martedì 5 novembre 2019

SONIA TREMOLO

Scoprii di avere un morto in cantina mentre stavo effettuando lavori di sgombero a lungo rimandati. I tessuti erano prosciugati e rinsecchiti a tal punto che li si sarebbe detti di cartone. Emanava un puzzo tutto sommato contenuto, una via di mezzo tra la pelle di salame e la crosta di formaggio ammuffita. Telefonai subito a Danilo per chiedergli consiglio.
“Ti mando una mia conoscente. Sistema tutto lei.”
“E chi sarebbe?”
“Meno sai meglio stai. Le do il tuo numero, ciao.”
Attesi per un’ora circa, in preda a una discreta agitazione, sino a che squillò il cellulare.
“Via Dei Pini 174?”, chiese una voce femminile.
“Sì, esatto.”
“Sarò lì tra mezz’ora.”
“Quando è vicina mi faccia uno squillo, così scendo e le apro il cancello col telecomando.”
Mezz’ora dopo una station wagon faceva retromarcia nel garage sotterraneo del palazzo, posizionandosi vicino all’ingresso della mia cantina. Ne scese una quarantenne dai capelli neri con indosso un impermeabile scuro.
Il viso, benché attraente, aveva tratti duri e lo sguardo trasmetteva una certa inquietudine.
Aprì il portellone del bagagliaio e mi si parò di fronte.
“Beh? Dov’è il reperto?”
“Mi segua.”
La sconosciuta indossò una mascherina e guanti da chirurgo.
Entrati, le mostrai il cadavere, appoggiato in un angolo tra la parete e un vecchio armadio tarlato.
 “Bella mummia. Sicuro di volersene privare?”
“Non saprei che farmene.”
“Com’è che si è accorto solo ora della sua presenza?”
“Prima c’era un bordello incredibile. Abito qui da pochi mesi, i precedenti inquilini hanno lasciato una montagna di cianfrusaglie.”
 “E un cadavere. Lo avvolga ben bene in un tappeto e me lo carichi in macchina. Stia attento nel muoverlo.”
Dopo aver steso un vecchio tappeto sul pavimento della cantina, vi adagiai la mummia, la avvolsi e la collocai nel bagagliaio. 
“Quanto le devo per il suo disturbo?”
“Niente.”
“Come niente?”
“Se dico niente è niente.”
“Mi permetta almeno di pagarle le spese della benzina.”
“Un favore si ricambia con un favore. La aspetto domani a casa mia.”
“Va bene.”
Mi porse un biglietto da visita.

Sonia Tremolo
Tassidermista
Via Allan Kardec, 40

“Alle 23 esatte.”
“Ci sarò”, dissi.
“Arrivederci. Chiuda il portellone .”
Salì in macchina e partì.
Inviai un messaggio a Danilo per avvertirlo che la questione era risolta.

L’indomani mattina mi recai a far colazione al Caffè del Moro. Seduto da solo a un tavolino, vidi il mio insegnante di religione delle superiori. Gli rivolsi un cenno di saluto.
“Buongiorno don.”
“Carissimo, quanto tempo.”
“Come sta?”
“Diciamo bene, compatibilmente con l’età. E tu? Ti interessi ancora di spiritismo?”
“Non più.”
“Bravo, sta’ lontano da quelle cose. Te la ricordi quella medium, come si chiamava… Vanessa Ley.”
“Sì, me la ricordo.”
“E’ deceduta, lo sapevi?”
“No, non ne avevo idea.”
“L’hanno trovata morta in casa, a Ivrea. Viveva sola, con una torma di gatti. Quando l’hanno ritrovata, le avevano completamente scarnificato la faccia.”
“Accipicchia.”
“Avevano fame, povere bestiole.”
Rientrando a casa mi soffermai nei pressi dell’edicola. La locandina del quotidiano locale titolava: “Orrore in Oltrepò: uccide la moglie e ne divora i resti”. Era, credo, il primo caso di un delitto in famiglia sfociato in atti di cannibalismo.  Incuriosito, acquistai una copia del giornale e mi sedetti a leggerlo su una panchina poco distante.
Il cannibale era un pensionato, residente in una sperduta frazione collinare dalle parti di Broni. Dopo aver accoppato la moglie l’aveva macellata riponendo poi le “porzioni” nel congelatore. Si era tradito allorché, a una domanda dei vicini in merito allo stato di salute della moglie, aveva risposto “L’avevo sempre giudicata una donna acida ma devo ammettere che, con una spruzzatina di vino bianco, le sue costolette sono deliziose”.
Benché fosse una giornata di sole, l’aria era frizzante. Mi alzai e mi diressi verso casa. Sul marciapiede dinanzi all’ingresso del mio condominio giaceva una colossale torta di escrementi. I casi erano due: o l’aveva deposta un alano portato a spasso da un padrone sconsiderato, oppure un teppista si era divertito a defecare proprio lì, vicino al cancello.
Risuonò un grido: “Ha visto che schifo? E’ una vergogna. Stavolta i vigili mi sentono!”.
Era la signora Santina che sbraitava dalla finestra.
Schivai il cumulo di feci ed entrai. Sulla soglia di casa mi squillò il cellulare.
“Può venire ora?”
Era lei, Sonia.
“Come, adesso?”
“Sì, stasera non posso. Un imprevisto.”
“Va bene, mi dia una mezzoretta.”
“A dopo.”
Salii pensieroso le scale.
“Che vorrà da me? Ormai non posso più tirarmi indietro.”

Via Allan Kardec è una strada periferica alberata su cui si affacciano villette signorili, alcune di recente costruzione. Quella al numero 40 aveva un aspetto incredibilmente decadente: una dimora da film horror. Il giardino, invece, appariva ben curato. Scesi dalla bicicletta e suonai il campanello. Mi fu subito aperto. Percorsi i pochi metri che separavano il cancello dalla veranda bussai alla porta una, due, tre volte. Nessuno rispose. Chiamai la signora al cellulare.
“Arrivo subito.”
Nell’attesa, mi sedetti sulla panchina in veranda. Mentre me ne stavo lì ad osservare le aiuole fiorite, un bel gattone dal mantello screziato sbucò da dietro l’angolo e venne a strusciarsi sulle mie gambe.
La padrona di casa giunse finalmente ad aprire. Indossava una vestaglia in raso, nera, chiusa da una cintura.
“Grazie per essere venuto. Entri.”
Io e il gatto la seguimmo dentro casa.
Fatti pochi metri in un corridoio dalle pareti color malva, entrammo in una sala elegantemente arredata.
“Si sieda. Posso offrirle una bella tisana? E’ un infuso di mia preparazione, a base di ribes e rosa canina. Le piacerà.”
“Va bene, grazie.”
Presi posto su una poltrona e il gatto mi si accoccolò in grembo.
La sua padrona tornò reggendo un vassoio con due tazze e dei pasticcini.
“Si serva pure. Le piacciono i dolci alle mandorle?”
“Molto.”

“Immagino vorrà sapere perché l’ho convocata.”
“Effettivamente.”
“Prenda l’album sul tavolino di fronte a lei. Lo sfogli.”
L’album conteneva una serie di fotografie.
Alcune ritraevano Sonia in compagnia di un tipo dall’aria spavalda.
“Quello è mio marito”, disse, “O per meglio dire lo era.”
“E’ morto?”
“Sì. Conservo il suo cadavere nel mio laboratorio, da basso. Vuole che glielo mostri?”
“No no, non si disturbi. Magari un’altra volta.”
“Lo ha osservato bene in viso? Saprebbe riconoscerlo?”
“Sì, certo.”
“Guardi le foto successive.”
Dopo svariati ritratti fotografici del marito, apparvero alcuni scatti che mostravano una donna coi capelli rossi a caschetto.
“La mia ex migliore amica e assistente, Grazia Ferretti. Lei dovrà introdursi in casa sua e restituirmi ciò che quell’ingrata mi ha sottratto.”
“Sarebbe a dire?”
“La testa di mio marito Alberto.”
Trasecolai.
“La testa? Ma se mi ha detto poco fa che ne ha conservato il cadavere!”
“Dopo la morte l’ho decapitato. Volevo dedicare alla sua testa una cura particolare, capisce? Aveva una gran bella testa, mio marito.”
“Di cosa è morto, esattamente?”
“Overdose.”
“Si drogava?”
“Ma quale droga! Overdose di allopurinolo, un farmaco contro la gotta.”
“E io come faccio a entrare in casa della sua amica?”
“Ex amica. Semplice: deve rimediare un invito.”
“Ma se non la conosco nemmeno!”
“La conosca. Cominci col chiederle l’amicizia su Facebook.  Grazia è appassionata d’arte contemporanea e la settimana prossima ci sarà un vernissage di Sarfatti, il famoso pittore. Lo conosce?”
“No.”
“A questo si può rimediare. In ogni caso, le suggerisco di cogliere al balzo l’occasione della mostra per incontrarla.”
“Ammettiamo, in via del tutto ipotetica, che mi inviti a casa sua: se non so dove tiene la testa come faccio a prenderla?”
“Vive in un appartamento, mica nella reggia di Versailles.”
“Ha un garage?”
“Sì.”
“E se l’avesse nascosta lì?”
“Lo escludo nel modo più categorico. Sono sicura che la tiene in casa. Erano amanti, vorrà averla vicino a sé.”
“Scusi ma la testa dove sta, materialmente?”
“In un contenitore di vetro, immersa in una soluzione acquosa di formaldeide. ”
“E dove la infilo, in un trolley?”
“Bravo, finalmente una buona idea.”
“E secondo lei quella non si insospettisce a vedermi arrivare con un trolley?”
“Che motivo avrebbe d’insospettirsi? Lei dica che dovrà poi recarsi in stazione.”
“Non riuscirò mai a impadronirmi della testa senza che mi scopra.”
“Se la porti a letto.”
“La testa?”
“No, Grazia! E quando si è addormentata…”
Sonia si alzò, aprì il mobile alle sue spalle e ne tirò fuori una scatola.
“Sostituirà la testa di mio marito con questa copia in cera.”
La scatola conteneva una perfetta riproduzione della testa del defunto.
“Dunque, mi faccia capire: tolgo la testa di Alberto dalla boccia di vetro e la ripongo in quest’altra, prendo la testa finta e la metto al posto di quella vera.”
“Stia attento a non fare confusione però!”
“Beh ma non saranno mica del tutto uguali.”
“Certo che no ma sa com’è, l’emozione può giocare brutti scherzi.”
“La sta facendo troppo facile. Grazia viene a letto con me e poi cade in un sonno tanto profondo da non accorgersi che sto trafficando in salotto con la testa del suo ex amante?”
“Non è necessario che venga a letto con lei: è sufficiente che lei la narcotizzi.”
“In che modo?”
 “Le darò tutto l’occorrente, non si preoccupi. Basterà che  versi nel suo bicchiere qualche goccia del mio elisir e la stronza si addormenterà come un angioletto.”
“Ragioniamo: quella si sveglia intontita a distanza di ore e secondo lei non s’insospettisce?”
“Sospetti ciò che vuole.”
“Eh no! Ci devo entrare io, in quella casa, non voglio guai.”
“Si faccia trovare in casa al suo risveglio e non sospetterà nulla.”
“Se dorme dodici ore di fila?”
“Non accadrà: cinque gocce del mio preparato la faranno assopire. Dopo un pisolino di un’oretta o due, si sveglierà. Lei avrà tutto il tempo di sistemare la faccenda della testa senza che Grazia si accorga di nulla.”
“Non sarà così immediato rimediare un invito.”
“Sono certa che ci riuscirà.”

Non essendo un esperto di arte contemporanea, appena tornato a casa mi documentai su Sarfatti tramite Internet. Sbirciai la pagina Facebook della tizia: stranamente, non vi trovai selfie ammiccanti. Era tutto un susseguirsi di dipinti astratti, foto in bianco e nero di impianti industriali dismessi. Una bella donna che non amava apparire: cosa alquanto insolita. Le inviai una richiesta d’amicizia e seguitai a curiosare sulla sua bacheca.
Stavo per staccarmi dal pc quando vidi lampeggiare una notifica. Aveva accettato. Le inviai un messaggio tramite Messenger:
“Grazie e buona giornata.”
La risposta non tardò ad arrivare.
“Se mi mandi una foto del tuo cazzo ti cancello all’istante. Sono stufa di ricevere cazzi.”
Mi misi a ridere a crepapelle.
La signora pareva non prestare troppa attenzione al significato delle proprie affermazioni.
“Le assicuro che non è mia intenzione. Ho visto la sua pagina, mi sono piaciute le immagini che ha pubblicato. Tutto qui.”
“Ah, bene. Possiamo anche darci del tu, non ho mica ottant’anni. Ti interessi di arte? Dalla tua pagina non sembrerebbe. Vedo più che altro link musicali.”
“Amo la musica ma anche la pittura e la fotografia.”
“Chi ama troppe cose non ne ama seriamente nessuna.”
“Mica vero: a me ad esempio piace il risotto con i funghi. Amo seriamente il riso e i funghi.”
Un emoji sorridente comparve ad indicare un’attenuazione del gelo.
“Ti piacciono i gruppi prog italiani anni Settanta?”
“Sì.”
“Piacciono anche a me.”
“Davvero?”
“Sì. E’ per questo che ho accettato la tua richiesta.”
“Allora abbiamo qualcosa in comune.”
“Quello e il risotto ai funghi.”
La temperatura di scioglimento dei ghiacci poteva dirsi raggiunta.
La salutai augurandole buon pranzo.

“Dio Gianni!”, l’imprecazione del portiere risuonò come un tuono nell’androne del palazzo, “Chi è il bastardo che viene a cagare sempre davanti al cancello? Se lo becco giuro che lo inculo col manico del badile!”
“Sandro, ci risiamo?”
“Sì, e come se non bastasse la merda che mi tocca raschiare dal marciapiede, devo sorbirmi pure le menate della sciura Santina che mi lisa i coglioni, come se fossi stato io a cagare qua davanti!”
“Senza una telecamera ‘sta storia non finisce più.”
“Non serve la telecamera: ci penso io, vedrà! Prima o  poi lo becco e lo sdereno!”
Notai con sgomento che, nel pronunciare queste parole, il portiere era in preda a una vistosa erezione. Mi allontanai in fretta.

“Faccio saltuariamente uso di eroina. La cosa ti disturba?”
Gli occhi verdi di Grazia mi fissavano con un’intensità difficile da sostenere.
“Per niente”, risposi.
“Meglio così.”
Sedevo nella saletta del suo appartamento da neanche un quarto d’ora ed eravamo già a questo punto. Avevo spuntato un invito a casa sua senza passare per l’inaugurazione, cosa di cui ero felicissimo, visto che di Sarfatti non mi importava un accidente.
“Tu fai uso di sostanze?”
“No.”
“Bevi?”
“Non granché. Soffro di bruciori di stomaco e devo moderarmi.”
“Un perfettino, insomma.”
“Non direi proprio.”
“E dov’è che vai di bello in treno?”
“A Bordighera.”
“A far che?”
“Mi ha invitato un amico.”
“Quindi sei omosessuale.”
La guardai sbigottito.
“Veramente no. Ma poi perché, scusa?”
“Riassumiamo: hai cinquant’anni, sei scapolo e non ti sei mai sposato, vai al mare a casa di un amico, quindi sei gay.”
“Ma è una conclusione del tutto arbitraria!”
“Mica tanto, mi sono limitata a constatare i fatti.”
“Non sono gay.”
“Va bene, come preferisci. Senti, io vado a fare una doccia, tu mettiti pure comodo, fa’ come se fossi a casa tua, basta che non ti masturbi sul divano.”
Stavo per mandarla a cagare ma mi trattenni: avevo una missione da compiere e questa storia della doccia cadeva a puntino.
Non appena si tolse di torno mi misi a perlustrare l’appartamento: con mia sorpresa la testa stava in un’anta dell’armadio in saletta! Sono sempre stato un imbranato totale, eppure in quell’occasione riuscii a stupire me stesso: effettuai la sostituzione con precisione e sveltezza.
Grazia riapparve dopo una decina di minuti, indossando un accappatoio verde.
“Scusa ma mi sono ricordata che ho un impegno alle cinque.”
“Nessun problema. Tanti saluti.”
Le rivolsi un sorriso che avrebbe destato invidia in Giuda Iscariota, strinsi saldamente le maniglie del trolley e mi tolsi di torno. Una volta per strada mi misi a fischiettare.
Fermai un taxi: dieci minuti dopo ero a casa.
La chiamata di Sonia non si fece attendere.
“Allora?”
“Sistemato.”
“Davvero?”
“Certo.”
“Grande. Ti posso raggiungere?”
“Ok.”

Quando scese dall’automobile, credetti di vedere l’assassina del film Profondo rosso: stesso abbigliamento, stesso taglio di capelli. Solo più giovane di Clara Calamai.
“Come ci sei riuscito?”
“E’ stato più semplice del previsto. Davvero non credevo che me la sarei cavata così in fretta e così facilmente.”
“E lei che impressione ti ha fatto?”
“Lasciamo perdere che è meglio. Solo mi domando: e se si accorge della sostituzione?”
“Lo escludo: ho fatto un lavoro sopraffino. Piuttosto, sa dove abiti?”
“No.”
“L’hai cancellata dai tuoi contatti?”
“Sì sì, bloccata su Facebook, Messenger, Whatsapp. Non mi becca più.”
“Sono in debito con te. D’ora in avanti, se tu dovessi avere problemi – che so io, un cadavere da occultare o roba del genere – non esitare a chiamarmi.”
“Spero di non trovare altre mummie in cantina!”
“Non mi riferivo a quello. Intendevo dire: se tu avessi necessità di smaltire un cadavere a seguito di un diverbio…”
“Ahhh… No, non penso, comunque grazie.”
“Non si può mai dire, credimi. Ad esempio, tu sei una persona pacata, un uomo tranquillo, eppure ti sei introdotto nella casa di una sconosciuta e le hai sottratto un ‘oggetto’. Non si può escludere che, un domani, tu commetta un omicidio.”
“Ma non penso proprio!”
“Nel caso, sappi che io posso fornirti il nécessaire.”
“Tipo?”
“Veleno, armi…”
“Addirittura?”
“Certo. Ma soprattutto, ti ripeto, io so come far sparire un cadavere."
“Ti ringrazio, spero comunque di non aver mai bisogno.”
“Senti, io mi riprendo la testa di mio marito e me ne torno a casa. Allora, ricordati: in caso di necessità, non esitare.”
“Va bene.”
Dopo che se ne fu andata, mi versai un bicchiere di whisky e mi misi a riflettere sulla sua proposta. In effetti, qualcuno c’era che avrei fatto fuori volentieri. All’occorrenza.

Pietro Ferrari, novembre 2019

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