mercoledì 12 febbraio 2020

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LA TRASCRIZIONE DEL PUNICO CISSU MEZRA 'MELONE'

Dioscoride riporta il nome punico del melone come κισσου μεζρα, che in caratteri romani si trascrive kissou mezra. Apuleio lo riprende, trascrivendolo cissu mezra, secondo le convenzioni della sua epoca. La traduzione letterale è "melone di campo". Il termine mezra è formato a partire dal punico zera, zyra "seme" e sta per "campo seminato": nelle lingue semitiche un prefisso labiale m- si trova in moltissimi sostantivi derivati. In ebraico abbiamo zeraʻ "seme". È evidente che il vocabolo cissu citato da Apuleio aveva una consonante velare o addirittura uvulare, in ogni caso chiamata "dura" dal volgo: in ebraico abbiamo qiššīm "meloni", pronunciato in epoca antica addirittura con una /q/ uvulare (attualmente realizzata come una semplice /k/). Le conseguenze di questa trascrizione sono chiarissime: se la lettera c fosse stata usata dai Romani per trascrivere un suono palatale, come vorrebbero i nostri avversari, non sarebbe stata ritenuta idonea per scrivere cissu mezra. Apuleio avrebbe fatto ricorso a uno stratagemma per far capire che il suono qui doveva essere occlusivo. Per esempio, avrebbe potuto usare una ch e il vocabolo punico sarebbe stato scritto *chissu.

Lo stesso identico discorso vale per il greco antico. Per quanto incredibilmente i nostri avversari attribuiscano a k davanti a vocale anteriore /i/ o /e/ un valore di consonante palatale, è chiaro che il kissou mezra glossato da Dioscoride presenta la consonante /k/ nel suo solo valore possibile per il contesto dell'epoca: quello di occlusiva velare. È una grande stoltezza  prendere le attuali pronunce del neogreco e dei dialetti grecanici per proiettarle ai tempi di Dioscoride e persino a quelli di Omero, come se nel corso dei secoli non fossero avvenuti cambiamenti di sorta.

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