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giovedì 28 novembre 2019

IMPREVISTI
 
Avrà avuto ventotto anni al massimo. Una bella ragazza maghrebina, di corporatura minuta. Mi osservava sorridendo. Ero al terzo cocktail, quindi non propriamente lucido. Viviana, seduta al mio fianco, se ne uscì dicendo:
“Che dici, la chiamiamo?”
“Chiamiamola.”
Com’era sua abitudine, cambiò idea quasi subito.
“Aspetta, chiedo a Q.”
“Chiedi.”
La vidi avvicinare il gestore del locale, un egiziano. Chiacchierarono a lungo.
La giovane maghrebina non smetteva di fissarmi.
Vuotai il bicchiere e mi alzai, dirigendomi verso i due dialoganti.
“Dice Q. che tra un paio d’ore ne dovrebbe arrivare da Milano un’altra più bella.”
“L’ho presentata a una coppia, marito e moglie, mi hanno detto che è stata fantastica”, puntualizzò il gestore, “Li ha fatti impazzire di piacere”.
Viviana mi fece segno di seguirla all’esterno del locale.
Appena fuori si accese una sigaretta e disse:
“Bisogna portarla in un motel, Q. non affitta più le stanze.”
Dal tono intesi che la situazione non suscitava più il suo interesse.
Colsi la palla al balzo.
“Senti, è l’una e mezzo, non mi va di aspettare due ore una che manco so chi sia.”
“Ma sì, infatti.”
Pagai il conto e ce ne andammo.
Per essere dicembre, non faceva neanche tanto freddo. Niente brina sul parabrezza.
Misi in moto.
Fatte poche centinaia di metri, l’utilitaria che viaggiava davanti alla mia rallentò e accostò a destra. Intravidi un agente dei carabinieri con la paletta in mano. Se avessero fermato me, addio patente.
Per tutto il tragitto Viviana non fece altro che parlare dell’unico argomento che le stesse realmente a cuore: se stessa. Un ininterrotto flusso autoreferenziale, un monologo vacuo, desolante. 
La lasciai a casa e tornai al bar, seguendo un itinerario alternativo per evitare la pattuglia dei caramba. La ragazza era là dove l’avevo lasciata. Mi presentai.
“Piacere, mi chiamo Marco”.
“Sofia. Sapevo che saresti tornato.”
Accarezzai, più che stringere, la sua mano morbida e ben curata.
“Che ne diresti se ci facessimo un giro?”
“Dove?”
“Al Diamante. Un quarto d’ora e siamo lì.”
“Fanno 4 Vu.”
“D’accordo.”
Salimmo in macchina.
Dieci minuti più tardi, parcheggiai nel posteggio interno del motel. Non era certo popolato: cinque vetture compresa la mia.
Al banco della reception, il deserto.
Sofia sedette su una poltrona e prese a sfogliare una rivista.
Un urlo spaventoso, proveniente dal piano superiore, risuonò nella hall. Sofia scattò in piedi come una molla.
“Andiamo via subito!”
Ci fiondammo all’esterno. Neanche il tempo di mettermi alla guida e dall’ingresso del motel vidi uscire un uomo corpulento con una camicia bianca imbrattata di sangue. Aveva un’espressione folle stampata in volto.
“Parti, cazzo, parti!”
Innestai la prima e lasciai il posteggio a tutta birra.
Nello specchietto retrovisore, intravidi il tizio che correva a perdifiato, inseguendoci.
“Quello è un pazzo fottuto!”
Sofia era terrorizzata, si calmò solo quando entrammo in Pavia.
“Ti riporto al bar?”
“Sì sì per favore. Ti spiace se ci vediamo un’altra volta?”
“Non c’è problema.”
Quando arrivammo, il bar era chiuso.
“E adesso come faccio?”
“Non ti preoccupare. Ti do un passaggio a casa. Dove abiti?”
“Milano, via Chiesa Rossa. Sai dov’è il Takeout?”
“Sì.”
“Grazie, sei un tesoro.”
“Secondo me quello ha ammazzato qualcuno.”
“Non sono fatti nostri.”
“Ci sono telecamere a circuito chiuso in quei posti.”
“E con ciò? Mica abbiamo fatto niente di male. Siamo entrati e siamo usciti.”
“Articolo 593 codice penale.”
“Cos’è? Non sono un avvocato.”
“Omissione di soccorso.”
“Cosa conti di fare, chiamare gli sbirri?”
Eravamo all’altezza del mobilificio di Corso Partigiani, appena prima di entrare a Certosa. Si scorgevano distintamente i lampeggianti di due ambulanze nei pressi del semaforo, in mezzo al paese.
“Tutte stanotte capitano?”
Rallentai l’andatura. Il transito sulla statale dei Giovi era bloccato: oltre alle ambulanze, altre vetture erano ferme in mezzo alla strada, alcune messe di traverso. Si vedevano vetri rotti e, quel che è peggio, corpi umani riversi sull’asfalto.
Accostai e feci inversione.
“Dove sono gli infermieri?”
“Non ne ho idea. Passiamo da Pontelungo.”
“Prendi per il Cantone Tre Miglia”
“No Sofia, è una strada stretta: se troviamo un ostacolo siamo fottuti. Preferisco allungare il tragitto e non correre rischi.”
Lungo il rettilineo dopo Ponte Carate non incrociai una macchina che fosse una.
Sofia smanettava al cellulare.
“Ho provato a chiamare le mie amiche. Non mi risponde nessuna!”
A duecento metri dalla rotonda di Zeccone, vidi il lampeggiante blu di un’auto della polizia. Un agente, in piedi in mezzo alla strada, stava puntando la pistola in direzione di un gruppo di persone nei pressi delle case. Si udirono colpi di arma da fuoco.
Invertii nuovamente direzione.
“Ma si può sapere che succede stanotte? Senti Sofia, vieni a dormire a casa mia e domattina ti porto a casa.”
“Sempre se ci arriviamo.”
Non replicai, sapevo che aveva ragione.
Accesi l’autoradio.
Un cronista di Radio Popolare stava parlando di violenti scontri in corso a Milano.
Sofia si mise a pregare in arabo. 
 
Pietro  Ferrari, novembre 2019

lunedì 25 novembre 2019

TRANSAZIONI

Al mio ingresso nel locale fui colpito  da una ventata di odore acre e nauseabondo: una mescolanza di sudore ascellare e inguinale, maschile e femminile, fumo di narghilè, profumi  dozzinali. Un vero e proprio uppercut olfattivo. Vacillai per un istante. Sabrina, la donna con cui avevo deciso di trascorrere la serata, mi precedeva. Pagai alla cassa per entrambi, affidai il cappotto alla guardarobiera sudamericana e mi immersi nella calca. La mia compagna pareva perfettamente a proprio agio in mezzo a quegli afrori animaleschi. La sala era affollata di energumeni tatuati dall’aspetto patibolare e donne abbigliate come battone. Gli altoparlanti trasmettevano a volume altissimo motivi musicali in lingua spagnola. “Prendiamo qualcosa da bere?”, domandò Sabrina. Mi diressi al bar e ordinai due cocktail. Il barista, un tipo con l’aria da galeotto, mi servì due cocktail a base di vodka di infima qualità. Sabrina aveva già fatto amicizia con una perfetta sconosciuta, un troione di provenienza balcanica. Le passai il bicchiere.
“Vado a sedermi.”
Non c’era traccia di divanetti liberi. Guardandomi intorno riconobbi con stupore un tale conosciuto molti anni prima, appollaiato tutto solo su una seggiola in un angolo del locale. Era un insegnante di religione, un personaggio ambiguo. Mi avvicinai.
“Salve, si ricorda di me?”
“Certo, l’ho riconosciuta appena l’ho vista entrare. Come sta?”
“Bene. Lei?”
“Carina la sua fidanzata.”
“Non è la mia fidanzata. E’ una tipa con cui esco.”
“Capisco. Lei mi è sempre parso una persona seria, affidabile. Potrei chiederle un favore?”
“Sentiamo.”
“Dovrei sbrigare una faccenda ma non posso procedere personalmente. Le interessano mille euro?”
“Dipende dalla faccenda.”
“Ho un pacco in cantina e vorrei liberarmene.”
“Quanto pesa questo pacco?”
“78 kg”
“Voluminoso, direi. Ed è stabile?”
“No, si muove, questo è il punto. Gradirei stabilizzarlo, capisce?”
“E non può provvedere da sé?”
“Non ci riesco, per questo mi serve un aiuto.”
“Mille euro non compensano il rischio.”
“Facciamo duemila?”
“Sta scherzando? Diecimila o non se ne parla.”
“No no, è troppo… Cinquemila al massimo.”
“Per cinquemila le stabilizzo il pacco ma allo smaltimento ci pensa lei.”
“Va bene.”
“Mi dia il suo numero.”
Registrai il numero tra i contatti del cellulare e mi allontanai. Sabrina stava ballando in pista con il troione balcanico.
Le feci segno di avvicinarsi.
“Questo posto puzza e la musica fa schifo. Io non ci resto un solo minuto di più.”
“A me piace.”
“Come preferisci. Fatti riaccompagnare a casa dalla signora, allora. Hasta la vista.”
Le voltai le spalle senza prestare la minima attenzione alle sue recriminazioni, ritirai il cappotto al guardaroba e mi levai di torno.
L’indomani inviai un messaggio al prof con un burner phone pagato venti euro.
“Mi dia il suo indirizzo.”
La risposta arrivò all’istante.
Due ore dopo, bussavo alla sua porta. L’abitazione dell’insegnante pareva uscita dalle pagine di Edgar Allan Poe: una villetta a due piani, fatiscente, in preda al disfacimento. Lo specchio di una psiche devastata, prossima al crollo.
Prima di farmi entrare sbirciò furtivamente tutto intorno, come se temesse di essere spiato.
“Si accomodi.”
“Prima di accettare l’incarico, voglio vedere il pacco.”
“Va bene. E’ armato?”
“Lo sono sempre.”
 “Le faccio strada.”
“Un attimo.” Indossai una maschera da giocatore di hockey.
Scendemmo in cantina.
Era un locale angusto, l’aria sapeva di muffa. Il prof accese la luce.
Una figura umana incatenata a una colonna, giaceva a terra, distesa su un sacco a pelo.
Era un uomo sui sessant’anni, imbavagliato e dall’aria terrorizzata.
“Vede?”
Risalimmo.
“Allora, accetta?”
“Prima voglio sapere chi devo uccidere.”
“E’ un preside. Non le occorre sapere altro.”
“Lo decido io cosa mi occorre o no. Perché lo vuole morto?”
“Perché è uno stronzo, mi ha reso la vita impossibile.”
“Ok.”
“Allora è d’accordo?”
“Prima i soldi.”
“Non li ho qui con me.”
“Non si faccia sentire sino a quando non li avrà disponibili, tutti e sull’unghia, in banconote da 50. E si ricordi che allo smaltimento dovrà provvedere di persona. Sacchi neri della spazzatura ne ha? Un vecchio impermeabile?”
“Sì sì.”
“Serviranno anche un secchio e parecchi stracci.”
“La prossima volta mi faccia trovare i soldi. E niente stronzate, intesi?”
“Intesi.”
Stavo per salire in macchina quando squillò il cellulare. Era Sabrina.
“Cazzo vuole sta puttana di merda?”. Rifiutai la chiamata.
Appena a casa controllai il funzionamento della motosega. Era a posto. Tirai fuori dalla sgabuzzino gli stivali di gomma. Avrei utilizzato la visiera protettiva che impiegavo solitamente con il decespugliatore, per evitare gli schizzi di sangue in faccia durante il depezzamento della salma.
L’indomani mattina ricevetti una chiamata dal prof.
“Quando può venire?”.
“C’è il fluido?”
“Tutto quanto.”
“Alle 21. Mi faccia trovare il cancello aperto.”
Trovai il cancello aperto e il prof seduto in veranda.
Prelevai il materiale da lavoro dal bagagliaio.
“Non perdiamo tempo.”
Appena dentro casa, poggiai il borsone in corridoio.
“I soldi.”
Il prof prese una busta dal ripiano di un mobile.
Era gonfia di pezzi da cinquanta. Li contai: c’erano tutti.
Suddivisi il malloppo e lo riposi nelle tasche capienti del giubbotto, chiudendo le cerniere.
“Secchio, stracci e sacchi neri sono già in cantina?”
“Sì.”
“Disponga gli stracci sul pavimento, tutto intorno al suo ospite temporaneo. Appena ha terminato, risalga. Ha con sé le chiavi del lucchetto?”
Mi osservò come inebetito.
“Allora?”
“Ce le ho.”
“Si muova.”
Mi tolsi le scarpe e calzai gli stivali di gomma, indossai i guanti in pelle e l’impermeabile di plastica.
Avvitai il soppressore di suono alla Glock 17 e rimasi in attesa.
Il prof tornò dopo poco.
“Metta l’impermeabile. Guanti da lavoro ne ha?”
Il prof assentì.
Indossai cuffia e visiera protettiva e sollevai il borsone: “Diamoci da fare.”
Scendemmo in cantina.
Appena entrati, mirai alla testa del sequestrato e gli piantai due proiettili nel cranio, nel giro di un secondo.
Il prof rimase scioccato dalla fulmineità dell’azione.
“Sciolga le catene al preside, forza.”
Il cadavere si afflosciò sugli stracci.
“Prenda il secchio e sollevi il morto.”
“Ma pesa.”
“Non rompere il cazzo. Sollevalo quel tanto che basta per far pendere la testa sul secchio.”
Presi dal borsone il coltello da sub e tagliai la gola al preside.
Il sangue sprizzò copioso nel secchio.
“Facciamo scendere il grosso.”
“Pesa troppo.”
Lo aiutai a tenere sollevato il cadavere.
“Può bastare.”
Adagiammo la salma e la svestimmo.
“Adesso viene la parte brutta.”
Tirai fuori dal borsone la motosega.
“Sollevagli la gamba sinistra e tienila stretta per il piede. Hai capito?”
Il prof, bianco come un cencio, fece segno di sì.
Avviai la motosega, tagliai gambe e braccia e decapitai il cadavere.
“Prendi quel cazzo di sacchi neri e sistema un pezzo per sacco. Il torso è un problema. Dovrò sventrarlo e svuotarlo.”
Il prof fu colto dai conati di vomito.
“Se mi rigetti addosso ti sparo. Non scherzo.”
Gli passò subito la voglia.
Al termine dell’operazione, eravamo imbrattati di sangue e altri fluidi innominabili, come due macellai.
Sul pavimento della cantina giacevano nove sacchi neri, due dei quali contenenti stracci imbrattati di sangue e abiti.
“Il preside aveva con sé portafoglio e documenti quando lo hai sequestrato, suppongo.”
“Sì.”
“Falli sparire, distruggili questa notte stessa.”
Con uno straccio, ripulii, per quanto possibile, la motosega.
“Non fare la stronzata di abbandonare i sacchi neri tutti nello stesso posto, capito? Sparpagliali in giro. E fa’ attenzione alle telecamere vicino ai cassonetti. Anche il tuo impermeabile e le scarpe devono sparire. Prendimi un sacco nero. Vuoto.”
Risalimmo al pianterreno.
Mi tolsi  visiera, stivali, impermeabile di gomma e li riposi nel sacco.
“Di questi mi occupo io. Tu pensi al resto, e senza perdere tempo. Vatti a fare una doccia prima di uscire, che hai i capelli unti di sangue rappreso.”
Accostai il più possibile l’auto all’ingresso col bagaglio aperto. Caricai la mia roba.
“Entro 12 ore devi far sparire tutto quello che c’è in cantina. Svuota il secchio nel cesso. Quando hai finito, avvertimi. Se ti dimentichi di farlo, verrò a cercarti e non sarò di buon umore.”.
Misi in moto e me ne andai.
Sbirciando nello specchietto retrovisore, vidi il prof chiudere il cancello e rientrare in casa.
Ventiquattro ore dopo, ricevetti un messaggio laconico: “Sistemato”.
Distrussi il cellulare.
La questione poteva dirsi chiusa. 
 
Pietro Ferrari, novembre 2019

martedì 5 novembre 2019

SONIA TREMOLO

Scoprii di avere un morto in cantina mentre stavo effettuando lavori di sgombero a lungo rimandati. I tessuti erano prosciugati e rinsecchiti a tal punto che li si sarebbe detti di cartone. Emanava un puzzo tutto sommato contenuto, una via di mezzo tra la pelle di salame e la crosta di formaggio ammuffita. Telefonai subito a Danilo per chiedergli consiglio.
“Ti mando una mia conoscente. Sistema tutto lei.”
“E chi sarebbe?”
“Meno sai meglio stai. Le do il tuo numero, ciao.”
Attesi per un’ora circa, in preda a una discreta agitazione, sino a che squillò il cellulare.
“Via Dei Pini 174?”, chiese una voce femminile.
“Sì, esatto.”
“Sarò lì tra mezz’ora.”
“Quando è vicina mi faccia uno squillo, così scendo e le apro il cancello col telecomando.”
Mezz’ora dopo una station wagon faceva retromarcia nel garage sotterraneo del palazzo, posizionandosi vicino all’ingresso della mia cantina. Ne scese una quarantenne dai capelli neri con indosso un impermeabile scuro.
Il viso, benché attraente, aveva tratti duri e lo sguardo trasmetteva una certa inquietudine.
Aprì il portellone del bagagliaio e mi si parò di fronte.
“Beh? Dov’è il reperto?”
“Mi segua.”
La sconosciuta indossò una mascherina e guanti da chirurgo.
Entrati, le mostrai il cadavere, appoggiato in un angolo tra la parete e un vecchio armadio tarlato.
 “Bella mummia. Sicuro di volersene privare?”
“Non saprei che farmene.”
“Com’è che si è accorto solo ora della sua presenza?”
“Prima c’era un bordello incredibile. Abito qui da pochi mesi, i precedenti inquilini hanno lasciato una montagna di cianfrusaglie.”
 “E un cadavere. Lo avvolga ben bene in un tappeto e me lo carichi in macchina. Stia attento nel muoverlo.”
Dopo aver steso un vecchio tappeto sul pavimento della cantina, vi adagiai la mummia, la avvolsi e la collocai nel bagagliaio. 
“Quanto le devo per il suo disturbo?”
“Niente.”
“Come niente?”
“Se dico niente è niente.”
“Mi permetta almeno di pagarle le spese della benzina.”
“Un favore si ricambia con un favore. La aspetto domani a casa mia.”
“Va bene.”
Mi porse un biglietto da visita.

Sonia Tremolo
Tassidermista
Via Allan Kardec, 40

“Alle 23 esatte.”
“Ci sarò”, dissi.
“Arrivederci. Chiuda il portellone .”
Salì in macchina e partì.
Inviai un messaggio a Danilo per avvertirlo che la questione era risolta.

L’indomani mattina mi recai a far colazione al Caffè del Moro. Seduto da solo a un tavolino, vidi il mio insegnante di religione delle superiori. Gli rivolsi un cenno di saluto.
“Buongiorno don.”
“Carissimo, quanto tempo.”
“Come sta?”
“Diciamo bene, compatibilmente con l’età. E tu? Ti interessi ancora di spiritismo?”
“Non più.”
“Bravo, sta’ lontano da quelle cose. Te la ricordi quella medium, come si chiamava… Vanessa Ley.”
“Sì, me la ricordo.”
“E’ deceduta, lo sapevi?”
“No, non ne avevo idea.”
“L’hanno trovata morta in casa, a Ivrea. Viveva sola, con una torma di gatti. Quando l’hanno ritrovata, le avevano completamente scarnificato la faccia.”
“Accipicchia.”
“Avevano fame, povere bestiole.”
Rientrando a casa mi soffermai nei pressi dell’edicola. La locandina del quotidiano locale titolava: “Orrore in Oltrepò: uccide la moglie e ne divora i resti”. Era, credo, il primo caso di un delitto in famiglia sfociato in atti di cannibalismo.  Incuriosito, acquistai una copia del giornale e mi sedetti a leggerlo su una panchina poco distante.
Il cannibale era un pensionato, residente in una sperduta frazione collinare dalle parti di Broni. Dopo aver accoppato la moglie l’aveva macellata riponendo poi le “porzioni” nel congelatore. Si era tradito allorché, a una domanda dei vicini in merito allo stato di salute della moglie, aveva risposto “L’avevo sempre giudicata una donna acida ma devo ammettere che, con una spruzzatina di vino bianco, le sue costolette sono deliziose”.
Benché fosse una giornata di sole, l’aria era frizzante. Mi alzai e mi diressi verso casa. Sul marciapiede dinanzi all’ingresso del mio condominio giaceva una colossale torta di escrementi. I casi erano due: o l’aveva deposta un alano portato a spasso da un padrone sconsiderato, oppure un teppista si era divertito a defecare proprio lì, vicino al cancello.
Risuonò un grido: “Ha visto che schifo? E’ una vergogna. Stavolta i vigili mi sentono!”.
Era la signora Santina che sbraitava dalla finestra.
Schivai il cumulo di feci ed entrai. Sulla soglia di casa mi squillò il cellulare.
“Può venire ora?”
Era lei, Sonia.
“Come, adesso?”
“Sì, stasera non posso. Un imprevisto.”
“Va bene, mi dia una mezzoretta.”
“A dopo.”
Salii pensieroso le scale.
“Che vorrà da me? Ormai non posso più tirarmi indietro.”

Via Allan Kardec è una strada periferica alberata su cui si affacciano villette signorili, alcune di recente costruzione. Quella al numero 40 aveva un aspetto incredibilmente decadente: una dimora da film horror. Il giardino, invece, appariva ben curato. Scesi dalla bicicletta e suonai il campanello. Mi fu subito aperto. Percorsi i pochi metri che separavano il cancello dalla veranda bussai alla porta una, due, tre volte. Nessuno rispose. Chiamai la signora al cellulare.
“Arrivo subito.”
Nell’attesa, mi sedetti sulla panchina in veranda. Mentre me ne stavo lì ad osservare le aiuole fiorite, un bel gattone dal mantello screziato sbucò da dietro l’angolo e venne a strusciarsi sulle mie gambe.
La padrona di casa giunse finalmente ad aprire. Indossava una vestaglia in raso, nera, chiusa da una cintura.
“Grazie per essere venuto. Entri.”
Io e il gatto la seguimmo dentro casa.
Fatti pochi metri in un corridoio dalle pareti color malva, entrammo in una sala elegantemente arredata.
“Si sieda. Posso offrirle una bella tisana? E’ un infuso di mia preparazione, a base di ribes e rosa canina. Le piacerà.”
“Va bene, grazie.”
Presi posto su una poltrona e il gatto mi si accoccolò in grembo.
La sua padrona tornò reggendo un vassoio con due tazze e dei pasticcini.
“Si serva pure. Le piacciono i dolci alle mandorle?”
“Molto.”

“Immagino vorrà sapere perché l’ho convocata.”
“Effettivamente.”
“Prenda l’album sul tavolino di fronte a lei. Lo sfogli.”
L’album conteneva una serie di fotografie.
Alcune ritraevano Sonia in compagnia di un tipo dall’aria spavalda.
“Quello è mio marito”, disse, “O per meglio dire lo era.”
“E’ morto?”
“Sì. Conservo il suo cadavere nel mio laboratorio, da basso. Vuole che glielo mostri?”
“No no, non si disturbi. Magari un’altra volta.”
“Lo ha osservato bene in viso? Saprebbe riconoscerlo?”
“Sì, certo.”
“Guardi le foto successive.”
Dopo svariati ritratti fotografici del marito, apparvero alcuni scatti che mostravano una donna coi capelli rossi a caschetto.
“La mia ex migliore amica e assistente, Grazia Ferretti. Lei dovrà introdursi in casa sua e restituirmi ciò che quell’ingrata mi ha sottratto.”
“Sarebbe a dire?”
“La testa di mio marito Alberto.”
Trasecolai.
“La testa? Ma se mi ha detto poco fa che ne ha conservato il cadavere!”
“Dopo la morte l’ho decapitato. Volevo dedicare alla sua testa una cura particolare, capisce? Aveva una gran bella testa, mio marito.”
“Di cosa è morto, esattamente?”
“Overdose.”
“Si drogava?”
“Ma quale droga! Overdose di allopurinolo, un farmaco contro la gotta.”
“E io come faccio a entrare in casa della sua amica?”
“Ex amica. Semplice: deve rimediare un invito.”
“Ma se non la conosco nemmeno!”
“La conosca. Cominci col chiederle l’amicizia su Facebook.  Grazia è appassionata d’arte contemporanea e la settimana prossima ci sarà un vernissage di Sarfatti, il famoso pittore. Lo conosce?”
“No.”
“A questo si può rimediare. In ogni caso, le suggerisco di cogliere al balzo l’occasione della mostra per incontrarla.”
“Ammettiamo, in via del tutto ipotetica, che mi inviti a casa sua: se non so dove tiene la testa come faccio a prenderla?”
“Vive in un appartamento, mica nella reggia di Versailles.”
“Ha un garage?”
“Sì.”
“E se l’avesse nascosta lì?”
“Lo escludo nel modo più categorico. Sono sicura che la tiene in casa. Erano amanti, vorrà averla vicino a sé.”
“Scusi ma la testa dove sta, materialmente?”
“In un contenitore di vetro, immersa in una soluzione acquosa di formaldeide. ”
“E dove la infilo, in un trolley?”
“Bravo, finalmente una buona idea.”
“E secondo lei quella non si insospettisce a vedermi arrivare con un trolley?”
“Che motivo avrebbe d’insospettirsi? Lei dica che dovrà poi recarsi in stazione.”
“Non riuscirò mai a impadronirmi della testa senza che mi scopra.”
“Se la porti a letto.”
“La testa?”
“No, Grazia! E quando si è addormentata…”
Sonia si alzò, aprì il mobile alle sue spalle e ne tirò fuori una scatola.
“Sostituirà la testa di mio marito con questa copia in cera.”
La scatola conteneva una perfetta riproduzione della testa del defunto.
“Dunque, mi faccia capire: tolgo la testa di Alberto dalla boccia di vetro e la ripongo in quest’altra, prendo la testa finta e la metto al posto di quella vera.”
“Stia attento a non fare confusione però!”
“Beh ma non saranno mica del tutto uguali.”
“Certo che no ma sa com’è, l’emozione può giocare brutti scherzi.”
“La sta facendo troppo facile. Grazia viene a letto con me e poi cade in un sonno tanto profondo da non accorgersi che sto trafficando in salotto con la testa del suo ex amante?”
“Non è necessario che venga a letto con lei: è sufficiente che lei la narcotizzi.”
“In che modo?”
 “Le darò tutto l’occorrente, non si preoccupi. Basterà che  versi nel suo bicchiere qualche goccia del mio elisir e la stronza si addormenterà come un angioletto.”
“Ragioniamo: quella si sveglia intontita a distanza di ore e secondo lei non s’insospettisce?”
“Sospetti ciò che vuole.”
“Eh no! Ci devo entrare io, in quella casa, non voglio guai.”
“Si faccia trovare in casa al suo risveglio e non sospetterà nulla.”
“Se dorme dodici ore di fila?”
“Non accadrà: cinque gocce del mio preparato la faranno assopire. Dopo un pisolino di un’oretta o due, si sveglierà. Lei avrà tutto il tempo di sistemare la faccenda della testa senza che Grazia si accorga di nulla.”
“Non sarà così immediato rimediare un invito.”
“Sono certa che ci riuscirà.”

Non essendo un esperto di arte contemporanea, appena tornato a casa mi documentai su Sarfatti tramite Internet. Sbirciai la pagina Facebook della tizia: stranamente, non vi trovai selfie ammiccanti. Era tutto un susseguirsi di dipinti astratti, foto in bianco e nero di impianti industriali dismessi. Una bella donna che non amava apparire: cosa alquanto insolita. Le inviai una richiesta d’amicizia e seguitai a curiosare sulla sua bacheca.
Stavo per staccarmi dal pc quando vidi lampeggiare una notifica. Aveva accettato. Le inviai un messaggio tramite Messenger:
“Grazie e buona giornata.”
La risposta non tardò ad arrivare.
“Se mi mandi una foto del tuo cazzo ti cancello all’istante. Sono stufa di ricevere cazzi.”
Mi misi a ridere a crepapelle.
La signora pareva non prestare troppa attenzione al significato delle proprie affermazioni.
“Le assicuro che non è mia intenzione. Ho visto la sua pagina, mi sono piaciute le immagini che ha pubblicato. Tutto qui.”
“Ah, bene. Possiamo anche darci del tu, non ho mica ottant’anni. Ti interessi di arte? Dalla tua pagina non sembrerebbe. Vedo più che altro link musicali.”
“Amo la musica ma anche la pittura e la fotografia.”
“Chi ama troppe cose non ne ama seriamente nessuna.”
“Mica vero: a me ad esempio piace il risotto con i funghi. Amo seriamente il riso e i funghi.”
Un emoji sorridente comparve ad indicare un’attenuazione del gelo.
“Ti piacciono i gruppi prog italiani anni Settanta?”
“Sì.”
“Piacciono anche a me.”
“Davvero?”
“Sì. E’ per questo che ho accettato la tua richiesta.”
“Allora abbiamo qualcosa in comune.”
“Quello e il risotto ai funghi.”
La temperatura di scioglimento dei ghiacci poteva dirsi raggiunta.
La salutai augurandole buon pranzo.

“Dio Gianni!”, l’imprecazione del portiere risuonò come un tuono nell’androne del palazzo, “Chi è il bastardo che viene a cagare sempre davanti al cancello? Se lo becco giuro che lo inculo col manico del badile!”
“Sandro, ci risiamo?”
“Sì, e come se non bastasse la merda che mi tocca raschiare dal marciapiede, devo sorbirmi pure le menate della sciura Santina che mi lisa i coglioni, come se fossi stato io a cagare qua davanti!”
“Senza una telecamera ‘sta storia non finisce più.”
“Non serve la telecamera: ci penso io, vedrà! Prima o  poi lo becco e lo sdereno!”
Notai con sgomento che, nel pronunciare queste parole, il portiere era in preda a una vistosa erezione. Mi allontanai in fretta.

“Faccio saltuariamente uso di eroina. La cosa ti disturba?”
Gli occhi verdi di Grazia mi fissavano con un’intensità difficile da sostenere.
“Per niente”, risposi.
“Meglio così.”
Sedevo nella saletta del suo appartamento da neanche un quarto d’ora ed eravamo già a questo punto. Avevo spuntato un invito a casa sua senza passare per l’inaugurazione, cosa di cui ero felicissimo, visto che di Sarfatti non mi importava un accidente.
“Tu fai uso di sostanze?”
“No.”
“Bevi?”
“Non granché. Soffro di bruciori di stomaco e devo moderarmi.”
“Un perfettino, insomma.”
“Non direi proprio.”
“E dov’è che vai di bello in treno?”
“A Bordighera.”
“A far che?”
“Mi ha invitato un amico.”
“Quindi sei omosessuale.”
La guardai sbigottito.
“Veramente no. Ma poi perché, scusa?”
“Riassumiamo: hai cinquant’anni, sei scapolo e non ti sei mai sposato, vai al mare a casa di un amico, quindi sei gay.”
“Ma è una conclusione del tutto arbitraria!”
“Mica tanto, mi sono limitata a constatare i fatti.”
“Non sono gay.”
“Va bene, come preferisci. Senti, io vado a fare una doccia, tu mettiti pure comodo, fa’ come se fossi a casa tua, basta che non ti masturbi sul divano.”
Stavo per mandarla a cagare ma mi trattenni: avevo una missione da compiere e questa storia della doccia cadeva a puntino.
Non appena si tolse di torno mi misi a perlustrare l’appartamento: con mia sorpresa la testa stava in un’anta dell’armadio in saletta! Sono sempre stato un imbranato totale, eppure in quell’occasione riuscii a stupire me stesso: effettuai la sostituzione con precisione e sveltezza.
Grazia riapparve dopo una decina di minuti, indossando un accappatoio verde.
“Scusa ma mi sono ricordata che ho un impegno alle cinque.”
“Nessun problema. Tanti saluti.”
Le rivolsi un sorriso che avrebbe destato invidia in Giuda Iscariota, strinsi saldamente le maniglie del trolley e mi tolsi di torno. Una volta per strada mi misi a fischiettare.
Fermai un taxi: dieci minuti dopo ero a casa.
La chiamata di Sonia non si fece attendere.
“Allora?”
“Sistemato.”
“Davvero?”
“Certo.”
“Grande. Ti posso raggiungere?”
“Ok.”

Quando scese dall’automobile, credetti di vedere l’assassina del film Profondo rosso: stesso abbigliamento, stesso taglio di capelli. Solo più giovane di Clara Calamai.
“Come ci sei riuscito?”
“E’ stato più semplice del previsto. Davvero non credevo che me la sarei cavata così in fretta e così facilmente.”
“E lei che impressione ti ha fatto?”
“Lasciamo perdere che è meglio. Solo mi domando: e se si accorge della sostituzione?”
“Lo escludo: ho fatto un lavoro sopraffino. Piuttosto, sa dove abiti?”
“No.”
“L’hai cancellata dai tuoi contatti?”
“Sì sì, bloccata su Facebook, Messenger, Whatsapp. Non mi becca più.”
“Sono in debito con te. D’ora in avanti, se tu dovessi avere problemi – che so io, un cadavere da occultare o roba del genere – non esitare a chiamarmi.”
“Spero di non trovare altre mummie in cantina!”
“Non mi riferivo a quello. Intendevo dire: se tu avessi necessità di smaltire un cadavere a seguito di un diverbio…”
“Ahhh… No, non penso, comunque grazie.”
“Non si può mai dire, credimi. Ad esempio, tu sei una persona pacata, un uomo tranquillo, eppure ti sei introdotto nella casa di una sconosciuta e le hai sottratto un ‘oggetto’. Non si può escludere che, un domani, tu commetta un omicidio.”
“Ma non penso proprio!”
“Nel caso, sappi che io posso fornirti il nécessaire.”
“Tipo?”
“Veleno, armi…”
“Addirittura?”
“Certo. Ma soprattutto, ti ripeto, io so come far sparire un cadavere."
“Ti ringrazio, spero comunque di non aver mai bisogno.”
“Senti, io mi riprendo la testa di mio marito e me ne torno a casa. Allora, ricordati: in caso di necessità, non esitare.”
“Va bene.”
Dopo che se ne fu andata, mi versai un bicchiere di whisky e mi misi a riflettere sulla sua proposta. In effetti, qualcuno c’era che avrei fatto fuori volentieri. All’occorrenza.

Pietro Ferrari, novembre 2019

lunedì 28 ottobre 2019


LO SPIONE 

Titolo originale: Le Doulos
Anno: 1962
Paese: Francia, Italia
Lingua originale: Francese
Durata: 109 min
Colore: Bianco e nero
Rapporto: 2,35 : 1
Genere: Noir, poliziesco
Regia: Jean-Pierre Melville
Soggetto: Pierre Lesou (romanzo)
Sceneggiatura: Jean-Pierre Melville
Produttore: Carlo Ponti, Georges de Beauregard
Direttore della produzione: Jean-Pierre Melville
Pubblicità della produzione: Bertrand Tavernier
Casa di produzione: Studio Canal, Rome-Paris-Films
Distribuzione in italiano: Cecchi Gori Home Video
Fotografia: Nicolas Hayer
Fotografo di scena: Raymond Voinquel
Montaggio: Monique Bonnot,
      con l'assistenza di Michèle Boëhm
Operatore: Henri Tiquet,
     con l'assistenza di André Dubreuil ed Etienne Rosenfeld
Musiche: Paul Misraki,
      con la collaborazione di Jacques Loussier (piano bar)
Direttore di orchestra: Jacques Météhen
Fonico: Julien Coutelier,
     con l'assistenza di Jean Gaudelet e Victor Revelli
Scenografia: Pierre Charron
Costumi: Daniel Guéret,
      con l'assistenza di Donald Cardwell
Gioielli: René Longuet
Interpreti e personaggi:
    Jean-Paul Belmondo: Silien
    Serge Reggiani: Maurice Faugel
    Jean Desailly: Commissario Clain
    René Lefèvre: Gilbert Varnove
    Marcel Cuvelier: Il primo ispettore
    Jacques Léonard: Il secondo ispettore
    Philippe March: Jean, l'amico di Faugel
    Monique Hennessy: Thérèse, la ragazza di Faugel
    Philippe Nahon: Rémy
    Fabienne Dali: Fabienne, la ragazza di Silien
    Christian Lude: Il medico
    Paulette Breil: La moglie di Jean
    Daniel Crohem: Ispettore Salignari
    Michel Piccoli: Lushenco, proprietario del Cotton Club
    Charles Bouillaud: Il barista del Cotton Club
    Robert Blome: Un barista
    Georges Sellier: Un barista
    Charles Bayard: Il vecchio guardiano della villetta
    Carl Studer: Kern, l'uomo conosciuto da Faugel in carcere
    Jacques De Leon: Armand, proprietario del Cotton Club
    Volker Schlöndorff: Un uomo nel bar
    Dominique Zardi: Un picciotto di Lushenco
Doppiatori italiani:
    Renato Cominetti: Silien
    Ubaldo Lay: Maurice Faugel
    Sergio Rossi: Commissario Clain
    Mirella Pace: Thérèse, la ragazza di Faugel
    Aldo Silvani: Il medico
    Marisa Fabbri: La moglie di Jean
Titoli tradotti:  
    Tedesco: Der Teufel mit der weißen Weste (lett. Il diavolo
          col gilet bianco)

    Spagnolo: El confidente
    Catalano: El confident
    Inglese: The Finger Man (titolo usato per l'uscita in sala;
         per le uscite in video e DVD fu mantenuto il titolo in 
         francese)
    Russo: Стукач
    Polacco: Szpicel
    Greco (moderno): Ο Χαφιές
Date di uscita:
    13 dicembre 1962 (Italia)
    8 febbraio 1963 (Francia)


Trama:
Siamo in una Parigi spettrale. Dopo quattro anni di carcere per rapina, Maurice Faugel torna in libertà. Si reca subito dal ricettatore Gilbert Varnove, un vecchio amico (se così si può dire) verso cui cova un odio feroce quanto segreto. Mentre Varnove sta valutando una gran quantità di gioielli, proventi di un colpo in una gioielleria, ecco che Faugel si impossessa della sua pistola e lo uccide. Aveva con lui un conto in sospeso. La cosa desta un certo sconcerto nello spettatore: non emerge mai alcun cenno di ostilità da parte di Varnove nei confronti del suo carnefice, anzi, si notano solo segni di generosità, come l'offerta di ospitalità e di un pasto a base di stufato. Nella vittima non c'è il benché minimo segno di consapevolezza di quanto sta per accadere. Faugel prende la pistola dell'esecuzione proprio dal cassetto indicatogli dall'uomo destinato a morire pochi istanti dopo, farcito di piombo. Ogni azione dell'assassino è dettata da una determinazione glaciale. Uscito dalla casa di Varnove prima che possano giungere visitatori importuni, il malvivente riesce a seppellire i gioielli e l'arma del delitto nei pressi di un lampione, quindi si allontana nella notte che sembra eterna. Giunto nella propria casa, dove convive con la bionda e sensuale Thérèse, Faugel riceve la visita di altri esponenti del microcosmo criminale. Prima giunge il suo vecchio e fidato amico Jean, poi l'ambiguo quanto elegante Silien. I tre parlano dei dettagli tecnici per una rapina in una villa isolata nel sobborgo di Neuilly, abitata soltanto da un vecchio custode e sede di un'ambita cassaforte. Appena uscito, Silien usa un telefono pubblico per contattare l'ispettore Salignari. Più tardi Faugel lascia l'appartamento per andare a compiere il colpo assieme all'amico Rémy. A questo punto Silien torna da Thérèse e la percuote selvaggiamente, la lega a un calorifero e infierisce su di lei, costringendola così a rivelargli l'indirizzo della villa ove è in atto la rapina. Mentre Faugel e Rémy sono alla villa di Neuilly, dove hanno preso in ostaggio il custode, i poliziotti piombano loro addosso: c'è stata una soffiata. Durante la precipitosa fuga Rémy viene colpito a morte da Salignari, che a sua volta è abbattuto sul colpo da Faugel con un proiettile nel cuore. Ferito a sua volta nello scontro a fuoco, Faugel riesce a far perdere le sue tracce, finendo privo di sensi in un vicolo buio. Quando si risveglia, scopre di essere in un letto: è a casa di un dottore fidato, da cui è stato portato dalla moglie di Jean in seguito a una telefonata. Il medico estrae la pallottola dalla spalla ferita e consiglia all'uomo di riposare, ma questi decide di andarsene non appena ha recuperato un po' le forze. Prima di uscire, il gangster disegna di suo pugno una mappa in cui mostra dove ha sepolto la refurtiva sottratta al defunto Varnove, quindi dà istruzioni alla donna di consegnare quella rozza opera d'arte a Jean e di non farla vedere a nessun altro. Un odio cieco e assoluto lo anima, pervadendo ogni fibra del suo essere. La sua misera e violenta esistenza ha adesso un unico fine: riuscire a trovare il traditore e ucciderlo. Naturalmente i suoi sospetti cadono su Silien. Nel frattempo il commissario Clain, succeduto a Salignari, torchia il bellimbusto, pressandolo affinché collabori nella cattura del fuggitivo Faugel, ormai sospettato di essere proprio l'assassimo di Varnove. Ciò che preme ai poliziotti è proprio recuperare la refurtiva. Data la sua astuzia, Silien trova il modo di non affondare nella melma. Subito si affanna a telefonare a un gran numero di squallidi bar dove il ricercato potrebbe trovarsi, riuscendo così a gettare fumo negli occhi ai poliziotti, che non brillano certo per acume. Fatto questo, piomba nel Cotton Club, il locale di Armand, dove incontra la sua fiamma, la bellissima Fabienne, che desidera ancora in modo lancinante. L'ostacolo che deve rimuovere non è di poco conto, dato che la donna è una puttana al servizio del gangster-pappone Lushenco, l'autore del colpo alla gioielleria il cui bottino, finito a Varnove, è stato poi sottratto e inumato da Faugel. Nel frattempo Faugel cade nelle mani degli agenti del commissario Clain e finisce rinchiuso in cella, dove conosce un energumeno di nome Kern, che gli promette aiuto contro il delatore. Silien escogita uno stratagemma degno di Odisseo. Dopo aver recuperato il tesoro sepolto accanto al lampione, si introduce nella casa di Lushenco e con la complicità di Fabienne lo attira lì. Quando il tristo figuro è giunto davanti a lui, prima gli mostra la refurtiva sul tavolo, poi lo fulmina con una pistolettata. Subito dopo arriva anche Armand, che in breve finisce stecchito allo stesso modo. Silien lascia la cassaforte aperta per far credere che i due si siano uccisi a vicenda nel corso di un regolamento di conti, ma porta con sé i gioielli. L'inganno va a buon fine, i poliziotti ci cascano e liberano Faugel, che è così stremato da essere facilmente circuibile. Silien lo incontra e gli racconta una bella fiaba. Gli fa credere che la bionda Thérèse fosse una spia infiltrata nel mondo malavitoso da Salignari e che era stata proprio lei ad informare l'ispettore della rapina alla villa a Neuilly. Stando al suo mendace resoconto, sarebbe stata lei la spia. Fatto sta che Jean ha tramortito la donna, caricandola di peso su un'auto spinta in una cava e fatta precipitare in una voragine. Con queste parole Silien convince appieno Faugel, a cui consegna l'intera refurtiva. Faugel, che ormai lo vede come un angelo, si sente in colpa e capisce che deve fermare Kern, il sicario dalle mani stritolatrici come macine, prima che sia troppo tardi. In una giornata cupa, piovosa e cenerognola, Faugel si reca nella casa lussuosa che Silien si è fatto costruire a Ponthierry. Kern, che è lì nascosto in agguato, lo scambia per lo spione e gli spara, infliggendogli una ferita mortale. Silien arriva e riesce a uccidere l'energumeno, ma viene a sua volta colpito da un proiettile nella schiena. Prima di spirare fa appena in tempo a raggiungere il telefono e ad avvisare Fabienne che non potrà raggiungerla per cena. La narrazione termina così, con l'eliminazione di tutti i protagonisti, mentre cade una pioggia battente che sembra non dovere avere mai fine.


Recensione: 
Questo film di una complessità sorprendente, capolavoro assoluto del noir, è un vero e proprio trattato di gangsterologia. Se storcete il naso di fronte al neologismo da me usato, sappiate che la gangsterologia è la scienza esatta che studia i malviventi noti come gangster, riducendo a leggi razionali e deterministiche il loro agire. Potrebbe anche essere considerata un ramo della criminologia e più in generale dell'antropologia, ma credo che una simile definizione sarebbe un po' riduttiva. Tale è l'intensità della pellicola, che quando l'ho vista per la prima volta mi è balenata l'idea di non avere davanti ai miei occhi un semplice bianco e nero. Siamo sicuri che si tratti di un'intuizione tanto folle? Si ha l'impressione nettissima che la vicenda gangsterolica intessuta da Melville, fosca e labirintica fino all'estremo, si svolga su un pianeta solo in apparenza simile alla nostra Terra, come se ne fosse un gemello infero. Il suo sole è grigio, non giallo come il nostro. Appartiene all'Erebo. L'astro mortifero irradia solo in parte fotoni luminosi, per il resto le sue emissioni sono composte da fotoni neri, particelle chiamate Feyaden nell'antica Lingua Nera di Gavalan. Come effetto di questa natura non interamente compatibile con la fisica convenzionale, il mondo melvilliano conosce una sola sorgente significativa di luce utile agli occhi umani: le lampade a incandescenza. Ne deriva un'atmosfera opprimente, fatta di disperazione assoluta e di morte ontologica. Il Nichilismo non è una semplice idea in quell'ambiente, è una vera e propria presenza materiale, densa e greve. Sotto il Cielo del Nulla le creature non sperimentano la vita come noi la conosciamo. La loro condizione può solo essere chiamata "Morte in Vita" o "Vita nella Morte". Tutto ciò che esiste è immerso nell'Etere dell'Abisso. Spira un vento occulto e demoniaco dalle sorgenti stesse del Non Essere, una corrente gelida che pervade ogni cosa e offende ogni organo di senso. Quella che il regista disegna nei minimi dettagli è una vera e propria Francia incubica. Come H. P. Lovecraft ha evocato un New England incubico infestato dalla presenza di abominazioni senza nome e dai Grandi Antichi, così Melville è il demiurgo di questa desolazione francese noir in cui la coscienza dei senzienti si disgregra, muore ogni istante in eterno. Già all'inizio della pellicola vediamo sequenze molto significative. Faugel percorre un lungo passaggio che costeggia una linea ferroviaria in una periferia degradata. Tutto è fatiscente. La ringhiera di ferro battuto del tunnel sembra infinita. Le travi bullonate del soffitto, fatte dello stesso scuro metallo, paiono resti di antiche architetture ciclopiche, messe in posa quando Cthulhu ancora si aggirava a R'lyeh. Ogni blocco di pietra che compone il muro è una tomba in cui l'anima si decompone senza poter mai raggiungere la pace dell'Estinzione. Intorno alla ferrovia si estende una sterile landa di pietrisco, in cui non cresce nemmeno un filo d'erba, dove non potrebbe allignare nemmeno una blatta. Quando Faugel scava a mani nude nel terriccio per seppellivi il tesoro e la pistola con cui ha freddato Varnove, sembra di avere davanti agli occhi la natura di ciò che è stato fatto senza il Verbo. I fiochi fotoni generati dal vicino lampione si perdono in una tenebra compatta che li divora. Non siamo di fronte a una banale assenza di luce, bensì a qualcosa di dotato di una propria essenza oscura e aggressiva. Tale è l'annichilimento nel contemplare questi paesaggi funesti che non possiamo credere all'esistenza di una sola particella di Bene e di Luce in quel deserto di orrore assoluto! Sì, siamo di fronte alla definizione stessa di Inferno.


Etimologia di doulos 

In francese gergale la parola doulos significa "cappello" (per l'esattezza indica il képi, tipico copricapo dei gendarmi), ma anche "informatore della polizia", "spione". Secondo alcuni lo slittamento semantico da "cappello" a "informatore, talpa" sarebbe derivato dal costume degli spioni di riconoscersi dall'indumento in questione. Formulata in questi termini, una simile spiegazione è fallace e abbastanza stupida: se esistesse un copricapo tipico dei delatori, questo li renderebbe riconoscibili all'istante, cosa che ovviamente tali elementi non vogliono affatto. La pronuncia del vocabolo è /du'los/: la -s finale non è muta. Si tratta di un termine dell'argot usato dai criminali e dai poliziotti, in cui le parole con un suffisso -os non sono rare.

La stessa Wikipedia in francese menziona Melville nella pagina dedicata al lemma (il grassetto è mio): 

Plus tard, ce sera un feutre, un doulos, comme on dit dans les films de Melville, et je le vois le repousser en arrière, presque sur sa nuque, quand il est à la synagogue, ou le rajuster en avant, sur ses yeux, quand il sort de la maison pour aller faire ses visites.
(Martin Winckler, Plumes d'Ange, 2003)

L'etimologia è in ultima analisi abbastanza incerta. C'è chi vuol far derivare questa parola dal greco δοῦλος (doulos), che però significa "servo, schiavo": lo slittamento semantico non sarebbe razionale e credibile, a meno che il senso di "informatore, spione" non sia quello originale. Si avrebbe pertanto un passaggio da "servo" a "individuo servile", quindi a "informatore della polizia". Il punto è che il senso originale della parola è quello di "cappello". Una simile proposta etimologica è pertanto da rigettare senza indugio, anche se in Francia gode di un certo plauso da parte degli studiosi (ad esempio, è riportata nel dizionario di Wikipedia come se fosse un dato di fatto). Sono più incline a ritenere che doulos sia un derivato di douil "piccola tinozza da vendemmia", a sua volta dal latino dōlium "giara, orcio, barile, fusto". Questa è la catena di slittamenti semantici più verosimile:

"tinozza" => "képi" => "amico di chi porta il képi" => "uomo che fraternizza con la polizia" => "informatore, spione".

Certo, sarebbe stato più semplice e naturale se dal significato di "képi" si fosse evoluto direttamente quello di "gendarme", ma non sempre la lessicologia gangsterologica segue percorsi lineari. Il colmo del paradosso è che nel mondo di Melville il képi non lo porta nessuno: i costumi, sia dei poliziotti che dei gangster, sono completamente americani, fin nel più insignificante dettaglio (solo per fare un esempio, si beve whisky anziché l'acquavite nazionale francese, il cognac).


Il diavolo dal gilet bianco

Il titolo in tedesco è davvero singolare: Der Teufel mit der weißen Weste, ossia "Il diavolo col gilet bianco". Una scelta simile secondo me non può essere casuale. Trovo anzi che sia densissima di significati. Non bisogna lasciarsi ingannare da Silien, che è un maestro dell'ipnotismo. Quando racconta a Faugel come gli eventi si sarebbero svolti, cercando di allontanare da sé ogni possibile sospetto di tradimento, in realtà mente in modo spudorato. L'ingenuo Faugel finisce incantato, intontito come una vipera satolla di latte e rallentata dai processi di digestione fino a non potersi muovere. Innanzitutto Faugel avrebbe dovuto rendersi conto, stante il rigido codice dei malviventi, che l'amicizia tra Silien e l'ispettore Salignari era qualcosa di altamente sospetto. Non si può tralasciare il fatto che Silien menziona spesso l'affetto che lo legava a Salignari, tanto da chiamarlo col vezzeggiativo Sali. Non ho ben capito se i due fossero amici d'infanzia. Non si può nemmeno scartare a priori l'idea che tra loro ci fossero rapporti carnali sodomitici. In ogni caso si capisce che Silien si è compromesso con le sue stesse parole. Già solo per questo, Faugel non avrebbe dovuto dargli ascolto. Non si tratta di un dettaglio di poco conto, visto che per le leggi che governano la gangsterologia, il solo sentimento che un malvivente può provare nei confronti di un poliziotto è l'odio. Un odio assoluto e fiero, che impedisce qualsiasi tipo di contatto. C'è anche un'altra questione che reputo importante: non dobbiamo dimenticarci che Silien tratta Thérèse con inaudita brutalità, massacrandola, e tutto questo scempio non certo per punirla in quanto spia messa lì dal carissimo amico Salignari. Assolutamente no! Silien riduce Thérèse a un cencio sanguinolento per estorcerle un'informazione cruciale e lo fa proprio perché questa informazione serve a Salignari, pronto a calare come un rapace - e con grande subitaneità - sulla villa dove stanno Faugel e il suo compare stanno iniziando ad armeggiare con la cassaforte. Il sadismo mostrato da Silien contro Thérèse è qualcosa di inaudito e di inesplicabile. E se l'avesse punita per aver osato mettersi tra lui e Salignari? Soltanto la relazione intrattenuta dall'elegantissimo gangster con Fabienne mi rende difficile pensare che a muoverlo sia un odio assoluto verso il genere femminile - a meno che non coltivasse Fabienne per mero opportunismo. Se fosse così, potremmo pensare che si trattasse di un omosessuale virile, violento e sadico nei confronti delle donne. Personalità simili un tempo dovevano essere frequenti, soprattutto in ambienti militari... e nei bassifondi, nelle carceri. Erano oggetto di odio e di paura, ma esistevano. Al giorno d'oggi non se ne può neppure parlare, perché altrimenti insorge la setta dei buonisti politically correct, con la sua ideologia che vorrebbe ridurre tutti gli uomini che compiono atti sodomitici a creature femminili in un corpo maschile. Può darsi che questa mia ipotesi sia cervellotica e vana. So che molti insorgeranno all'idea di Salignari intento a ciucciare l'uccello a Silien e ad accoglierlo tra le chiappe. Ragazzi, vi capisco. Le mie elucubrazioni potrebbero essere insensate e senza riscontri con ciò che Melville intendeva, lo ammetto. Forse nemmeno il regista aveva chiaro tutto questo. Forse si è limitato a evocare qualcosa. A questo punto non lo sapremo mai. Dubito che possa esserci di grande aiuto il romanzo che ha fornito il soggetto: di certe cose negli anni '3o non si poteva parlare, né tantomeno scrivere. Possiamo trarre soltanto una conclusione certa, al di là di ogni dubbio: il diavolo col gilet bianco è un individuo stravagante che non rivela i suoi segreti allo spettatore, è destinato a portarsi nella tomba la sua natura contraddittoria e magmatica.


La gangsterosfera: ecosistemi e gradienti

Come accennato, la gangsterologia si fonda su pochi princìpi, che tuttavia sono ferrei. Uno di questi consiste nel comminare la morte a chiunque violi il codice d'onore, feroce, tribale e non scritto. C'è un solo modo per evitare una simile spietata condanna, che si abbatte sui delatori e credo anche sui pederasti: essere tanto intelligenti da far sì che nessuno si accorga che il codice stesso è stato violato. Se un uomo compie un'azione definita infame, deve anche avere la capacità di nasconderne ogni traccia. Silien è un esperto conoscitore della natura altamente entropica dell'ambiente in cui si trova immerso e sa bene come aggirare qualsiasi minaccia alla propria incolumità. O almeno crede di saperlo: alla fine lo tradisce la sicumera. Sa bene che per trarre profitto da un'esistenza così precaria bisogna sapersi giostrare in un luogo turbolento che può comunque dare anche qualche vantaggio di non poco conto. Basta capire come sfruttare i gradenti tra microcosmi confinanti che interagiscono di continuo. Possiamo dire che Silien è un prodotto delle forze evolutive descritte da Charles Darwin: ha compreso come adattarsi e aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza in un mondo ostile. Vediamo di spiegare tutto ciò in termini molto concreti. Nel milieu del crimine descritto dal film di Melville esiste una forma di mutua solidarietà contro il nemico comune, le forze dell'ordine. Al contempo, ogni singolo gangster è essenzialmente solo ed è soggetto a una spietata concorrenza da parte dei suoi simili. Tensioni anche insanabili possono essere provocate in ogni momento per i più disparati motivi, come un inganno, la scoperta di un tradimento, una vendetta e via discorrendo. Nell'ecosistema gangsterologico nessuno è insostituibile. Quando un malavitoso viene ucciso, subito ne sorge un altro a prenderne il posto. Non sembra esserci spazio per realtà davvero organizzate e gerarchiche, come quelle oggi tristemente famose: nella massima parte dei casi i vincoli sono labili, è come se ognuno fosse un cane sciolto. Non si trova nemmeno traccia di elementi esoterici come cerimonie d'iniziazione con cappucci neri e santini bruciati. Silien è più furbo degli altri, sa come difendere la propria nicchia ecologica. Si assicura un vantaggio evoluzionistico ed adattivo eliminando i gangster concorrenti tramite la delazione, di cui è maestro, rendendo impossibile la determinazione della verità. La sua relazione omoerotica con Salignari (Sali nell'intimità) gli rende possibile compiere quest'opera con la massima efficienza. Salignari gli para il culo (non glielo rompe di certo, essendo passivo): lo protegge dagli agenti e da altri investigatori, gli permette di accumulare refurtiva e di non incappare in controlli e ispezioni. In cambio, Silien fornisce al suo amico poliziotto informazioni in grado di risolvere casi e quindi di aumentarne la posizione e il prestigio. Senza il gradiente tra la gangsterosfera e la società poliziesca, Silien non sarebbe nulla, avrebbe meno opportunità di conservazione e di arricchimento. Il suo sogno è la fuga dai bassifondi da incubo, dagli angiporti caliginosi dove le creature camminano come morti viventi. Vorrebbe rifugiarsi nella sua villa a Ponthierry, che è in qualche modo il frutto della sua relazione con Salignari. Un'evasione che si rivela impossibile: quando uno porta su di sé il marchio di una maledizione, non riuscirà mai a riscattarsi. Melville non permette allo spettatore facili idealismi e stereotipi. Esiste soltanto il Male. Si ha l'impressione che ci sia ben poca differenza tra i gendarmi e i furfanti, visto che hanno in comune la natura brutale. Uno degli agenti del commissario Clain sembra un gorilla. Potrebbe benissimo essere lui stesso un gangster. Probabilmente non è diventato un criminale soltanto per mancanza di iniziativa, perché troppo attratto da una paga sicura, seppur modesta.

L'enigma di Nuttheccio

Quando ho visto il film, mi sono subito reso conto che uno dei gangster ha un cognome ucraino: Lushenco. Non è difficile individuare nella terminazione -enko una caratteristica di molti cognomi ucraini. Aveva un cognome di questa origine anche il famoso scrittore di noir Giorgio Scerbanenco (nato Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko). Eppure in alcune versioni di Wikipedia, e tra queste quella in francese, al posto di Lushenco si riporta un cognome (o è un soprannome?) scritto in modo del tutto diverso e neppure troppo assonante: Nuttheccio (a volte ricorre la variante Nutheccio). Francamente non so dire granché di questo Nuttheccio. Non mi è neppure chiaro come si debba pronunciare, per non parlare dell'etimologia. Ancor più difficile è comprendere per quale assurda ragione sia stato possibile rendere Nuttheccio con Lushenco nella versione del film in italiano, visto che la fonetica sembra abbastanza dissimile. Troviamo Nuttheccio non soltanto nella Wikipedia in inglese e in quella in francese, ma anche in svariati siti con recensioni. Questo è un estratto da un articolo in inglese, intitolato Belmondo and Melville, che menziona il nome del gangster:


"Piccoli has a bluff everyman demeanor; he looks older than his years, and he brilliantly shows how Nutheccio’s mask of coolness soon slips in the presence of Silien, of whom he is afraid. By contrast, even when Silien is himself endangered later on, at his lowest ebb he maintains his cool, not even breaking sweat while injured by a gun."

Come si vede, questo enigmatico Nuttheccio non è una mia invenzione e non si deve a un mio fraintendimento. Ero convinto che fosse un parto dell'ingegno di Melville, le cui motivazioni ultime sembrano destinate a sfuggire per sempre. Invece ho constatato che  Nuttheccio è già presente nel romanzo di Pierre Lesou, di cui il film è un adattamento. Il che non porta lumi sulla sua origine ultima. Il mistero si infittisce se pensiamo che tutte le menzioni del bizzarrissimo antroponimo reperibili in Google sono relative proprio al film Le Doulos. Sembra che in concreto nessuno si sia mai chiamato Nuttheccio in tutta la storia di questo pianeta. Sarò sempre grato a chiunque mi porterà informazioni in grado di far luce sulla questione, anche se ho il sospetto che non accadrà mai. Per capire un po' meglio la pronuncia ci possono venire in aiuto le trascrizioni riportate nelle varie sezioni di Wikipedia. In russo abbiamo Нуттеччо, che lascia presupporre una pronuncia italiana, quasi fosse la deformazione di un ipocoristico Nuccio, pur non potendo spiegare l'inserimento di una sillaba mediana -te-. Le trascrizioni in caratteri cirillici, ricordiamocelo, sono ammirevoli per la loro precisione fonetica. In greco abbiamo invece Νουτέτσιο, come se la pronuncia originale fosse Nuttezzio. La trascrizione della vocale -u- è un'ulteriore prova che si deve pronunciare come in italiano, non come in francese. Un rompicapo. Mi spiace, non riesco a trovare il bandolo della matassa, getto la spugna. Una domanda mi angoscia. Cosa si era fumato Lesou? 


Salignari: un cognome misterioso

Stranamente non sono riuscito a trovare nel vasto Web quasi nessuna traccia del cognome Salignari, a parte le sue numerose menzioni in testi collegati con il film di Melville. All'inizio avevo pensato che si potesse trattare di un cognome còrso. È risaputo che la Francia è stata molto generosa con le genti della Corsica, distribuendo loro un immenso numero di posti nelle gerarchie poliziesche. Non stupirebbe quindi se l'ispettore Salignari fosse originario proprio dell'isola. Eppure del suo cognome non si trova traccia alcuna. Non sono riuscito nemmeno a reperire qualche variante a cui il nostro Salignari possa essere ricondotto. Nel sito GENS (www.gens.info/italia/, un tempo noto come Gens Labo) non si trova traccia né di Salignari né di Salignaro. Non sono riuscito a trovare nulla nemmeno in siti di ricerca di cognomi della Francia. L'unica menzione è in un sito genealogico, Ancestry (www.ancestry.com), in cui ho trovato che un certo Gasper James Samuel Murphy, australiano, avrebbe avuto come moglie Seraphine Veronica Salignari.  Si deve convenire che l'etimologia del cognome non è affatto immediata. In latino esistono i due aggettivi (verosimilmente dotti) SALIGNUS e SALIGNEUS, entrambi tradicubili con "di salice, di vimini", derivati da salix "salice; verga di salice" (gen. salicis, acc. salicem, da cui l'italiano salice, salce). Immagino che proprio da SALIGNUS si sia formato SALIGNĀRIUS, che a quanto apprendo nelle mie ricerche è realmente attestato in Spagna. Nella Gallia Narbonense esisteva un luogo chiamato SALIGNARO o SALIGNANELLO (indeclin.), citato in diversi documenti. "In pago Nemausense, in suburbio de castro Mormelico, villa Salignaro seu Salignanello, in ipsas villas totam quartam partem ab integritate" (815 d.C., vedi Provost, 1999). Sembra che sia il borgo oggi chiamato Salinelles. Alla luce di quanto esposto fin qui, il significato più plausibile di Salignari dovrebbe essere pertanto "intrecciatore di vimini". Se qualche latinista mi porterà un'ipotesi migliore, sono pronto a ringraziarlo fin d'ora. Altrimenti vorrà dire che siamo di fronte a un altro mistero destinato a restare avvolto in una cappa di oscurità impenetrabile. 


Altro materiale antroponimico  

Il cognome Silien è particolarmente comune a Landenne (Provincia di Namur, Belgio), dove ci sono più di cento persone che lo portano. Stando a quanto ho potuto reperire con grande fatica nel Web, Silien è anche un nome di battesimo. Compare in un interessantissimo elenco dei nomi francesi rari:


Credo che sia dal latino SĪLIĀNUS, aggettivo formato dal nome della Gens SĪLIA e attestato nell'onomastica (es. Licinius Nerva Silianus). Foneticamente la derivazione sarebbe ineccepibile. In bretone abbiamo silien "anguilla" (pl. siliou), che mi pare poco probabile come sorgente dell'antroponimo francese. Lamento la mancanza di studi etimologici seri.

Il cognome Faugel è raro, seppur presente su un territorio abbastanza vasto: lo portano una quindicina di persone a Rocroi, nelle Ardenne, ma si trova anche a Parigi. Al momento non riesco ad avanzare alcuna ipotesi sulla sua origine. Trovo decisamente strana la terminazione -el, che nonostante l'aspetto fonetico non può provenire dal latino -ellus (il cui esito sarebbe stato -eau). A quanto ho potuto appurare, è di origine ebraica ashkenazita.

Il cognome Kern del compagno di cella di Faugel è tedesco ed è molto comune in vaste aree del mondo germanico. Deriva chiaramente dal tedesco Kern "nòcciolo". Non si può nascondere un'ipotesi alternativa. C'è qualche possibilità che l'energumeno avesse le sue radici in Bretagna, anche se non risulta molto probabile: in bretone kern significa "mucchio di pietre". E se fosse un soprannome anziché un cognome?  

Il cognome Varnove è stranissimo e non riesco a documentarlo. A prima vista si direbbe di origine celtica: la sua iniziale fa pensare al prefisso celtico ver-, di chiara origine indoeuropea e corrispondente al latino super-. Se è così, non si comprende bene la seconda parte, -nove. Esiste un toponimo simile, Vernove, che potrebbe essere germanico. Per alcuni è dall'antroponimo Berno con l'aggiunta di en hof "nella corte"; ritengo più agevole pensare che la prima parte sia bero "orso". Così Vernove "Orso nella Corte", di cui Varnove sarebbe una variante. Il ricettatore Varnove potrebbe però avere un cognome slavo, basti pensare alla parola russa ворон (voron) "corvo". Si noti che esisteva una tribù slava degli Obodriti conosciuta come Varnove.

Uno strano neologismo

Parlando della produzione di Melville, si è spesso usata la parola polar. Si tratta di un portmanteau, ossia di una parola macedonia. La derivazione è dalle parole francesi policier "poliziesco" e noir. Semplice: policier + noir => polar /po'laR/. L'ortografia è fonetica, per ovvie ragioni, non storica come quella di noir. Un ipotetico *poloir /*po'lwaR/ sarebbe senz'altro suonato male. Mi sorgono alcune perplessità. Chiaramente non tutti i polizieschi sono anche noir. Esistono innumerevoli polizieschi non noir. I gialli classici sono un esempio. Questo arrivo a capirlo. Non sono un grande esperto, tuttavia a lume di naso mi sento di dire che tutti i noir sono anche polizieschi. Quindi non si vede la necessità del termine polar, che può apparire di etimologia poco chiara ai lettori. Eppure è una parola che ha avuto uno strepitoso successo. In un sito dell'estinta piattaforma di Geocities già ne era menzionata una sintetica definizione: 


"Polar : ce mot couvre à lui seul l'entièreté de la littérature policière moderne.
Dans nos pages, nous ne retiendrons cependant que la frange noire du spectre, celle qui a remis le crime dans la rue, comme le disait si bien Raymond Chandler."

Come spesso accade, la consapevolezza dell'etimologia della parola è andata smarrita e si è addirittura ritenuto necessario dire polar noir, con osceno pleonasmo. Sarebbe infatti come dire "policier noir noir"! Ecco le meraviglie linguistiche di quest'epoca in cui le facoltà più nobili dell'essere umano sono in via di disgregazione!     

Altre recensioni e reazioni nel Web

Se si dovessero raccogliere tutte le recensioni di questo film trovate nel Web, per poi pubblicarle in un volume cartaceo, questo avrebbe proporzioni colossali e sarebbe più pesante di un blocco di basalto. Si trovano molte osservazioni interessanti, anche se purtroppo sono disperse in un oceano di banalità. Va detto che tutti sono concordi nel riconoscere la grandezza di Melville e del suo immortale capolavoro. Sono felice di non aver trovato nemmeno l'ombra di una critica, fosse anche larvata. La recensione di Davide Chiappetta, pubblicata su www.mymovies.it, è molto utile e densa di informazioni. Ne riporto alcuni estratti particolarmente significativi, a beneficio dei lettori:  


"Melville ispirandosi ai grandi registi americani, in primis John Huston, diede nuova linfa al genere gangster (di necessità virtù visto che gli ambienti francesi sono totalmente diversi da quelli americani) e in seguito i grandi registi americani (dalla New Hollywood in poi)  presero a prestito, se non copiarono, proprio il suo stile."

"Anche se 'Le Doulos' è un adattamento del romanzo di Pierre Lasou (sic) con idiomi dei classici film noir americani e toccchi esistenzialisti francesi, le sue preoccupazioni centrali, lealtà, tradimento, vendetta, paranoia e inganno, sono ugualmente portatori informativi delle sue esperienze durante la guerra (da giovane combattè nelle file della resistenza francese con il nome di battaglia di Melville in onore del poeta e scrittore americano Herman Melville), Questo film, come il successivo 'L 'Armée des Ombres' (1969), rivela la continuità tematica tra film di resistenza  (Léon Morin, prêtre) e il genere 'polar'; e il set di 'Le Doulos' ricorda molto di più la Francia occupata durante la guerra, che Parigi degli anni sessanta."