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mercoledì 22 aprile 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI ZOMBIE

Sono ossessionato dagli zombie! Non riesco quasi a pensare ad altro, forse perché io stesso sto lentamente trasformandomi in un morto vivente, sprofondato come sono nella mia reclusione da hikikomori. Nulla di più naturale quindi di un'accurata indagine etimologica sulle origini della parola zombie. Spero che fornirà interessanti spunti di riflessione agli eventuali lettori del mio spazio virtuale. 
 
Alcune false etimologie 
 
In inglese la parola zombie è stata documentata per la prima volta nel 1819 dal poeta romantico inglese Roberth Southey (1774 - 1843), in una storia brasiliana. Tuttavia non ci sono dubbi che il centro di diffusione del fatidico vocabolo sia l'isola di Haiti, nel cui creolo è attestato come zonbi
Come spesso accade, i romanisti cercano di ricondurre qualsiasi parola a un'origine romanza. Per quanto possa apparire assurdo, ci hanno provato anche con zombie. Queste sono le due banali teorie romanistiche in cui mi sono imbattuto: 
1) zombie deriverebbe dal francese les ombres "le ombre";
2) zombie deriverebbe  dallo spagnolo sombra "ombra".
Sia la parola francese ombre che quella spagnola sombra derivano in ultima analisi dal latino umbra (la forma spagnola viene da un composto castigliano antico con so "giù", naturale evoluzione del latino sub). Tutti questi balbettamenti sono meritevoli di irrisione e di scherno.  
 
La vera origine africana della parola   

In realtà la parola zombie proviene da una lingua di ceppo bantu dell'Africa Occidentale. La forma più adatta sembra essere il Kikongo zumbi "feticcio". In Kimbundu nzumbi significa "spettro" e più precisamente indica un fantasma che rientra nel mondo dei vivi per tormentarli. In altre lingue del Congo, sempre dello stesso tipo, abbiamo nzambi "divinità", vumbi, mvumbi "ritornante, cadavere che mantiene in sé lo spirito". Il significato originale doveva essere quello di "divinità". Questa è la catena di slittamenti semantici da me postulata: 
 
"divinità, simulacro" => "spirito di un morto" => "corpo che ha in sé lo spirito del morto" => "ritornante, morto vivente"
 
Il tentativo di ricostruzione di una protoforma deve tener conto dell'alternanza tra z- (zumbi, nzambi, etc.) e v- (vumbi, mvumbi), che conduce a una fricativa interdentale sonora dh- /ð/, la stessa che troviamo nell'inglese the, this, etc. Così ricostruisco *ndhuwambi "divinità, simulacro".  
 
Zumbi, lo Spartaco del Brasile 

A questo punto si comprende bene il significato del nome di Zumbi (1655 - 1695), l'ultimo leader del Quilombo di Palmares, in Brasile. Il Quilombo di Palmares era uno stato fondato nel 1600 da schiavi fuggiti dalle piantagioni di zucchero e rifugiatisi nella foresta. Era formato da un certo numero di villaggi fortificati, detti mocambo, e crebbe fino a controllare un'area vasta quanto quella del Portogallo. Zumbi nacque libero proprio a Palmares, ma fu catturato e venduto come schiavo a un prete. Apparteneva al lignaggio dei sovrani del Congo. A quindici anni fuggì e riuscì a ritornare tra la sua gente. Divenne un valoroso guerriero e un abile stratega. Dieci anni dopo il suo ritorno sottrasse il potere allo zio Ganga Zumba, che aveva accettato di sottomettersi al governatore portoghese in cambio di una promessa di libertà per le genti del Quilombo. Dopo 15 anni di fierissima resistenza, Zumbi venne catturato e infine decapitato. La sua testa fu esposta come monito, col pene reciso e collocato in bocca. Il governatore Caetano de Melo e Castro intendeva con questo terrorizzare i neri, dando un'evidente smentita di una strana superstizione che voleva Zumbi immortale. Ora posso dimostrare che questa superstizione aveva il suo fondamento nell'onomastica. Siccome Zumbi significa "divinità, feticcio, spirito", era già soltanto per questo creduto immortale. Gli schiavi in Brasile mantenevano le loro lingue africane ancora nel XVII secolo, come prova il fatto che Zumbi, rapito da piccolo, dovette imparare il portoghese, che non conosceva. Così si dice tuttora in Brasile di questo Spartaco, infaticabile difensore degli oppressi: "Eis o Espírito", ossia "Questo è lo Spirito". Non a caso: si tratta proprio della traduzione in portoghese del nome Zumbi

La zuvembie o zombie femmina
 
Pochi sanno che esiste anche la parola zuvembie "zombie femmina". In realtà è stata introdotta di recente, risalendo a un racconto di Robert E. Howard, Pidgeons from Hell (tradotto in italiano come I colombi dell'inferno), pubblicato postumo nel 1938 su Weird Tales. Howard, il creatore del celeberrimo personaggio di Conan il barbaro, non era esattamente un filologo. Mi domando come possa aver dato vita a una forma che conferma la mia ricostruzione protolinguistica. Bisognerebbe accertare se l'autore fantasy abbia preso la parola da qualche lingua africana o se abbia alterato capricciosamente zombie spinto dal proprio estro creativo. Purtroppo allo stato attuale delle conoscenze non mi è possibile approfondire la questione. Negli anni '70 la Marvel Comics sostituì con zuvembie la parola zombie, proibita dall'asfissiante censura buonista della Comics Code Authority, perché ritenuta "traumatizzante". In questa operazione si è persa l'originaria natura femminile della zuvembie, il cui nome è stato attribuito abusivamente anche a morti viventi resuscitati da cadaveri di maschi. Del resto, la Marvel non è proprio definibile come "Fronte della Cultura"
 
Un remoto prestito neolitico?  
 
Non può sfuggirmi la somiglianza che il nome dello zombie ha con la ricostruzione di una protoforma nordcaucasica, opera di Sergei Starostin, della Scuola di Mosca. Riporto in questa sede i dati, tratti dal database The Tower of Babel (starling.rinet.ru):    
 
Proto-Nord Caucasico: *ǝ̄mbi "dio, divinità" 
 
  Proto-Nakh: *c̣ēbV "divinità"
    Ceceno: c̣ū "divinità pagana"
    Ingush: c̣uw "prete"
    Batsbi: c̣ijb "idolo, dio"

  Proto-Avaro-Andi: *c̣:VbV "divinità" > "grazia"
    Àvaro: c̣:ob "misericordia, grazia"  
    Andi: c̣:ob "dio"

  Lak: c̣imi "grazia, misericordia, pietà"

  Proto-Dargwa: c̣um "pietà"
    Akusha: c̣um "pietà"

    N.B. I significati di "misericordia" e simili devono essersi formati a causa del passaggio all'Islam, che attribuisce a Dio gli epiteti "Misericordioso, Compassionevole". A parer mio non si può far risalire questa semantica alla fase di protolingua nord caucasica, come fa Starostin.
 
Hurritico: ažammi "immagine, figura" (ossia "idolo") 

La forma hurritica, che doveva avere una consonante sonora /ʒ/ e in cui -mm- doveva risalire a un precedente -mb-, è particolarmente simile alle forme africane. 

Questa è la mia ipotesi: da qualche lingua parlata nell'Europa del Neolitico, il nome del feticcio e del morto vivente è stato importato in Africa. La cosa non è poi così assurda come potrebbe sembrare a prima vista: è stata dimostrata l'esistenza di movimenti demici dall'Europa all'Africa, che hanno portato un'enorme quantità di materiale genetico europeo tra le genti africane, anche nelle aree più impervie. Si è potuto appurare che le genti neolitiche che hanno compiuto queste migrazioni, con ogni probabilità sotto la pressione di popoli indoeuropei, erano geneticamente simili agli odierni Sardi. Nel Web si trova molto materiale per approfondimenti. Riporto a titolo di esempio questo link:
 
 
Infine appongo una mia personale considerazione, con fede assoluta e incrollabile: GLI ZOMBIE ESISTONO!! 

sabato 15 dicembre 2018

NOTE SUL LAVORO DI TARDIVO-KITSELIS

Giampaolo Tardivo e Philippos Kitselis sono gli autori del lavoro Prometheus or Amirani part 2: An updated study on the Pre-Greek substrate and its origins (2017). Non sono riuscito a trovare nel Web notizie sulla loro affiliazione universitaria, deduco quindi che siano ricercatori indipendenti. È possibile consultare e scaricare l'articolo, presente sul meritorio sito Academia.edu, servendosi del seguente link: 


L'articolo è presente anche sull'interessante sito Palaeolexicon.com a questo url: 


Questo è l'abstract, da me tradotto:

"Nei tardi anni '80 e nei primi anni '90, Colin Renfrew ha presentato la sua teoria anatolica. Secondo lui, la rivoluzione agricola iniziò in Anatolia e da lì, si propagò in Europa. Egli suppose che questi agricoltori fossero portatori dalla lingua proto-indoeuropea, ma la sua teoria ha debole supporto dagli indoeuropeisti. Sorgono quindi alcune domande: quali lingue furono introdotte nelle isole egee e in Grecia da questi agricoltori? Possiamo immaginare le affliazioni della lingua minoica? Una diversa ipotesi agricola sarà mostrata in queste pagine, non correlata alla famiglia linguistica indoeuropea e a quella semitica. Essa caratterizza una nuova famiglia linguistica che comprende l'Egeo, l'Anatolia, il Caucaso e il Medio Oriente." 

Come si capisce dal titolo dell'articolo di Tardivo-Kitselis, esiste anche una prima parte dell'opera, Pre-Greek studies volume I: Prometheus or Amirani? (2014). Questo è l'url della relativa pagina su Palaeolexicon.com


Tramite questo link si giunge invece all'articolo in questione su Academia.edu


Considerando che questi argomenti, pur così sublimi, in Italia non riscuotono a quanto pare il benché minimo interesse da parte delle masse acefale, spero in ogni caso di fare opera utile e gradita diffondendone la conoscenza.  La speranza è che, nonostante l'ostilità del contesto italiano, più che altro gravitante attorno alla fica e alla pensione, qualche seme luminoso possa prima o poi svilupparsi e fruttificare.

Facciamo il punto della questione. Ormai è impossibile negare l'importanza degli elementi non indoeuropei presenti nel vocabolario dell'antica lingua dell'Ellade. A quanto apprendo, persino l'archeologo britannico Colin Renfrew - il noto sostenitore della teoria dell'indoeuropeizzazione neolitica - si è visto costretto a riconoscere la presenza di un sostrato preindoeuropeo in greco. Queste sono le sue parole in proposito (1998):

"The Greek language is unusual among the languages of Europe in the high proportion of its vocabulary which includes words which are not only not Greek words, but apparently not part of an Indo-European vocabulary either." 

Mi rallegro del suo essere rinsavito, almeno in parte, rispetto alle folli posizioni che professava in precedenza, riportate nel libro di Francisco Villar del 1991 e discusse in un mio contributo: 


Credo che sia molto interessante passare in rassegna quanto prodotto da Tardivo e da Kitselis nelle loro pubblicazioni. I due ricercatori indipendenti hanno esplorato una connessione tra il lessico pre-greco e le lingue del Caucaso settentrionale, suddivise come segue: 

1) Lingue caucasiche nord-orientali, ossia lingue Nakh (Ceceno, Ingush, Batsbi) e lingue del Daghestan (Avaro-Andi, Udi, Lak, Tsezi, Dargwa, Lezghi);
2) Lingue caucasiche nord-occidentali (Abkhaz-Abaza, Adyghe)


Si tratta di lingue assai peculiari, senza dubbio tra le più strane e complesse del pianeta. Al mondo accademico mainstream non è ancora del tutto chiaro se le lingue caucasiche nord-orientali e le lingue caucasiche nord-occidentali siano realmente imparentate; non mancano studiosi che considerano le relative affinità come caratteristiche areali diffuse tramite processi di prestito. Delle lingue ormai estinte e di origine ignota parlate in Anatolia e in Mesopotamia, l'hurritico e l'urartaico mostrano possibili affinità con le lingue Nakh e Daghestane, mentre il proto-hattico parrebbe più simile alle lingue Abkhaz-Abaza e Adyghe. Molto diverse sono invece le lingue kartveliche (georgiano, mingrelio, Laz, Svan), dette anche sud-caucasiche, che non hanno alcun nesso evidente con le lingue nord-caucasiche.

A spingere Tardivo e Kitselis a indagare la possibilità di una somiglianza profonda tra pre-greco e nord-caucasico sono state non soltanto alcune consonanze lessicali, ma anche alcune peculiarità fonologiche. Tra queste si nota l'assenza di un contrasto tra consonanti sorde e sonore (es. κόρυθος "crestato" ~ κόρυδος "allodola crestata"), oltre al peculiare fenomeno dell'alternanza tra forme con vocale iniziale e forme che ne sono prive.

Questo è riportato da Beekes: 

“La definizione è ‘vocale iniziale che è presente o assente in forme (pressoché) identiche’; non possiamo dire se la vocale scomparve o se fu aggiunta in certe circostanze; un'altra possibilità ancora è che rappresenti un tipo di suono laringale, che talvolta era udito come una vocale e talvolta no. La vocale è nella maggior parte dei casi una ἀ-”. 

Questo fenomeno non si trova soltanto all'interno del pre-greco, come ad esempio nell'alternanza ἀκορνοί ~ κόρνοψ "locusta", ma anche nel sistema diacronico, come mostrato dai seguenti esempi: 

ἄχυρον ‘pula’, hurritico ḫarw- / ḫarb- ‘pula’
ἀπέλλαι ‘assemblea’, urartaico u̯eli ‘gente, folla’
ἀγάλλω ‘esultare’, hurritico ḫela ‘gloria, glorificare’


Il teonimo Ἀκακαλλίς (Akakallis), che designa una delle figlie di Pasifae, è così spiegato dagli autori antichi:  

ἀκακαλίς del tamarisco orientale (Dioscoride 1, 89).
ἀκακαλλίς ‘narciso
(Eumaco di Corcira 15, 681e).
ἀκακαλίς ‘ginepro
(Pseudo-Dioscoride 1, 75).
κακαλίς = ‘νάρκισσος
(Esichio, κ 292). 

In Tsezi e in Hinukh esiste il vocabolo gagali "fiore", che offre una corrispondenza perfetta alle forme pre-greche. 

La parola di origine pre-greca ἄχνη "paglia" trova corrispondenze perfette in diverse lingue nord-caucasiche, mentre i neogrammatici fanno salti mortali per condurla a viva forza nel letto di Procuste dell'indoeuropeo di Brugmann. Ecco i dati: 

Avar: náku
Andi: niku
Akhwakh: níxo
Khinalug: nuk
Udi: neq ‘pula’,
Bezhta: naχo, naχu ‘paglia’ 

 
Questa è la tipica corrispondenza fonetica tra pre-greco e nord-caucasico: 
 
Pre-Greco: VC¹C²V
Lingue del Daghestan: C²VC¹V 

 
Secondo gli autori dello studio, lo schema più arcaico è quello nord-caucasico: il pre-greco potrebbe aver sviluppato a un certo punto la metatesi e la protesi vocalica. 

La moglie e sorella di Crono si chiamava ῾Ρέα (῾Ρῆ, ῾Ρέιη). Il suo nome diventa chiaro confrontandolo con alcuni nomi di stagioni nelle lingue del Daghestan, riportati come segue: 

Andi: rejba
Akhwakh: riʔibo
Chamalal: réːbu
Tindi: reːb ‘primavera’
Avar: riʔí ‘estate’ 


Le voci dell'Andi, dell'Akhwakh e del Chamalal non sono glossate dagli autori dell'articolo, ma a quanto mi risulta si traducono con "primavera". 

Nel pantheon urartaico la principale dea è chiamata Warubaine (Warubane). Il teonimo, finora inesplicabile, può essere facilmente ricondotto alla voce pre-greca ὄαρ "moglie" (da un più antico *ϝόαρ), ancora una volta con corrispondenze nel Daghestan: Tzesi e Hinukh baru "moglie" (< *waru). 

La parola di origine pre-greca ἀχαίνη "pagnotta" trova riscontro in Nakh, in proto-hattico e in hurritico: 

Ceceno-Ingush: ken ‘avena 
Proto-hattico: ḫana ‘pasto, cibo’
Hurritico: gangaduḫḫi (< *gan-gad-uḫḫi) ‘un tipo di cibo’ 


Si deduce facilmente che il significato d'origine della radice doveva essere "avena", da cui gli altri si sarebbero poi sviluppati.  

In qualche caso si trovano paralleli di parole pre-greche nelle lingue caucasiche nordoccidentali anziché in quelle Nakh e del Daghestan. Questo vale ad esempio per ἀσπάλαθος "nome di diversi tipi di arbusti spinosi" e παλίουρος "marruca, Paliurus australis", la cui radice originale è probabilmente *palV-

Abaza: pale 
Adyghe: bala
‘arbusto

Vediamo che il mutamento qui riscontrato è ἀ(C¹)- > Ø-, fenomeno di non facile spiegazione. Due sono a questo punto le spiegazioni possibili: 

1. Una apocope correlata al tempo (antico/innovativo) o allo spazio (vernacolare).
2. Una funzione grammaticale. In questo caso funzionerebbe come l'articolo determinativo a- in Abkhaz. 


Non si tratta di un lavoro facile. Le prime attestazioni delle lingue nord-caucasiche risalgono all'epoca dell'occupazione russa. La ricostruzione della protolingua di tale gruppo (che il mondo accademico mainstream nemmeno riconosce come fondato), è ritenuta in genere molto povera - anche se a questo riguardo non sono affatto d'accordo. Trovo che sia un vero peccato che non sia nemmeno menzionata nella bibliografia del lavoro di Tardivo-Kitselis la ricostruzione del proto-nord-caucasico e del proto-sino-caucasico fatta da Sergei Starostin, disponibile online al sito seguente:  


Anche il quadro tracciato per le lingue dell'antichità è a dir poco desolante: il materiale relativo al proto-hattico, all'hurritico e all'urartaico, limitato a poche centinaia di parole attestate, ci lascia con problemi non indifferenti di comprensione. Per nessuna di queste lingue sarebbe ricostruibile una lista Swadesh completa. Non sono sicuro che la situazione sia così catastrofica: impegnandoci con le nostre migliori risorse possiamo spingere più lontano, e non di poco, il confine dell'Ignoto.  

Queste sono le conclusioni degli autori: 

"Sia l'archeologia che la genetica puntano a una migrazione agricola in Grecia, originatasi dall'Anatolia centrale/occidentale e dalla Mezzaluna fertile. Diversi millenni dopo, troviamo che l'hattico era parlato nell'Anatolia centrale, mentre l'hurritico era parlato all'interno di una larga parte della Mezzaluna fertile. Il Caucaso è vicino ed è quindi un possibile rifugio di genti imparentate con quelle delle prime società agricole. I dati linguistici sembrano tendere verso le conclusioni fatte dai genetisti e dagli archeologi. Il modello migratorio sopra menzionato può spiegare come mai le parole pre-greche hanno controparti in hattico, hurro-urartaico e nelle lingue nord-caucasiche. Dopo le famiglie linguistiche indoeuropea e afroasiatica, una terza grande famiglia potrebbe emergere da questa ricerca. L'obiettivo è quello di restaurare le radici comuni tra queste lingue. Così, ogni scoperta deve essere all'interno di un insieme di regole, il metodo convenzionale neogrammaticale che è universalmente accettato. Le regole sembrano essere statiche e precise, ogni parola pre-greca potrebbe avere una controparte in hattico e/o in hurro-urartaico e/o nelle lingue nord-caucasiche; a tutti gli effetti, ἀ- > *Ø- si riscontra in ogni occasione. Ci sono più regole e dati lessicali, ma non sono menzionati in questo articolo. Questa è una proposta per ulteriori investigazioni nelle lingue e nella linguistica, dall'Età del Bronzo al presente nella regione tra l'Asia e l'Europa." 

Sono convinto che molto si possa ancora fare per gettare qualche lume su un passato tanto remoto e oscuro, posto che il genere umano abbia davanti a sé un tempo sufficiente per portare a termine l'impresa.  

NOTE SUL LAVORO DI DELLA ROSA

Luigi Della Rosa (ldr47@libero.it) è l'autore del lavoro Relativity of linguistic isolation: the Etrucan case, ossia "Relatività dell'isolamento linguistico: il caso dell'etrusco", che può essere consultato e scaricato al seguente link: 


Non sono riuscito a trovare alcuna notizia sull'affiliazione universitaria dell'autore, così posso presumere che sia un ricercatore indipendente. L'articolo, a dispetto del titolo, è in lingua italiana, con un abstract in inglese, che ritengo sommamente utile riportare tradotto:

   A. La lingua etrusca è geneticamente nostratica, come possiamo vedere facilmente considerando la sua grammatica;

   B. In ogni caso l'etrusco non è indoeuropeo;  

  C. Possiamo soltanto pensare a una relativa vicinanza al ramo anatolico dell'indoeuropeo; 

   D. Il lessico dell'etrusco è per la maggior parte non nostratico, a causa dell'influenza di lingue non nostratiche; 

   E. Queste lingue sono il Dené-caucasico, l'afro-asiatico e l'antico europeo (o mediterraneo, per usare una terminologia più vetusta). 

   F. La semplicità della grammatica etrusca (per quanto possiamo dire di conoscerla) e la molteplice origine del suo lessico ci permettono di dire (anche se può sembrare un po' risibile) che l'etrusco è nato come un pidgin ante litteram, sviluppandosi in seguito come creolo. 

Nel corpo dell'articolo i punti sopra riportati sono riportati in forma più estesa. Questo è l'enunciato completo del punto F., che è di estrema importanza: 

   F. l'Etrusco deve essersi dunque formato dalla commistione di lingue diverse ed appartenenti a famiglie diverse; l'apporto esterno che si è riversato su di una base nostratica è stato talmente elevato (come si deduce dalla impossibilità di ricondurre al Nostratico la maggior parte del lessico) che in tal senso possiamo considerare l'Etrusco come formatosi inizialmente come pidgin, per divenire poi una lingua creola ante litteram, benché entrambi i termini appaiano inevitabilmente risibili in quanto per noi anacronistici. 

Queste affermazioni sono interessanti e in gran parte condivisibili, anche se sono convinto che in etrusco la base lessicale riconducibile alle lingue sino-caucasiche sia più antica degli strati di vocaboli somiglianti all'indoeuropeo e ad altre lingue nostratiche. In aggiunta a questo, segnalo che numerosi elementi grammaticali presenti in etrusco possono essere sufficientemente ambigui. 

Non posso fare a meno di evidenziare un annoso quanto misconosciuto problema: come i neogrammatici brugmanniani, anche i nostratisti partono dall'idea che tutto ciò che è attestato in una lingua indoeuropea debba essere necessariamente indoeuropeo. Così commettono gravi errori nella ricostruzione del nostratico, proiettando all'indietro come connaturati elementi che sono penetrati nelle lingue in analisi per influenza di lingue di altri ceppi.

Esempi di criticità morfologiche:

1) Il genitivo etrusco in -(a)l corrisponde al genitivo anatolico in -l, documentato nei pronomi (es. hittita ammel "di me", anzel "di noi", etc.). Questo genitivo anatolico in liquida è un elemento che si trova del tutto isolato nell'indoeuropeo, mentre presenta estese corrispondenze nelle lingue nord-caucasiche. Sono dell'avviso che l'anatolico lo abbia preso da una lingua nord-caucasica, forse proprio quella che dette tanti elementi lessicali al proto-tirrenico. 
  i) Forme come latino tālis, quālis e il ben noto suffisso aggettivale -
ālis, oltre ad alcune formazioni sostantivali in -al, gen. -ālis (animal, gen. animālis, da anima, tribūnal, tribūnālis, da tribūnus, a sua volta da tribus), saranno dovute con ogni probabilità all'influenza dell'etrusco. Non sembrano elementi costitutivi, bensì prestiti avvenuti in un'epoca in cui la lingua dei Rasna era molto influente e godeva di grande popolarità nell'Urbe. Non si devono quindi ritenere queste formazioni latine come eredità indoeuropee.
  ii) Il leponzio Ualaunal, attestato in un'iscrizione trovata a Mesocco, è evidentemente un patronimico da *Ualaunos (cfr. gallico e britannico Vellauno-) e non conta proprio: il suffisso è un palese prestito dal retico, lingua geneticamente imparentata all'etrusco tanto da poter essere definita etrusco alpino. Questo con buona pace di Alessandro Morandi, che a quanto pare reputa l'elemento genuinamente celtico - anche se non credo che possa essere definito un esperto di lingue celtiche antiche e moderne: ho avuto modo di riscontrare nella sua opera inconsistenze abbastanza rilevanti su svariate lingue indoeuropee. Basti citare l'assurdo confronto tra l'antico irlandese am "io sono" (che è da *es-mi, in cui -mi è suffisso verbale di I pers. sing.), e l'etrusco am- "essere" (in cui -m- è parte della radice). Simili cose amene saranno trattate in modo approfondito in un'altra occasione. 
  iii) Il greco τηλίκος "così vecchio; così giovane; così grande" comprende con ogni probabilità una radice indoeuropea *h2el- "crescere, nutrire" (cfr. lat. alere id.). In questo caso la liquida non sarebbe un mero suffisso: farebbe parte di un verbo il cui senso si sarebbe poi oscurato. Si noterà che la posizione dell'accento nell'aggettivo ha qualcosa di anomalo, ci saremmo aspettati una forma ossitona.
  iv) Il Pali tāriṣa- "un tale" ("such a"), citato dagli autori (cfr. Giacalone Ramat, Ramat, 1994, The Indo-european Languages, pag. 102; ed. it. pag. 129), non è in grado di cambiare le cose: il suo isolamento dal materiale latino e greco rende questa forma sospetta. Infatti vediamo che una spiegazione interna chiarissima. Dalla base pronominale eta- derivano le forme etādi
a, etāria, glossate da Allan R. Bomhard come ‘such as this or that; such’. È chiarissimo che dalla base pronominale ta-, la stessa che troviamo in latino, sia derivato questo tāriṣa- (seppur non citato espressamente da Bomhard), dove la rotica -r- non viene da una più antica forma -*l-, bensì da -d-! Così la morfologia di tāriṣa- è stata associata a quella del latino tālis per motivi ideologici, forzando i dati del Pali per trovare un parallelo indoario di un suffisso latino isolato. I comparativisti devono indagare ogni forma che citano, prima di poterla usare! 

2) Il locativo etrusco in -θi corrisponde al locativo greco arcaico in -θι (omerico). Questo elemento morfologico ellenico non trova chiare corrispondenze nelle altre lingue indoeuropee.
Con buona pace di Glen Gordon, -*dhi non è un suffisso indoeuropeo valido. La sua esistenza al di fuori del greco omerico si fonda sul preteso suffisso Pali -hi, fatto risalire a sua volta a un supposto proto-indoeuropeo -
*dhi. Il problema è che un simile suffisso non esiste affatto nella lingua dei canoni buddhisti. Si tratta di un grave equivoco, in quanto questo -hi è stato scorporato in modo abusivo dall'uscita del locativo -mhi (es. dhammamhi "nella dottrina"). Peccato che questo sia soltanto una variante di un più antico -smiṁ (es. dhammasmiṁ "nella dottrina"), tra l'altro ben documentato in Pali come forma più colta. Per chi non volesse crederci, rimando alla meritoria opera di Allan R. Bomhard Introduction to Pāḷi grammar
Non si può far conto sul latino ubi, alicubi, ibi, che possono essere formate con il suffisso "strumentale" -*bhi (cfr. lat. ambi-, am-, an-; greco ἀμφι-). Né si può far molto affidamento su forme sanscrite come iha "qui, in questo luogo" (Pali idha), adhi "sopra; inoltre", etc., i cui suffissi si presentano fossilizzati: non sono formazioni chiare e risalgono a una remotissima preistoria difficilmente esplorabile con i mezzi a nostra disposizione. 
Il problema si complica ulteriormente se consideriamo che il suffisso etrusco -θi (e varianti) non funziona esattamente come l'omonimo suffisso del greco antico. Se nella lingua di Omero -θι si aggiunge al nudo tema delle parole (es. τηλό-θι "a distanza, lontano da", νειό-θι "sotto, sul fondo", ἐγγύ-θι "vicino", ὑψό-θι "in alto", Ἰλιό-θι "a Troia", ὀικό-θι "a casa"), in etrusco si hanno formazioni più complicate. Se un nome termina in consonante o in -i, il suffisso è aggiunto direttamente: śuθi-θ, śuθi-ti "nella tomba", haθr-θi repin-θi-c "nella parte anterore e nella parte posteriore", raχ-θ "nel luogo del fuoco", spel-θi "nella cavità", fals-ti "sulla torre". Se un nome termina in -a, allora -θi in genere si aggiunge al locativo in -ai (neoetr. -e), dando -ai-θi (neoetr. -eθ, etc.): spure-θi "nella città" < *spura-i-θi; spelane-θi "nello spazio della cavità"; mlesiê-θi-c "e sull'altura". Il suffisso può anche essere aggiunto al genitivo in -(a)l o in -s, come in Uni-al-θi "nel (tempio) di Giunone", Tin-s-θ "nello (spazio) di Giove". Una simile formazione è molto comune con i pronomi: da eca, ca "questo" derivano le forme ec-l-θi, c-l-θi, c-l-θ, -c-le-θ , ca-l-ti "in questo". Da mutna "sarcofago" è attestato l'anomalo mutnia-θi "nel sarcofago", che potrebbe stare per *mutnai-θi o più probablmente per *mutnial-θi. Cfr. Facchetti per maggiori dettagli.

3) La copulativa enclitica etrusca -c "e", generalmente fatta risalire all'indoeuropeo -*kwe, nonostante in alcune iscrizioni sia ben attestata la sua forma antica -ca. A mio avviso esiste anche la concreta possibilità di una connessione con la forma anatolica (luvia) -ha, che sembra incompatibile con la forma indoeuropea ricostruita, ma che potrebbe avere paralleli in alcune lingue nord-caucasiche. Si noterà che l'esito diretto dell'enclitica luvia -ha in lidio è proprio -k (ad esempio in est mrud eśś-k vãnaś "questa stele e questa tomba). Chiaramente i neogrammatici, che vogliono ricondurre l'anatolico all'indoeuropeo di Brugmann, sostengono la derivazione del lidio -k proprio dall'indoeuropeo
-*kwe, nonostante non si riescano a trovare tracce di tale enclitica nel materiale hittita e luvio. In realtà è molto probabile che le lingue anatoliche e le lingue indoeuropee propriamente dette derivino da una protolingua comune, l'indo-hittita, e che numerose caratteristiche ricostruite dai neogrammatici siano innovazioni posteriori alla separazione dei due rami derivati. Detto questo, vediamo quanto sia ben più facile e diretto far derivare il lidio -k dal luvio -ha, tramite trasformazione del suono aspirato in un'occlusiva. Uno sviluppo fonetico che potrebbe essere avvenuto anche in etrusco e che in ogni caso ci invita alla prudenza.

4) La copulativa enclitica etrusca -(u)m "e" corrisponde alla copulativa enclitica anatolica -ma, che si trova sia in hittita che in luvio. Questa particella è attribuita all'indoeuropeo comune dai neogrammatici e dai loro eredi, nonostante appaia evidente che si trova soltanto in anatolico. Estenderla al proto-indoeuropeo senza motivazione appare una procedura altamente abusiva. Sono invece presenti interessanti paralleli in alcune interessanti lingue non indoeuropee e non semitiche, in genere considerate isolate ma in realtà imparentate col ceppo nord-caucasico: l'hurritico, l'urartaico e il proto-hattico. Così, a titolo di esempio, abbiamo in proto-hattico wašhap-ma "e gli Dei"; in hurritico na-akki-ma Pur-ra-an a-az-zi-i-ri ta-am-ra e-bi-ir-na za-a-zu-lu-u-uš-te-ri "e liberate Purra (il Servo), il prigioniero, che deve dare cibo a nove re". Quindi possiamo dedurre che -ma "e" era una caratteristica di una lingua scomparsa e ignota, che è penetrata - probabilmente per ragioni culturali e religiose - in diverse lingue dell'area, molto diverse tra loro, venendo così adottata anche dagli antenati degli Ittiti e dei Luvi. 


I problemi sono di certo numerosi, tanto che spesso una risposta trovata a fatica genera un'infinità di nuove domande. Tuttavia sono convinto che valga la pena di indagare a fondo l'origine della lingua etrusca, anche a costo di addentrarci in un ginepraio inestricabile. Sono e resterò sempre dell'idea che sia necessario un lavoro di ricostruzione delle protolingue che parta dalle lingue attestate per risalire con pazienza alle forme antiche: soltanto così si potranno ricostruire in modo sufficientemente affidabile protolingue ancora più remote. Diffido invece dei confronti troppo superficiali fatti tra lingue molto lontane senza il sostegno della ricostruzione protolinguistica. Per questo motivo il lavoro di Della Rosa, notevole per aver posto il problema delle origini composite dell'etrusco, tende a sfilacciarsi quando riporta confronti concreti tra il suo lessico e quello di svariate lingue nostratiche e non nostratiche. Alcune proposte sono decisamente audaci. Ad esempio quando egli riconduce l'etrusco zal "due" alla radice globale pal "due", presupponendo una palatalizzazione *pjal- seguita da palatalizzazione. Alessandro Morandi e Massimo Pittau per contro presuppongono che zal "due" sia riconducibile all'indoeuropeo *dwo-, sempre tramite alterazione della consonante iniziale. Prima di poter decidere verso che direzione bisogna andare, occorre sapere qualcosa di più sulla protolingua da cui l'etrusco si è evoluto. Sono pronto a difendere a spada tratta l'idea di Della Rosa sull'origine delle lingue tirreniche da un pidgin sviluppatosi in creolo, biasimando l'immobilismo del mondo accademico che reputa l'etrusco scaturito dal Nulla come una sfinge incomprensibile. Questo non risolve tuttavia in modo automatico i problemi, semmai li complica a dismisura. Ogni volta che ci si impegna in un'indagine etimologica, il rischio è quello di partire da un'ipotesi errata, finendo così su percorsi che non portano da nessuna parte. Il nostro nemico è il rumore di fondo, manifestazione somma dell'entropia cognitiva che dissolve ogni testimonianza del passato. Ci vorranno decenni per avere un'idea più chiara della questione, posto che l'ostruzionismo dei settari archeologi permetta alle acque torbide di sedimentare.