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giovedì 5 luglio 2018

IL CERVELLO DI BOLTZMANN E L'USO ABUSIVO DELL'IPOTESI ERGODICA

Chi ha mai sentito nominare il cervello di Boltzmann? Pochi, immagino. Con questa locuzione non si intende la materia grigia un tempo contenuta nell'augusta scatola cranica del geniale fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906), da lungo tempo ridotta in polvere. Il nome di cervello di Boltzmann indica un'entità autocosciente, ovviamente ipotetica, formatasi casualmente a partire da una fluttuazione statistica in un universo in morte termica. Vediamo di capire meglio il concetto.

Il secondo principio della termodinamica afferma che in un sistema isolato lontano dall'equilibrio termico, l'entropia aumenta nel tempo in modo irreversibile. Questo aumento è destinato a continuare fino al raggiungimento dell'equilibrio termico del sistema stesso, che non scambia energia e materia con l'esterno. L'entropia è una misura del disordine presente in un sistema fisico e ha le dimensioni di un'energia divisa per una temperatura: la sua unità di misura è Joule/Kelvin. L'enunciato matematico del principio in questione è il seguente: 

ΔS ≥ 0

dove ΔS è la variazione di entropia nell'unità di tempo, che non è mai negativa. Vale la relazione ΔS = ΔQ/T, essendo ΔQ la quantità di calore scambiata nell'unità di tempo alla temperatura T. Possiamo dire che in qualche modo il calore si degrada e va ad aumentare il moto disordinato degli atomi nella materia, diventando inutile ai fini di produrre lavoro. L'entropia è proprio questa parte di calore degradato, che non possiamo più utilizzare - ossia convertire in altre forme di energia, come ad esempio quella meccanica.

Essendo possibile definire l'universo come un sistema isolato, si deduce che la sua entropia aumenterà fino al raggiungimento di uno stato di equilibrio che possiamo definire morte termica. Una volta raggiunta la morte termica non potranno più verificarsi scambi di calore tra le parti del sistema, essendo tutto il calore disperso ed essendo quindi impossibile usarlo per compiere lavoro. L'inquietante domanda di Boltzmann è dunque questa: "Come mai l'universo non ha ancora raggiunto le condizioni di equilibrio, ossia di morte termica?" 

Certo, Rovelli farebbe meglio di me. Proverò comunque a spiegare come stanno le cose, usando i mezzi più efficaci a mia disposizione.

Nel mondo ideale di Piero Angela esistono soltanto trasformazioni reversibili. Se ad esempio si fa scorrere all'indietro la sequenza filmata del moto uniformemente accelarato di un corpo, si ottiene un'altra sequenza, di un moto uniformemente decelarato, che non viola alcuna legge ficisa. I corpi, detti mobili o gravi, non hanno struttura interna, sono indeformabili, non possono essere scalfiti o infranti, non sono nemmeno composti da atomi. Sono corpi ideali e ogni cambiamento in un simile mondo dei Puffi è parimenti ideale. 

Chiunque capisce che se da un corpo ideale passo a un corpo reale, gli esempi fatti da Piero Angela non valgono più. Se lascio cadere un bicchiere, causandone la rottura, accade una cosa mirabile: facendo scorrere all'indietro la sequenza filmata dell'evento, ottengo un'altra sequenza, che non ha senso alcuno. I cocci di vetro tornerebbero infatti a comporsi spontaneamente, fino a riformare il bicchiere infranto. Allo stesso modo, se ingurgito una decina di brioche, le digerisco e defeco, la sequenza inversa mostrerebbe le feci strisciare come serpenti, salire nel mio ano, farsi strada nell'intestino e riformare le brioche ingerite, che sarebbero infine rigurgitate tornando integre. Qualcosa non quadra, è evidente.  

Il moto uniformemente accelerato spiegato agli studenti da generazioni di insegnanti non esiste in condizioni reali. Un corpo dovrebbe muoversi nel vuoto assoluto per non incontrare resistenza. Nella realtà dei fatti, si manifesta questa resistenza, detta attrito. L'attrito genera calore, ossia provoca la trasformazione dell'energia cinetica in energia termica. Come conseguenza, il grave decelera fino a fermarsi. 

Questa discrepanza tra il mondo di Piero Angela e la realtà fisica osservabile ha le sue radici proprio nel secondo principio della termodinamica, da cui scaturisce la freccia del tempo. Dopo aver affermato in lungo e in largo che il tempo nelle equazioni fondamentali della Natura non lo si trova, lo stesso Carlo Rovelli è stato costretto ad ammettere che esiste una notevole eccezione: dovunque compaia l'entropia. Proprio lì il tempo c'è, eccome! Anzi, si può dire che ne venga generato.

Entropia, attrito, dispersione del calore, degradazione dell'energia, irreversibilità! I sistemi naturali sono assai complessi e non possono essere descritti con gli strumenti concettuali di un liceale. Può sembrare lapalissiano, eppure non si insisterà mai abbastanza su questo punto. Come può un meccanico classico descrivere un organismo come un cavallo? Approssimandolo a una sfera rotolante, come in una famosa barzelletta che circolava quando studiavo all'università. Facendo così perderà informazioni e non potrà codificare un numero incalcolabile di caratteristiche del cavallo stesso. Eppure si possono capire molte cose usando la termodinamica. Il corpo di un animale, umani inclusi, si manterrà in condizioni ben definite di bassa entropia ingerendo acqua e nutrienti, che permettono alle cellule di mantenersi in funzione. I residui dei processi di assorbimento di materia ed energia produrranno entropia in eccesso, che verrà espulsa con le feci, l'orina e il sudore. Se il disordine nel corpo crescerà, ad esempio ad opera di un patogeno, si avrà una condizione di malattia. Se crescerà oltre un certo limite tollerabile, si avrà la morte, e il corpo stesso diverrà entropia da smaltire, un dono per i carognari.

Se il predominio del disordine vi sembra schiacciante e vi causa angoscia, vi dirò che nell'universo l'entropia è in genere sorprendentemente bassa. La radiazione solare è una sorgente di bassa entropia. Certo, se un essere umano sta esposto ai raggi del sole, la sua entropia aumenterà e finirà per crollare (si chiama insolazione). Tuttavia se i raggi del sole colpiscono un vegetale, grazie alla fotosintesi clorofilliana permetteranno la produzione di nutrienti. I raggi del sole, incidendo su un pannello fotovoltaico, ci permetteranno di ottenere energia elettrica, che potrà essere convertita in energia meccanica e via discorrendo. Gli esempi sono innumerevoli. Si utilizzano forme di energia di cui possiamo disporre, si produce lavoro e si aumenta l'entropia nell'ambiente in cui viviamo. Se facciamo diminuire l'entropia in una porzione del nostro mondo, refrigerando una stanza, la faremo aumentare altrove. Quindi, essendo sempre crescente l'entropia del sistema isolato che è l'universo, essa dovrà essere stata ancora più bassa in passato. Com'è possibile questo? Da dove proviene tutta questa bassa entropia? 

Adesso possiamo capire meglio come Boltzmann sia riuscito a concepire la sua risposta molto originale a questo quesito dalle conseguenze esistenziali devastanti. In realtà il nostro universo a bassa entropia non esiste affatto. Le condizioni di morte termica, ossia di equilibrio universale, sono dominanti da eoni. Una fluttuazione termica imprevista e rarissima, quale si può produrre in miliardi di anni, avrebbe allora causato l'aggregazione di una struttura in grado di prendere coscienza di sé: è proprio il cervello di Boltzmann. Inorridito dal caos in cui si è trovato a sussistere, questo organismo si è chiuso nel solipsismo, concependo un universo inesistente, come i mondi onirici in cui ci illudiamo di vivere ogni notte, quando ci immergiamo nel sonno detto REM. Forse lo scienziato viennese avrebbe potuto dirci di più su questa orrifica prospettiva. Purtroppo è stato esasperato a tal punto dalla moglie e dalla figlia da impiccarsi per sfuggire al tormento, mentre si trovava in vacanza a Duino.

Statisticamente, si può dire che la formazione di un cervello di Boltzmann in un universo in equilibrio sia molto più probabile dell'evoluzione di un universo implausibile come il nostro a partire da condizioni di bassissima entropia, che sono ancora più incomprensibili. A questa conclusione si dà il nome di Paradosso del cervello di Boltzmann. A quanto pare, queste splendide elucubrazioni boltzmanniane sono state tenute nascoste per decenni, riemergendo soltanto agli inizi del XXI secolo. La stessa locuzione "cervello di Boltzmann" è stata coniata da Lorenzo Sorbo e da Andreas Albrecht nel 2004, proprio nello stesso anno in cui ho iniziato la mia poco proficua carriera di blogger. 

Ergodicità abusiva! 

In Quora è stata posta una domanda cruciale, che tormenta il genere umano da sempre. 

È stata data una risposta al perché esiste la vita?

Così ha risposto Roberto Weitnauer:

"La risposta è molto semplice: perché può esistere. Si può applicare la legge di Murphy, non c’è problema a stabilire questo ponte concettuale tra comicità e scienza."

"In questo universo tutto ciò che prima o poi, in qualche modo o per qualche verso può accedere, prima o poi, in qualche modo o per qualche verso, accade. Esiste dopotutto la versione scientifica della legge di Murphy. Si tratta di una nota teoria statistica, detta Ipotesi ergodica - Wikipedia. Vorrei qui esemplificarla con una scimmietta immortale che batte a caso sui tasti di un computer." 

"Sfruttando le alternative a disposizione, questo animale instancabile produce dell’informazione. Esso sortirà ogni genere insulso di simboli e di sequele di caratteri alfanumerici. Informazione non vuole dire infatti significato. Tali successioni saranno enormemente superiori alle eventuali sporadiche parole che potrebbero avere un senso in qualche lingua. Eppure, continuando instancabilmente a battere sui tasti, la scimmietta arriverà a un bel momento a una sequenza casuale di caratteri che corrispondono alla “Divina Commedia” di Dante o magari a “Ulisse” di Joyce in serbo-croato. Non solo, alla lunga, questo succederà un numero illimitato di volte." 

E ancora: 

"Possiamo scherzare sulla legge di Murphy o sulla scimmietta ergodica, ma i concetti sottostanti sono tutt’altro che banali. Il punto è che la vita non è in alcun modo incompatibile con le leggi fisiche note. Contrariamente a quanto qualcuno pensa, essa non ha affatto le sembianze di un miracolo o di qualcosa di eccezionale rispetto al comportamento della materia e dell’energia. Esistono persino delle condizioni termodinamiche favorenti la comparsa di sistemi auto-organizzati. In effetti, la vita sul nostro pianeta è uno di questi: la biosfera è una struttura dissipativa perfettamente descrivibile in termini termodinamici." 

Ora, nessuno dubita che la biosfera sia perfettamente descrivibile in termini termodinamici. Quello che Weitnauer descrive come soluzione del problema, è invece il problema stesso. Sembra sfuggirgli che la somma improbabilità delle condizioni di partenza e dell'evoluzione del sistema universo non possono essere descritte come il prodotto di una banale combinazione di elementi semplici come le lettere dell'alfabeto. C'è di mezzo l'abisso della fisica quantistica e della non commutatività delle sue variabili!

In poche parole, un cervello di Boltzmann non sorge come sorgerebbe un verso di Dante da una continua estrazione casuale di lettere da un contenitore, essendo qualcosa di infinitamente più complesso. Per non parlare di un intero universo improbabile a bassa entropia! Le tesi di Weitnauer sono insostenibili: ci troviamo una volta di più di fronte all'argomento fallace della scimmietta della Città degli Imperatori, già confutato da me in un precedente contributo: 


Per quanto riguarda l'ipotesi ergodica, ecco un sunto facilmente ricavabile dal Web e assai utile: 

"Il termine ergodico è stato introdotto da Ludwig Boltzmann (1844-1906) con riferimento ai sistemi meccanici complessi capaci di assumere spontaneamente tutti gli stati dinamici microscopici compatibili con il loro stato macroscopico. Le particelle costituenti il sistema, cioè, assumono ogni insieme di valori istantanei di posizione e velocità le cui caratteristiche medie corrispondono allo stato macroscopico del sistema."
(Fonte: Wikipedia)

"In meccanica statistica, l'ipotesi ergodica dice che, dopo un tempo sufficientemente lungo, il tempo speso da una particella in un volume nello spazio delle fasi di microstati della stessa energia è proporzionale al volume stesso; equivalentemente alle condizioni termodinamiche, il suo stato può essere uno qualunque di quelli che soddisfano le condizioni macroscopiche del sistema." (Fonte: Wikipedia)

Si comprende facilmente che è stato fatto un uso abusivo del termine "ergodico" e della stessa teoria di Boltzmann. 

Immaginiamo ora un congegno che estrae simboli alfanumerici, posto nei pressi di un quasar distante da noi dieci miliardi di anni luce. Immaginiamo che quando è partita la luce che raggiunge in questo istante un attuale astronomo, il congegno abbia ottenuto questa sequenza: 

NELMEZZODELCAMMINDINOSTRAVITA

Avrebbe un senso? No. Per nulla. Einstein ci dice che non esiste un unico presente in tutto l'universo. Tuttavia ci dice anche come tutti i presenti dell'universo sono tra loro connessi. Per certo quando il congegno ha estratto la sequenza dantesca, non esistevano né Dante Alighieri né la lingua italiana, né la protolingua del genere umano, né la vita multicellulare. Questo perché la sequenza NELMEZZODELCAMMINDINOSTRAVITA è stata estratta dal congegno dieci miliardi di anni prima del nostro presente. Non basta che si generi una sequenza di elementi alfanumerici: è necessario che esista qualcuno ad attribuirle un senso.

Si arriva così a un altro paradosso. Un cervello di Boltzmann è un codice. Un codice non è un semplice insieme di elementi inerti senza relazione reciproca. Un codice è un aggregato di elementi simbolici che veicolano informazione. Un cervello di Boltzmann deve essere un codice. Per essere consapevole, deve includere algoritmi, ossia procedimenti che permettono la risoluzione dei problemi mediante un numero finito di passi elementari. Questo però non è possibile: il caso non genera codici.

domenica 4 febbraio 2018

ETRUSCO S'A 'QUATTRO': L'ARGOMENTO DELLA QUADRUPLICAZIONE

All'epoca di Pallottino si brancolava nel buio. Non c'era comprensione del fatto molto semplice che il lemma etrusco tamera significa "spazio funebre", "tomba". Abbondavano le ubbie e molti accostavano invano la parola a epiteti greci e anatolici indicanti titoli sacerdotali (es. luvio dammara-, cilicio-ciprio Tamiras), senza poter ottenere traduzioni sensate e concrete delle iscrizioni. L'etimologia di tamera è di chiara origine indoeuropea e indica qualcosa di meramente materiale: si tratta di un antico prestito dalla radice *tam-, che corrisponde a IE *dom-, con l'ara semantica di "casa" e "costruire". Facchetti rende tamera semplicemente con "camera", traduzione da me poco amata, dato che potrebbe trarre in inganno il lettore poco accorto, suggerendo per assonanza una falsa connessione con il vocabolo italiano (di ultima origine greca).  

Agostiniani fu il primo a notare che le locuzioni tamera zelarvenas e tamera śarvenas sono altamente significative e presentano un importante parallelismo. Infatti tamera zelarvenas significa "avendo raddoppiato lo spazio funebre", mentre tamera śarvenas significa "avendo quadruplicato lo spazio funebre". L'analisi delle forme verbali in questione è la seguente:

zel-ar-ve-nas "avendo raddoppiato" : va con zal "due" (alterna con zel-, esl-)
śa-r-ve-nas "avendo quadruplicato" : va con śa "quattro".

In entrambi i casi abbiamo un suffisso rotico. Si noti che zelur, trovato in un'altra iscrizione (San Manno, CIE 4116), si tradurrà con "duplice".

Per ulteriori approfondimenti, si rimanda a all'opera di Agostiniani Sul valore semantico delle formule etrusche "tamera zelarvenas" e "tamera śarvenas" (in Studi linguistici offerti a G. Giacomelli dagli amici e dagli allievi, Padova 1997).

Va subito detto che śar- in śarvenas si oppone a sar "dieci", che ha una sibilante diversa. A quanto pare le forme soggiacenti all'ortografia difettosa e incompleta sono rispettivamente /ʃa:r-/ "quadruplo" e /sar/ "dieci", che non presentavano ambiguità per il parlante, anche per il loro aspetto morfologico.

Quando ero al liceo, venni a conoscenza di una bella storiella.
La peste infuriava ad Atene, e tramite l'oracolo di Delfi si seppe che Apollo, infuriato, ne era la causa. La divinità ordinò di duplicare il suo altare, che si trovava sull'isola di Delo e che aveva forma cubica. Così fu subito costruito un nuovo altare raddoppiando lo spigolo di quello esistente. Fu così ottenuto un altare le cui facce avevano area quadrupla rispetto alle facce dell'altare originale, mentre il volume era otto volte maggiore. La pestilenza divenne ancor più grave, perché Apollo era infuriato a causa della brutale ignoranza delle sublimi leggi della geometria dimostrata dagli Ateniesi. Ci furono altri tentativi infruttuosi, compiuti da matematici, e la ricerca sarebbe andata avanti fino all'annientamento della popolazione.
La soluzione fu trovata da Platone, che diede una lettura simbolica alle parole dell'oracolo: Apollo voleva che gli Ateniesi coltivassero la matematica e la geometria, non un altare raddoppiato. In effetti, non era possibile con i mezzi esistenti in Grecia a quei tempi risolvere il problema, dovendo moltiplicare lo spigolo del cubo originale per la radice cubica di due. Per raddoppiare l'area di un quadrato le cose sono molto più facili: basta costruire un quadrato avente per lato la diagonale del quadrato originale. 

Siccome gli etruscologi hanno la brutta tendenza a crogiolarsi nella loro torre d'avorio e non sembrano capire la complessità delle cose, riporterò due interessanti link che rimandano a una descrizione dettagliata di questi problemi di geometria:



Gli Etruschi, come i Greci, sapevano soltanto raddoppiare o quadruplicare un'area quadrata. Non sapevano triplicarla né sestuplicarla. Questo argomento da solo sarebbe sufficiente a spazzar via l'insistente idea di coloro che traducono śa con "sei" e huθ con "quattro". Spero che costoro, messi di fronte ai fatti da me esposti, si rendano conto di aver imboccato un vicolo cieco, abbandonino i loro paraocchi ideologici e si ravvedano.

giovedì 25 gennaio 2018


BLADE RUNNER 2049 

Anno: 2017
Lingua originale: Inglese
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Regia: Denis Villeneuve
Durata: 163 min
Rapporto: 2,35:1
Genere: Fantascienza, noir, avventura, azione,
    drammatico, thriller
Soggetto:
Philip K. Dick (personaggi); Hampton
    Fancher (storia)
Sceneggiatura:
Hampton Fancher, Michael Green
Produttore: Cynthia S. Yorkin, Bud Yorkin,
     Broderick Johnson, Andrew A. Kosove
Produttore esecutivo: Ridley Scott, Tim Gamble,
     Frank Giustra, Yale Badick, Bill Carraro, Val Hill
Casa di produzione: Alcon Entertainment,
     Thunderbird Entertainment, Scott Free
     Productions
Distribuzione (Italia): Warner Bros. Pictures
Fotografia: Roger Deakins
Montaggio: Joe Walker
Musiche: Hans Zimmer, Benjamin Wallfisch
Scenografia: Dennis Gassner
Interpreti e personaggi   
    Ryan Gosling: Agente K
    Harrison Ford: Rick Deckard
    Ana de Armas: Joi
    Sylvia Hoeks: Luv
    Jared Leto: Niander Wallace
    Robin Wright: Tenente Joshi
    Mackenzie Davis: Mariette
    Carla Juri: Ana Stelline
    Lennie James: Mister Cotton
    Dave Bautista: Sapper Morton
    Barkhad Abdi: Doc Badger
    David Dastmalchian: Coco
    Hiam Abbass: Freysa
    Wood Harris: Nandez
    Edward James Olmos: Gaff
    Sean Young: Rachel
Doppiatori italiani   
    Gianfranco Miranda: Agente K
    Michele Gammino: Rick Deckard
    Joy Saltarelli: Joi
    Alessia Amendola: Luv
    Emiliano Coltorti: Niander Wallace
    Laura Boccanera: Tenente Joshi
    Domitilla D'Amico: Mariette
    Elena Perino: Ana Stelline
    Loris Loddi: Mister Cotton
    Simone Mori: Sapper Morton
    Ludovica Modugno: Freysa
    Alberto Bognanni: Nandez
    Ennio Coltorti: Gaff
Budget: 150-185 milioni di $.
Incassi al botteghino: 259,2 milioni di $.

Trama:

Nel 2049 - anno più vicino a noi di quanto si possa pensare - i replicanti sono schiavi. Soltanto in pochi sono adibiti a mansioni migliori. Uno di loro, K., lavora per il Dipartimento di Polizia di Los Angeles (LAPD) come Blade Runner, con l'incarico di "ritirare", ossia di terminare, i replicanti vagabondi. In una fabbrica di proteine fecali, K. "ritira" un replicante di nome Sapper Morton e scopre una scatola sepolta sotto un albero. In tale scatola ci sono i resti di una replicante morta di parto cesareo nel dare alla luce un figlio. Questo dimostra una cosa sconvolgente: anche i replicanti possono dare la vita tramite l'atto sessuale - cosa che fino ad allora era sempre stata giudicata impossibile. Il superiore di K., il Luogotenente Joshi, come viene a sapere della scoperta, si sente invadere dal terrore: se i replicanti possono procreare, sarà difficile evitare che insorgano in armi e inizino una guerra, cosa che potrebbe anche portare alla sostituzione del genere umano. Per questo motivo Joshi ordina a K. di rintracciare il figlio della replicante deceduta di parto e di "ritirarlo": è prioritario che nessuno venga mai a sapere di queste cose. K. giunge al quartier generale della Wallace Corporation, succeduta alla famosa Tyrell Corporation, dove la replicante deceduta viene identificata come Rachel. K. apprende anche della relazione di Rachel con il Blade Runner Rick Deckard. Il CEO della Wallace Corporation, Niander Wallace, comprende la potenzialità dei replicanti fecondi nella colonizzazione interstellare, così manda la sua tirapiedi, la replicante Luv, a sottrarre i resti di Rachel e a seguire K. nella sua ricerca. Tornato alla fattoria dell'estinto Morton, K. nota la data 6-10-21 incisa sul tronco dell'albero e ha un flash: tramite quella data recupera la memoria di un giocattolo, un cavallo di legno. La compagna olografica di K., Joi, partendo dal fatto che le memorie dei replicanti sono artificiali, giunge alla conclusione che egli è nato tramite riproduzione sessuale. Procreato, non creato. Il replicante brucia la fattoria, quindi cerca affannosamente negli archivi del Dipartimento, e alla fine trova informazioni su una coppia di gemelli, un maschio e una femmina distinguibili soltanto per il diverso cromosoma sessuale. Stando ai documenti, soltanto il ragazzo sarebbe sopravvissuto. K. riesce a risalire all'orfanotrofio, a riconoscere il luogo e a trovare il giocattolo proprio dove ricordava di averlo lasciato. Giunto dalla dottoressa Ana Stelline, disegnatrice di memorie di replicanti, il Blade Runner riceve la conferma del fatto che i suoi ricordi dell'orfanotrofio sono reali, così giunge alla conclusione di essere proprio il figlio di Rachel. Rientrando al Dipartimento, fallisce un test post-traumatico e solo a fatica riesce a parlare al suo superiore. Mente a Joshi, affermando di aver "ritirato" il replicante bambino nato da copula. Gli viene detto di fuggire entro 48 ore, così si dirige verso le rovine di Las Vegas. L'antica città è ridotta a un mucchio di macerie soffocate dalle sabbie rossicce di un deserto pseudomarziano. In mezzo a tanta desolazione, K. ritrova Deckard, un Harrison Ford ormai pronto per la tumulazione. Il vetusto ex cacciatore di androidi, che all'inizio si mostra molto ostile con il giovane, alla fine lo accoglie e gli rivela molte cose. Gli dice di essere realmente l'uomo che ha ingravidato Rachel e che per proteggere la sua creatura ha manomesso gli archivi, confondendo le acque. Gli eventi precipitano: la perfida Luv, dopo aver ucciso Joshi, raggiunge K. e Deckard, scatenando il finimondo. Gli eventi convulsi che seguono porteranno alla lesione dei protagonisti e all'emergere di una verità del tutto inattesa: il ricordo del cavallo di legno era stato davvero creato da Ana Stelline, che è la figlia di Deckard e di Rachel. K., terribilmente deluso, si accascerà moribondo sui gradini dell'edificio ciclopico in cui abita la creatrice di memorie artificiali, spirando nel nonsenso più totale, in mezzo alla neve, gli occhi vuoti rivolti al Cielo del Nulla. Un finale raffazzonato e precipitoso.


Recensione: 

Se devo essere sincero guardando la pellicola di Villeneuve sono rimasto un po' spiazzato. Se di certo sono eccellenti i paesaggi, le ambientazioni, le riprese, i colori, le musiche e via discorrendo, va detto che ho trovato la trama di questo film abbastanza discutibile e piena zeppa di inconsistenze. Per carità, non voglio togliere Cristo dalla croce a nessuno e rispetto i sentimenti di tutti, ma non posso tacere. Non posso neanche rinunciare a pensare con la mia testa. Intorno a Blade Runner 2049 si è sviluppata una vera e propria latria, un culto che ha connotati prettamente religiosi e non proprio tolleranti. Lo spettatore non è più nel campo della critica pura e semplice, di ciò che può piacere o può non piacere: non resiste alla tentazione di entrare nel periglioso territorio del pensiero magico-superstizioso e della voglia di scatenare linciaggi. Esistono infatti moltissimi fan (id est fanatici) pronti a lapidare qualsiasi persona che non proferisca giudizi pienamente eulogistici sul sequel del film di Ridley Scott. Così, per il solo fatto di non amare in modo viscerale e incondizionato quest'opera, mi pongo nella condizione di un uomo che faccia irruzione in una chiesa gremita nella Brianza ottocentesca urlando bestemmie atroci. Oppure, per rendere ancora più efficace l'idea, verrei a trovarmi nei poco invidiabili panni di un uomo che entrasse in una moschea trascinando la carcassa di un porco, calzando per giunta scarponi sporchi di feci grasse. Questo è un film introspettivo da guardare così, per la sua sublime estetica, senza porsi troppe domande sulla sua sensatezza. Come uno viene meno a questo saggio consiglio, ecco che tutto si sfalda e crolla come un castello di carte. Non avrei mai pensato che in tutta la mia esistenza avrei visto qualcosa di simile, in cui il capolavoro convive la nullità, il genio con la banalità, il tutto in un miscuglio chimerico. Forse un giorno, quando rivedrò il film, riuscirò a guardarlo con occhi meno critici. Quel giorno tuttavia sembra ancora lontano.


Un generatore di paradossi

L'annoso problema della riconoscibilità dei replicanti è stato maldigerito da Villeneuve, che se ne esce con trovate paradossali e intrinsecamente contraddittorie. Quando K. analizza i resti di Rachel, ne riconosce la natura con un semplicissimo sistema ottico: tramite un microscopio riesce a scorgere una sigla incisa su un osso, un marchio di fabbrica, proprio come la firma che un famoso chirurgo britannico ha inciso sui fegati da lui trapiantati. Viene detto qualcosa come "un tempo non era facile riconoscere i replicanti", battuta che il regista ha concepito per pararsi il culo e avere qualche libertà. Vediamo di capirci. Ci sarebbe stato un gigantesco blackout e la società avrebbe subìto un vertiginoso crollo tecnologico - eppure avrebbe saputo concepire un sistema comodo per identificare otticamente i replicanti, quando prima del collasso, con una tccnologia superiore, tutto sarebbe stato più difficile? Sarebbe credibile tutto questo? Inoltre, cosa avrebbe spinto la Tyrell Corporation a incidere quelle lettere sulle ossa dei replicanti, se nessuno avesse saputo individuarle con sistemi ottici? Contraddizioni su contraddizioni, incapacità lampante di gestire il problema. Già nel film di Scott le cose non erano molto chiare, come ho avuto modo di spiegare nella recensione da me pubblicata a suo tempo. Poche idee e confuse. L'inutilità del complesso test di Voight-Kampff era già lapalissiana. Al peggio sarebbe bastata l'ordalia già in uso tra i Germani, dal momento che un replicante può immergere una mano nell'acqua bollente senza scottarsi. Per l'umano che si scotta, sarebbe un male minore da tollerarsi e da curare con un po' di crema PREP. Molto più economico di qualsiasi indagine psicologica dell'ozzac! I paradossi non si fermano qui, con buona pace dei fan. Alla Tyrell Corporation sarebbe stato facilissimo inserire nel corpo dei replicanti una qualsiasi caratteristica per permetterne il riconoscimento istantaneo, e sarebbe stato anche oltremodo conveniente. E c'era bisogno di tutto questo ambaradan? L'intero mondo dei replicanti si poggia sulle sabbie mobili!  


Il sorprendente gelo di Deckard

Quando Niander Wallace offre a Deckard un clone di Rachel per ottenere le informazioni cercate, sperando di mettere in crisi l'ex Blade Runner, questi reagisce in modo implacabile. Osserva la replicante plasmata come colei che ha amato e infine commenta: "Aveva gli occhi verdi". Così la malvagia Luv afferra una pistola, la punta al cranio della pseudo-Rachel e la fulmina, facendo fuoriuscire fiotti di sangue misto a materia cerebrale. Deckard rimane assolutamente impassibile. Nessuna reazione. Ora, pensiamoci per un attimo. Se qualcuno mi presentasse il clone della donna che ho amato, ne rimarrei sconvolto e cadrei in ginocchio, in preda a emozioni devastanti, a una sofferenza acutissima. Potrei anche avere un infarto e rantolare lì ai suoi piedi. Se riuscissi a sopravvivere, e vedessi un'aguzzina carogna fare del male al clone, le salterei addosso anche disarmato e la prenderei a zampate, ruggendo come un leone, anche a costo di beccarmi una pallottola. Direi che dal punto di vista narrativo, questa vicenda incongrua parrebbe un mero pretesto per riesumare la figura di Rachel, quasi un cameo pensato per far contente le torme pressanti di fan in preda all'isteria. Prevengo una possibile obiezione. No, l'impassibilità di Deckard di fronte alla soppressione della pseudo-Rachel non può essere presa come una prova della sua supposta natura di replicante privo di empatia, come si vedrà meglio nel seguito. 


Grotteschi trapianti da Dune 

Siamo franchi, ragazzi: a cosa servirà mai quell'inconsistente movimento messianico di femministe calve e di beduini coperti di stracci che sembra cagato dal culo del Muad'Dib? Tutto ricorda l'abominevole Arrakis (si capirà, il mio è il punto di vista di un genuino Harkonnen): Bene Gesserit frammiste a Matres Onorate, a Fremen e a svariata fauna similare, tutti osannanti alla Replicante Feconda che piacerebbe anche a Jorge Pompeo Bergoglio, il moderno apostolo della produzione illimitata di feti. Villeneuve avrebbe ben potuto fare a meno di evocare simili scenari senza la capacità necessaria alla loro gestione. Si può capire ciò che ha fatto soltanto alla luce della sua notoria ossessione per Dune, il capolavoro di Frank Herbert tradotto in pellicola da David Lynch. La sua è una passione totalizzante, che avrà come frutto un nuovo adattamento cinematografico della ponderosa saga fantascientifica. Spero che questa volta riesca a fare qualcosa di degno, anche se va detto che non sarò soddisfatto finché non avrò visto gli Harkonnen trionfare! Il punto è che tutto ciò non ha nulla a che fare con il film di Scott e ancor meno con l'opera di Phillip K. Dick. Villeneuve fa comparire il movimento di ribellione herbertiano e lo fa scomparire prima ancora che lo spettatore possa riuscire a capire a fondo la portata di ciò che i suoi occhi hanno visto. Per questo motivo si ha la netta sensazione di un elemento estraneo innestato a viva forza in un tessuto che potrebbe dare origine a una reazione di rigetto da un momento all'altro. La parola "xenotrapianto" non potrebbe essere usata in un contesto più adatto di questo!


La scadenza dei replicanti

Come ormai sanno anche i muri, i replicanti prodotti dalla Tyrell Corporation, che abbiamo visto nel film di Scott, avevano una data di scadenza. Tutti, con l'unica eccezione di Rachel. Erano programmati per durare poco e proprio questo rende possibile il pathos che innerva la pellicola. Tutto sommato si trattava di un vulnus non da poco, solo che nessuno se ne rese conto a quei tempi. Il primo a farlo fu il carissimo amico P., che dopo aver rivisto Blade Runner per l'ennesima volta, all'improvviso espresse così le proprie perplessità: "Me c'era proprio bisogno di fare tanto casino? Se tanto i replicanti erano in scadenza, potevano anche lasciarli in pace: sarebbero comunque morti tutti spontaneamente e a breve. Avrebbero potuto almeno rendere drammatica la situazione mostrando replicanti intenzionati a compiere un attentato a una centrale nucleare, tanto per giustificare una simile caccia. Ma così non si capisce che senso possa avere!". Un'obiezione che mi sembra ben fondata, anche se i fan non saranno d'accordo. Lo so, rischio di ritrovarmi con minacce di morte già soltanto per aver riportato l'aneddoto. Però le cose non cambiano, stanno proprio così. Con ogni probabilità Villeneuve lo ha capito e ha cercato di trovare un escamotage in grado di sanare questo vulnus, di nasconderlo come un topo morto sotto al tappeto. Così ha immaginato una nuova generazione di replicanti senza scadenza, che hanno sostituito i vecchi modelli. Non so se sia stata comunque una grande idea, ma penso che sia riuscita almeno in parte nell'intento. La morale di tutto ciò è semplice e diretta: quando si manipolano trame complesse, poi si rischia di perderne il controllo.


Il Demiurgo

Non possiamo tralasciare un personaggio di grande importanza e senza dubbio profetico: Niander Wallace, il creatore dei replicanti. Inquietante e diabolico, questo essere non è senza dubbio un semplice uomo. Egli rappresenta sulla Terra l'intelligenza malvagia che governa l'Universo, ne è un plenipotenziario. Si potrebbe benissimo definirlo Arcidiavolo. Il suo potere è assoluto e masse di schiavi lo servono, consumando le loro vite per edificare il suo impero. Niander Wallace giunge al punto di torturare e uccidere le sue creature per puro divertimento, perché per lui la vivisezione è un genere voluttuario, qualcosa di inebriante da assaporare secondo dopo secondo. La vita di un replicante, come di un umano uscito dall'utero, non vale nulla ai suoi occhi: ne può disporre come meglio crede. Se spezzarla gli porta in tasca anche soltanto un centesimo in più, o se soltanto turba i suoi pensieri, lui la spezza. Le origini di un simile mostro sono proprio sotto i nostri occhi. Il neoliberismo crea l'humus necessario al loro emergere. Certo, personaggi come Mark Zuckerberg ed Elon Musk sembrano distanti mille miglia dal folle Niander Wallace. La gente li adora perché dice che sono ottimisti, gioviali, amanti della vita e soprattutto animati da grandi sogni, in una parola sono "solari". Già il sinistro Jeff Bezos è molto meno simpatico. Freme dalla voglia di introdurre un duro servaggio e non lo nasconde nemmeno. Prima o poi, grazie a simili concentrazioni di potere, si affermerà un carnefice le cui opere aberranti faranno maledire a centinaia di persone il giorno del proprio concepimento. Questo lo posso dire per certo.  


Una perdita irreparabile

Joi, la ragazza olografica, è per K. la sola compagnia, il solo essere con cui interagire. È come una specie di angelo custode, qualcosa che salverebbe dalla disperazione urbana moltissime persone. Capace di dare un immenso sostegno morale, emotivo e persino erotico, è un gran progresso rispetto a un animale da compagnia o alla mano amica. A un certo punto la vediamo addirittura torreggiare sul protagonista come un ologramma gigantesco dai colori sgargianti, una visione che sembra venire dalla zona di confine tra la vita e la morte. Quando viene uccisa, abbiamo l'impressione che si sia consumata un'iniquità spaventosa. K. all'improvviso non ha più nessuno, è diventato un'isola alla deriva nelle profondità cosmiche, come un atomo di idrogeno sperduto in un abisso vuoto lontano da ogni galassia. Nulla potrà rendere un qualche senso alla sua esistenza, che si avvia così al solipsismo, all'agonia e al trapasso. Certo, si dirà, Joi in fondo è soltanto una macchina, una coscienza simulata, una rete neurale in grado di apprendere. Si ha tuttavia l'impressione che sia un essere senziente come una persona fatta di carne, di sangue e di ossa. Una persona che, una volta annientata, non potrà più essere sostituita.   

 

Climax interruptus 

Ho provato una grandissima delusione quando si spezza la tensione e risulta che non è K. il figlio di Rick Deckard. Non che io sia un amante delle trame romantiche e sdolcinate. Ho avuto l'impressione che sia stato fatto un grande investimento sulla figura del Blade Runner del LAPD e sul suo rapporto col presunto padre, Deckard, e questo solo per far finire tutto nello scarico del cesso, proprio dentro allo sterco. Mi si perdonino i ricorrenti francesismi. Ecco che tutto di colpo il nostro K. non è più nessuno e può esser lasciato morire così, di una morte senza senso né costrutto,  con il solo vantaggio di spirare in mezzo alla neve anziché in mezzo agli escrementi. Il punto è che la rivelazione del fatto che il tale è figlio del tal altro è ormai vecchia come il cucù. Quindi si cerca con ogni mezzo di far sospettare una stretta parentela tra personaggi problematici al solo scopo di smentirla nel modo più secco. Può anche sembrare una strategia efficace. Il prezzo da pagare è comunque altissimo. Un film diventa all'improvviso un nulla. Collassa, implode. La stessa figlia di Rachel e di Deckard, la dottoressa Ana Stelline, è un personaggio vuoto, nemmeno abbozzato, futile, poco più di un disegno fatto con lo spray sulle macerie di un palazzo abbandonato da decenni.

 

Risolto il problema della natura di Deckard

Possiamo dirlo per certo: Rick Deckard non è un replicante. Partiamo da un fatto molto semplice: egli è riuscito a ingravidare Rachel, un evento ritenuto estremamente improbabile. Se così non fosse, la gravidanza delle replicanti femmine sarebbe stata una cosa normale e osservata tutti i giorni. I replicanti sono descritti come sterili. Se è già eccezionale che un umano naturale possa mettere incinta una replicante femmina, le probabibilità che possa riuscirci un replicante maschio sono quindi enormemente minori. Infatti le probabilità si moltiplicano e numeri piccolissimi, compresi tra 0 e 1, una volta moltiplicati tra loro diventano ancora più piccoli. Così 0,5 (1/2) moltiplicato per 0,5 (1/2) dà 0,25 (1/4). Non siamo lontani dal vero dicendo che possiamo considarare in pratica impossibile che lo sperma di Deckard avrebbe potuto fertilizzare Rachel, se entrambi fossero stati umani artificiali. Come se non bastasse, un Deckard replicante sarebbe stato un vecchio modello... e sarebbe scaduto. Questo solleva una questione a mio avviso non trascurabile. In una delle tante versioni del film di Scott era emersa una memoria singolare, il sogno di un unicorno bianco, che trovava riscontro nel ritrovamento di un origami a forma di unicorno, suggerendo proprio la possibilità che il famosissimo Blade Runner interpretato da Harrison Ford fosse a sua volta un replicante. Infatti è risaputo che negli umani non si registrano simili fenomeni. Potremmo pensare che Villeneuve abbia abbandonato questa traccia per inserire la vicenda grottesca e improbabile di una messianica Rachel procreatrice. L'idea di una discontinuità biologica che avrebbe segnato l'avvento di nuove tipologie di replicanti, questa volta fecondi, deve essergli parsa più promettente. Per concludere, l'idea di un Deckard replicante inconsapevole proprio non si sarebbe retta in piedi. Un replicante ha una forza considerevole e poteri straordinari, come quello di non ustionarsi. Una persona che fosse un replicante se ne accorgerebbe per necessità constatando di cosa il proprio corpo è capace e facendo qualche calcolo. 

Altre recensioni e reazioni nel Web: 

Consiglio innanzitutto di leggere i fondamentali articoli del carissimo amico Giovanni De Matteo, apparsi sul sito Fantascienza.com:




Giovanni è rimasto molto colpito da questo film e riesce a irradiare un immenso entusiasmo, dando vita a scritti che sono una vera miniera di informazioni e di riflessioni profonde. Li ho letti con molto piacere, anche se non sono rimasto folgorato sulla via di Damasco guardando le sequenze di Villeneuve.

Si possono trovare alcune considerazioni di un certo interesse nella recensione negativa Blade Runner 2049 o dell'insostenibile pesantezza dell'irrilevanza, di Roberto Recchioni, apparsa su Screenweek.it:


Purtroppo il testo di Recchioni ha attirato l'ira di alcuni commentatori fanatici, adoratori incondizionati dell'opera di Villeneuve, tanto aggressivi da far sembrare miti come agnelli persino i Talebani. In fondo siamo in Italia: pur di linciare moralmente qualcuno, si inalberano con prontezza le più bizzarre e impensabili bandiere.

Questa recensione di Simone Stefanini è apparsa su Dailybest.it:


Come si può vedere, è più che altro incentrata sui risvolti tecnici e sugli attori. Di certo potrà soddisfare i feticisti dei dettagli, anche se i contenuti filosofici e antropologici sembrano fare un po' difetto.

Decisamente più positiva è la recensione di Luca Liguori, apparsa su Movieplayer.it:


Interessante è anche quest'altro articolo di Giuseppe Grossi, Blade Runner: 10 intuizioni di un capolavoro non replicabile, sempre su Movieplayer.it


Il tema portante è lo scetticismo sostanziale sulla stessa possibilità di realizzare un sequel di un qualche valore dell'opera di Ridley Scott. 

domenica 31 dicembre 2017

IL COSMO STERILE O LA MORTE DELLA FANTASCIENZA

Come Zarathustra ha annunciato la morte di Dio, così annuncio la morte della fantascienza.

"La fantascienza è morta! La fantascienza è morta! E noi l'abbiamo uccisa! Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini? Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? Che acqua useremo per lavarci? Che festività di perdono, che sacro gioco dovremo inventarci? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse diventare autori di fantascienza semplicemente per esserne degni?"

Come, non ve lo ha ancora detto nessuno che la fantascienza è morta? Eppure la voce del suo decesso avrebbe dovuto raggiungervi già da tempo. L'exitus era ineluttabile. Doveva accadere. Mentre i fantascientisti si crogiolavano masturbandosi le circonvoluzioni cerebrali nel vano tentativo di capire le ragioni del declino di quel nobile genere letterario, il paziente spirava senza che nessuno dei presenti al capezzale se ne accorgesse. Com'è stato possibile? La spiegazione è concettualmente semplice, eppure non banale.

Sono trascorsi decenni di osservazione delle profondità cosmiche alla ricerca di segni di vita intelligente. Un'osservazione che non ha sortito i risultati attesi: non si è trovato nulla che potesse dimostrare la presenza di una qualche civiltà là fuori, in quell'abisso di tenebra. Nel mondo scientifico ci si attendeva di trovare qualcosa da un momento all'altro e non appena qualcosa di anomalo giungeva dalle profondità siderali, subito fremevano tutti pervasi dalla febbre della speranza. Ogni volta le aspettative sono state disattese. Quando il segnale di una stella pulsante è stato captato, ecco che subito fu un fervere di voci sui "piccoli omini verdi" (Little Green Men). Non ci è voluto molto a capire che non si trattava di un radiofaro di origine intelligente: era un fenomeno del tutto naturale provocato dalla ciclica espansione e contrazione di gas stellari. A volte simili episodi hanno avuto risvolti comici e grotteschi. Ricordo il caso di un segnale anomalo proveniente da un'altra galassia, che dopo accurate analisi è risultato essere prodotto dall'interferenza di un forno a microonde usato dagli studenti del campus universitario per tostare il pane. In tempi a noi più vicini, il calo della luminosità di una stella ha fatto pensare a colossali opere di ingegneria spaziale costruite per captare energia. A un certo punto gli stessi scienziati davano questa interpretazone per verità assodata. Ciò ha portato masse di internauti a delirare come se tutti fossero stati aggrediti da una violenta febbre cerebrale. Si è poi scoperto che la luminosità della stella decresceva per via di masse di polveri e di materiale asteroidale. Da uno studio molto interessante è emerso che non esiste nessun impero galattici nelle galassie vicine, perché se esistesse saremmo in grado di captare le emissioni di radiazioni infrarosse prodotte dalla necessaria e immane massa di astronavi, basi, megalopoli planetarie, opere di ingegneria cosmica, congegni robotici, computer e via discorrendo. Nulla di tutto ciò è stato trovato. Nonostante questa desolante mancanza di riscontri, c'è sempre chi pensa che la vita intelligente sia molto comune nel cosmo. C'è chi parla di civiltà in grado di criptare i segnali, pensando poi che tutte si mettano d'accordo per farlo allo scopo di non farsi trovare da noi. Si sentono infinite assurdità di questo tipo, ingenue come la teodicea cattolica. Nonostante le elucubrazioni degli umani, il silenzio dell'Universo è isotropico. Assordante in ogni direzione!     

Quando ero uno studente del liceo, e ancora all'università, l'esistenza di sistemi planetari extrasolari non era affatto scontata. "Molto probabilmente ci sono altri sistemi planetari oltre al nostro", dicevano numerosi scienziati. Ovviamente con quel "molto probabilmente" intendevano dire di non credere affatto all'esistenza di quei pianeti: si trattava di un ipocrita eufemismo. Inizialmente vigeva una visione miracolistica della formazione del sistema solare, sostenuta in modo più o meno nascosto dalla Chiesa Romana: si insegnava nelle scuole che una cometa gigantesca passata vicino al sole avrebbe provocato un reflusso mareale di materia incandescente, dal cui raffreddamento si sarebbero formati i pianeti. Coprivo tale teoria di scherno e di ludibrio. I suoi assertori ritenevano che la materia rigurgitata dal sole si fosse modellata in forma di sigaro, così li irridevo soprannominavo i loro deliri "teoria del Sigaraio Cosmico". Un altro escamotage, molto usato a quei tempi era quello di postulare che le stelle doppie non potessero avere pianeti. A detta di un grandissimo numero di dogmatici, ogni eventuale pianeta di una stella binaria sarebbe finito stritolato e disgregato da interazioni mareali, oppure non si sarebbe nemmeno potuto formare. Il corollario era semplice: le stelle sarebbero state tutte binarie all'infuori del nostro sole e nessun pianeta sarebbe potuto mai esistere al di fuori del nostro sistema. Contro costoro ho combattuto a lungo e negli anni i fatti mi hanno dato ragione: si sono scoperti numerosi pianeti extrasolari in sistemi binari. I pianeti che ruotano attorno a una coppia di stelle doppie strette, tipo Tatooine in Guerre Stellari, non sono affatto una rarità. Adesso sappiamo che ci sono più pianeti nel cosmo che mosche in un merdaio, eppure la cosa non è di conforto alcuno. Si tratta infatti di pianeti estremamente diversi da quelli del nostro sistema solare e così inospitali che non potremmo nemmeno pensare di avvicinarsi ad essi, per non parlare di porvi piede. Ogni volta che qualche scienziato parla dell'ennesimo "gemello della Terra", si scopre che si tratta di un tale inferno da superare ogni immaginazione. Le nane rosse, di gran lunga le stelle più comuni, sono astri bastardi. Emettono spaventosi flares e flussi di radiazioni in grado di spazzar via l'atmosfera delle rocce che orbitano nell'ecosfera e di impedire alla vita di formarsi. Sempre più spesso si parla di "pianeti impossibili", perché ci appaiono al confine delle stesse leggi della fisica. Esiste un pianeta più nero dell'asfalto, che non lascia sfuggire un singolo fotone. Un altro pianeta, pur essendo rovente, è interamente ricoperto di ghiaccio e non si può avere evaporazione perché la gravità è fortissima: la locuzione "ghiaccio incandescente" non è più un ossimoro. Esistono sistemi i cui pianeti sono come piselli in un baccello, tutti quasi indistinguibili per massa e dimensioni. Moltissimi pianeti orbitano a una distanza così piccola dalla loro stella da far sembrare ampia l'orbita di Mercurio. Dovunque guardiamo, scopriamo soltanto una collezione di simili bizzarrie inspiegabili. Potremmo andare avanti all'infinito a scandagliare la galassia e oltre, troveremmo soltanto altri pianeti in cui nessuna forma di vita potrà mai allignare.  

Sono cresciuto divorando fantascienza. Ogni opera di fantascienza, fosse un libro, un film o un telefilm, è stata per me come una boccata di ossigeno. Languendo a scuola, provavo nausea e ribrezzo per porcate come i Promessi Sposi del detestato Manzoni, opere asfittiche che imprigionavano lo spirito in una cella angusta dalle pareti di solido piombo. Leggendo romanzi di fantascienza, evadevo da tale carcere obbrobrioso e mi libravo in volo, proiettandomi in lontane galassie, vivendo le gesta di eroi in lotta contro imperi interstellari, esplorando mondi sconosciuti. A un certo punto ho cominciato a scrivere fantascienza. Sono diventato un autore e ringrazio vivamente gli amici che hanno reso ciò possibile. Per anni è stato come un sogno. Poi a un certo punto qualcosa è cambiato. I miei sogni sono morti e sento in me una desolazione abissale, come se fossi passato dall'infanzia all'età adulta. Cos'ha determinato questo mutamento? È stata la consapevolezza della solitudine cosmica. La più radicale soluzione del Paradosso di Fermi: nello spazio nessuno può sentirci urlare per il lapalissiano fatto che non c'è nessuno

Ho passato anni a sperare che giungesse sulla Terra una spedizione genocidaria di alieni. Ho desiderato che uno spietato Hulagu Khan calasse dagli abissi per annientare il genere umano e porre fine al tormento di questa abietta schiavitù planetaria. Sono pian piano arrivato a pensare che ciò non fosse molto probabile, fino a capire che le possibilità di un simile evento sono irrisorie. Nel mio articolo Una semplice soluzione al paradosso di Fermi, pubblicato il 26/02/2016, già esprimevo un grande scetticismo, eppure la passione per la fantascienza mi impediva la completa obiettività. Fantasticavo volentieri sulla creazione della specie umana e degli altri ominidi da parte di alieni simili agli Ingegneri descritti nella saga di Alien. Ero ancora di un estremo ottimismo, quasi pari a quello di Pollyanna. Il carissimo amico Lukha B. Kremo, che è il mio editore, mi faceva notare in un suo intervento che una simile soluzione moltiplica i problemi e non porta soluzione alcuna ai nostri interrogativi. Se siamo l'opera degli Ingegneri, chi ha creato questi Ingegneri? Se rispondiamo che a farlo è stata un'altra specie aliena ancor più potente, arriviamo a creare sempre nuovi mondi e sempre nuove specie per spiegare la nostra origine, cosa che viola ogni principio di economia ontologica. Alla fine restiano con un'unica annichilente alternativa. Le probabilità che qualche altro pianeta adatto alla vita esista da qualche parte nelle vastità cosmiche sono irrilevanti, per non dire inesistenti: siamo ben oltre la celebre ipotesi della rarità della Terra.

L'equazione di Drake, anche nota come formula di Green Bank, dovrebbe servire a stimare il numero di civiltà in grado di comunicare presenti nella nostra galassia. Ebbene, essa suona immensamente ridicola e futile se si comprende a fondo il significato dei suoi parametri. Essa è così formulata: 

N = R* x fp x ne x fl x fc x L

dove:

 N è il numero di civiltà extraterrestri presenti oggi nella nostra Galassia con le quali si può pensare di stabilire una comunicazione;
 R* è il tasso medio annuo con cui si formano nuove stelle nella Via Lattea;
 fp è la frazione di stelle che possiedono pianeti;
 ne è il numero medio di pianeti per sistema planetario in condizione di ospitare forme di vita;
 fl è la frazione dei pianeti ne su cui si è effettivamente sviluppata la vita;
 fi è la frazione dei pianeti fl su cui si sono evoluti esseri intelligenti;
 fc è la frazione di civiltà extraterrestri in grado di comunicare;
 L è la stima della durata di queste civiltà evolute.

Il punto è che le stime storiche di tutti questi parametri sono rosee al di là di ogni immaginazione e del tutto irrealistiche. Diversi coefficienti devono tenere conto di un gran numero di fattori impliciti ma di importanza determinante. Per esempio, la frazione dei pianeti in condizione di ospitare forme di vita deve comprendere l'azione di un pianeta gioviano esterno, detto "Giove buono", in grado con la sua grande massa di attrarre asteroidi e comete, evitando così collisioni spiacevoli di tali corpi celesti con i pianeti interni. I fattori in gioco sono numerosissimi: se un pianeta con massa paragonabile a quella della Terra avesse una percentuale di acqua troppo alta sarebbe un pianeta oceanico, senza terre emerse, mentre se la percentuale di acqua fosse troppo bassa, sarebbe trattenuta nel sottosuolo e non ci sarebbero oceani. Per non parlare del fatto che il sistema Terra-Luna è il prodotto di una collisione primordiale tra due pianeti in orbite vicinissime e anomale, o addirittura posti in opposizione su una stessa orbita - un evento di una rarità impressionante, che avrebbe potuto sortire esiti ben diversi in ognuna delle sue fasi. Manca un parametro essenziale: quello relativo all'ecosfera galattica. Ai tempi si pensava che la vita potesse sorgere dovunque nella galassia, anche al centro. Oggi sappiamo che il nucleo galattico è un dragone infernale, un buco nero supergigante. Con le densità stellari nelle regioni del nucleo, l'intensità delle radiazioni sarebbe insostenibile. Sono regioni al cui confronto un soggiorno a Malebolge sarebbe una vacanza rinfrescante. Per contro nelle regioni periferiche della galassia le stelle sono povere di metalli e la formazione di pianeti terrestri non è certo favorita. All'aumentare della distanza dal centro galattico "la metallicità delle stelle diminuisce, e i metalli (che in astronomia corrispondono praticamente a tutti gli elementi diversi dall'idrogeno e l'elio) sono necessari per la formazione dei pianeti terrestri". Ma se la metallicità è troppo elevata, si formano gioviani caldi e superterre! Si moltiplicano troppe criticità che generazioni di fantascientisti non hanno nemmeno immaginato! Ricordiamoci sempre che un coefficiente probabilistico è un numero compreso tra 0 e 1. Lo zero indica l'impossibilità, l'uno indica la certezza. Se io moltiplico una probabilità di uno su mille per un'altra probabilità di uno su mille, ottengo una probabilità di uno su un milione: è proprio la misura della probabilità che i due eventi tra loro indipendenti si verifichino contemporaneamente. Se io moltiplico una probabilità di uno su un milione per un'altra di uno su mille, ottengo una probabilità di uno su un miliardo. Basterebbero ancora alcuni numeri di questo tipo da moltiplicare, e la probabilità di trovare qualcosa che soddisfa tutte queste condizioni in una galassia anche più grande della nostra sarebbe pari a ZERO

Se allarghiamo il nostro orizzonte e andiamo oltre la Via Lattea, troviamo che le cose sono anche peggiori. La nostra galassia si trova in una regione dove la densità galattica è abbastanza scarsa, in pratica siamo in una lacuna. Immaginiamo i superammassi galattici come serpenti fatti di scorie fuse e di plasma, luoghi violenti che irradiano morte in ogni direzione! La vita nel cosmo è stata uccisa dai buchi neri, la radiazione ad altissima energia la annichilisce. Anzi, per essere precisi, la vita è stata resa imposibile prima ancora dell'inizio dell'aggregazione di molecole sufficientemente complesse per trasmettere un codice genetico. Oltre a queste bellissime cose, si aggiunga che non è affatto scontato poter trovare un modo per spostarsi dal nostro sistema solare: le leggi fisiche ostacolano ogni nostro movimento e ci intrappolano. Se anche ci potessimo muovere, se potessimo aggirare la tirannia della relatività di Einstein, resta il fatto che non c'è nessun luogo in cui andare. No destination. 

Capite adesso che intendo dire? Come può la fantascienza resistere a un simile scenario? Come possiamo, dopo simili rivelazioni, continuarci a baloccarci con baggianate puerili come Guerre Stellari o come Star Trek? Come possiamo, dopo aver appreso che l'Universo è insensato, aver ancora voglia di scrivere? Spero infatti che lo abbiate capito, ormai, che l'Universo non ha alcun fine, la sua esistenza è un dato di fatto che non si piega alle confabulazioni umane. Non ha come fine la produzione di vita e di intelligenza, come voleva Teilhard de Chardin, quel pazzo drogato terminale. Ogni teleologismo è morto. Abbiamo costruito mondi plasmandoli a partire dal sembiante dei pianeti del nostro sistema, formandone in grandissima copia per mezzo della nostra fantasia, quindi li abbiamo proiettati assieme a un numero incredibile di specie senzienti, spesso umanoidi o umane, coi loro costumi, le loro religioni, le loro lingue. Cosa può restare di tutto questo, adesso che abbiamo capito che ci ingannavamo? Cosa possiamo fare adesso, che abbiamo capito che plasmavamo il noto per dar vita all'Ignoto? Certo, possiamo scrivere e leggere fantascienza per riflesso nervoso, come un pollo decapitato che continua a danzare e a eiettare sangue dal collo reciso! Tuttavia sappiamo che così come Dio è morto e non può più essere fonte di valori per nessuno, allo stesso modo la fantascienza è caduta nel Nulla e il suo essere è uscito dall'inventario ontologico!  

"Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono la fantascienza, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della fantascientifica putrefazione? Anche gli autori di fantascienza si decompongono!" 

Ecco l'epitaffio, che chiude un'epoca:

"Che altro sono ancora questi libri, questi film, se non le fosse e i sepolcri della fantascienza?"

martedì 12 dicembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI LOBO-CRAWFORD

Francisco Lobo e Paulo Crawford (Universidade de Lisboa, Portogallo) sono gli autori dell'articolo Time, closed timelike curves and causality, ossia Tempo, curve "timelike" chiuse e causalità, risalente al 2002 e revisionato per l'ultima volta l'anno successivo. Il lavoro può essere consultato e scaricato liberamente al seguente link: 


Dopo un'introduzione in cui gli autori riassumono l'evoluzione del concetto di tempo dall'antichità a Newton e quindi ad Einstein, giungono finalmente al punto. Il problema è quello delle curve temporali chiuse (CTC), annosa crux filosofica. La teoria della relatività generale fornisce un'analisi approfondita del flusso temporale in presenza campi gravitazionali, siano essi di debole o di forte intensità. Com'è risaputo, tale teoria contiene geometrie non banali che implicano curve temporali chiuse. Accade così che un osservatore, seguendo una traiettoria lungo una curva di questo tipo, ritorni a un evento che coincide con la sua partenza. Per l'osservatore in questione, la freccia del tempo misurata localmente punta in avanti, tuttavia globalmente egli procede verso eventi che si trovano nel suo passato. Ciò viola la causalità e porta ai cosiddetti paradossi temporali, giustamente paragonati dagli autori al vaso di Pandora. I paradossi si possono classificare in due diversi tipi:

1) Paradossi di consistenza;
2) Anello causale (anello temporale). 

Il classico paradosso di consistenza è quello dell'uomo che torna nel passato e uccide il proprio nonno, minando così la propria esistenza.

Negli anelli causali, informazioni od oggetti sono intrappolati nello spaziotempo in un circuito di retrocausalità. Lobo e Crawford fanno l'esempio di un uomo che viaggia nel passato con una macchina del tempo, raggiunge se stesso quando era giovane, dando a questo suo sé un manuale su come costruire la macchina del tempo. La costruzione del congegno crononautico è resa possibile proprio dalla consegna del manuale. Posso fare esempi ancora più chiari per illustrare questo paradosso:

i) In un racconto di Philip K. Dick, Il fattore letale (Meddler), si parla di una macchina che fotografa il futuro. Tramite questo marchingegno, vengono fatte fotografie da cui risulta che nel giro di un secolo non si trova più traccia alcuna del genere umano. Viene così usata una macchina del tempo per inviare un crononauta nel futuro per capire la causa della catastrofe. L'uomo parte e al suo arrivo trova la Terra disabitata: il genere umano si è estinto. Esplora una città fatiscente, abbandonata da molto tempo. Recupera libri e giornali da una biblioteca, quindi si accinge a fare ritorno alla macchina del tempo. A questo punto scopre che a sterminare l'umanità sono stati sciami di strane farfalle, a cui riesce a sfuggere per il rotto della cuffia. Quando ritorna nel suo tempo, porta con sé alcuni bozzoli di queste farfalle, innescando così il processo che porterà l'umanità all'annientamento. Domanda: qual è l'origine di questa specie di lepidottero mortifero?

ii) In un racconto di Anne Lear, L'avventura del viaggiatore integrale (The Adventure of the Global Traveler), Sherlock Holmes trova una lettera scritta dal suo mortale arcinemico, James Moriarty, il Napoleone del Crimine. Il punto è che la lettera è datata 1640. Il geniale furfante ha inventato la macchina del tempo ed è precipitato sul palcoscenico di Shakespeare mentre veniva rappresentato il Macbeth. In origine nella tragedia dovevano esserci soltanto due sicari, ma ecco che Moriarty, trovatosi nel ben mezzo della scena, improvvisa, recitando la parte del Terzo Assassino, da lui conosciuta a memoria. La sua interpretazione piace a Shakespeare, che la include nella sua opera. Moriarty, che è rimasto intrappolato nel passato, scrive l'accaduto nella lettera sperando che un giorno Holmes la troverà. Lettera che si conclude così:
“La prima volta che le battute del Terzo Assassino furono mai pronunciate, erano solo il frutto della mia buona memoria.
“Dunque, di grazia, signor Holmes, chi le ha scritte?
 

Si hanno così oggetti, esseri e informazioni esistenti nello spaziotemo senza che nessuno sia responsabile della loro creazione. Un manuale che viene dal nulla. Una farfalla che viene dal nulla. Battute teatrali che vengono dal nulla.

Dopo aver introdotto e commentato brevemente i paradossi sopra citati, gli autori partono in quarta analizzando tutte le soluzioni delle equazioni di campo di Einstein che implicano curve temporali chiuse, fornendo al lettore un'immersione in un oceano di matematica superiore. Se un navigatore nutre per l'estetica matematica la stessa passione che Casanova nutriva per le donne, sarà sicuramente soddisfatto. Se devo essere sincero, le conclusioni di Lobo-Crawford mi lasciano esterrefatto. In sintesi, questa è la summa argomentativa dei due portoghesi: 

a) La teoria della relatività generale ha avuto un grandissimo successo, che ha una base sperimentale molto solida.
b) La teoria della relatività generale porta a soluzioni alle equazioni di campo che implicano curve temporali chiuse.
c) Si evince che se la teoria della relatività generale è valida, è necessario includere la possibilità di viaggio nel passato attraverso curve temporali chiuse.
d) Siccome l'accettazione del viaggio nel passato attraverso curve temporali chiuse implica paradossi, si evince che detti paradossi vanno accettati come possibilità non soltanto matematiche, bensì anche fisiche.
e) Stanti i punti precedenti, ne consegue che il paradosso dell'uccisione del nonno, così come gli anelli temporali, corrispondono a situazioni possibili e realistiche.

A questo punto fa magicamente la sua comparsa la ridicola baggianata papista del libero arbitrio. Così ragionano Lobo e Crawford: "È logicamente inconsistente che il crononauta uccida suo nonno. Ma per l'esattezza, ci si può chiedere, cosa gli ha impedito di compiere il suo atto omicida se egli ha avuto ampie opportunità e la libera volontà di fare così". Parlano sì del principio di autoconsistenza, formulato da vari autori per aggirare il problema, ma ora della fine sono autentici sostenitori della possibilità di viaggiare fisicamente nel passato.  

Il problema è che è inconsistente il fatto stesso che il crononauta possa raggiungere suo nonno al di fuori della catena causale che ha portato alla propria esistenza. Ricordo che H.G. Wells aveva a un certo punto introdotto un paradosso estremamente interessante nel suo romanzo La macchina del tempo (Time Machine). Il protagonista aveva costruito una macchina del tempo in miniatura, quindi aveva incaricato uno psicologo scettico di azionare una minuscola leva. A questo punto la macchinetta si era sfocata per scomparire. Un astante aveva sollevato l'obiezione, dicendo che, se quella minuscola macchina del tempo avesse viaggiato nel passato, l'avrebbero dovuta vedere nello stesso luogo anche appena entrati nella stanza, e anche il giovedì prima e quello prima ancora, e via discorrendo. Wells ha cercato di risolvere il paradosso con un cavillo, immaginando che la velocità della macchina fosse tale da impedirne la vista agli umani. In realtà il paradosso resta e sarà bene meditare sulle sue conseguenze.   

domenica 10 dicembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI ROMERO-PÉREZ

Gustavo E. Romero (Universidad Naccional de La Plata, Buenos Aires) e Daniela Pérez (Instituto Argentino de Radioastronomía, Buenos Aires) sono gli autori del lavoro Presentism meets black holes, ossia "Il presentismo incontra i buchi neri", pubblicato nel 2014. Può essere consultato e scaricato liberamente a questo indirizzo url:  


Un articolo denso di matematica superiore, che intende calare il lettore addirittura all'interno di un buco nero, oltre l'orizzonte degli eventi, oltre quello che può essere soltanto l'annientamento di ogni struttura concepibile da mente umana. Le equazioni e i ragionamenti sono molto interessanti, ma le perplessità restano. Il punto è che nei buchi neri - e anche solo in loro prossimità - la fisica a cui siamo abituati cessa di valere. Quindi disquisire sui buchi neri nel tentativo di acclarare la natura ontologica del tempo può non essere una cosa molto furba.

Lo stratagemma è sempre quello prediletto dai B-eternisti: affermare che la simultaneità di due eventi A e B in un sistema di riferimento xyzt implica l'eternismo soltanto perché gli stessi eventi A e B non sono simultanei se visti da un altro osservatore che ha un sistema di riferimento diverso, x'y'z't'. Il problema è che Romero costruisce il primo sistema di riferimento xyzt in condizioni tanto estreme da non essere esperibili, mentre il secondo sistema di riferimento x'y'z't' è situato lontano dalla singolarità spaziotemporale, in condizioni a noi familiari. Queste macchinazioni non possono dirci nulla di quantificabile sull'ipotetico osservatore immerso nel buco nero, sottoposto a spaventose distorsioni dello spaziotempo: non sappiamo come potrebbe essere definito - ammesso e non concesso che la sua definizione sia possibile - e soprattutto ignoriamo come si potrebbe vedere la realtà esterna da tale prospettiva.

Si può soltanto affermare come sacrosanto quello che già vale nello spaziotempo di Minkowski. Al di fuori del cono di luce di un evento, non si può dire assolutamente alcunché di sensato: è una zona d'ombra fatta di fantasmi e di Nulla. Non è lecito trarre conoscenza dagli spettri che vi regnano e che non possono comunicare in alcun modo con l'ente a cui il cono di luce appartiene, istante per istante. Come Romero fa notare, man mano che ci si avvicina a un buco nero, il proprio cono di luce si appiattisce sempre più, tanto che una volta giunti all'orizzonte degli eventi si avrà un cono di luce che coincide con un piano in cui passato, presente e futuro collassano. Se ci si viene a trovare in una situazione simile, non si potrà dedurre da essa alcunché di utile a definire lo statuto ontologico del tempo passato e del tempo futuro di osservatori il cui cono di luce non è appiattito. 

Pur ammirandone il rigore di quest'opera, non trovo alcun modo di risolvere quello che considero un problema definitorio.

Lo stesso Romero nel 2014 ha pubblicato un altro articolo a qualche mese di distanza da quello sopra trattato: si tratta di Philosophical Issues of Black Holes, ossia "Problemi filosofici dei buchi neri", consultabile al seguente url: 


La trattazione matematica è molto approfondita. No, per capirci qualcosa non bastano le famose "insalate di matematica" mangiate da Goldrake: occorrono anni di paziente studio. I problemi filosofici affrontati sono notevoli. Si parla del determinismo, degli orizzonti di Cauchy e del secondo principio della termodinamica. Si ammette che il mondo non è un oggetto matematico, che soltanto alcune nostre descrizioni del mondo sono matematiche. Si ammette che se le equazioni che rappresentano le leggi della fisica ammettono certe soluzioni, queste non hanno per necessità esistenza fisica. Quindi si giunge a trattare il problema del presentismo e dell'eternismo. Romero ribadisce la propria posizione: egli reputa l'esistenza stessa di buchi neri nel nostro universo come incompatibile col presentismo. Questa è la summa argomentativa romeriana: 

Argomento A1:
P1: Ci sono buchi neri nel nostro universo.
P2: I buchi neri sono descritti correttamente dalla relatività generale.
P3: I buchi neri hanno superfici nulle chiuse (orizzonti).
Quindi ci sono superfici nulle chiuse nell'universo. 

Argomento A2:
P4: Tutti gli eventi su una superficie nulla chiusa sono simultanei con ogni evento sulla stessa superficie.
P4i: Tutti gli eventi su una superficie nulla chiusa sono simultanei con la nascita del buco nero.
P5: Alcuni eventi lontani sono simultanei con la nascita del buco nero, ma non con altri eventi correlati al buco nero.
Quindi ci sono eventi che sono simultanei in un sistema di riferimento e non in un altro.

L'indebita conclusione è la seguente: "La simultaneità dipende dal sistema di riferimento. Siccome ciò che esiste non può dipendere dal sistema di riferimento che usiamo per descriverlo, concludiamo che ci sono eventi non simultanei. Quindi il presentismo è falso." 

Il punto è che il tempo nel buco nero non ha relazone con il tempo definito nel normale spaziotempo di Minkowski e ogni correlazione tra l'orizzonte degli eventi e ciò che si trova al suo esterno è da rigettarsi.