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sabato 20 febbraio 2016

L'ARGOMENTO DELL'ALTERNANZA TRA VOCALE SEMPLICE E DITTONGO: UNA CONFUTAZIONE

Mi sento in dovere di fare alcune considerazioni sui dittonghi in latino e su interessanti paralleli tra la pronuncia rustica che sostituisce una e chiusa al dittongo ae, di cui abbiamo già avuto occasione di parlare. Varianti ortografiche come ceterus, caeterus, coeterus son prese come prove dai soliti sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno: per loro esiste una sola spiegazione possibile, ossia l'inesistenza dei dittonghi ae ed oe.

I nostri avversari tuttavia non considerano minimamente alternanze del tutto analoghe a quelle di cui sopra, in cui una forma con dittongo au alterna con una forma con o, come ad esempio codex rispetto a caudex; plotus rispetto a plautus; Clodius rispetto a Claudius; foces rispetto a faucesplodere rispetto a plaudere, etc.

Perché dunque i sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno non usano un argomento simile a quello dell'alternanza tra ae, oe, e per affermare che au si pronunciasse o e che fosse un mero dittongo grafico? Essi usano due pesi e due misure: le varianti ceterus, caeterus, coeterus bastano a far dire loro che ae e oe non esistevano, e che solo e era reale, mentre plotus : plautus e Clodius : Claudius non fanno dir loro che au non esisteva e che la pronuncia era o. Essi si guardano bene dall'affermare una simile enormità, perché hanno per guida la pronuncia ecclesiastica, che riproduce au come dittongo indipendentemente da ogni sua alternanza con o, mentre realizza ae e oe come un monottongo e. Non salta loro all'occhio questa incoerenza interna dell'argomento dell'alternanza tra vocali semplici e dittonghi.

In alcuni di questi casi siamo di fronte a ipercorrettismo: non si ha cioè un dittongo au originale. Così ausculum per osculum /'o:skulum/ "bacio", un chiaro diminutivo di os /o:s/ "bocca". In realtà è ben possibile che forme anche come caeterus e coeterus fossero semplici ipercorrettismi: non è affatto detto che la loro pronuncia fosse la stessa in epoca classica, ma è ben possibile che corrispondessero a tre pronunce ben distinte come ben distinti erano au e o; quindi il valore probante di queste varianti è esattamente pari a zero.

La vocale o per au era rustica e di possibile origine umbra, e il suo suono era chiuso. Non aveva a che fare con gli sviluppi romanzi di au, che hanno invece generato una /ɔ/ aperta. L'occorrenza di questo suono, ritenuto volgare, poteva contagiare anche l'Urbe: sappiamo che vi erano Claudii che chiamavano se stessi Clodii per dimostrare simpatia verso la plebe.

venerdì 19 febbraio 2016

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LO SCAMBIO TRA H E F INIZIALI

Così in Grandgent, Introduzione allo studio del latino volgare, a proposito della consonante aspirata (pagg. 139-140): 

   249. H nel latino fu debole ed incerto in tutti i tempi, essendo senza dubbio poco più o non più che un soffio respiratorio: S., 255-256. I grammatici dicono che h non è una lettera ma un segno di aspirazione: S., 262-263. Nelle lingue romanze non vie è traccia dell'h latino. Cfr. G. Paris in Rom., XI, 399.
  250. Esso probabilmente scomparve prima in posizione mediana: S., 266. Quintiliano raccomanda la grafia deprendere: S., 266. Gellio dice che ahenum, vehemens, incohare sono arcaici; Terenziano Scauro chiama scorretti reprehensus e vehemens, e tanto lui quanto Velio Longo dichiarano che in prendo non vi è h: S., 266. Probo afferma che traho è pronunciato trao: Lindsay, 57. Cfr. App. Pr. «adhuc non aduc». Nelle iscrizioni troviamo forme come aduc, comprendit, cortis, mi, nil, vemens: S., 267-268.
  251. H iniziale fu senza dubbio fievolissimo e spesso muto durante la repubblica. Al tempo di Cicerone e nei primi tempi dell'impero s'ebbe un tentativo di rimetterlo in uso nella società colta, che condusse a frequenti abusi tra gli indotti, proprio come accade oggi nel volgo londinese: per le sedicenti eleganze chommoda, hinsidias, ecc., di «Arrio», vedi S., 264.
   Quintiliano dice che gli antichi usarono poco l'h e dà per esempio «ædos ircosque»: S., 263. Gellio cita P. Nigidio Figulo per provare che «rusticus fit sermo si aspires perperam»; ma parla delle passate generazioni - cioè contemporanee a Cicerone - come quelle che usavano moltissimo l'h, in parole come sepulchrum, honera: S., 263-264. Pompeo nota che h talvolta fa posizione, come in terga fatigamus hasta (Aen. IX, 610), talvolta no, come in quisquis honos tumuli (Aen., IX, 610): Keil, V, 117. I grammatici si trovarono costretti a discutere minutamente la grafia delle parole con o senza h: S., 264-265. 
   H manca in alcune iscrizioni verso la fine della repubblica: arrespex (per haruspex), ecc., S., 264. In Roma si sono trovati: E[REDES], C. I. L., I, 819. A Pompei l'h è liberamente omesso; e dopo il terzo secolo esso è dovunue, poco più poco meno, usato senza far differenza tra vocaboli: abeo, abitat, anc, eres, ic, oc, omo, ora, ecc, haram, hegit, hossa, ecc., S., 265-266. Cfr. ospitium, ymnus, ecc., heremum, hiens, hostium, ecc., Bechtel, 77-78; ortus, ecc., hodio, ecc., R., 462-463.
   252. Dopo che h ebbe cessato di suonare, venne fuori una pronuncia scolastica dell'h mediano come k, che è perdurata nella pronunzia italiana del latino e ha intaccato alcune parole in altre lingue: michi, nichil, Bechtel, 78; R., 455 Cfr. E. S. Sheldon, Harvard Studies and Notes in Philology and Literature, I (1982), 82-87.

Così in Grandgent, a proposito dell'alternanza tra la consonante f e l'aspirata (pag. 176): 

(I) I grammatici parlano di un'alternanza di h e ffædushædus, fasena > harena, fircum > hircum, habamfabam, ecc. S., 300. L'f e l'h appartennero senza dubbio, a differenti dialetti del latino arcaico; secondo Varrone, Ling. Lat. 5, § 97, l'f per h era sabino. Questo fenomeno non ha nulla a che fare col cambiamento di f iniziale in h nello spagnuolo e nel guascone. 

Così in Lindsay, The Latin Language, sempre sullo stesso argomento (pag. 294-295): 

121. Dialectal f for h. In Spanish, Latin f has become h, e.g. hablar, 'to speak' (Lat. fābulari, O. Lat. fabulare), and an interchange of h and f shows traces of itself in the dialects of Italy. We find the form fasena for hăsēna ascribed to the Sabine dialect by the grammarians (Vel. Long. 69. 8 K.), along with fircus (cf. the name of a citizen of Reate mentioned by Varro, Fircellius) and fedus.
Similar forms roughly classed by the grammarians as 'Old Latin' we may believe to have been dialectal, e. g. fordeum for hordeum, folus for hŏlus, fostis for hostis, fostia for hostia, &c., though some of them may be mere coinages to strengthen the argument for the spelling with h- (see Quint, i. 4. 14 ; Ter. Scaur. pp. II, 13 K.; Vel. Long. p. 81 K. ; Paul. Test. 59. 21 Th. &c.).
A Faliscan inscription has foied for hodie (Not. Scav. 1887, pp. 262, 307) : foied uino pipafo kra karefo
'hodie vinum bibam, eras carebo,' but a Sabine inscription has hiretum, apparently from the root ĝher- (?gher-) (Osc. heriiad, Gk. χαίρω, &c.), and Ter. Scaurus (13. 9 K.) quotes haba (Lat. faba, O. SI. bobu, I.-Eur. bh-) as Faliscan. (See von Planta, i. p. 442 ; Löwe, Prodr. p. 426 ; and on the interchange of f and h in Etruscan inscriptions, Pauli, Altitaliscke Forschungen, iii. p. 114). Lat. fel has been explained as a dialectal form for *hel (cf. Gk. χόλος) and fovea for *hovea (Gk. χειά) (cf. the gloss 'fuma' terra, C. G. L. v. 296. 50).

Conclusioni

Appurato che in non pochi casi h- iniziale aveva una variante dialettale f-, che fosse sabina o meno, occorre giungere per necessità ad un'epoca sufficientemente antica in cui h- suonava pienamente come fricativa. Non ha così senso l'idea dei nostri avversari, che ritengono h- nelle parole latine come un mero vezzo grafico privo di corrispondenza fonetica ab aeterno. Allo stesso modo l'etimologia di radici inizianti per h- e dotate di origine indoeuropea prova che tale consonante discendeva da un suono più complesso, un'occlusiva velare aspirata *gh-. Nelle parole che hanno invece origine etrusca, si nota che l'alternanza tra h- e f- è presente anche in quella lingua, in cui l'aspirazione si pronunciava ed era un fonema, non un semplice vezzo arbitrario. Proprio come in latino troviamo attestato Ferclis per Hercules, così in etrusco abbiamo il gentilizio Ferclite per Herclite, che corrisponde in pieno al greco Ἡρακλείδης

domenica 14 febbraio 2016

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: I PERFETTI RADDOPPIATI


Pubblico un estratto dall'ottima tesi di laurea di Matteo Calabrese (Università degli Studi della Calabria), Lingua e cultura degli Enotri alla luce dell’iscrizione paleoitalica di Tortora (pagg. 12-14), che tratta in modo sintetico ma efficace l'argomento dei perfetti raddoppiati nelle lingue italiche:  

Accertata la derivazione della forma comune osco-falisca fifik- e di quella enotria fεfικεδ da una forma base *fe-fēk, data l’arcaicità di tali forme, la spiegazione del differente vocalismo della sillaba reduplicativa tra fεfικεδ/hehik-, da un lato, e fifik-, dall’altro, non può prescindere dal problema della formazione della sillaba reduplicativa nel perfetto indoeuropeo, tanto più in considerazione dell’attestazione sincronica, nell’iscrizione di Tortora, di forme come fεfικεδ e fυf(υ)ϝοδ, che mostrano un tipo di raddoppiamento basato sulla generalizzazione della vocale /e/ (come in greco) e sull’adattamento alla vocale radicale (come in indo-iranico).4 

   4 Cfr. Di Giovine 1996, pp. 113 ss.; Lazzarini-Poccetti
   2001, pp. 77-78.

Per giustificare la presenza di tali forme nello stesso documento, Poccetti1 ipotizza l’adozione, in italico, di entrambe le modalità di raddoppiamento oppure la generalizzazione protostorica, come in greco, della vocale /e/, poi armonizzatasi con la sillaba radicale.2 

Poiché l’eventuale generalizzazione della vocale /e/ precederebbe la sua armonizzazione con la sillaba radicale, la verifica di tale ipotesi implica necessariamente l’analisi dei contesti di occorrenza della vocale stessa nelle forme di perfetto che riflettano la fase precedente sia all’armonizzazione sia, in casi particolari, alla possibile chiusura timbrica verificatasi in sillaba interna per l’accento intensivo iniziale.3 

Per quanto riguarda il latino, i seguenti esempi dimostrano che /e/ è la vocale originaria di raddoppiamento, preservata in quasi tutti i contesti, ma soggetta ad armonizzazione con la vocale radicale se questa è posteriore [u, o] oppure anteriore chiusa non arrotondata [i]:4

cado
    *ce-căd-i  >  ce-cid-i

cano 
    *ce-căn-i  >  ce-cin-i

curro 
    *ce-curr-i  >  cu-curr-i

disco < *didcsco 
    *de-dic-i  >  di-dic-i

fallo 
    *fe-fall-i  >  fe-fell-i

*me-men-i  >5  me-min-i


    1 Cfr. Lazzarini-Poccetti 2001, p. 78.
   2 Cfr. Di Giovine 1996, p. 116; Marinetti-Prosdocimi
      1994a, p. 296.
   3 Cfr. Vineis 1997, p. 336.
   4 Cfr. ivi, p. 336.
   5 Si tratta di una forma derivata da *me-men-ai
     (Gamkrelidze-Ivanov 1995, p. 261).
 

mordeo  
      me-mord-i  >1  mo-mord-i

pango 
     *pe-păg-i  >  pe-pig-i

parco 
     *pe-parc-i  >  pe-perc-i

pario 
     *pe-păr-i  >  pe-per-i

pello < *pelno2
    *pe-pel-i  >3  pe-pul-i

pendo 
     pe-pend-i

posco 
    *pe-posc-i  >  po-posc-i

pungo 
    *pe-pŭg-i  >  pu-pug-i

spondeo
    *spe-pond-i  >  spo-pond-i

tendo
     te-tend-i

tondeo 
     *te-tond-i  >  to-tond-i
tundo 
     *te-t
ŭdi  >  tu-tud-i

Sulla base dei seguenti esempi (perfetti e tempi derivati dal tema del perfetto), si può dedurre che anche in osco e in umbro la vocale originaria di raddoppiamento è /e/, parimenti conservata in quasi tutti i contesti, ma armonizzatasi con la vocale radicale se questa è anteriore chiusa non arrotondata [i], come emerge dalla forma osca fifikus, che, sebbene isolata, testimonia uno sviluppo osco-umbro parzialmente analogo a quello latino, ma certamente indipendente da esso:4 

o. deded / u. dede
o. fefacid
u. fefure
o. fifikus
u. peperscust
u. pepurkurent 

   1 A differenza degli altri perfetti contenuti in quest’elenco, tale forma non è asteriscata ed è sottolineata per evidenziare la sua attestazione accanto all’allotropo con vocale armonizzata (Lazzarini-Poccetti 2001, p. 77).
   2 Cfr. Pokorny 1959, p. 801; Marinetti-Prosdocimi 1993,
     pp. 258-259.
   3 Si tratta di una forma derivata da *pe-pel-ai (Vineis
     1997, p. 336).
   4 Cfr. Buck 1904, p. 170.
 

Ennesima confutazione delle tesi dei nostri avversari:

La vocale della sillaba del raddoppiamento era -e-, assimilata in -o- e in -u- se la vocale radicale nella protoforma era posteriore. La vocale della radice del perfetto era in origine la stessa di quella del presente indicativo: dove si è alterata è stato a causa dell'azione dell'accento che cadeva sulla sillaba del raddoppiamento. Vediamo così con la massima chiarezza che è semplicemente assurdo e insensato postulare suoni palatali (postalveolari) in questo contesto fin dai primordi della lingua.

Osservate la regolarità della formazione delle protoforme di questi perfetti:

/*kad-/   -   /*ke-kad-/
/*kan-/   -   /*ke-kan-/
/*kurs-/   -   /*ke-kurs-/
/*didk-sk-/   -   /*de-dek-/
/*fals-/   -   /*fe-fals-/
/*mord-/   -   /*me-mord-/
/*pang-/   -   /*pe-pag-/ 
/*park-/   -   /*pe-park-/
/*par-/   -   /*pe-par-/
/*pel-n-/   -   /*pe-pel-/
/*pend-/   -   /*pe-pend-/
/*porsk-/   -   /*pe-porsk-/
/*pung-/   -   /*pe-pug-/
/*spond-/   -   /*spe-(s)pond-/
/*tend-/   -   /*te-tend-/
/*tond-/   -   /*te-tond-/
/*tund-/   -   /*te-tud-/
 

Solo per fare un esempio, mi si dovrebbe ora spiegare che senso avrebbero fantomatiche protoforme le seguenti: 

/*kad-/   -   /**tʃe-tʃid-/
/*kan-/   -   /**tʃe-tʃin-/ 

Cosa dovrebbe far sì che fin dall'epoca più antica una /k/ alternasse con una /tʃ/? Perché mai due suoni tanti diversi avrebbero dovuto essere ritenuti allofoni dall'eternità? In base a quale principio si dovrebbe rinunciare a comprendere la formazione dei perfetti raddoppiati oscurandone la regolarità primordiale? In base a quale principio si dovrebbe scartare una soluzione logica e semplice per preferirle un'assenza di spiegazione? Perché l'ha detto il Papa? Perché l'ha detto l'Imperatore? Giammai! È evidente che i suoni palatali possono essersi evoluti soltanto a partire da precedenti suoni velari seguiti da vocali anteriori, e che la trasformazione deve essere avvenuta in epoca tarda

Soltanto persone che ignorano e vogliono ignorare ogni seppur minimo rudimento dell'origine della lingua latina possono insistere con pervicacia nelle loro inconsistenze.

sabato 31 ottobre 2015

GALLETTI REALI E FANTOMATICI CECI

La pietra dello scandalo questa volta è un brano delle Satire di Orazio, in cui è descritto il personaggio di Cicirrus, un antenato di Pulcinella. A dare il nome alla macchietta è la parola cicirrus, che significa "galletto" e che doveva essere in uso nel paese degli Osci. Questo vocabolo corrisponde alla perfezione alla glossa greca κίκιρρος, riportata da Esichio e tradotta con ἀλεκτρυών, ossia "galletto da combattimento". Non ci vuole l'intelligenza di un Einstein per dedurre che questo lemma cicirrus, κίκιρρος è in ultima analisi di origine onomatopeica, e corrisponde grossomodo al nostro chicchirichì. Non si ha motivo di pensare che l'onomatopea sia un vizio esclusivamente moderno solo perché nelle scuole si insegna una lingua latina non colloquiale.


Perché Orazio ha dato questo nome a un suo personaggio guittesco? Secondo alcuni perché era litigioso come un galletto. Così è infatti descritto: 

Nunc mihi paucis
Sarmenti scurrae pugnam Messique Cicirri,
Musa, velim memores et quo patre natus uterque
contulerit litis.

"Ora Musa vorrei
che tu ci ricordassi in poche parole la guerra del buffone Sarmento
e di Messo Cicirro e da quale padre nati l'uno e l'altro
vennero alla zuffa.

Quale che possa essere il motivo di un simile antroponimo, la sua identità con la glossa di Esichio è il punto di partenza di ogni ulteriore speculazione. 

Eppure un nostro avversario, un archeologo, pur di screditare le conoscenze scientifiche e far prosperare la pseudoscienza, si ostina a negare una realtà dei fatti tanto evidente (e se vogliamo persin banale), sostendo assurdamente che il termine cicirrus significherebbe invece "cece", e che Messo Cicirro avrebbe tratto il suo nome da un grosso neo piriforme che aveva in faccia: sarebbe quindi stato, incredibile dictu, una sorta di Bruno Vespa dell'epoca. Questo è quanto ha da dire sull'argomento:

«Il tutto appare completamente logico, se non fosse che i cicirri sono i ceci, termine italico e non greco, tuttora chiamati così nel sud (http://ilquotidianodellabasilicata.ilsole24ore.com/it/ e Vespertine Vignettes a review of Sicilian Vespers by Cedric Hampson in PDF) e non i galli e che Esichio, che scrive in greco, non sapendolo ha preso una cantonata. Quasi solo su questo è stata costruita l'ipotesi della restituta.
Il brano di Orazio (satira 1,5) è questo:
"L’illustre stirpe di Messio sono gli Osci; vive ancora la Signora di Sarmento: i nati da questi due antenati vennero allo scontro. Per primo Sarmento: “Dico che sei simile ad un cavallo selvaggio.” Ridiamo e lo stesso Messio: “Va bene” e muove la testa: “o se la tua fronte non avesse il corno tagliato”, disse, “cosa faresti quando minacci così con le corna tagliate ?” Una ignobile cicatrice gli deturpava la fronte pelosa dalla parte sinistra della faccia. Dopo aver lanciato molti motti in faccia e sulla malattia campana chiedeva se ballasse la danza del pastore Ciclope: diceva che non aveva bisogno della maschera e dei tragici coturni. Cicirro all’indirizzo di questi motteggi diceva molte cose: chiedeva se aveva già donato al Lari la catena per grazia ricevuta; per il fatto che era scrivano, per nulla minore era su di lui il diritto della sua padrona; chiedeva infine perché qualche volta era fuggito lui, al quale sarebbe bastata una libbra di farro dato che era così piccolo e gracile. Insomma la cena si prolungava piacevolmente."»

A sentir lui, Cicirro avrebbe la stessa origine di Cicerone. La spiegazione sarebbe la cosiddetta malattia campana, che "faceva verrucosi e come cornuti nel volto" e che Orazio cita esplicitamente. Questo però non è una prova a favore della teoria del cece. Infatti a leggerne le descrizioni, questa malattia non consisteva in un semplice neo o in una singola verruca, ma in qualcosa di ben più deturpante. Vengono in mente i condilomi giganti acuminati, che in alcuni casi possono portare alla formazione di strutture simili a corna e che sono chiamati popolarmente "creste di gallo". Così, ammettendo la malattia campana come origine dell'antroponimo, Messo Cicirro sarebbe letteralmente Messo il Galletto, a motivo delle sue creste di gallo.

Questo però non basta. Veniamo infatti ad apprendere che secondo l'archeologo - che sarà anche un buon archeologo ma che quando pretende di occuparsi di linguistica proferisce soltanto assurdità - nei dialetti dell'Italia Meridionale, la parola "cicìrri", con l'accento sulla seconda sillaba, significherebbe "ceci".

Vediamo invece come stanno le cose. Prendiamo un sito nel Web, e riportiamo senza modifiche i dati che riporta, limitandoci ad aggiungere un paio di note: 

Dialetto

Voce

Basilicata

cic’r

Calabria

ciciaru

Campania

cìcero

Liguria

çeìxo (sing.), çeìxi (pl.)*

Piemonte

cisi

Puglia

cìcere

Sardegna

cixiri (pronuncia: cijiri), basolu pittudu o tundu

Sicilia

cìciru



*In realtà è çeixo /'seiʒu/, pl. çeixi /'seiʒi/: l'autore della lista ha collocato male l'accento, che cade sulla e. Così fainâ de çeixi "farinata di ceci".

E ancora:

ceci

aiolu pizzutu

Sardegna

siniscola

ceci

cic’r

Puglia

Bari

ceci

ciceri

Calabria

locride

ceci

ciceri

Puglia

Soleto (Lecce)

ceci

ciciari

Calabria

Reggio Calabria

ceci

ciciri

Calabria

Casabona

ceci

ciciri

Calabria

Delianova
(Reggio Calabria)

ceci

cìciri

Puglia

nardò

ceci

ciciri

Puglia

Salento Sud

Ceci abrustoliti

càlia

Calabria

Reggio Calabria

cecio

cic’

Lazio

Pastena (FR)

cecio

ciciru

Puglia

Salento Sud

cecio o ceci

ciciru o ciciri

Sicilia

Avola SR



**Il lemma càlia è l'unico nella lista a non continuare la parola latina per "cece": è infatti dal verbo caliari "seccare al sole", di chiara origine araba (< qala "arrostire"). 

Anche se non sempre riportato nelle liste di vocaboli di cui sopra, l'accento è sistematicamente sulla prima sillaba: si dice cìciri, non *cicìrri. Anche se qualcuno scrive impropriamente cicirri, come nel documento pdf in inglese allegato dal sostenitore delle pronuncia ecclesiastica, questo è soltanto un espediente grafico per trascrivere il siciliano cìciri /'tʃitʃiri/ o il lucano cic'r /'tʃitʃərə/. Il motivo è anche piuttosto chiaro a chi abbia una minima nozione di lingua latina scolastica e di filologia romanza: in latino è cicer, genitivo ciceris, con -e- breve, e quindi con accento sulla prima sillaba. Non esiste la benché minima giustificazione per una forma con accento sulla seconda sillaba.

Tutto è molto semplice: dire che nei dialetti meridionali la parola *cicìrri significa "ceci", anziché il corretto cìciri, è una falsificazione. Bisognerà poi capire se siamo di fronte a una falsificazione inconsapevole o consapevole.

Vediamo di riassumere il procedimento del nostro avversario, che si ostina a definire "non scientifica" la conoscenza contenuta nelle opere dell'intero mondo accademico sulla lingua latina. Vediamo invece quanto sia "scientifico" il suo modo di ragionare.

1) Egli prende una parola dagli odierni dialetti dell'Italia Meridionale;
2) Ne altera l'accento e la pronuncia, foggiando un falso per poterlo usare per i propri scopi;
3) Proietta questa parola all'indietro nei secoli:
4) Prende una parola attestata in Orazio e la identifica con la parola da lui fabbricata e illecitamente proiettata nel passato romano. 

Non c'è che dire: Galileo si starà rigirando nella tomba come una trottola.

martedì 14 luglio 2015

LA PRETESA ASSONANZA TRA SOCIUS E SOSIA IN PLAUTO: UN PROBLEMA INESISTENTE

Veniamo ora a un'autentica "chicca", la punta di diamante delle "argomentazioni" di coloro che in questa sonnolenta Italia si ostinano a ritenere che la pronuncia del latino in uso nelle scuole fosse quella di Cesare e di Cicerone - e che addirittura la proiettano nel passato più remoto, attribuendola persino a Romolo e Remo.

Essi partono dall'opera di Plauto, isolano un singolo brano e lo presentano come prova definitiva e inconfutabile delle loro inquiete quanto vane elucubrazioni. Se poi uno li contesta, ecco che lo accusano di essere "disonesto". Queste sono le citazioni dei nostri avversari: 

"C'è invece una testimonianza contraria alla restituta in Plauto e consiste in un gioco di parole, tra "socia" e "sosia" (Amphitruo 218), che sarebbe stato impossibile se davvero si fosse detto "sokia"."

"Errata Corrige post precedente
1) non Socia ma socium
Questo è il brano dell'Amphitrio:
italiano
MERCURIO: Dicevi di essere "Sosia", (servo) di Anfitrione.
SOSIA: Mi ero sbagliato: volevo dire di essere "socio" di Anfitrione.
Latino
MERC.: Amphitruonis te esse aiebas Sosiam.
SOS.: Peccaveram, nam Amphitruonis socium memet esse volui dicere"

Fatto questo, arrivano a ventilare l'ipotesi di un complotto. Così affermano che i fautori della pronuncia restituta del latino, da loro assimilati a una setta occultista, avrebbero usato la loro supposta influenza per tenere nascosti i fatidici versi di Plauto:

"Spero che tu sappia com'è la 'scienza' linguistica, che quel brano è stato proposto più volte per essere emendato, mi riferisco al famoso brano “scomodo” di Plauto, dove non era concepibile che 'Sosia' potesse essere confuso con 'socium', il 'soKium' della restituta, ma nessuna correzione, grazie al cielo, è stata ritenuta del tutto convincente nel 1800 (chiedimi i riferimenti che te li do) e si è preferito nel 1900 passare il brano sotto silenzio, sperando che tutti lo dimenticassero. Invece, stranamente, in silenzio, a differenza di tanti altri persi e corretti, il brano si è conservato."

Certo, certo, ci sono in ballo i terribili Rettiliani, i Rotschild e gli Illuminati. E c'è anche la marmotta che confeziona la cioccolata!  


Motivo di questo complotto: i fautori della restituta tremerebbero di terrore alla sola menzione del gioco di parole tra socium e Sosiam, presentato come evidenza della pronuncia ecclesiastica /'sočus/ vigente dalla notte dei tempi. Magari i sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno potrebbero sottoporre il caso a Cacioppo e vedersi dedicare qualche minuto in Kazzenger.

Sgombriamo ora il campo da questi vaniloqui cospirazionisti.

Già il Lindsay liquidava questo ridicolo argomento in modo molto efficace. Riporto la traduzione in italiano delle sue considerazioni, affinché tutti gli eventuali lettori le comprendano (The Latin Language, 1894, § 94, pag. 87-88):

« Sul fatto che c e g rimanessero dure davanti ad e, i e consonante (quando non seguiva una vocale), fino al sesto e al settimo secolo d.C., abbiamo una sovrabbondanza di prove. Per il periodo precedente, possiamo notare il fatto che in umbro, dove c (k) davanti a una vocale stretta* divenne una sibilante ed esprimeva il suono con un segno particolare nell'alfabeto latino, la lettera latina c non fu usata per questo suono nelle iscrizioni (dal tempo dei Gracchi) scritte in caratteri latini, ma usava una s modificata, per la precisione una s con un segno simile a un accento grave su di essa, es. desˋen (Lat. decem), sˋesna (Lat. cena). Che Plauto (che tra l'altro era umbro) faccia un gioco di parole su Sosia e socius, non prova nulla (Amph. 383) :

ÁMPHITRUONIS TE ÉSSE AIEBAS SO/SIAM.- PECCÁUERAM :
NAM 'ÁMPHITRUONIS SÓCIUM' DUDUM ME ÉSSE VOLUI DICERE.
 

Egli fa un gioco su arcem ed arcam in Bacch. 943 :

ATQUE HIC EQUOS NON IN ARCEM VERUM IN ARCAM FACIET IMPETUM. » 

*In inglese sono chiamate "narrow vowels" le vocali anteriori.

Le parole arcem /'arkem/ e arcam /'arkam/ sono senza dubbio state ideate come assonanti, avendo radici omofone /ark-/ e desinenze entrambe nasalizzate, seppur con vocali diverse.

Sul fatto stesso che socium e Sosiam fossero stati ritenuti da Plauto come una reale assonanza, mi permetto invece di nutrire qualche dubbio. A prescindere dalla differenza di consonante (che sussisterebbe anche ammettendo una palatalizzazione), la finale -am non poteva somigliare molto a -um. Le vocali atone di arcem e arcam non mostrano la drammatica distanza di una -u- da una -a-, che si trovano ai capi opposti di uno spettro sonoro. Ciò che Plauto intendeva mettere in scena non era un'assonanza, ma un fraintendimento. Ha attribuito alla macchietta Sosia l'idea che Mercurio avesse i tappi di cerume nelle orecchie. 

Né si può ammettere il cosiddetto "argomento di Stalin", così chiamato dal fatto che il dittatore georgiano, parlando male il russo, tendeva a sorvolare sulle desinenze realizzandole in maniera inistinta. Il parlante latino doveva essere per necessità ben attento alle desinenze, specie in epoca antica, essendo esse determinanti nell'attribuire senso compiuto alle frasi, molto più di quanto non fosse la posizione delle parole nella frase. I moderni non sono abituati a tutto ciò e si lasciano spesso ingannare da una frase come "philosophum non facit barba".

Se anche socium e Sosiam fossero stati concepiti come assonanti nella radice, si potrebbe ammettere che Plauto abbia fatto uso a fini scenici di una pronuncia alterata, che presentava per l'appunto il suono /š/ davanti a vocale anteriore. Questo non dimostrerebbe nulla a proposito della pronuncia ecclesiastica, che è del tutto diversa e ha un'affricata /č/ che difficilmente potrebbe essere confusa con una s. Per la natura del suono, una parola con /č/ non sfuggirebbe a un orecchio anche poco attento. 

In altre parole, se anche Plauto avesse inteso usare tratti fonetici della sua nativa lingua umbra, riproducendo socius /'sokjus, 'sokius/ come /'sošjus/, la cosa non avrebbe alcun valore probante. L'intera questione non avrebbe niente a che fare con gli sviluppi del latino nelle lingue romanze. 

Le pronunce guittesche sono sempre state comuni: l'attore per necessità tende a deformare il linguaggio oltre ad ogni limite, creando addirittura propri dialetti che non sono necessariamente parlati da altri. In quest'epoca di oscenità e di degenerazione, i guitti del Circo Zelig e di Striscia la Notizia ci hanno abituati a ogni sorta di alterazione della pronuncia al fine di destare ilarità negli spettatori. C'era uno di questi comici che usava pronunciare la finale come , dando quasi l'impressione di esibirsi in incauti pseudo-francesismi - così se ne usciva sempre con l'esclamazione "un po' di umiltè". Una volta mi capitò di imbattermi in un altro comico, che cantava "la solitüdine" e favoleggiava di una fantomatica partita Seregno-Pitügno (Seregno è la mia città natale, mentre Pitugno è semplice parto di fantasia). Un altro ancora aveva tentato un esperimento bislacco, alterando l'italiano come se la velare -c- del latino non si fosse mai palatalizzata, e così diceva "i miei amiki". Tuttavia non era arrivato a fare altrettanto con -g- e diceva regolarmente "gente", etc. Ricordo anche uno sketch di Gigi e Andrea, in cui quest'ultimo, travestito da anziana signora, sostituiva a ogni /w/ una /v/, dicendo "una svora", "la svocera", e la memoria non m'inganna addirittura "Edvardo". Cosa dedurrebbero ipotetici studiosi di un lontano futuro analizzando simili documenti? Ammettendo che le testimonianze di questo nulla mediatico possano durare tanto, potrebbero essere portati a trarne, specie in mancanza di informazioni, deduzioni erronee.

Conclusioni

Il solo pensiero di espungere o di emendare un brano come quello dell'Amphitruo è un'assurdità. Bisogna partire dai dati di fatto e capire il perché di ciò che si osserva, non piegare la realtà dei fatti alle proprie idee preconcette, come fanno i nostri avversari. In questo post ho preso il dato di fatto e ne ho fornito una spiegazione in linea con quanto sappiamo della fonetica della lingua latina e dei suoi mutamenti nel corso dei secoli. Se poi altri non hanno fiducia nella linguistica e preferiscono votarsi alla pseudoscienza, non farò passare i loro sproloqui: sarò sempre uno strenuo combattente determinato a contrastarli.

sabato 24 gennaio 2015


IL MISTERO DELLA TOMBA DEI CARONTI

I fautori della scuola indoeuropeizzante - che attribuisce ai numerali etruschi huθ e śa il valore di "quattro" e "sei" rispettivamente - usano proporre come prova risolutiva delle loro tesi un affresco sepolcrale che mostra due porte dipinte su due pareti di una tomba, ciascuna con due figure di Caronte. Per questo la tomba, che si trova nella necropoli di Monterozzi (Tarquinia) è chiamata Tomba dei Caronti. Risale al III o al II secolo a.C., in una fase di decadenza della civiltà etrusca.

Questa è la descrizione delle figure, tratta da
http://www.futouring.com/

"Quello di destra ha i capelli a serpente ed è armato di martello, mentre l’altro ha un copricapo alato ed un grande martello. Sulla parete di fondo lo schema è analogo: ai lati di una finta porta resa accuratamente, sono raffigurati due esseri mostruosi dal corpo blu e con ali rosse: quello di destra indossa una tunica rossa ed è armato di martello e spada, mentre quello a sinistra veste una tunica blu ed è armato di ascia."

Veniamo alla parte che a noi più interessa. Sopra la figura di ognuno di questi demoni è posta un'iscrizione. Una riporta ΧARUN [P]U[F]E - secondo altri [L]U[F]E (SE 30 p290 10), un'altra ha soltanto ΧARUN (SE 30 p291 11), un'altra ancora mostra ΧARUN ΧUNΧULIS (SE 30 p291 12, aka TLE 884) e l'ultima ha ΧARUN HUΘS (SE 30 p293 13, aka TLE 885). 

Per questo motivo c'è chi si è affrettato a tradurre Χarun Huθs con "Il Quarto Caronte". A parte il fatto che le figure non sono numerate, in lingua etrusca huths non potrebbe mai significare "quarto". Se anche si attribuisse infatti a huθ il significato di "quattro" - come fa la scuola indoeuropeista - l'ordinale "quarto" sarebbe huθs-na, mentre huθ-s significherebbe piuttosto "dei quattro". Così ecco la traduzione "Caronte dei Quattro", di cui è stata proposta l'interpretazione "Caronte dei Quattro <Caronti>". Questo però è privo di logica. Non esiste nulla che lasci pensare che Χarun Huθs sia prominente rispetto ai restanti tre Caronti, né che abbia rispetto ad essi una superiorità gerarchica. Se così fosse, dovrebbe dirsi invece "Caronte dei Tre", perché tale demone non potrebbe mai essere anche Caronte di se stesso. È evidente che qualcosa non torna, e che tutte queste proposte sono superficiali.

Nel tentativo di spiegare la connessione con il numerale, si potrebbe pensare che la figura di Χarun Huθs abbia a che fare con i morbi. Ognuno dei quattro Caronti potrebbe essere connesso a un particolare tipo di morte. La morte tramite il fuoco, la morte violenta, la morte tramite l'acqua e la morte di malattia. Si potrebbe allora ipotizzare che i sapienti Rasna distinguessero sei tipi diversi di morbi, e che quindi il Caronte che presiedeva alla morte per malattia fosse chiamato "Caronte dei Sei", sottointendendo "Morbi". Anche questa ipotesi è tuttavia di una fragilità logica molto spinta, perché implicherebbe un termine sottointeso, cosa che non è molto in sintonia con la mentalità etrusca. Ridicola è la proposta di interpretare il teonimo come "Caronte Numero Sei", come se fosse il nome di un profumo.  

Arrivo dunque alla conclusione che Huθs sia una parola che niente ha a che vedere con il numerale huθ "sei". Penso che siamo di fronte a una coincidenza fortuita. Il termine in questione rimanderebbe così a una diversa forma soggiacente, con significato del tutto dissimile. L'ipotesi non è poi così peregrina: l'ortografia etrusca aveva limitate capacità di esprimere i suoni, ed è ben possibile che nascondesse qualche dettaglio importante, come ad esempio la lunghezza della vocale tonica. A dire il vero, già Georgiev aveva pensato a questa possibilità, avvicinando il termine etrusco all'ittita ḫūd- "essere rapido, pronto a colpire".

Si può dimostrare che l'etrusco non è una lingua anatolica come l'ittita, ma presenta in ogni caso numerosi prestiti da tale fonte, come avrò modo di dimostrare in seguito. Così esistono due possibilità:

1) La radice huθ- "rapido, pronto a colpire" è un prestito anatolico, così come in inglese il termine voyage è un prestito dall'antico francese;
2) La radice ḫūd- "rapido, pronto a colpire" in ittita è un affioramento di un sostrato tirrenico: si tenga conto che le lingue anatoliche hanno un'imponente quantità di lessico la cui origine è ignota e non collegabile a un'origine indoeuropea.

Potremmo ipotizzare le seguenti forme soggiacenti:

/hud-/ "sei" : huθ
/hu:d-/ "rapido, pronto a colpire" : Huθs

L'epiteto Χunχulis mostra un suffisso -is che si trova anche altrove (netśvis "aruspice", etc.) e che potrebbe ben avere un significato agentivo. La forma è stata avvicinata all'ittita ḫulḫuliya- "lottare, combattere", con dissimilazione della prima -l- in -n-. Valgono gli stessi ragionamenti fatti per l'epiteto Huθs.

Per quanto riguarda Χarun [P]u[f]e, se la lettura fosse confermata, si potrebbe fare un interessante collegamento. In latino la parola popa indicava l'officiante del sacrificio cruento: era un uomo incaricato di abbattere con un maglio la vittima sacrificale. La parola in questione non ha origine indoeuropea: invano alcuni studiosi hanno pensato di connetterlo con popina "cucina", parola di origine osca derivata dalla stessa base del latino coquere "cuocere". Tuttavia il popa non cuoceva, ma colpiva con il maglio. Si riporta un'iscrizione su ossario che ha cure laru pufa (NRIE 260): Così ricostruisco senza dubbio pufa "abbattitore". In un'epoca più antica la parola etrusca doveva essere *pupa, quindi fu data in prestito al latino come popa, con -p- conservata. In seguito l'etrusco subì un'ulteriore evoluzione e la -p- mediana divenne l'affricata -f-, come riscontrato anche in altri casi. L'epiteto Pufe sarebbe quindi un derivato di pufa

Riassumiano quindi:

1) HUΘ- "essere rapido, pronto a colpire", donde HUΘ-S "rapido, pronto a colpire"

2) PUF- "abbattere", donde PUFA, PUFE "abbattitore"

3) ΧUNΧUL- "lottare, combattere", donde ΧUNΧUL-IS "lottatore" 

Tutto parrebbe molto logico.