“RIPULITE LA ZONA”
Quante volte avevo ricevuto quell’ordine? Non c’era alcun bisogno di chiedere ulteriori istruzioni, ripulire la zona significava una cosa soltanto: liquidare chiunque vi avessimo incontrato.
Personalmente lo trovavo disgustoso ma sapevo che la mia presenza sarebbe valsa ad evitare inutili eccessi. Altre unità si erano abbandonate a gesti indegni di uomini in divisa: anziani invalidi gettati vivi nei fienili in fiamme, adolescenti stuprate, neonati scagliati in aria e usati come bersagli per il tiro al piattello. Nulla di tutto ciò poteva e doveva essere attribuito al mio reparto. Le atrocità si verificano laddove alla guida dei soldati vi sia un ufficiale debole, privo di polso, oppure un degenerato, un sadico. Non era questo il mio caso. Presenziavo alle esecuzioni ed esigevo che, nel dare la morte, non si trascendessero mai i limiti imposti dalla più ferrea disciplina militare. Quel giorno avremmo dovuto rastrellare un’area piuttosto estesa, “eliminando tutte le presenze ostili e i loro fiancheggiatori”. In sintesi: l’ennesima missione di sterminio.
Avevo imparato un poco di italiano e a volte me ne servivo, più che altro con le donne. La cosa peggiore era incrociare gli sguardi delle madri coi figli accanto. Molte imploravano pietà e io non potevo far altro che dir loro: “Finirà presto, signora, non si preoccupi”. Un’incombenza estremamente penosa. Mi capitava di rivedere in sogno quei volti disperati e di udire, di nuovo, i pianti dei bambini.
Non permettevo a nessuno dei miei uomini di ubriacarsi, prima e durante le azioni. So però che molti al campo bevevano sino a stordirsi, al ritorno dalle operazioni.
Non mi facevo illusioni sulle sorti del conflitto: le stavamo buscando su tutti i fronti, una batosta dietro l’altra. La guerra era perduta, tuttavia il giuramento di fedeltà al Führer ci costringeva all’obbedienza.
Così, quel giorno, ci disponemmo a compiere il nostro ingrato dovere di assassini.
Avanzammo nell’erba alta, lungo le pendici della collina, alle prime luci dell’alba. Il paesaggio era immerso in un silenzio irreale. Ci addentrammo in un bosco di castagni. Dopo un quarto d’ora di marcia intravidi un pennacchio di fumo in lontananza.
Il sergente mi rivolse un’occhiata interrogativa.
Scorgemmo un cascinale in fiamme.
Qualcuno doveva averci preceduti, ma chi?
Ci avvicinammo guardinghi all’edificio. Sull’aia giacevano distesi dei cadaveri: corpi carbonizzati, irriconoscibili.
Qualcosa non quadrava.
Trasmisi la notizia via radio al comando e ricevetti la conferma di quanto già sapevo: eravamo la prima unità a metter piede da quelle parti.
“Sono stati i partigiani?” chiese il sergente.
“Lo escludo.”
“Un attacco aereo?”
“Ha visto incrociare aerei da queste parti nelle ultime ore? Io no.”
“E allora se non sono stati i nostri, né i partigiani né gli alleati… chi ha fatto questo?”
“Credo che lo scopriremo presto.”
Proseguimmo nella ricognizione, il dito sul grilletto, pronti a ingaggiare battaglia.
Superato il crinale ci apparve uno spettacolo sconvolgente: le pendici e la vallata limitrofa erano interamente ricoperte da una distesa di cenere finissima. Non una pianta, neppure il moncone di un tronco, né un muro di mattoni sbrecciato, nulla: solo e soltanto cenere grigia, a perdita d’occhio.
Eppure nessun bombardamento incendiario aveva avuto luogo nella zona.
Cercai di avvertire il comando ma la radio improvvisamente non volle saperne di funzionare.
“Ritiriamoci”, dissi ai miei uomini, “Proseguire non avrebbe senso: non è rimasto niente e inoltre saremmo facili bersagli per gli Jabos su un simile terreno.”
Facemmo dietrofront e passammo, di nuovo, accanto alla cascina ridotta ormai a un cumulo di macerie annerite.
Prima di inoltrarci nel bosco ordinai agli uomini di muoversi con la massima cautela. Procedemmo con le armi spianate, trattenendo quasi il respiro.
A un tratto si udì un boato, e gli uomini in testa alla colonna furono avvolti da un’enorme fiammata scaturita dal suolo. Ci gettammo a terra, le armi crepitarono rovesciando nugoli di proiettili fra gli alberi.
Poi il terreno prese a sussultarci sotto i piedi.
Ci mettemmo a correre. Una seconda scossa sismica, più violenta della prima, ci fece cadere come birilli. Udii urla di terrore alle mie spalle, mi voltai e vidi che un’intera sezione del bosco si stava sollevando. Si era aperta nel suolo un’ampia fenditura, lunga centinaia di metri, e parecchi dei miei uomini ne furono inghiottiti.
I superstiti si diedero a correre a gambe levate verso valle. Li seguii insieme al sergente.
Rientrammo trafelati alla base. Dalle colline, avvolte da una spessa cappa di fumo color ocra, giungeva un cupo brontolio.
Fatto l’appello, constatai che gli effettivi del reparto si erano ridotti della metà.
Non so come, riuscii a mettermi in contatto radio col comando della divisione.
Il generale in persona mi investì con una richiesta perentoria.
“Mi vuol dire cosa diavolo è successo, Kruger?”
“La zona ha ripulito noi.”
Pietro Ferrari, ottobre 2019
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