprattutto nei paesi della Lombardia profonda, che non hanno mai metabolizzato i flussi migratori. Questa traduzione di "giaggianesi" con "terroni" mi lasciò abbastanza interdetto. In vita mia non avevo mai sentito la parola con questo significato. Sapevo invece che alcuni meridionali la usavano per designare le genti del Nord. Come risolvere questa eclatante contraddizione? La cosa mi incuriosiva, ma pensai che dovesse trattarsi di un fraintendimento. Finii col non pensarci più per molti anni, finché il problema semantico ed etimologico non saltò fuori nuovamente. 
 
Esperienze personali:
giaggianese = extracomunitario
 
Nel frattempo la realtà sociale era cambiata profondamente e con "giagganesi" si intendevano  gli extracomunitari, soprattutto quelli provenienti dall'Africa. Rimasi stupito quando un siciliano biondiccio, di accese simpatie neofasciste, indicò come "giaggianesi" proprio le genti del Nordafrica - che per ovvi motivi non riscuotevano affatto le sue simpatie. Ovviamente la traduzione del lombardo P., che rendeva "giaggianesi" con "meridionali", era incompatibile con quella del siciliano neofascista, che era meridionale e rendeva invece "giaggianesi" con "marocchini".  

Tentativi etimologici
 
Non si riesce al momento ad andare oltre alle due principali ipotesi di etimologia finora enunciate. Sono le seguenti: 
 
1) I giaggianesi sarebbero stati in origine gli abitanti di Viggiano (prov. di Potenza, Basilicata). La pronuncia del toponimo è Viggiàno (parola piana).

viggianese => ggiaggianese 
plurale viggianise => ggiaggianise
 
Crollato il Regno delle Due Sicilie, a Napoli si riversarono innumerevoli esuli dalla Lucania, che esercitavano la professione di musicisti ambulanti, vivendo spesso di espedienti e finendo con acquisire una pessima fama di imbroglioni - come di regola accade ai vagabondi. Quando mi sono imbattuto in queste informazioni, all'inizio sono stato diffidente, pensando che potessero essere pacchetti memetici e miti infondati diffusi nel Web. In realtà, sono stato in grado di trovarne conferma. Proprio a Viggiano c'è un'importante tradizione di suonatori di arpa fin dal tempo del Regno di Napoli, attestata già nella prima metà del XVIII secolo (Antonini, 1745). L'arpa viggianese, diatonica e più piccola di quella classica, è sprovvista di pedali. È detta anche arpicedda. Nel corso dei secoli molti musicisti di Viggiano hanno portato la loro arte fin nelle più remote contrade del pianeta, ottenendo talvolta un notevole successo. 

2) I giaggianesi sarebbero stati stati in origine gli abitanti di Vigevano (prov. di Pavia, Lombardia). La pronuncia del toponimo è Vigévano (parola sdrucciola).
 
*viggevanese => ggiaggianese  
plurale *viggevanise => ggiaggianise 

Il romanista Gerhard Rohlfs (Berlino, 1892 - Tubinga, 1986) spiegò questo strano vocabolo in questo modo ingegnoso, per quanto un po' macchinoso e contorto. Così ha scritto: "piccoli commercianti che vengono dall'Alt'Italia per comprare l'uva o il mosto: deformazione di viggevanesi 'di Vigevano'." 
 
A parer mio è più probabile che Vigevano sia divenuto *Viggéggiano per assimilazione, quindi la trafila sarebbe questa:  
 
*viggevanese => *viggeggianese => ggiaggianese 
plurale *viggevanise => *viggeggianise => ggiaggianise 
 
L'amico D. mi spiegava che nel suo paese, situato nel Varesotto, esisteva la costumanza di miscelare il vino locale, rosso e a basso tenore alcolico, a certi rosati pugliesi, economici e molto più forti. Il risultato a quanto pare era eccellente, tanto da essere stato trovato in vendita anche in taverne nella lontana Genova. 

Una profonda incertezza
 
Sono stati fatti tentativi di sintesi per mettere assieme queste due etimologie contrastanti, che pure sembrano avere qualche verosimiglianza: i Vigevanesi compratori di uve e di mosti sarebbero stati assimilati ai precedenti Viggianesi musicisti itineranti per via della loro supposta e comune tendenza a imbrogliare. Ovviamente il condizionale è d'obbligo: secondo altre fonti, i compratori settentrionali di uve e di mosti erano invece persone da infinocchiare (Tarantino, 1985).  
 
L'enigma della rotica  

Lo stesso Rohlfs ebbe occasione di inventare un racconto che a parer mio è ridicolo. È il mito del soldato George. Il vocabolo "giaggianese" sarebbe tornato in auge a Napoli dipo lo sbarco alleato, proprio per via della presenza di militari statunitensi, che parlavano in modo incomprensibile. Dato che molti di loro si chiamavano George, spiega il Rohlfs, ecco che "giaggianese" sarebbe diventato "giargianese", quasi "giorgianese". Sembra che una variante "giorgënése" sia davvero attestata a Monopoli (Cortelazzo, Marcato, 1998), ma questo non prova granché: in molti dialetti meridionali le sillabe pretoniche sono per loro natura abbastanza deboli e suscettibili ad oscillazioni. A mio avviso, è più probabile che da "giaggianese" si sia arrivati a "giargianese" per via di un banale ipercorrettismo.  
 
Alcune considerazioni 
 
Il fallimento della romanistica appare evidente. 
 
1) Si avverte la necessità di un vocabolario storico del napoletano, che a quanto pare è tuttora inesistente. 
2) Si avverte la necessità di mappe di diffusione dei termini colloquiali, che a quanto pare mancano o sono in ogni caso di difficile reperibilità. 
3) Non è possibile che si debba scavare nei forum del Web per raccogliere informazioni frammentarie, spesso difficili a validarsi.  
4) Troppo spesso non si riesce ad andare oltre alla fatidica etichetta "etimologia incerta", per quanti sforzi si possano fare. È la condizione terribile del PANTANO ETIMOLOGICO
5) Il senso di impotenza e inconoscibilità si accresce in modo enorme quando ad essere di "etimologia incerta" sono vocaboli di origine recente.

giovedì 9 settembre 2021

IL MARCHESE, NOME VOLGARE DEL MESTRUO: MITI E FALSE ETIMOLOGIE

Quando ero al liceo, mi capitò più volte di sentire una strana designazione del mestruo: il nome per indicarlo era marchese. Mi sono chiesto spesso quale ne fosse la vera etimologia. Non trovando alcuna risposta, salvo la possibile connessione col verbo marcare, la cosa è caduta nel dimenticatoio. Solo in epoca più recente mi sono di nuovo interessato alla questione e ho fatto qualche ricerca nel Web. Ovviamente ho constatato che impazzano le etimologie popolari e i miti infondati. Sull'oscenissimo social Quora mi sono imbattuto in alcuni vani tentativi di spiegazione di questa parola colloquiale. Ecco la fatidica domanda degli utenti, posta un paio di volte: "Perché al sud il ciclo mestruale veniva chiamato il marchese?", "Cosa significa “mi è venuto il marchese”? Cosa c’entra il marchese con le mestruazioni?"

 
 
Premesso che il marchese è detto così al Sud come al Nord, riporto in questa sede le più significative risposte alla domanda quorana. 
 
Questo è il commento di Domenico Bagnato (ho conservato refusi e spazi): 
 
L’ origine di questa espressione è molto semplice: i marchesi erano soliti indossare delle vestiti lunghi di colore rosso vivo per distinguersi dal popolo e sottolineare il loro rango nobiliare. C’è un rimando, dunque, al colore rosso. Oggi questo modo di dire è abbastanza inusuale, anche se ce ne sono tantissimi per denominare le mestruazioni: “ho le mie cose”, “sono in quei giorni”, “avere le regole”, “è arrivata la zia” e tante altre che cambiano anche da regione e regione.
 
Niki Hofer Chiavegato ha commentato così: 

Semplicemente perché era un modo di comunicare tra donne, madri nonne e figlie, per non farsi comprendere dai loro coetanei giovani.
 
"È arrivato il marchese? Si o no?"
 
I nobili dei secoli scorsi indossavano sottovesti di porpora, per distinguersi dai plebei in mutandoni e pezze. 
 
Dunque il colore rosso di tali ricche vesti veniva usato come parafrasi semplice ed elegante per indicare la prima mestruazione che "doveva arrivare"

Più stringato, Gabriele Calvillo ha scritto: 

Perche il sanguinamento e' anche detto marcatura. E popolarmente e' uscito il Marchese…

Alessandro Caccaviello insiste sul fantomatico rosso delle vesti dei marchesi: 
 
Effettivamente è un qualcosa di molto simpatico. Ti spiego, è un semplice richiamo al colore Rosso vivo degli abiti lunghi che i marchesi indossavano per distinguersi dalla popolazione comune (l'abito non fa il monaco ma in questo caso lo differenzia ).

Katia Balzano ripete la stessa versione: 

I marchesi indossavano delle palandrane (veste lunga e ampia da camera) di colore rosso vivo per distinguersi dal popolo e far capire chiaramente la loro nobilita rispetto alla plebe. Il nome deriva da questo

Paolo Memo elabora la leggenda, trovando parallelismi basati sul colore del sangue: 

Non solo a sud, anche al nord. È per via delle palandrane color rosso vivo che un tempo i marchesi indossavano. Altrove si parla de "gli inglesi" o "le giubbe rosse". Più catastrofiche le espressioni "Mar Rosso" o "profondo rosso". Tra le varie espressioni "le regole", "le mie cose", "quei giorni", "gli ospiti"… In questa pagina altre creative, divertenti od anche poetiche definizioni

Livio Felix sembra un po' più originale:

Perché quando il Marchese latifondista del Sud Borbonico, visitava le sue campagne per le quali metteva dei braccianti, visitava anche la moglie del contadino, che, ovviamente in quei giorni, non era disponibile per il marito.

Decisamente più dettagliato è quanto scritto da Carlo Coppola, che pure non si distacca nella sostanza dalla favola della palandrana rossa: 
 
Una domanda divertente.
 
L'uso di citare "il marchese" per dire che sono arrivate le mestruazioni deriva dal fatto che i marchesi un tempo, come molti altri nobili, usavano mantelle di colore rosso porpora per distinguersi dal popolo.
 
In altri Paesi del mondo si usano altre e divertenti frasi.
 
In Russia si usa dire
"красная армия атакует" per esempio e cioè "sta attaccando l'armata rossa". :-) .
 
In Inghilterra si usa "arrivano le Giubbe Rosse" in riferimento alla tenuta rossa dell'esercito britannico imperiale.
 
In America "arriva la zia Rosy".
 
Anche se molto interessanti, le espressioni idiomatiche usate in Russia, Inghilterra e Stati Uniti non sono davvero una prova della veridicità dell'inveterata storiella del marchese dalla veste purpurea.

Capisaldi di una pseudoscienza

In sostanza, questo è il processo con cui si producono e si affermano le etimologie popolari: 

1) Si trova una curiosa parola sfugge all'analisi; 
2) Non si cerca alcun lavoro sull'argomento; 
3) Si costruisce ad hoc un racconto infondato atto a dare una spiegazione, prendendo spunto da un'assonanza;
4) Si conclude di aver trovato la vera etimologia; 
5) Si sostiene questa versione con furore fanatico; 
6) Si cerca con ogni mezzo, ingiuria inclusa, di mettere a tecere chiunque osi sostenere il contrario.

Il punto 2) è fondamentale, è la chiave di volta di tutte le fabbricazioni di questo genere: se ci fosse una ricerca, unita alle basi per comprendere i risultati, l'etimologia popolare non si formerebbe nemmeno. Quello che mi stupisce è proprio l'autoreferenzialità degli etimologi popolari. Non attingono allo scibile nella sua interezza. Attingono in modo esclusivo soltanto alle proprie conoscenze, limitate e distorte, come se fossero l'Universo. Spesso si tratta di un mucchietto di stronzate apprese a scuola da una maestrina con un cervello microscopico, mera ripetitrice pappagallesca di stronzate udite da altri.

La vera etimologia

Nel furbesco italiano, robusto e creativo gergo dei furfanti attestato già nel XVI secolo, la parola marchese significava semplicemente "mese" e non aveva speciali associazioni al mestruo. Nasceva dalla semplice alterazione della parola mese intercalando una sillaba. Questo era il calendario furbesco:

Marchese del lenzore "Gennaio"
Marchese del scaglioso "Febbraio"
Marchese del cervante "Marzo"
Marchese del cornuto "Aprile"
Marchese dei carnosi "Maggio"
Marchese del roverso "Giugno"
Marchese del possente "Luglio"
Marchese del cerchioso "Agosto"
Marchese della giusta "Settembre"
Marchese del tossegoso "Ottobre"
Marchese del frizzante "Novembre"
Marchese del ben nassuto "Dicembre"
Coda di drago "Dicembre"

L'Ouroboros rappresenta l'anno, definito anche serpente e bero (ossia "vipera").

Il furbesco, nato col preciso intento di rendere incomprensibili ai profani le conversazioni dei malavitosi, iniziò la sua decadenza agli inizi del XX secolo e finì con l'estinguersi. Tuttavia ha lasciato traccie indelebili nella lingua italiana colloquiale, come l'esempio del marchese dimostra in modo eloquente. Se il furbesco fosse conosciuto al di fuori di una ristrettissima cerchia di studiosi, non sarebbe stato necessario inventare il racconto grottesco dei nobiluomini vestiti di rosso che sarebbero andati in giro a ispezionare le donne, annusando ciò che trovavano tra le loro gambe. In conclusione, le etimologie popolari non appartengono davvero al dominio della linguistica, essendo puri e semplici pacchetti memetici in grado di autopropagarsi come i virus. 

sabato 28 agosto 2021

ETIMOLOGIE ENOLOGICHE: IL FALERNO

Come tutti sanno, immensa fama ha goduto nell'antichità il vino falerno (latino falernum). Il naturalista Plinio il Vecchio fece una classifica dei vini migliori: Antea caecubum, postea falernum, ossia "Prima il cècubo, poi il falerno". 
 
Questo riporta il celeberrimo Vocabolario Treccani: 
 

falèrno agg. e s. m. [dal lat.  Falernus]. – Antico nome (Agro f., lat. Ager Falernus) della Campania settentr., prima appartenente ai Capuani, poi annessa (fine del sec. 4° a. C.) al territorio dei Romani. Era celebrato dagli antichi scrittori per il suo vino, chiamato appunto falerno (lat. vinum falernum, o falernum s. neutro), nome che nell’uso poet. divenne sinon. di vino prelibato; sono ancor oggi così chiamati alcuni vini tipici della Campania. 
 
Il problema è sempre lo stesso. Molti credono che risalire al latino sia la fine della ricerca, come se la lingua di Roma insegnata a scuola fosse un idioma adamitico, non derivato. Per me invece, una parola latina è l'inizio della ricerca: bisogna capire da dove è venuta.  

Plinio il Vecchio, i cui testi sono sempre molto utili, ci dice questo (Naturalis Historia XIV, 8): 

Antea Caecubo erat generositas celeberrima in palustribus populetis sinu Amynclano, quod iam intercidit iniuria coloni locique angustia, magis tamen fossa Neronis, quam a Baiano lacu Ostiam usuque navigabilem incohaverat. Secunda nobilitas Falerno agro erat et ex eo maxime Faustiniano; cura culturaque id collegerat; exolescit haec quoque copiae potius quam bonitatis studentium. Falernus ager a ponte Campano laeva potentibus Urbanam coloniam Sullanam nuper Capuae contributam incipit, Faustinianus circiter IIII milia passuum a vico Caedicio, qui vicus a Sinuessa VI M passuum abest. Nec ulli nunc vino maior auctoritas; solo vinorum flamma accenditur, tria eius genera: austerum, dulce, tenue. Quidam ita distingunt, summis collibus Caucinum gigni, mediis Faustinianum, imis Falernum.
 
Traduzione:  
 
Prima c'era per il cècubo una qualità molto famosa nelle paludi con i pioppi nel golfo di Amicla, che ormai è scomparsa per la negligenza del contadino e per la ristrettezza del luogo, ma ancor di più per il canale di Nerone, che aveva reso navigabile dal bacino di Baia fino ad Ostia. La seconda eccellenza era per il territorio di Falerno e da questo soprattutto per il faustiniano; se l'era conquistata con la cura e con la coltivazione. Queste vengono meno anche per colpa di quelli che aspirano all'abbondanza più che alla qualità. Il territorio di Falerno comincia dal Ponte Campano a sinistra per quelli che vanno verso la colonia Urbana di Silla associata da poco a Capua, il faustiniano a circa quattromila passi dal villaggio di Cedicio, villaggio che dista seimila passi da Suessa. Per nessun vino c'è oggi maggiore rinomanza. A lui solo si accende la fiamma dei vini. Tre sono le sue specie: aspro, dolce, leggero. Alcuni lo distinguono così: il caucino nasce sui colli più alti, il faustiniano sui medi, il falerno sui più bassi.
 
C'è molta confusione. Dalle parole di Plinio, sembra ben chiara la localizzazione dell'area in cui il vino falerno era prodotto, nella Campania settentrionale, in quella che attualmente è conosciuta come provincia di Caserta. Pure sono state fatte ipotesi alternative, per quanto presentino qualche difficoltà.
 
 
Marina Alaimo (AIS Napoli) cerca di risalire al luogo d'origine del falerno, arrivando a questa conclusione: non sarebbe l'area denominata Piana di Falerno, ai piedi del Monte Màssico, bensì il Monte Falero, oggi conosciuto come Monte Echia. Data la mia scarsa conoscenza dei luoghi, a prima vista l'idea mi era parsa ragionevole. Tuttavia non ha retto a una breve ricerca. Non sono riuscito a trovare l'oronimo Falero: c'è soltanto la mitologica Torre di Falero, dal nome di uno degli Argonauti. Invece ho potuto appurare che il Monte Echia era anticamente chiamato Eple o Emple, denomine che si suppone derivata da Euplea (Afrodite Euploia, patrona della navigazione). Ho potuto vedere una sua foto. Si tratta di un minuscolo pinnacolo di tufo giallastro, di apparenza malaticcia e lebbrosa, friabile, che non sembra davvero il luogo di origine dell'illustre vino, prodotto in grande abbondanza: non è più alto di un palazzo a tre piani! 

In ogni caso, la Alaimo puntualizza una cosa interessante: se il falerno fosse stato coltivato sulle pendici del Monte Màssico, sarebbe stato conosciuto come màssico. Ebbene, il vino chiamato màssico, in latino (vinum) massicum, era noto nell'antichità ed era ben distinto dal falerno. Il màssico era un vino robusto ma di qualità mediocre.   
 
Attualmente si produce il vino denominato Falerno del Massico nel territorio dei seguenti comuni: Mondragone, Falciano del Massico, Carinola, Sessa Aurunca e Cellole (tutti in provincia di Caserta). Si tratta di un vino composto, prodotto a partire da uve di diversi vitigni. 

Falerno del Massico Rosso
    Aglianico: minimo 60%
    Piedirosso: massimo 40%

Falerno del Massico Primitivo
    Primitivo: minimo 85%
    Barbera, Aglianico, Piedirosso massimo 15%

Falerno del Massico Bianco
    Falanghina: minimo 85%
    Altri vitigni campani: massimo 15%

Detto questo, rimane il problema imbarazzante della continuità. Con che uve gli Antichi facevano il falerno? Sappiamo che il falerno continuò ad essere prodotto in epoca medievale, tanto che Papa Innocenzo III lo menzionò nel suo De contemptu mundi. Come erano cambiate le tecniche di vinificazione? Cesare e Augusto avrebbero riconosciuto il falerno bevuto da Innocenzo III, se un crononauta lo avesse portato loro con un prodigioso viaggio nel tempo? Innocenzo III avrebbe riconosciuto il falerno bevuto da Cesare e da Augusto? Non lo sappiamo con certezza, anche se parrebbe implausibile. A maggior ragione, si possono nutrire fondati dubbi sull'identità tra il falerno prodotto in epoca moderna e quello dell'epoca di Roma. La questione ampelografica sembra irrisolvibile.    

Luca Menna, nel Saggio Istorico  della Città e Diocesi di Carinola, 1848, ha scritto quanto segue:  

"Qualsia l’etimologia del vocabolo Falerno, nulla sì conosce , possiam dire solamente , che il Possessore di questo Campo si chiamava Falerno , e li diede un tal nome; di questo sentimento è Sillo Lib. VII, e di fatti il vocabolo Falernus è nome di uomo, e lo vediamo in uso presso il Gori in una sua Iscrizione così: Falernus Euclito fratri suo." 
 

Saggi storici di questo genere sono il prodotto di una cultura autoreferenziale. L'enunciato di Menna è l'essenza stessa dell'impotenza etimologica. Mentre la linguistica faceva passi da gigante, resisteva questo zoccolo duro di topi di biblioteca locali, che spesso erano anche parroci, per i quali l'intera conoscenza del genere umano si riduceva al latino e al greco. Tutto ciò che è al di fuori di queste lingue classiche, era per loro profondo abisso di inconoscibilità. 

Io mi oppongo strenuamente a chiunque dica "nulla si conosce", quando è possibile conoscere!  

In questo specifico caso, si nota una certa negligenza etimologica, perché l'autore avrebbe potuto benissimo trovare una spiegazione al nome Falernus ricorrendo alle fonti classiche.
 
Radice: etrusco fal- "alto"  
 
Testo originale della glossa: "Falae dictae ab altitudine, a falado quod apud Etruscos significat caelum." 
Traduzione della glossa: Le falae ("torri") sono così chiamate dall'altezza, da falado, che tra gli Etruschi significa "cielo". 
Autore: Sesto Pompeo Festo 
Forma singolare: fala 
Varianti ortografiche: phala "torre"; falando "cielo" 
Note: 
Si trova il testo della glossa di Festo con coelum anziché caelum.

Forme etrusche ricostruite: 
*fala "alto"
*falaś "luogo alto; torre; pertica" 
   attestazioni:  
   locativo: falś-ti "sulla pertica" (Cippo di Perugia,
        cfr. Facchetti) 
   locativo: falza-θi aiseras "nel luogo alto degli Dei" 
        (lamella plumbea di Magliano)
*falaθu "cielo"  
Note:  
Etrusco *falaθu "cielo" deve avere avuto il significato di "soffitto a volta". Il latino palātum "palato", ma anche "volta del cielo", deve essere un prestito antico dall'etrusco, come evidenziato da Pittau. Si noti la consonante iniziale p- in luogo di f-: si deve trattare di esiti diversi di una protoforma in ph- /ph/. Per la semantica, si confronti il rumeno ceru gurei "palato", alla lettera "cielo della gola", "soffitto della gola".

Testo originale della glossa: "Falarica genus teli missile quo utuntur ex falis, id est ex locis instructis, dimicantes."
Traduzione della glossa: La falarica è un tipo di arma da getto che i combattenti utilizzano dalle falae, ossia dai luogi fortificati. 
Varianti ortografiche: phalarica  
Pronuncia: /fa'la:rica/
Autore: Sesto Pompeo Festo 
Protoforma ricostruibile: *falāsica 
Note: 
Un notevole caso di rotacismo. Il fenomeno è comune: etrusco tus "letto, giaciglio" è stato preso a prestito in latino arcaico come *tosos per poi diventare torus "cuscino, guanciale, materasso". 
False etimologie: greco φαλός (phalos) "bianco", φάλαρος (phalaros) "con una macchia bianca". Siamo di fronte a un'evidente fabbricazione scolastica. La metodologia è questa: aprire un vocabolario di greco e cercare forme assonanti, anche a dispetto della semantica.  
 
Forme etrusche derivate dalla radice fal- "alto" e attestate in iscrizioni: 
 
falaθres "di Celeste", gentilizio, oppure "della volta celeste"  
faliaθere "nella volta celeste"
faluθras "degli Dei Superi" 
falau "innalzato" (Tabula Capuana, TLE 2)
Note: 
Etrusco falaθres, attestato al genitivo in diverse iscrizioni, deve essere l'equivalente del latino caelestis "celeste, del cielo" (dissimilato per l'atteso *caelestris). In un caso non è chiaro se le attestazioni siano quelle di un gentilizio oppure se sia un sostantivo col significato di "volta celeste". Il testo tr: falaθres: (iscrizione di Settecamini, ET Vs 1.176) potrebbe stare per tular: falaθres: e significare "confine della volta celeste". Secondo Kaimio (2017), si dovrebbe invece interpretare tr: come un'abbreviazione di trepies "di Trebio" (prenome), per cui falaθres sarebbe un gentilizio. Non ci sono ancora elementi per decidere la questione. Una forma arcaica di falaθre- potrebbe essere il faliaθere documentato in un'iscrizione ad Orvieto (Stopponi, 2009). La presenza di -i- è ancora enigmatica; conto tuttavia di poter risolvere il problema quando emergeranno nuovi dati. Il genitivo plurale faluθras "degli Dei Superi" compare in un'iscrizione a Tarquinia (ET Ta 1.164). Stopponi afferma di voler lasciare ai linguisti la definizione esatta di questa forma: ebbene, è un tipico tema plurale, proprio come cliniiaras, clenaras "dei figli", genitivo di clenar "figli". 
Nel testo della Tabula Capuana, alcuni leggono falal anziché falau: se tale lettura fosse corretta, avremmo un genitivo in -al anziché un participio passato in -u, ma la sostanza non cambierebbe molto.  
 
Etrusco arcaico: 
   nominativo/accusativo: *falaθu "cielo" 
   genitivo: *falaθu-s "del cielo"
   nominativo/accusativo: *falaθu-r "Dei Superi"
   genitivo: *falaθu-ra-s "degli Dei Superi"

Neoetrusco: 
   nominativo/accusativo: faltu, haltu "cielo"
   genitivo: *faluθ-s "del cielo"
   nominativo/accusativo: *faluθ-r "Dei Superi"
   genitivo: faluθ-ra-s "degli Dei Superi" 

Note: 
La forma faltu, con la variante delabializzata haltu, è attestata in molte iscrizioni composte da una sola parola.
 
Il nome del popolo dei Falisci e della città di Falerii, loro capitale, è pure di origine etrusca. I Falisci parlavano una lingua indoeuropea, italica e simile al latino. Com'è naturale, aveva numerosi prestiti onomastici dall'etrusco. Tra questi prestiti c'è il nome stesso dell'etnia e l'aggettivo che la designa. 
 
latino Falerii < *Falasioi (pl. tantum), alla lettera
    "Luoghi Alti", "Fortezza"  
latino Falisci < *Falasikoi "Gente di *Falasioi
latino Faliscus < *Falasikos
Note: 
La sincope di -i- nel suffisso *-ikos dovette avvenire prima del rotacismo della sibilante mediana -s-. In etrusco troviamo alcuni gentilizi molto interessanti che potrebbero essere connessi al nome dei Falisci. Mostrano una peculiarità di difficile spiegazione: l'Umlaut palatale. 

Feluskes (gen.) < *falius-
Feleskenes (gen.) < *falias- 
 
A questo punto possiamo azzardare qualche ipotesi di ricostruzione più dettagliata della protoforma dell'aggettivo falernus
 
1) falernus < *falasi-nos 
2) falernus < *falar(i)-nos
 
Il problema fondamentale è quello dell'eventuale rotacismo. Essendo il toponimo ager Falernus localizzato in un'area di lingua osca (sannitica), si dovrebbe propendere per l'ipotesi 2), dato che in tale lingua italica non esisteva il rotacismo. Tuttavia è sempre possibile che l'origine sia connessa a una migrazione da Nord, dal territorio dei Falisci: in tal caso Falernus sarebbe un sinonimo di Faliscus. Sono necessari ulteriori studi. 
 
Queste sono alcune sopravvivenze toponomastiche della radice fal- "alto":  

Falacrina, frazione del comune di Antrodoco (Rieti)
Falacrina, Falagrina, valle nella quale nasce il Velino 
Falecare, frazione del comune di Cittareale (Rieti)
Falerna, comune della Calabria (Catanzaro)
Falerno, frazione del comune di Città di Castello (Perugia)
Falerone, comune delle Marche (Fermo) 
Faleria, Falesia, comune del Lazio (Viterbo) 
Falisco, corso d'acqua del Lazio 
Falsini, frazione del comune di Radicondoli (Siena) 
Falterona, frazione del comune di Lastra a Signa (Firenze)
Falterona, monte del Val d'Arno Casentinese 
Faltignano, frazione del comune di San Casciano (Firenze)
Faltona, frazione del comune di Talla (Arezzo)  
Faltona, frazione del comune di Borgo San Lorenzo (Firenze)
Faltona, torrente della Val di Sieve, Toscana
Faltugnano, frazione del comune di Prato 
Faltugnano, frazione del comune di Vinci (Firenze)
Falzano, frazione del comune di Cortona (Arezzo)

Sopravvivenze romanze della radice fal- "alto":  
 
Italiano: falasco "tipo di vegetazione palustre" 
Significato originale: *"erba alta" 
Note: 
Il nome "falasco" era attribuito a diverse piante delle Ciperacee e delle Graminacee. Gli utilizzi di questa vegetazione erano molteplici: oltre che come combustibile o lettiera per il bestiame, serviva per lavori di intreccio e per impagliare fiaschi. In Sardegna esistevano capanne di falasco fino a tempi abbastanza recenti.

Napoletano: falerne "superbo"  
Significato originale: *"alto" 
Note: 
Anni fa mi sono imbattuto in questa voce, che i romanisti spiegano a partire dal nome dell'antico vino. Per loro lo slittamente semantico sarebbe stato questo: "ubriaco di falerno" > "altezzoso, superbo". Non so se la parola sia ancora usata nella lingua viva di questi tempi o se sia antiquata. Dai dati che ho esposto si dimostra subito che non c'è alcun bisogno di simili contorsioni. Reputo che questo vocabolo napoletano sia un relitto osco (sannitico), a sua volta preso a prestito dall'etrusco.    

Conclusioni 

Nonostante tutti i problemi di cui abbiamo trattato, è indubitabile la radice etrusca da cui deriva il nome del vino falerno, anche se il percorso semantico non è sempre chiarissimo.