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giovedì 6 agosto 2020

UN GERMANISMO PRECOCE IN LATINO: MELCA 'LATTE AROMATIZZATO CAGLIATO CON ACETO'

I Sardi chiamano merca un formaggio ottenuto da latte di pecora salato. Google ci fornisce qualche utile informazione su questo latticino: "Si presenta in forma di piccoli parallelepipedi del peso di circa 150 - 300 g. A lunga conservazione, veniva usato dai pastori nei lunghi inverni trascorsi lontano dalle proprie case. Viene impiegato in Sardegna per realizzare i culurgiones e una gustosissima minestra." 
Secondo la maggior parte delle fonti reperibili nel Web gli ingredienti sono soltanto due: latte ovino acido e cagliato, sale. Questo latte acido viene ottenuto aggiungendo caglio di agnello o di capretto (giagiu) al latte appena munto. Una fonte che non riesco più a reperire parlava invece di un miscuglio di latte fresco e di latte acido; forse si tratta di un'informazione distorta, in cui per latte acido si intende proprio il caglio. 
Questa merca è tipica del Nuorese, in particolare della zona di Ogliastra e della Barbagia. Non deve essere confusa con un'altra merca, che è invece un piatto a base di muggine, tipico dell'Oristanese (si tratta di un semplice caso di omofonia). 
Sicuramente si tratta di preparazioni antichissime. Si potrebbe pensare a una derivazione dal nome cananeo del sale (cfr. ebraico melaḥ "sale"), forse qualcosa come *melḥa "salata". Secondo questa interpretazione, tanto la merca ottenuta dal latte acido salato quanto il muggine salato avrebbero proprio il sale come elemento caratterizzante comune. Questo è senza dubbio possibile, ed è la tesi sostenuta da Giovanni Fancello. 
 

Lo stesso autore interpreta melca come "latte cagliato", in parziale contraddizione con quanto prima sostenuto, e riporta quanto segue: 

"In Sardegna il latte cagliato, tipica pietanza dei pastori ormai in disuso, assume diversi nomi a secondo della zona, con piccole  varianti nella preparazione: merca, melca, mer’a, preta, preta purile, frughe, frue, frua, cazadu, giuncata, migiuratu, gioddu, giagada.
 
A questo punto è necessario riportare un fatto sorprendente: in latino è documentata la parola melca, che indica un preparato di latte cagliato con aceto e aromatizzato con vari ingredienti, tra cui il pepe e il garum (la ben nota e pestilenziale salsa di pesce). In pratica doveva essere una specie di budino, secondo altri uno yogurt, molto popolare già in tempi abbastanza antichi. Il famosissimo cuoco Marco Gavio Apicio (vissuto a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.) ci fornisce una sintetica ricetta nella sua opera De re coquinaria libri decem. Si trova nel libro VII (Polyteles, ossia "cibi prelibati"), cap. XI, Dulcia domestica et melcae
 
Melcas: cum piper et liquamen, vel sale, oleo et coriandro. 
 
Si nota subito un'incoerenza grammaticale, oltre all'assenza di ogni menzione dell'ingrediente principale, il latte. La preposizione cum regge l'ablativo: Apicio non avrebbe scritto "cum piper et liquamen", ma "cum pipere et liquamine". L'ablativo lo ritroviamo più avanti (sale, oleo et coriandro), ma unito al segmento precedente da vel "o".  
Qualche editore ha così emendato la lettura, in modo tale da renderla grammaticalmente corretta: 

Melcas: cum pipere et liquamine, vel sale, oleo et coriandro. 

Mi domando se sia lecito procedere in questo modo. Si scopre che in passato erano diffuse letture corrotte, in cui i dotti cercavano di risolvere in vario modo un termine a detta loro incomprensibile, dando origine a forme fantomatiche come "mel castum" o "mel caseum". Forse i sistemi di Ivan il Terribile li avrebbero spronati a fare di meglio! Non è finita. Si trova anche un'altra lettura, seppur meno comune: 
 
Melca: Lac acidum, piper et liquamen, mel, sale, oleo et coriandro.

Sembrerebbe ben più verosimile: "Latte acido, pepe e garum, miele, con sale, olio e coriandolo". C'è però un problema di non poco conto. Dopo approfondite ricerche, ho scoperto che nel 1910 uno studioso, Janko, ho proposto di emendare Melcas: cum piper et liquamen in Lac acidum, piper et liquamen, sostuendo anche vel con mel. Quindi sparirebbe melcas dal testo, nonostante la presenza di melcae nel titolo del capitolo. C'è anche un'ulteriore difficoltà. Qualcuno - non si sa chi - ha pensato di sintetizzare la lettura di Janko e quella tradizionale, sommandole e dando origine a Melcas: Lac adicum, piper et liquamen. Questa lettura sincretica ha una discreta diffusione nel Web e si trova anche in alcuni libri. Ha un'origine che è evidentemente memetica, così deve essere rigettata. 

Fortunatamente esistono diverse altre attestazioni del vocabolo, come mostrato da Isabella Andorlini nel suo lavoro Edizioni di papiri medici greci (2018, Le Monnier).

A pagina 62 del suddetto testo si legge che la prima attestazione di melca compare in  un  testo  poetico del  I  d.C., che appare sull'affresco  dell'Antiquarium  Comunale di Roma:

Priapus  /  ...  ea  melca  datur

Sia Columella (4 d.C. - 70 d.C.) che Plinio il Vecchio (23 d.C. - 79 d.C.) parlano del proficuo uso dell'aceto per cagliare il latte, utilizzando la parola greca oxygala (alla lettera "latte acido") per indicare il prodotto chiamato melca da Apicio. 
 
Quindi ci viene fornita dalla Andorlini un'altra informazione importante: il termine melca compare nell'opera del medico Galeno (129 d.C. - 201 d.C.). Queste sono le citazioni:  

ἐν οἷς ἐστι καὶ ἡ μέλκα, τῶν ἐν Ῥώμῃ καὶ τοῦτο ἓν εὐδοκιμούντων ἐδεσμάτων, ὥσπερ καὶ τὸ ἀφρόγαλα· τοῖς δ' αὐτοῖς τούτοις καὶ τὰς ψυχρὰς κατὰ δύναμιν ὀπώρας ὁμοίως ἀποψύχων ἐδίδουν·
(De methodo medendi libri XIV, vol. VII) 
 
καὶ σικύου δὲ καὶ πέπονος οὐ πολὺ προσενέγκασθαι τηνικαῦτα, καὶ μηλοπέπονος, ἔτι τε τῶν πραικοκίων ὀνομαζομένων ἢ Περσικῶν ἐγχωρεῖ, καθάπερ γε καὶ τῆς καλουμένης παρὰ Ῥωμαίοις μέλκης ἐψυχρισμένης, ἀφρογάλακτός τε καὶ τῶν διὰ γάλακτος ἐδεσμάτων, ὁποῖόν ἐστι καὶ τὸ καλούμενον ἀργιτρόφημα· καὶ σῦκα δὲ ὁμοίως ψυχρὰ καὶ κολόκυνθαι τοῖς οὕτω διακειμένοις ἐπιτήδειοι.  
(De rebus boni malique suci, vol. VI) 
 
Secoli dopo, Antimo (511 d.C. - 534 d.C.) scrive nella sua opera De observatione ciborum epistula
 
oxygala vero graece quod latine uocant melca (id est lac) quod acetauerit. 
 
Essendo vissuto alla corte di Teodorico il Grande, Re degli Ostrogoti, oltre che tra i Franchi, ad Antimo era chiaro che la parola melca doveva avere la sua origine in una lingua germanica e avere il significato originale di "latte" - mentre Apicio e Galeno non sembravano consapevoli della natura straniera del termine.  
 
Alcune note etimologiche  
 
Non ci sono dubbi sull'origine germanica di melca, come procedo a dimostrare. In altre parole, si tratta di un germanismo precoce in latino, molto anteriore alle migrazioni conosciute come "invasioni barbariche"
 
Si capisce subito che la radice di melca è la stessa del verbo latino mulgeō, mulgēs, mulsī, mulctum, mulgēre "mungere"; per motivi fonologici non può tuttavia trattarsi di una parola latina nativa. Deve essere giunta a Roma da una lingua indoeuropea con  ben precise caratteristiche. Non può provenire dal greco, che ha il verbo ἀμέλγω (amélgō) "mungo", chiaro parente del latino mulgeō. La protoforma indoeuropea ricostruita è *(a)meleg'-.
 
Vediamo che melca non può essere un prestito dal celtico, sempre per via del suo consonantismo.
 
Antico irlandese: 
    mligim "io mungo"
    do-om-malg "io munsi" 
    mlegun "mungitura" 
    melg n- "latte" 
    bó-milge "del latte di mucca"
    mlicht, blicht "latte" 
Gallese: 
    blith "lattante"  
 
Può soltanto trattarsi di un prestito da una lingua germanica, su cui ha agito la legge di Grimm, che trasforma il fonema indoeuropeo /g/ in /k/

Protogermanico: *meluks "latte"
Gotico di Wulfila: miluks "latte" 

A tutti sono ben noti alcuni esiti della forma protogermanica: basti pensare all'inglese milk e a tedesco Milch.
 
Gli studiosi russi, come Sergei Starostin, hanno optato per una scelta a mio avviso non condivisibile, spinti da una bizzarra forma di nazionalismo. Visto che il protoslavo ha *melko "latte", donde deriva il russo молоко (molokó), con una consonante sorda /k/ come quella del germanico, esistono due alternative: 
 
1) La forma protoslava è un prestito da una lingua germanica o da altra lingua IE non identifica con /g/ > /k/;
2) La forma protoslava proviene da una radice IE diversa da *(a)meləg'- e postulabile come *melk-
 
I russi sostengono la seconda soluzione, fittizia e politicizzata, giungendo all'assurdo di ritenere nativo il termine melca di Apicio. Vediamo chiaramente che il protoslavo *melko "latte" non è parte del lessico ereditario, essendo un prestito. Non significa nulla il fatto che non si riesca a tracciare storicamente questo prestito. Il fatto che i dettagli siano andati perduti non significa che si debba ricostruire una radice protoindoeuropea fantomatica. Vediamo anche che melca ha l'aspetto di una parola latina come gangster ha l'aspetto di una parola dell'idioma di Dante.  
 
Conclusioni 
 
Il vocabolo sardo merca, indicante il noto latticino acido, deve essere il naturale esito di un germanismo precoce giunto da Roma e molto anteriore la dominazione dei Vandali. Non è quindi possibile considerarlo, come si potrebbe pensare a prima vista, un prestito dal germanico orientale. Come è giunta la melca a Roma? Forse non lo sapremo mai, ma sono convinto che si tratti del frutto di una complessa serie di interscambi culturali tra il mondo germanico e quello romano. Non dimentichiamoci che i mercanti romani frequentavano i Germani, portando loro vino e altri prodotti. Non è improbabile che in questo ambito sia nato e si sia diffuso un nuovo tipo di latticino.

giovedì 9 luglio 2020

LA MISTERIOSA LINGUA SETHIANA

Riporto e analizzo in questa sede i testi di due defissioni su lamine di piombo, rinvenute a Cartagine. La defissione (latino defixio, greco κατάδεσμος) era una forma di magia nera molto diffusa all'epoca dell'Impero: chi la usava intendeva con essa nuocere ai propri avversari nell'arena, ma anche in amore, nella politica, praticamente in ogni aspetto della vita privata e pubblica. I testi delle tremende maledizioni sono scritti latino (in caratteri latini, ma anche in caratteri greci), in greco (in caratteri greci) e in una lingua sconosciuta (in caratteri greci). Questa lingua arcana, le cui parole sono evidenziate in grassetto nei testi da me riportati, appare strettamente connessa con lo Gnosticismo. Per questo motivo la chiamo convenzionalmente Lingua Sethiana. Come avrò modo di spiegare, questa denominazione è di per sé ambigua, eppure la trovo suggestiva e la propongo senz'altro. Secondo quanto si può dedurre, i testi sono almeno in parte composti da nomi di demoni, spiriti di morti e altre entità soprannaturali, evocate per produrre il massimo danno ai soggetti designati. Gli studiosi che si sono occupati di questo materiale classificano le parole sethiane come voces magicae. In altri termini, sarebbero invocazioni di cui non conta conoscere il significato, ma soltanto pronunciare ogni suono alla perfezione per ottenere l'effetto desiderato: una pronuncia difettosa comprometterebbe l'operazione magica e farebbe perdere alle formule quasiasi efficacia. Nonostante la bizzarria estrema della fonologia di queste parole, non è possibile credere che fossero davvero prive di senso e inventate ex nihilo. Infatti tramite un attento studio è possibile dedurre qualcosa, anche se siamo ben lungo dal comprendere ogni dettaglio. Si trovano alcuni elementi punici, altri sono egiziani, ma non va nascosto che in molti casi siamo di fronte a parole la cui fonotassi è impervia e la cui analisi è estremamente difficile. L'uso della Lingua Sethiana per le maledizioni era assai diffuso nell'Impero, tanto che se ne trovano esempi persino in Grecia. Si potrebbe parlare addirittura di una globalizzazione esoterica. Una grande mole di materiale si trova nei Papiri Magici Greci (Papyri Graecae Magicae, PGM), documenti dell'Egitto greco e romano che attestano parole, formule, inni e rituali.    
 
Rimando all'interessantissima tesi di Andrea Bosisio (Università degli Studi di Milano), Defixiones Agonistiche Greche dall'Africa e dal Medio Oriente
 
 
Questi sono i due testi che ho scelto: 
 
1) Audollent, Defixionum Tabellae, Nr. 252
Luogo di rinvenimento: Cartagine 
 
ερεκισιφθη αραρα[χ]αραρα εφθισικεκε ευλαμω ιωερβηθ ιωπακερβηθ ιωβ[ο]λχωσηθ βολκοδηφ βασουμπαντα θνυχθεθωνι ρινγχοσεσρω απομψπακερβωθ [π]ακαρσαρα ρακουβ̣α ααακαχοχ ραβκαβ καὶ σὺ θεοξηρ ἄν[α]ξ κατασχὼν τὸν καρπὸν των ἀποδομων καὶ τὸ ὁμοιων κατάσχες τοῦ Σαπαυτούλου ὃν ἔτεκεν Πονπονία, δῆσον αὐτὸν καὶ ρ̣ε[..]ε τὴν δύναμιν τὴν καρδίαν τὸ ἧπαρ τὸν νοῦν τὰς φρήνας ἐξορκίζω ὑμᾶς αλκ[.]ον αμηνηγεισειχεεε βασίλιον ὑμῶν ἵνα βλεπ[..] εινπλικατε λακινια Σαπαυτούλο ιν καβια κορονα αμπιθεατρι [..] χυχβαχ ευλαμω ιωερβηθ αω[..]αι[.]α[...]ρ̣ υλαμωε ιωπακερβηθ πωκ[....] βακαχυχ λαμωευ ιωβολχωσηθ ιωκαδιανω αμωευλ ιωαπο[...] βακαξιχυχ μωευλα ιωπακαρθαρ βαζαβαχυχ ωευλαμ ιωπασναξ μανεβαχυχ αβεζεβεβιρω ιωτοντου[..]σι βαδετοφωθ ιω ιαω αυβλυουλ βλιχχαιωχ θευζυε ευλαμω βρακ ισισισρω σισιφερμοχ χνοωρ αβρασαξ σοροορμερ φεργαρβαρμαρ οφριουρινχ ἐπικαλοῦμέ σε ὁ μέγας καὶ ἰσχυ[ρ]ὸς [....]υ[..] τος κρατῶν καὶ δωμεύων καὶ κατόχων δεσμοῖς ἀλύτοις αἰωνίοις ἰσχυροῖς ἀδαμαντίνοις καὶ πόσον ψυχὴν κράτησον καὶ κατασλ δ κατάδησον ὑπόταξον προσκλίσον τὸν Σ[α]παυ[τού]λ[ον] κατάδησον αὐτὸν σμαύρησον ιν πα[... ...] ἵνα ἐξέλθες τόνδε τὸν τόπον μεδὲ τὴν πύλη[ν] ἐξέλθε μ̣έτε τὴν τυμηθη[.] ἀπέλθινι[.] τὸν τόπον ἀλλὰ μίνη[.] κατὰ σοῖς δεσμοῖς ἰσχυροῖς αἰωνίοι<ς> ἀδαμαντίνοις τὴν ψυ[χ]ὴν τοῦ Σαπαυτούλου ενεκε τὸν Πονπωνία ε[..]υριανι ποτιατουρ λακινια ιλλι ινπλικητουρ οβλιγητουρ ουρσελλου νον ρεσπικιαντ νον λιγετ νημινεμ πουγνι ιλλι σολβαντουρ νον σιτ ποτεστατις qυα βουλνερητουρ σανγουινητουρ Σαπαυτούλους κουρρερε νον ποσσιτ οβλιγηντουρ ιλλι πεδες νερβια ιλα κοντρα γῆς κοντα[..] εντε σοῦ φακιτε Σαπαυτούλου ομν[..] φαζελο[υ]νε συι ιανουαριας ιν ομνι μομεντο ἤδ[η τα]χύ ευλαμω [ερ εκισι]φθη αραραχ[αραρα ηφθισικερε] 
 
Traduzione (i passi in sethiano sono traslitterati ed evidenziati in grassetto maiuscolo): 
 
EREKISIPHTHĒ ARARACHARARA EPHTHISIKEKE EULAMŌ IŌERBĒTH IŌPAKERBĒTH IŌBOLCHŌSĒTH BOLKODĒPH BASOUMPANTA THNYCHTHETHŌNI RINGCHOSESRŌ APOMPSPAKERBŌTH  PAKARSARA RAKOUBA AAAKACHOCH RABKAB e tu THEOXĒR, signore, colui che fa seccare e che trattiene il frutto generato, così ugualmente trattieni Sapautulo, che Pomponia generò, bloccalo e [...] il potere, il cuore, il fegato, la mente, l'intelletto; vi prego, ALK[.]ON AMĒNĒGEISEICHEEE  il vostro regale [...] affinché non veda ... Attorcigliate la veste a Sapautulo nella cavea dell'anfiteatro [..] CHYCHBACH EULAMŌ IŌERBĒTH AŌ[..]AI[.]A[...]R YLAMŌE IŌPAKERBĒTH POK[....] BAKACHYCH LAMŌEU IŌBOLCHŌSĒTH IŌKADIANŌ AMŌEUL IŌAPO[...] BAKAXICHYCH MŌEULA IŌPAKARTHAR BAZABACHYCH ŌEULAM IŌPASNAX MANEBACHYCH ABEZEBEBIRŌ IŌTONTOU[..]SI BADETOPHŌTH IŌ IAŌ AUBLYOUL BLICHCHAIŌCH THEUZYE EULAMŌ BRAK ISISISRŌ SISIPHERMOCH CHNOŌR ABRASAX SOROORMER PHERGARBARMAR OPHRIOURINCH io ti invoco, grande e potente ... essendo potente e ... e legando con lacci indissolubili, eterni, resistenti, saldi, e obnubilagli l'anima, controllali, e ... blocca, sottometti, piega Sapautulo, bloccalo, indeboliscilo ... affinché non esca da questo luogo, né dalla porta né dalla .... Non abbandoni il luogo, ma resti. Con i tuoi lacci eterni, resistenti, saldi, (blocca) l'anima di Sapautulo che Pomponia generò e ... sia dominato, a lui la veste sia legata e bloccata, non vedano l'orsetto, non blocchi nessuno, gli si fiacchino i pugni, non sia in (suo) potere, dal quale sia ferito e sia fatto sanguinare Sapautulo, non possa correre, abbia i piedi bloccati, i nervi, i fianchi contro la terra ... di te ... fate di Sapautulo ogni ... fa' (nel) giorno della Luna a sé, di Gennaio in ogni momento, presto, velocemente EULAMŌ [ER EKISI]PHTHĒ ARARACH[ARARA ĒPHTHISIKERE] 
 
Traslitterazione delle frasi in latino scritte in caratteri greci: 
εινπλικατε λακινια = implicate lacinia(m) 
ιν καβια κορονα αμπιθεατρι = in cavea corona amphitheatri 
ποτιατουρ λακινια ιλλι ινπλικητουρ = potiatur lacinia illi
     implicetur 
οβλιγητουρ ουρσελλου νον ρεσπικιαντ = obligetur ursellu(m) non
     respiciant 
νον λιγετ νημινεμ πουγνι ιλλι σολβαντουρ = non liget neminem
     pugni illi solvantur 
νον σιτ ποτεστατις qυα βουλνερητουρ = non sit potestatis qua
     vulneretur 
σανγουινητουρ = sanguinetur 
κουρρερε νον ποσσιτ = currere non possit 
οβλιγηντουρ ιλλι πεδες νερβια = obligetur illi pedes nervia 
ιλα κοντρα = il(i)a contra 
κοντα . εντε = contrahente 
φακιτε = facite 
φαζελο[υ]νε = fac die Lunae  
συι ιανουαριας ιν ομνι μομεντο = sui Ianuarias in omni momento 
 
2) Audollent, Defixionum Tabellae, Nr. 253
Luogo di rinvenimento: Anfiteatro di Cartagine
 
β ρ α ερεκισιφθη αραραχαραρα ηφθισικηρε ευλαμω ιωερβηθ ιωπακερβηθ ιωβολχοσηθ βολχοδηφ βασουμπαντα θναξχθεθωνι ρινγχοσεσρ[ω] ... απομψπακερβωθ πακαρθαρα ιακ[ο]υβια ααψκακοχ[...] μωτοντουλιψ οβριουλημ κυμ[.. ἄ]ναξ βρακκοβ̣αρ̣[..] ρσυραβκαβ καί συ θεοξηρ ἄναξ κα[τάσ]χων τὸν καρπὸν των ασοδομων καὶ τὸ ομορων καδ[...] Vincentζus Tζaritζo in ampitζatru Carta<n>g[in]is in ζie Merc<c>uri in duobus cinque in tribus nove [Vi]ncentζo Tζaritζoni quen peperit Concordia ut urs<s>os ligare non possit in omni ora in omn<n>i momento in ζie Merc<c>uri καὶ τὴν ἰσχὺν τὴν δύναμιν τὴν καρδίαν απὸ ἧπαρ τὸν νοῦν τὰς φρήνας· ἐξορκίζω ὑμᾶς αννηναμηγισεχει τὸ βασίλιον ὑμῶν in Vincentζo Tζaritζoni quen peperit Con[cor]dia in ampitζatru Carthaginis in ζie Merc<c>uri obligate in[p]licate lac[i]nia Vincentζo Tζaritζoni ut urs<s>os ligare non possit omni urs<s>u perdat omn<n>i urs<s>u Vincentζus non occidere possit in ζie Merc<c>uri in omni ora iam iam cito cito facite χυχβαχ ευλαμω ιωερβηθ βακαχυχ υλαμωε ιωπακερβηθ βακαξιχυχ λαμωευ [ι]ωβολχοσηθ βαζαβαχυχ αμωευλ ιωαπομψ μωευλα μανεβαχυχ ωευλαμ ιωπακαρθαρα ιωπαθναξ βαδετοφωθ ιαβεζεβεβιω ιωτοντουλιψ βαινχωωχ ιω ιαω ουβριουλημ βευζυθιε ευλαμω βρ̣[...] εισισρω σισιφερμοχ χνω[... α]βρασαξ σοροορμερ φεργαρβαρμαρ [οφριουρινχ] ἐπικαλοῦμέ σε ὁ μέγας καὶ [ἰσχυρὸς ..]ην[-]εο τος κρατῶν καὶ δεσμεύων κ[αὶ κατόχων δ]εσμοῖς ἀλύτοις αἰωνίοις ἰσχυρο[ῖς ἀδαμαντίνο]ις καὶ πᾶσον ψυχὴν κρ̣ατ[..] κατάσε[ισον(?) ......... κατά]δησον ὑπόταξον πρόσ[κλισον Vincentζu Tζaritζoni] qu[e]n peperit Concor[dia - - - - - - oblig]ate Vincentζo Tζari[tζoni - - - - - -]in ampitζatru in ζie [Merc{c}uri] - - - - exterminate Tζaritζo[ni] - - - - - -  ἐξέλθ μήτε τὲν ἐξέλθῃ ἰς τόνδε τὸν τ[όπον μηδὲ τὴν πύλην] ἐξέλθῃ μήτε τὲν τυμηθ[ην ἀπέλθειν] τὸν τώπων ἀλλὰ μίνῃ κ[ατὰ σοῖς δεσμοῖς ἀλύ]τοις, ἰσχυροῖς, αἰωνίοις, ἀ[δαμαντίνοις τὴν] ψυχὴν τοῦ Vincentζus Tζa[ritζoni quen peperit Concor]dia obligate inplicate Vinc[entζu Tζaritζoni - - - in] duobus cinque urs<s>os in trib[us nove] - - - - - vinc<c>atur, vulneretur, dep[annetur(?) .... non curre]re possit Vincentζus Tζa[ritζoni - - - - -] facite Vinc<c>entζ[u Tζaritζoni - - - - Vin]centζu Tζ[aritζoni - - - - - - in ampi]tζatru Cart[haginis - - - - - - -]ta per- - - - - - [Vincentζu Tζaritζo]ni, obligate in[plicate lacinia in duobus cinque in] tribus no[ve] - - - - - - - non possit - - - - - - - - possit - - - - - - - [in] ζie Merc<c>uri - - - - - - - ne anima e - - - - - - - [in proeli]o vinc<c>atur deficiat - - - - - [in omni] ora per ispirital<l>es tra[ctus(?)] - - - - ω ηρεχισιφη [αραρ]αχα[ραρα ηφθισικηρε] ευλα[μω]
 
Traduzione (i passi in sethiano sono traslitterati ed evidenziati in grassetto maiuscolo): 

B R A EREKISIPHTHĒ ARARACHARARA ĒPHTHISIKERE EULAMŌ IŌERBĒTH IŌPAKERBĒTH IŌBOLCHOSĒTH BOLCHODĒPH BASOUMPANTA THNAXCHTHETHŌNI RINGCHOSESR[Ō ... ...] APOMPSPAKERBŌTH PAKARTHARA IAK[O]UBIA AAPSKAKOCH[... ...] MŌTONTOULIPS OBRIOULĒM KYM[...] signore BRAKKOBAR[...] RSYRABKAB e tu THEOXĒR, signore, colui che fa seccare e che trattiene il frutto generato, (così ugualmente trattieni) Vincenzo Zarizone nell'anfiteatro di Cartagine nei due cinque nei tre nove Vincenzo Zarizone che Concordia generò, affinch non possa bloccare gli orsi in ogni ora, in ogni momento del giorno di Mercurio e la forza, il potere, il cuore, il fegato, la mente e l'intelletto; vi prego, ANNĒNAMĒGISECHEI, il vostro regale, contro Vincenzo Zarizone che Concordia generò, nell'anfiteatro di Cartagine nel giorno di Mercurio bloccate, annodate la veste a Vincenzo Zarizone affinché non possa bloccare gli orsi, perda con ogni orso, non riesca ad uccidere nessun orso nel giorno di Mercurio, in tutte le ore presto, presto, velocemente, fatelo. CHYCHBACH EULAMŌ IOERBĒTH BAKACHYCH YLAMŌE IŌPAKERBĒTH BAKAXICHYCH LAMŌEU [I]ŌBOLCHOSĒTH BAZABACHYCH AMŌEUL IŌAPOMPS MŌEULA MANEBACHYCH ŌEULAM IŌPAKARTHARA IŌPATHNAX BADETOPHŌTH IABEZEBEBIŌ IŌTONTOULIPS BAINCHŌŌCH IŌ IAŌ OUBRIOULĒM BEUZYTHIE EULAMŌ BR[...] EISISRŌ SISIPHERMOCH CHNŌ[... A]BRASAX SOROORMER PHERGARBARMAR [OPHRIOURINCH] io ti invoco, grande e potente ... essendo potente e legando e controllando con lacci insolubili, eterni, resistenti, saldi e obnubilagli l'anima, controllalo, scuotilo ... blocca, sottometti, piega Vincenzo Zarizone che Concordia generò - - - - - - bloccate Vincenzo Zarizone - - - - - - nell'anfiteatro nel giorno di Mercurio - - - -, distruggete Zarizone - - - - - - non lasci la non entri questo luogo né passi la porta non esca dalla ... né abbandoni il luogo ma resti con i tuoi lacci insolubili, eterni, resistenti, saldi, (blocca) l'anima di Vincenzo Zarizone che Concordia generò, bloccate, fermate Vincenzo Zarizone - - - nei due cinque orsi nei tre nove - - - - - sia vinto, ferito, … non riesca a correre Vincenzo Zarizone - - - - - rendete Vincenzo Zarizone - - - - Vincenzo Zarizone - - - - - - nell'anfiteatro di Cartagine - - - - - - per - - - - - - - Vincenzus Zarizus, bloccate, annodate la veste nei due cinque, nei tre nove - - - - - - - non possa - - - - - - - - possa - - - - - - - nel giorno di Mercurio - - - - - - -l'anima da - - - - - - vinca nel combattimento, sconfigga - - - - - a tutte le ore trascinato attraverso gli Ispiritales. ĒRECHISIPHĒ [ARAR]ACHA[RARA ĒPHTHISIKĒRE] EULA[MŌ]   
 
Alcune considerazioni 
 
Sono convinto che col tempo e con la pazienza necessaria sarò in grado di dare una spiegazione di ogni singola vox magica attestata. Non pretendo certo di sbrogliare il bandolo della matassa in un post. Comincio a mettere giù qualche idea e una serie di riflessioni sparse, sperando di fare cosa utile. Anche perché ben pochi studiosi sembrano essersi occupati di questa complessa materia. 

Elementi glossolalici 
 
Un sostrato glossolalico è senza dubbio presente: parole come ARARACHARARA sono molto simili per fonotassi a produzioni documentate di moderni parlanti glossolalici. 
 
La Sua Eternità 
 
In lingua ebraica il termine עוֹלָם ῾ōlām significa "mondo; eternità, Eone". La semantica è questa: "ciò che dura per sempre" = "mondo". Il corrispondente di questa parola in punico è ulōm (attestato in caratteri greci come ουλωμ e nelle iscrizioni puniche come wlmlm). L'articolo in punico è il prefisso e- (variante y-), ben documentato nelle iscrizioni tarde vocalizzate, e anche nella glossa di Agostino edom "sangue" (lett. "il sangue", in ebraico ha-dām). Così eulōm significa "l'Eternità". Con l'aggiunta del suffisso possessivo di III persona singolare maschile (ben documentato), otteniamo proprio la forma ευλαμω, EULAMŌ "la Sua Eternità". Dato l'elevato valore magico di questa parola, ecco che ne venivano intonati anagrammi magici come YLAMŌE, AMŌEUL, MŌEULA. Altre locuzioni puniche attestate sono lulōm "in eterno" (scritto llm) e dulōm "molto dopo, nel futuro" (scritto d lm). 
 
Il Tetragrammaton 
 
La ricorrenza della sillaba si spiega facilmente. Questo , derivato da un più antico e formale IAŌ, altro non è che la pronuncia vera del Tetragrammaton, quello che è noto come Nome di Dio, YHWH. I Cartaginesi lo consideravano il nome del Pessimus Daemon, il Peggiore dei Demoni - il che spiega la sua ricorrenza nelle formule di maledizione. Vocalizzazioni come Yehowah e Yahweh sono fondate su ricostruzioni opinabili: la prima pronuncia è derivata introducendo nel Tetragrammaton le vocali di אֲדֹנָי 'Adōnai "Mio Signore", utilizzando un comune metodo di etimologia popolare; la seconda pronuncia è invece una congettura di uno studioso ottocentesco ed è a parer mio totalmente erronea. Il Nome doveva in origine pronunciarsi YAHU /ja:'hu:/, quindi è diventato per naturale evoluzione fonetica YAHO /ja:'ho:/. In ebraico la pronuncia originale si conserva soltanto nel nome di Elia e in pochi altri: אֱלִיָּהוּ 'Elīyāhū. Il nome ADŌNAI è pure ben documentato nel materiale magico. L'ho evidenziato in grassetto in questo testo:
 
Audollent, Defix. Tab. 256 
 
αε υ {signum magicum} οδ διο αριε ρ̣εαο διτης λντηθ αψλερωθπα {signa magica} αλρ.ρλαθχ {signa magica} ψονψορ̣ρτρ κναρρ̣αλζθωφξ[...]τξξ {signum magicum} ο[...]οχλλϜο {signa magica} υυωωω ναρσαλαξυετραα Αδωναι γαβριβαβι υυπ {signa magica} {oculus} το ωδ[...]α εδνβυισσυηηηηη {signum magicum} ωωωωα[..]αα ονοδε ελθες καταδε[..]ασρ̣[...]π[...] μο κδεσατσαω[..]ρτεν[... ..]ν 
 
Il Signore Seth, il Distruttore
 
Ecco la spiegazione di un nome di origine egiziana: IŌBOLCHŌSĒTH. A prima vista può sembrare stravagante, ma in realtà si riesce abbastanza facilmente a dipanare il bandolo della matassa. 
1) SĒTH è il nome della divinità egiziana della Distruzione e del Caos, assimilata al greco Tifone. Nel Paese del Nilo si pensava che le persone coi capelli rossi fossero dotate di una naturale ferocia e che fossero nate dal seme di Seth. Si noterà che questo teonimo nulla ha a che fare con il nome di Seth, figlio di Adamo. In ogni caso è ben possibile che ci fossero parziali confusioni tra i due personaggi.
2) Il prefissoide IŌ- è la pronuncia del Tetragrammaton (vedi sopra), spesso incorporata a nomi di demoni. 
3) BOL è il punico Bal "Signore", passato in egiziano con un tipico vocalismo /-o-/. A tutti è ben nota la trascrizione Baal del teonimo cananeo (ebraico בַּעַל).  
4) Il verbo egiziano trascritto come CHŌ- significa "colpire, distruggere"; nelle defissioni si trova anche la variante -CHO- con vocale breve. Purtroppo non sono riuscito a recuperare l'esito copto di questa radice.   
Così IŌBOLCHŌSĒTH in tardo egiziano significa "Signore Seth il Distruttore". In altri documenti compare senza il prefissoide IŌ-, come BOLCHOSĒTH
Un altro epiteto di Seth il Distruttore è APOMPS. Si trova anche con il prefisso IŌ-, come IŌAPOMPS, alla lettera YEHOWAH-SETH. Un accostamento tra la Creazione e la Distruzione, tra il Cosmo e il Caos. Tutto ciò farebbe rabbrividire i moderni religiosi, ma è perfettamente comprensibile sapendo che lo stesso Artefice del Cosmo non è affatto un'entità benevola, bensì il PESSIMUS DAEMON, lo Sterminatore di Viventi, il Torturatore, Radice e Origine del Male.
 
Il nome di Abraxas 
 
Un teonimo che salta subito agli occhi è ABRASAX, una comune forma metatetica del più noto ABRAXAS. Non credo che serva rimarcare la capitale importanza di questa divinità nei complessi Sistemi Gnostici dell'Antichità. Sulla sua etimologia sono stati scritti fiumi di inchiostro, senza approdare a nulla di convincente. Per ragioni di spazio dovremo trattare questo argomento in un'altra occasione. A parer mio la vox magica ABRAZARACHA, attestata in una defissione del IV secolo d.C., è un composto formato proprio a partire da ABRAXAS.
 
Le Stelle 
 
Uno dei pochi elementi di cui è possibile fornire un'interepretazione e un'etimologia è senza dubbio la sillaba CHYCH che compare in molte occasioni. Si trova sia come primo elemento, in CHYCH-BACH, che come secondo elemento, in MANEBA-CHYCH, BAKA-CHYCH, BAKAXI-CHYCH, BAZABA-CHYCH. In un'altra defissione troviamo BOL-BAXI-CH[YCH] (formato con BOL- "Signore"), CYCH-BA-CHYCH-BAKA, con una specie di reduplicazione, e addirittura CHYCH-BAKAXI-CHYCH, con la sillaba in questione sia come primo che come secondo elemento (Tomlin, 2007). Il termine CHYCH, di evidente origine punica, significa "stella" e corrisponde alla perfezione all'ebraico כּוֹכַב kōkhāv "stella". La mia ipotesi è che la consonate labiale mancante -b-, che ci attenderemmo, compaia in fomre derivate: se questo fosse provato, il plurale di CHYCH "stella" sarebbe CHYCH-BA- o -BA-CHYCH "stelle" (probabilmente nell'accezione di "astri mortiferi"). La forma col prefisso BA- sarebbe molto peculiare. Si noterà che il punico forma invece il plurale maschile con il suffisso -īm, come l'ebraico. 
 
Un elemento di origine greca 
 
Come supposto da Audollent, il teonimo THEOXĒR è di origine greca e sta per θεὸς ὃς ξηραίνει "dio che fa seccare". Questo dà prova della facilità con cui la Lingua Sethiana incorporava nella propria architettura parole delle più svariate provenienze.
 
Eternità e mutabilità 

Le voces magicae subivano la naturale evoluzione fonetica di tutte le lingue, con buona pace delle pretese di una perfetta pronuncia come condicio sine qua non per l'efficacia delle maledizioni. Questo è provato dalla presenza di numerose varianti delle stesse parole sethiane in testi diversi. Solo per fare un esempio abbiamo BOLKODĒPH (BLOKODĒPH) rispetto a BOLCHODĒPH. Notiamo che il termine PAKARTHARA che si trova in Audollent 253 corrisponde a PAKARSARA in Audollent 252, con assibilazione della consonante affricata (o fricativa). In alcune voci si trova una certa confusione tra la vocale breve E e la vocale lunga Ē, così come tra la vocale breve O e la vocale lunga Ō. Queste vocali non differivano soltanto per la quantità, bensì anche per la qualità, come avviene in copto.  
 
Alcune note sul latino di Cartagine  

I testi sono fatti risalire al II secolo d.C., e contengono alcune trascrizioni degne di nota, perché ci danno indicazioni sulla pronuncia usata in quel contesto. La consonante /t/ davanti a semiconsonante /j/ diventava un'affricata, trascritta con usando un carattere greco. La pronuncia doveva essere /ts/. La semiconsonante /j/ proviene sia da /i/ che da /e/ davanti a vocale. Così amphitheatrum è scritto ampitζatru. Allo stesso modo Vincentius è scritto Vincentζus. Un mutamento simile intacca la consonante /d/ anche davanti a vocale /i/, persino tonica, nella parola dies, producendo una consonante sonora /dz/ trascritta con la lettera greca ζ. Così si trova scritto ripetutamente in ζie per in die "nel giorno". Invece vediamo che nel nome proprio femminile Concordia questo non avviene, forse perché questa era percepita come una forma dotta, appartenente a una lingua più nobile e priva di mutazioni consonantiche. L'antroponimo era per questo sfuggito alla genuina usura della lingua volgare. Forse ciò è dovuto al fatto che in Concordia la -i- atona seguita da vocale conservava il suo pieno valore sillabico, mentre nelle parole del lessico di base questo non avveniva. Si noti che la consonante velare /k/ era ben conservata davanti a vocali anteriori: lacinia "veste" è scritto in caratteri greci λακινια; implicetur è scritto in caratteri greci ινπλικητουρ. Non si ha nemmeno una traccia di mutazione palatale di /g/ davanti a vocali anteriori: liget è scritto in caratteri greci λιγετ; allo stesso modo obligetur è scritto in caratteri greci οβλιγητουρ. Si notano altre cose interessanti. Il dittongo grafico ου era usato per rendere i fonemi /u/ e /u:/, dato che li trascriveva in parole latine. Di questo si deve chiaramente tener conto nella pronuncia delle formule sethiane. In alcuni casi la lettera greca η è usata correttamente per trascrivere la vocale lunga /e:/, come in ινπλικητουρ /impli'ke:tur/, rispetto a λιγετ /'liget/ con vocale /e/ breve. Abbiamo anche νημινεμ /'ne:minem/, con la giusta /e:/ lunga. Così anche la lettera greca ω è usata correttamente in Πομπωνία /pom'po:nia/. Tuttavia abbiamo spesso la lettera greca ο per trascrivere una /o:/ lunga latina: νον per /no:n/, μομεντο per /mo:'mento:/.  
 
Alcune perplessità 

Nella traduzione riportata da Bosisio nella tesi si ritrovano alcune cose che mi lasciano abbastanza perplesso. Il prenome Vincentzus, che è evidentemente il prodotto di una mutazione di Vincentius, viene lasciato intradotto. Il nome Tzaritzo, che io renderei con Zarizone, è di origine punica ed è chiaramente adattato nella III declinazione: non riesco a capire perché sia stato reso nella traduzione con Zarizus. Mi appare incredibile che siano state lasciate intradotte forme come urs<s>u, urs<s>os, quando è evidente che si tratta di orsi, animali della massima importanza negli spettacoli delle arene. Si ricorda che proprio il piacere sadico epidemico nel vedere massacrate le fiere nelle venationes è stata la causa della scomparsa di molte specie dall'Africa e dal Medio Oriente. Trovo anche strane alcune traduzioni, come potiatur tradotto con "domini", quando è chiaro che si tratta di un verbo passivo (potio = io metto in potere, dunque potior = io sono messo in potere): ho così tradotto con "sia dominato". Dove ho potuto, ho emendato le traduzioni. Non che il mio lavoro sia perfetto: mi scuso in anticipo se dovesse essermi sfuggito qualcosa di importante. Convengo sulle notevoli difficoltà di comprensione di questi testi, dovute anche alla loro lacunosità.
 
Riscimmiazione del genere umano 
 
Ai tempi dell'Impero gli intestini erano pieni di vermi, si mangiava una massa putrefatta di pesce salato, si ritenevano leccornie le grosse larve xilofagi e si faceva bollire il vino in pentole di piombo per rafforzarlo. Però si andava ad assistere agli spettacoli sanguinari dell'arena invocando demoni con una lingua molto difficile a pronunciarsi. Adesso si trovano invece ultras energumeni che intonano negli stadi cori pieni di stronzate che lascerebbero basiti branchi di australopitechi. Non è questa una prova in più del fatto che la specie umana si sta riscimmiando?

mercoledì 12 febbraio 2020

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LA TRASCRIZIONE DEL PUNICO CISSU MEZRA 'MELONE'

Dioscoride riporta il nome punico del melone come κισσου μεζρα, che in caratteri romani si trascrive kissou mezra. Apuleio lo riprende, trascrivendolo cissu mezra, secondo le convenzioni della sua epoca. La traduzione letterale è "melone di campo". Il termine mezra è formato a partire dal punico zera, zyra "seme" e sta per "campo seminato": nelle lingue semitiche un prefisso labiale m- si trova in moltissimi sostantivi derivati. In ebraico abbiamo zeraʻ "seme". È evidente che il vocabolo cissu citato da Apuleio aveva una consonante velare o addirittura uvulare, in ogni caso chiamata "dura" dal volgo: in ebraico abbiamo qiššīm "meloni", pronunciato in epoca antica addirittura con una /q/ uvulare (attualmente realizzata come una semplice /k/). Le conseguenze di questa trascrizione sono chiarissime: se la lettera c fosse stata usata dai Romani per trascrivere un suono palatale, come vorrebbero i nostri avversari, non sarebbe stata ritenuta idonea per scrivere cissu mezra. Apuleio avrebbe fatto ricorso a uno stratagemma per far capire che il suono qui doveva essere occlusivo. Per esempio, avrebbe potuto usare una ch e il vocabolo punico sarebbe stato scritto *chissu.

Lo stesso identico discorso vale per il greco antico. Per quanto incredibilmente i nostri avversari attribuiscano a k davanti a vocale anteriore /i/ o /e/ un valore di consonante palatale, è chiaro che il kissou mezra glossato da Dioscoride presenta la consonante /k/ nel suo solo valore possibile per il contesto dell'epoca: quello di occlusiva velare. È una grande stoltezza  prendere le attuali pronunce del neogreco e dei dialetti grecanici per proiettarle ai tempi di Dioscoride e persino a quelli di Omero, come se nel corso dei secoli non fossero avvenuti cambiamenti di sorta.

sabato 8 febbraio 2020

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: IL CASO DI CEPHALOEDIUM 'CEFALÙ'

Il toponimo siciliano Cefalù (provincia di Palermo) risale al latino Cephaloedium, a sua volta di origine greca. Queste sono alcune attestazioni antiche:
 
Cephaloedium (Strabone)
Cephaloedis (Tolomeo, Plinio)
Cephaledum (Tavola di Peutinger) 
 
Etimologia: Si tratta di un nome derivato dal greco κεφαλή (kephale) "testa", attribuito in origine a una roccia sulla riva del mare. Secondo alcuni questa roccia doveva avere una forma bizzarra, che ricordava vagamente quella di una testa umana. Secondo il mio parere non ce n'è alcun bisogno: i Greci devono aver interpretato con falsa etimologia una precedente forma fenicia, analoga all'ebraico e all'aramaico kepha "roccia".

Vediamo che il latino volgare mostrava un esito -e- del dittongo -oe- in questo toponimo: è proprio il Cephaledum che compare nella Tabula Peutingeriana. Tuttavia un esito di gran lunga più comune aveva il dittongo integro oe, pronunciato /oe/ o /oi/ e poi mutato in -u- nella forma romanza Cefalù. Il suffisso di origine è il greco -oidis, che deriva direttamente da un precedente -*o-wid- "che ha l'aspetto di". Errano quindi coloro che pretendono di attribuire al latino di epoca classica la pronuncia ecclesiastica prevalente nel sistema scolastico italiano, ritenendola valida fin dalla più lontana epoca preistorica.  
 
Veniamo ora alla consonante iniziale c-, che in Cefalù è attualmente il suono chiamato "molle" dagli insegnanti e che noi preferiamo chiamare palatale o postalveolare. In greco antico il suono era "duro", ossia velare, /k/. Non conta nulla il fatto che nel greco moderno si sia sviluppata una palatalizzazione e il suono sia pronunciato /kj/ (quella che le genti chiamerebbero la chi- di chiesa). Meno ancora rileva il fatto che questo suono nei moderni dialetti grecanici sia realizzato come la nostra postalveolare /tʃ/ (quella che le genti chiamerebbero la c- di cena): si tratta di un mutamento del tutto naturale. Non si possono usare pronunce attuali, la cui origine è ben chiara e documentabile, per proiettarle all'infinito nel più remoto passato. 

C.H. Grandgent riporta che in Sicilia l'antica velare /k/ si è mantenuta anche davanti a vocale anteriore /e/ e /i/ più a lungo che in altri luoghi della Romània, anche se alla fine si è palatalizzata. Si veda il paragrafo 258 (C e G davanti a vocali palatali) del manuale Introduzione allo studio del latino volgare edito dalla Cisalpino-Goliardia (pag. 144): 
 
"Nella Sardegna centrale, in Dalmazia, in Illiria k' non progredì, e in Sicilia, nell'Italia meridionale, in Dacia il grado k' si è conservato, a quanto pare, più che nella maggior parte delle altre regioni".    
 
A riprova di tutto questo, facciamo notare che in arabo Cefalù è chiamata Gafludi. Evidentemente quando i Saraceni sono giunti in Sicilia hanno adottato un toponimo pronunciato /ke'flu:di(u)/, adattando la /k/ iniziale con una sonora /g/. Cosa bizzarra, visto che in arabo tale suono è abbastanza problematico. L'antico suono protosemitico /g/ è stato palatalizzato in /dʒ/ (la g- di gelo); soltanto la varietà egiziana ha un suono velare nelle parole ereditate. Sarebbe stato più semplice mantenere la consonante sorda /k/, ma è indubitabile che se il toponimo avesse già avuto una consonante postalveolare nel volgare romanzo, l'esito arabo sarebbe stato molto diverso.

mercoledì 31 gennaio 2018

IL TRATTAMENTO DEI PRESTITI GRECI IN ETRUSCO

Durante il periodo ellenizzante centinaia di vocaboli e di nomi mitologici presi a prestito dal greco entrarono in etrusco, spesso mostrando incertezza nel modo di rendere i fonemi originali, in particolare le occlusive sorde (p, t, k), le occlusive sonore (b, d, g) e le aspirate (ph, th, kh). Troviamo aspirate etrusche in luogo di occlusive sorde o sonore del greco, oppure occlusive sorde etrusche in luogo delle occlusive sonore e aspirate del greco, e via discorrendo. Altri mutamenti fonetici caratteristici agiscono sulla liquida, sulla rotica e sulla nasale -n- in alcuni contesti: a volte si ha etrusco -r- in luogo di greco -l- o viceversa (es. Umaile "Omero"); i nessi consonantici greci kn- e gn- tendono a svilupparsi nell'etrusco cr- (es. lat. grōma "strumento per misurare i terreni" < etr *cruma < gr. γνώμων); il greco -mn- tende in modo analogo a svilupparsi nell'etrusco -mr- (es. Memrun "Memnone"). Spesso e volentieri le labiali p e ph si dileguano in sillaba finale o media (es. Cuclu "Ciclope"). In molti casi la vocale y greca è adottata come u, perché così suonava all'epoca dei prestiti in questione; tuttavia non mancano casi in cui è invece rappresentata da i. Si tratta di parole entrate in etrusco in epoca più recente o da dialetti più evolutivi. Talvolta una singola parola mostra due o più varianti in un modo che non si ritrova negli elementi nativi, per il semplice quanto naturale fatto che le diverse forme sono entrate in etrusco in epoche differenti. Queste anomalie potrebbero anche essere state causate da una diversa pronuncia dei suoni nelle due lingue, ad esempio le occlusive aspirate in greco molto probabilmente non corrispondevano bene ai suoni trascritti con φ θ χ in etrusco, che forse si erano già evolute in consonanti affricate. Questo fenomeno ha un singolare parallelo nell'incertezza mostrata in greco nel rendere gli elementi presi a prestito dal  sostrato pre-ellenico. Per fornire la miglior conoscenza di questi fenomeni, trattiamo in questa sede innanzitutto gli elementi relativi all'onomastica e alla mitologia. Pochi di questi nomi sono stati conservati in latino, per quanto in una forma molto alterata. Tra questi ci sono Herculēs (etr. Hercle), Aesculāpius (etr. Esplace, con metatesi), Ulixēs (etr. Uθusθe e varianti), Proserpina (etr. Φersipnei), Pollūx (etr. Pultuce) e Catamītus "Ganimede" (etr. Catmite). A partire dal III secolo a.C. ci fu un rinnovamento massiccio della lingua latina, dovuto anche a un'influenza diretta di masse di parlanti ellenofoni. Nel tardo periodo repubblicano fu importato nella lingua dotta un numero enorme di parole la cui fonetica non subiva grandi adattamenti ed era molto simile a quella originale greca. Questo processo fece sbiadire sempre più l'eredità etrusca. In altre parole, Roma fu ellenizzata in un periodo diverso rispetto all'Etruria e in modo diverso, in molti casi quasi senza alcuna reale assimilazione degli elementi importati. Infine si nota che la profonda contaminazione linguistica tra il lessico etrusco e quello greco non interessò altri popoli di lingua tirrenica come le genti della Rezia e i Camuni. Nella lingua retica, che preservò molte caratteristiche arcaice e materiale lessicale perduto in etrusco, dovettero esserci soltanto pochi prestiti dalla lingua ellenica.

Nel seguito diamo un elenco di antroponimi, teonimi e altri nomi mitologici penetrati in etrusco dal greco, la cui origine può essere tracciata con sicurezza. L'ordine dei lemmi è quello dell'alfabeto etrusco.

Aθrpa "Atropo" < Ἄτροπος
Aivas, Eivas, Evas "Aiace" < Αἴϝας
Aita, Aiθa, Eita "Ade" < ᾍδης
Alcstei, Alcsti "Alcesti" < Ἄλκηστις
Aleχsantre, Elcsntre "Alessandro" < Ὰλέξανδρος

Al
θaia
"Altea" < Ἀλθαία
Alχumena "Alcmena" < Ἀλκμήνη
Amuce, Amuχe "Amico" < Ἄμυκος
Antiluχe, Antilχe "Antiloco" < Ἀντίλοχος
Anχas "Anchise" < Ἀγχίσης
Aplu, Apulu "Apollo" < Ἀπόλλων
Ariaθa, Areaθa, Araθa "Arianna" < Ἀριάδνη
Aritimi, Artumes "Artemide" < Ἄρτεμις
Arχaze "Arcadio" < Ἀρκάδιος
Arχas "Arcade" < Ἀρκάς
Ataiun "Atteone" < Ἀκταίων
Atalanta, Atlenta, Atlnta "Atalanta" < Ἀταλάντη
Atmite "Admeto" < Ἄδμητος
Atre "Atreo" < Ἀτρεύς
Atunis "Adone" < Άδωνις
Aturmuca "Andromaca" < Ἀνδρομάχη
Aχlae "Acheloo" < Ἂχελῷoς
Aχle, Aχile "Achille" < Ἀχιλλεύς
Aχmemrun "Agamennone" < Ἀγαμέμνων
Aχrum "Acheronte" < Ἂχέρων
Calaina "Galena"(1) < Γαλήνη 

Calanice "Callinico" < Καλλίνικος
Capne
"Capaneo" < Καπανεύς
Caśntra, Caśtra "Cassandra" < Κασσάνδρα
Castur "Castore" < Κάστωρ
Catmite, Catmiθe "Ganimede" < Γανυμήδης
Cerca "Circe" < Κίρκη
Clepatra "Cleopatra" < Κλεοπάτρα
Cluθumusθa, Clutmsta "Clitemnestra"
      < Κλυταιμνήστρα
Crise "Crise" < Χρύσης
Crisiθa "Criseide" < Χρυσηΐς
Cruisie "Creso" < Κροῖσος
Cuclu "Ciclope" < Κύκλωψ
Curca "Gorga" < Γόργη
Ecapa "Ecuba" < Ἑκάβη
Ectur, Eχtur "Ettore" < Ἕκτωρ
Evantre "Evandro" < Εὔανδρος
Evrφia "Eumorfia" < Εὐμορφία
Eina "Enea" < Αἰνείας

Elina, Elinai, Elinei
"Elena" < Ἑλένη
Enie
"Enio" < Ἐνυώ
Eris
"Eris" < Ἔρις
Ermania "Ermione" < Ἑρμιόνη
Erus "Eros" < Ἔρως
Etule "Etolo" < Αἰτωλός
Euru "Europa" < Εὐρώπη
Eutucle, Euθucle "Eteocle" < Ἐτεοκλῆς
Euturpa "Euterpe" < Εὐτέρπη
Velparum "Elpenore" < ᾿Ελπήνωρ (arc. F-)
Vicare "Icaro" < Ἴκαρος (arc. F-)
Vile, Vilae "Iolao" < Ίόλαος (arc. F-

Vile
"Oileo" < Ὀϊλεύς
Zerapiu, Zarapiu "Serapione" < Σεραπίων
Zetun "Zeto"(2) < Ζήθος
Ziumiθe, Ziumite, Zumuθe, Zimaite "Diomede"
      < Διομήδης
Θeθis, Θetis "Teti" < Θέτις
Θese "Teseo" < Θησεύς
Hamφiare, Amφiare, Amφare "Anfiarao"
      < Ἀμφιάραος
Heiasun, Heasun, Easun "Giasone" < Ιάσων
Hercle, Herχle "Ercole" < Ἡρακλῆς
Herclite, Ferclite "Eraclide" < Ἡρακλείδης
Iliθii-al (gen.) "Ilizia" < Εἰλείθυια

Iśminθians
"Istmiade" < Ἰsθμιάδης
Itas "Ida" < Ἴδας
Ite "Ideo" < Ἰδαῖος

Iχśiun
"Issione" < ᾿Ιξίων
Lamtun "Laomedonte" < Λαομέδων
Latva "Leda" < Λήδα
Letun "Latona" < Λητώ
Licantre "Licandro" < Λύκανδρος
Luvcatru "Leucandro" < Λεύκανδρος
Lunχe, Lunχ, Lunc, "Linceo" < Λυγκεύς
Marmis "Marpessa" < Μάρπησσα
Melerpante "Bellerofonte" < Βελλεροφῶν,
     Βελλεροφόντης

Meliacr, Melacre "Meleagro" < Μελέαγρος
Memrun, Mempru "Memnone" < Μέμνων
Menle "Menelao" < Μενέλαος
Metva, Matva, Metaia "Medea" < Μήδεια
Metus "Medusa"(3) < Μέδουσα
Mine "Minosse"(4) < Μίνως
Navli "Nauplio" < Ναύπλιος
Nevtlane "Neottolemo" < Νεοπτόλεμος
Nele "Neleo" < Νηλεύς
Nestur "Nestore" < Νέστωρ
Nicipur "Niceforo" < Νικηφόρος
Pacste, Pecse "Pegaso" < Πήγασος
Palmiθe, Talmiθe "Palamede" < Παλαμήδης
Partinipe, Parθanapaes "Partenopeo"
     < Παρθενοπαίος
Patrucle "Patroclo" < Πάτροκλος
Paχa "Bacco" < Βάκκχος
Pele, Peleis "Peleo" < Πηλεύς
Pemφetru "Penfredo"(5) < Πεμφρηδώ
Penlpa, Pelpa "Penelope" < Πηνελόπεια
Pentasila "Pentesilea" < Πενθεσίλεια
Perse, Φerse, Φerśe "Perseo" < Περσεύς
Prisis "Briseide" < Βρισηΐς
Priumne "Priamo" < Πρίαμος
Prumaθe "Prometeo" < Προμηθεύς
Pulunice, Pulnice, Φulnice "Polinice" < Πολυνείκης
Pulutuice, Pultuce, Φiltuce "Polluce" < Πολυδεύκης
Śminθe "Sminteo" < Σμινθεύς
Raθmntr "Radamanto" < Ῥαδάμανθυς
Rutapis "Rodopi" < Ῥοδῶπις
Sature "Satiro" < Σάτυρος
Semla "Semele" < Σεμέλη
Sime, nome di un satiro < Σῖμος "Naso Piatto"
Sispe, Sisφe "Sisifo" < Σίσυφος
Stenule "Stenelo" < Σθένελος

Taitle
"Dedalo" < Δαίδαλος
Telmun, Talmun, Tlamun "Telamone" < Τελαμών
Telφe, Tele "Telefo" < Τήλεφος
Terasia, Teriasa "Tiresia" < Τειρεσίας
Tinθun, Tiθun "Titone" < Τιθωνός
Tinusi "Dionisio" < Διονύσιος
Tlamunus "Telamonio" < Τελαμώνιος
Truia "Troia" < Τροία
Truile "Troilo" < Τρωίλος
Truφun "Trofonio" < Τροφώνιος
Tuntle "Tindaro" < Τυνδάρεος
Tute "Tideo" < Τυδεύς
Uθusθe, Uθuze, Utusθe, Uθste "Ulisse"
     < Ὀδυσσεύς
Umaile, Umaele "Omero" < Ὅμηρος
Urusθe, Urste "Oreste" < Ὀρέστης
Urφe "Orfeo" < Ὀρφεύς

Uprium
"Iperione" < Ὑπερίων
Φaun, Φamn, Faun "Faone"(6) < Φάων
Φersiculu "Persepolis" < Περσέπτολις
Φersipnai, Φersipnei "Persefone" < Περσεφόνη
Φuinis "Fenice" < Φοῖνιξ
Φuipa "Febe" < Φοίβη
ΦulΦsna "Polissena" < Πολυξένη
Φurce "Forca" < Φόρκος
Χalχas
"Calcante" < Κάλχας
Χarun, Χaru "Caronte" < Χάρων 

(1) Nome di una nereide, indica la calma dei venti.
(2) La forma etrusca continua l'accusativo della forma greca, che esce in -on.
(3) Il nome è passato in latino come metus "paura", con -s interpretato come nominativo sigmatico (deglutizione).
(4) Attestato anche in Θevrumines "Minotauro", ossia Θevru Mines "Toro di Minosse", calco del greco Μινώταυρος.
(5) Nome di una graia, deriva dal greco πεμφρηδών "calabrone".
(6) Un caso inconsueto di alternanza tra φ e f, che testimonia la presenza di una fricativa.

Alcuni nomi mitologici non si trovano come tali in greco, ma la loro origine è ugualmente chiara. Notevoli sono i nomi di satiri  Aulunθe < αὐλητής "suonatore di flauto" e Puanea < πύανος "fava" (con allusione al suo fallo colossale).

In alcuni casi una figura della mitologia greca si sovrapponeva a una nativa, dando origine a complesse ibridazioni. Così il nome della città di Mantova, attestato come Manθva- grazie al gentilizio Manθvate "Mantovano", deriva dal nome di una dea infera, parallelo a quello di Manto, figlia di Tiresia (gr. Μαντώ). L'etimo del nome pre-ellenico era infatti chiaro agli Etruschi, dato che man significa "ricordo" (donde "spettro"); manim traduce il latino monumentum e soprattutto il greco μνημοσύνη "tomba"; "memoria" (cfr. Facchetti).

Tra i nomi comuni ci sono non pochi lemmi vascolari o relativi alla tecnologia, a beni di consumo e via discorrendo. Riportiamo una lista di termini attestati nelle iscrizioni:

apcar "abacario" < ἄβαξ "abaco"
aśka "tipo di vaso" < ἀσκός "otre"
culiχna, culχna, χuliχna "coppa"(i) < κυλίχνη
cutun, qutum "vaso potorio" < κώθων
elaiva- "olio"(ii) < ἔλαιFον (arc.)
vinum "vino"(iii) < οἶνος (arc. F-)
larnaś "contenitore" < λάρναξ
"scatola"
leθe "servo pubblico" < ληιτός(iv)
leu, lev "leone" < λέων
leχtum "vaso da olio" < λήκυθος
naplan "vaso da vino" < νάβλα(v)
pruχum "brocca" < πρόχοος
patna "piatto, scodella" < πατάνη
putere "bicchiere" < ποτήριον
ulpaia "vaso da olio"(vi) < ὄλπη

(i) Passato in latino come culigna.
(ii) Attestato nella forma aggettivale elaivana "olio".
(iii) Il latino e altre lingue italiche devono aver preso vinum dall'etrusco, assimilando il suffisso a un neutro (deglutizione). Questo spiegherebbe il vocalismo anomalo della parola, in cui la -i- lunga non può provenire direttamente dal dittongo -oi- del greco. L'origine ultima è semitica.
(iv)
La forma greca è glossata δημόσιος "pubblico" (Esichio; cfr. Morandi). La forma etrusca è passata in latino come laetus "servus publicus", a torto ritenuto di origine germanica, con buona pace del Benelli e di altri, che tentano di abolire il lemma. 
(v) L'origine ultima è fenicia o punica.
(vi) Il Benelli ha tentato di espungere questo vocabolo affermando che sarebbe una chimera nata dalla fusione di due diverse epigrafi. Non è stato tuttavia in grado di fornire prove convincenti della sua affermazione.

Moltissimi altri prestiti possono essere identificati con certezza in latino, perché mostrano caratteristiche fonetiche tipiche dell'etrusco e incompatibili con un passaggio diretto dal greco. Avremo modo di trattarli in modo approfondito in altra sede. 

Spero che basti questo mio sintetico trattatello per dileguare le sciocchezze invereconde di coloro che intendono utilizzare i prestiti greci in etrusco per dimostrare la l'origine etrusca della gorgia toscana. Basterà osservare con attenzione le corrispondenze sopra elencate per constatare l'inconsistenza delle tesi dei nostri avversari. La distribuzione dei suoni in etrusco segue schemi complessi, del tutto incompatibili con la fonetica dei vernacoli toscani. Se un sostrato etrusco avesse agito sul latino volgare influenzandone in modo profondo la pronuncia, avrebbe innanzitutto fissato l'accento sulla prima sillaba delle parole, portando all'oscuramento, all'indebolimento e alla perdita delle sillabe mediane. Avrebbe anche causato la perdita di molte vocali finali, dando origine a qualcosa di estremamente diverso dalla lingua italiana in qualsiasi sua forma.

domenica 7 gennaio 2018


I RE DI TARTESSO E LA NASCITA
DELL'INGIUSTIZIA SOCIALE

Forse non tutti sanno di quale terra gloriosa era figlio il grande filosofo stoico Seneca. La Turdetania, parte della Betica, ora nota come Andalusia, era stata un tempo la sede di una civiltà millenaria che purtroppo ci ha lasciato poche vestigia. Tartesso ne era il centro culturale e politico, quella stessa città rifulgente di ricchezze di ogni sorta che è citata anche nell'Antico Testamento con il nome di Tarshish: gli antichi Israeliti vi giungevano per fare commercio e ne importavano beni di lusso, soprattutto metalli come l'argento, lo stagno e il piombo. Nell'antichità le genti della Spagna si dividevano in molti popoli dalle lingue diverse: c'erano i Celtiberi, che parlavano un idioma di tipo celtico, i Lusitani, che avevano una lingua indoeuropea preceltica, i Vasconi e gli Aquitani, il cui idioma era l'antenato dell'odierno Basco, oltre naturalmente agli Iberi, la cui lingua non indoeuropera era diversa dal Basco e tuttora quasi del tutto incomprensibile(1). I Tartessi erano più antichi di tutti questi popoli, e già nel secolo VI a.C. erano probabilmente già scomparsi come entità etnica. Non erano Indoeuropei ed erano già stanziati in loco molto prima dell'arrivo degli Iberi(2). Nessuno ha mai potuto capire la loro lingua, anche se sono state ritrovate molte iscrizioni(3). La sola cosa che si sa con una certa probabilità è che BARE NABE KEENTI dovrebbe significare "in questa tomba giace"(4). Gli Autori ci dicono che in quel centro commerciale della Turdetania fossero custodite tavole che riportavano leggi vecchie di ben settemila anni. Esistevano anche cronache storiche che parlavano degli antichi regnanti. Quel poco che possiamo conoscere sull'argomento va sotto il nome di Mitologia Tartessa.

È riportato che dopo la sconfitta dei Titani regnava su Tartesso il grande Gargoris(5) della stirpe dei Cureti, detti anche Cuneti, inventore dell'apicoltura. Egli diede all'umanità due immensi doni: la dolcezza del miele e l'ebbrezza dell'idromele che se ne imparò a ricavare. Il suo nome potrebbe essere in qualche modo collegato con quello di Gerione, che gli Autori ritengono il capostipite dei Tartessi.
Questo ci dice Giustino (II d.c.):
"Saltus vero Tartessiorum, in quibus Titanas bellum adversus Deos
genisse proditur, incolere Curetes, quorum rex vetustissimus Gargoris mellis colligendi usus primus invenit", ovvero "Nei boschi dei Tartessi, nei quali i Titani osarono muovere guerra agli Dei, abitavano i Cureti, il cui re antichissimo, Gargoris, per primo scoprì il modo di raccogliere il miele."
Si dice che il sovrano fece la sua scoperta in un modo molto strano: rinvenne dei
ricchissimi favi prodotti da api che avevano nidificato nella carcassa putrescente di un bue. Questo fatto è denso di significati simbolici, in quanto il migliore tra gli alimenti era ricondotto nella sua formazione a un processo di sfacelo nel corpo di un animale che era ritenuto sacro.

Il successore di Gargoris si chiamava Habis. A cominciare dalla definizione della parentela di questa stirpe vi sono stranezze non trascurabili: non ci si deve stupire se qualcuno definisce Gargoris padre di Habis e qualcun altro afferma che fosse suo nonno, perché egli era entrambe le cose. In altre parole, Gargoris aveva concupito carnalmente sua figlia e l'aveva ingravidata, cosicché era sia padre che nonno del bambino. Le cose andarono così, a quanto ci viene riferito. Una volta che Gargoris capì che sua figlia era incinta di un suo figlio, fu colto da un'immensa vergogna e la fece rinchiudere in un recesso appartato. Quando partorì, un uomo forte prese il bambino e lo portò al nonno-padre, che subito decise di metterlo a morte. Così ordinò che fosse abbandonato alle fiere perché lo sbranassero, ma quando mandò un servo per controllare trovò che il bambino godeva di ottima salute. Gli animali selvatici lo avevano nutrito con il loro latte. Allora lo fece gettare su una via di transito dei buoi affinché lo calpestassero e lo riducessero in poltiglia. Con grande stupore le bestie lo evitarono con cura, deviando dal loro cammino.
A questo punto Gargoris stabilì che il bambino fosse gettato ai cani,
che di certo l'avrebbero sbranato. Invece non accadde nulla. Era come se il piccolo fosse protetto da forze soprannaturali che impedivano alle fiere di nuocergli. Man mano che questi strani fatti accadevano, l'ira del sovrano cresceva e il suo cuore si colmava di crudeltà. Così decretò che lo scomodo infante fosse fatto dato in pasto ai maiali. Tuttavia ancora una volta si salvò, come Daniele nella fossa dei leoni. Neppure la precipitazione in mare da un burrone sortì gli effetti sperati: il figlio-nipote di Gargoris galleggiava allegramente come una barchetta. Alla fine fu lasciato nella foresta, in mezzo agli animali selvaggi. Non dovette faticare troppo a sopravvivere, perché una cerva gli permetteva di poppare il latte dai suoi capezzoli. In questo modo il giovane crebbe fino a diventare un ragazzo robusto. Un giorno i cacciatori di Gargoris lo videro e lo catturarono con una rete. Lo portarono nella reggia come dono. Quando Gargoris lo vide, riconobbe sul suo corpo i segni della regalità, verosimilmente dei tatuaggi che gli erano stati fatti poco dopo la nascita. Così, preso dai sensi di colpa per le persecuzioni terribili che gli aveva ingiustamente inflitto, si decise alla fine ad accoglierlo come proprio figlio. Lo chiamò Habis (Habidis secondo altri testi), nome il cui significato tramandato è "Colui che si è perso"(6). Habis imparò a parlare e quando il nonno-padre morì ebbe il Regno di Tartesso per sé.
La sua grandezza, è riportato, fu tale che tutti seppero per certo che
egli era stato salvato da un'infinità di pericoli per poter regnare per volontà degli Dei. Egli portò alle genti sottoposte al suo dominio doni molto innovativi.
Legando due buoi a un ramo adunco, inventò quasi per caso l'aratro,
seguendo una strana fantasia ispiratagli da chissà quali potenze soprannaturali. Con l'aratro venne quindi l'agricoltura, che permise alle genti di avere nuove fonti di cibo e di moltiplicarsi. Inventò le leggi e con esse sottomise i popoli, codificando ogni minimo dettaglio delle vite dei singoli. Stabilì che ognuno dovesse rifiutare la caccia e nutrirsi unicamente dei frutti dei campi, in odio verso gli stenti che egli stesso era stato costretto a subire quando viveva come un selvaggio. Con queste innovazioni introdusse anche ogni sorta di iniquità. Impose così le distinzioni tra classi sociali, decretando che i nobili dovessero essere mantenuti dal lavoro duro e servile di masse di schiavi afflitti senza possibilità di miglioramento sociale.
È spesso menzionata un'opera su questi due remoti sovrani, detta
Tragicommedia di Gargoris e Habis(7), il cui autore non è però specificato; non solo non si riesce a trovare alcun riferimento valido, ma tutto sembra far pensare che il testo sia andato perduto. Pare che si trattasse di una satira caustica del sistema di vita predatorio delle classi alte che sarebbe di certo piaciuta a Mikhail Bakunin e a Karl Marx. 

A parte le notevoli inconsistenze del mito di Gargoris e Habis, che dovrebbero saltare subito all'occhio (come l'uso dei buoi prima dell'aratro), il racconto insiste su un aspetto non da poco: la connessione di causa-effetto tra la scoperta dell'agricoltura e l'introduzione della diseguaglianza sociale nel mondo. Molti studiosi sono concordi sulla sostanziale democrazia paleolitica, che conosceva soltanto capi concepiti come primi inter pares. La necessità di cacciare per sopravvivere rendeva preziosi il contributo di tutti, e si sa per certo che già tra gli uomini di Neanderthal gli invalidi, i malati e gli anziani erano curati. Con la possibilità di ottenere una migliore nutrizione e accumulare eccedenze, molte cose sono cambiate in modo radicale: han fatto la loro comparsa la tirannia, la proprietà terriera, il lavoro servile e insostenibile, lo sfruttamento, la gonorrea, la carie. Mentre la leggenda tartessa ha come protagonisti di questi mutamenti due sovrani maschi, sembra che nella realtà la Rivoluzione Neolitica sia stata causata e portata avanti dalle donne. Le società del Neolitico erano a privilegio femminile. Mi scuso se semplifico un po' troppo un problema davvero complesso, ma la cosa ha un suo fondamento logico. La donna ha scoperto la semina, ha osservato a lungo come pianticelle utili germogliassero dai rifiuti e potessero essere coltivate. La donna ha spinto l'uomo a ottenere una posizione sociale migliore. La sua spietata ambizione opera sempre e rende la vita come un dente cariato. Il motore di tutto ciò è il più banale che si possa immaginare: la chiusura delle cosce femminili in caso di rifiuto del maschio a cooperare. Si possono fare alcuni esempi significativi. Con l'agricoltura è nato il concetto di prestito. "Queste piantine ci danno il cibo", disse la donna all'uomo, "Non devi perdere il tuo tempo ad andare a caccia, devi vivere con gli occhi sempre rivolti al suolo e con la schiena curva": era nato il lavoro. L'uomo, ingenuo, prestava le sementi ai vicini, accontentandosi di avere in cambio una parte del raccolto, finché la donna gli disse che doveva chiedere più dell'intero raccolto: era nata l'usura. "Devi avere di più e lottare per ottenere ciò che ti chiedo, o non avrai da me cosa che ti piaccia", disse la donna all'uomo: era nata l'avidità, era nato il ricatto. Una volta realizzato questo stato di cose, divenne naturale, divenne ineluttabile: ogni tentativo di vivere al di fuori della società sarebbe stato sempre più inaccessibile. Un sistema fatto apposta per far sì che chi si ribella non possa procacciarsi cibo sufficiente, deperisca e finisca così col morire ed essere dimenticato. Ci avrebbe pensato il Potere della Vagina a rendere eterne queste sofferenze, a permettere il trasmettersi del regno, della dominazione e della schiavitù. Un carissimo amico mi ricorda sempre che le donne stesse sono vittime di questi perversi meccanismi di iniquità, ma ciò non cambia la sostanza delle cose. Ogni piaga sociale ha la sua origine ultima nell'accoppiamento, nell'unione tra i sessi. Il maschio coglione bramoso che cade vittima della femmina dispensatrice usuraia: ecco il motore del progresso. Lo stesso affermarsi del patriarcato non fu che una vendetta illusoria: l'essere che ha il potere di mettere al mondo figli ha il potere assoluto, e anche i più valorosi guerrieri furono servi della vulva. Nessun dubbio quindi che se pure Gargoris e Habis non furono semplici parti della fantasia al pari di Ercole e di Wotan, dovettero essere soltanto burattini di donne ambiziose e malvagie che i Tartessi hanno per buona decenza depennato dalle loro cronache.

(1) La lingua iberica è con ogni probabilità un lontano parente del basco, come provato dalle concordanze dei numerali - nonostante il parere di molti accademici politicizzati. (2) Le infiltrazioni celtiche dovettero essere importanti: il primo re storico di Tartesso fu Arganthonios (670 a.C. - 550 a.C.), il cui nome è eminentemente celtico (< arganto- "argento").
(3) In tutto i testi sono più di novanta; ci sono inoltre antroponimi non indoeuropei e non iberici incorporati in iscrizioni latine. Questi sono caratterizzati da una fonetica davvero bizzarra (es.
Candnil, Icstnis, Ildrons, Insghana).
(4) John T. Koch ha ipotizzato che le iscrizioni siano redatte in una lingua celtica con segni di evoluzione precoce. Le sue tesi sono tuttavia assai opinabili, come avremo modo di approfondire in altra sede. In ogni caso, è possibile che nelle iscrizioni sia presente materiale onomastico di origine celtica.  
(5) Per l'antropoonimo Gargoris è stata proposta un'etimologia celtica: deriverebbe da gargo- "feroce" e da -rīx "re". Resta il fatto che il vocalismo di -rīx sarebbe anacronistico. 
(6) Il nome è di chiara origine semitica, con ogni probabilità fenicia. La forma ricostruita è /Ɂa'bi:d/, si confronti l'ebraico 'ābēd "perduto". La stessa parola esisteva anche in punico, varietà tarda del fenicio, ma il dominio di Cartagine su Tartesso risale al 500 a.C. circa ed è dubbio che possa aver contribuito al formarsi del mito. 
(7) Marco Giuniano Giustino ci fa un riassunto dell'opera di Pompeo Trogo, sulle cui fonti ultime ben poco si può dire.