IMPREVISTI
Avrà avuto ventotto anni al massimo. Una bella ragazza maghrebina, di corporatura minuta. Mi osservava sorridendo. Ero al terzo cocktail, quindi non propriamente lucido.
Viviana, seduta al mio fianco, se ne uscì dicendo:
“Che dici, la chiamiamo?”
“Chiamiamola.”
Com’era sua abitudine, cambiò idea quasi subito.
“Aspetta, chiedo a Q.”
“Chiedi.”
La vidi avvicinare il gestore del locale, un egiziano. Chiacchierarono a lungo.
La giovane maghrebina non smetteva di fissarmi.
Vuotai il bicchiere e mi alzai, dirigendomi verso i due dialoganti.
“Dice Q. che tra un paio d’ore ne dovrebbe arrivare da Milano un’altra più bella.”
“L’ho presentata a una coppia, marito e moglie, mi hanno detto che è stata fantastica”, puntualizzò il gestore, “Li ha fatti impazzire di piacere”.
Viviana mi fece segno di seguirla all’esterno del locale.
Appena fuori si accese una sigaretta e disse:
“Bisogna portarla in un motel, Q. non affitta più le stanze.”
Dal tono intesi che la situazione non suscitava più il suo interesse.
Colsi la palla al balzo.
“Senti, è l’una e mezzo, non mi va di aspettare due ore una che manco so chi sia.”
“Ma sì, infatti.”
Pagai il conto e ce ne andammo.
Per essere dicembre, non faceva neanche tanto freddo. Niente brina sul parabrezza.
Misi in moto.
Fatte poche centinaia di metri, l’utilitaria che viaggiava davanti alla mia rallentò e accostò a destra. Intravidi un agente dei carabinieri con la paletta in mano. Se avessero fermato me, addio patente.
Per tutto il tragitto Viviana non fece altro che parlare dell’unico argomento che le stesse realmente a cuore: se stessa. Un ininterrotto flusso autoreferenziale, un monologo vacuo, desolante.
“Che dici, la chiamiamo?”
“Chiamiamola.”
Com’era sua abitudine, cambiò idea quasi subito.
“Aspetta, chiedo a Q.”
“Chiedi.”
La vidi avvicinare il gestore del locale, un egiziano. Chiacchierarono a lungo.
La giovane maghrebina non smetteva di fissarmi.
Vuotai il bicchiere e mi alzai, dirigendomi verso i due dialoganti.
“Dice Q. che tra un paio d’ore ne dovrebbe arrivare da Milano un’altra più bella.”
“L’ho presentata a una coppia, marito e moglie, mi hanno detto che è stata fantastica”, puntualizzò il gestore, “Li ha fatti impazzire di piacere”.
Viviana mi fece segno di seguirla all’esterno del locale.
Appena fuori si accese una sigaretta e disse:
“Bisogna portarla in un motel, Q. non affitta più le stanze.”
Dal tono intesi che la situazione non suscitava più il suo interesse.
Colsi la palla al balzo.
“Senti, è l’una e mezzo, non mi va di aspettare due ore una che manco so chi sia.”
“Ma sì, infatti.”
Pagai il conto e ce ne andammo.
Per essere dicembre, non faceva neanche tanto freddo. Niente brina sul parabrezza.
Misi in moto.
Fatte poche centinaia di metri, l’utilitaria che viaggiava davanti alla mia rallentò e accostò a destra. Intravidi un agente dei carabinieri con la paletta in mano. Se avessero fermato me, addio patente.
Per tutto il tragitto Viviana non fece altro che parlare dell’unico argomento che le stesse realmente a cuore: se stessa. Un ininterrotto flusso autoreferenziale, un monologo vacuo, desolante.
La lasciai a casa e tornai al bar, seguendo un itinerario alternativo per evitare la pattuglia dei caramba. La ragazza era là dove l’avevo lasciata. Mi presentai.
“Piacere, mi chiamo Marco”.
“Sofia. Sapevo che saresti tornato.”
Accarezzai, più che stringere, la sua mano morbida e ben curata.
“Che ne diresti se ci facessimo un giro?”
“Dove?”
“Al Diamante. Un quarto d’ora e siamo lì.”
“Fanno 4 Vu.”
“D’accordo.”
Salimmo in macchina.
Dieci minuti più tardi, parcheggiai nel posteggio interno del motel. Non era certo popolato: cinque vetture compresa la mia.
Al banco della reception, il deserto.
Sofia sedette su una poltrona e prese a sfogliare una rivista.
Un urlo spaventoso, proveniente dal piano superiore, risuonò nella hall. Sofia scattò in piedi come una molla.
“Andiamo via subito!”
Ci fiondammo all’esterno. Neanche il tempo di mettermi alla guida e dall’ingresso del motel vidi uscire un uomo corpulento con una camicia bianca imbrattata di sangue. Aveva un’espressione folle stampata in volto.
“Parti, cazzo, parti!”
Innestai la prima e lasciai il posteggio a tutta birra.
Nello specchietto retrovisore, intravidi il tizio che correva a perdifiato, inseguendoci.
“Quello è un pazzo fottuto!”
Sofia era terrorizzata, si calmò solo quando entrammo in Pavia.
“Ti riporto al bar?”
“Sì sì per favore. Ti spiace se ci vediamo un’altra volta?”
“Non c’è problema.”
Quando arrivammo, il bar era chiuso.
“E adesso come faccio?”
“Non ti preoccupare. Ti do un passaggio a casa. Dove abiti?”
“Milano, via Chiesa Rossa. Sai dov’è il Takeout?”
“Sì.”
“Grazie, sei un tesoro.”
“Secondo me quello ha ammazzato qualcuno.”
“Non sono fatti nostri.”
“Ci sono telecamere a circuito chiuso in quei posti.”
“E con ciò? Mica abbiamo fatto niente di male. Siamo entrati e siamo usciti.”
“Articolo 593 codice penale.”
“Cos’è? Non sono un avvocato.”
“Omissione di soccorso.”
“Cosa conti di fare, chiamare gli sbirri?”
Eravamo all’altezza del mobilificio di Corso Partigiani, appena prima di entrare a Certosa. Si scorgevano distintamente i lampeggianti di due ambulanze nei pressi del semaforo, in mezzo al paese.
“Tutte stanotte capitano?”
Rallentai l’andatura. Il transito sulla statale dei Giovi era bloccato: oltre alle ambulanze, altre vetture erano ferme in mezzo alla strada, alcune messe di traverso. Si vedevano vetri rotti e, quel che è peggio, corpi umani riversi sull’asfalto.
Accostai e feci inversione.
“Dove sono gli infermieri?”
“Non ne ho idea. Passiamo da Pontelungo.”
“Prendi per il Cantone Tre Miglia”
“No Sofia, è una strada stretta: se troviamo un ostacolo siamo fottuti. Preferisco allungare il tragitto e non correre rischi.”
Lungo il rettilineo dopo Ponte Carate non incrociai una macchina che fosse una.
Sofia smanettava al cellulare.
“Ho provato a chiamare le mie amiche. Non mi risponde nessuna!”
A duecento metri dalla rotonda di Zeccone, vidi il lampeggiante blu di un’auto della polizia. Un agente, in piedi in mezzo alla strada, stava puntando la pistola in direzione di un gruppo di persone nei pressi delle case. Si udirono colpi di arma da fuoco.
Invertii nuovamente direzione.
“Ma si può sapere che succede stanotte? Senti Sofia, vieni a dormire a casa mia e domattina ti porto a casa.”
“Sempre se ci arriviamo.”
Non replicai, sapevo che aveva ragione.
Accesi l’autoradio.
Un cronista di Radio Popolare stava parlando di violenti scontri in corso a Milano.
Sofia si mise a pregare in arabo.
“Piacere, mi chiamo Marco”.
“Sofia. Sapevo che saresti tornato.”
Accarezzai, più che stringere, la sua mano morbida e ben curata.
“Che ne diresti se ci facessimo un giro?”
“Dove?”
“Al Diamante. Un quarto d’ora e siamo lì.”
“Fanno 4 Vu.”
“D’accordo.”
Salimmo in macchina.
Dieci minuti più tardi, parcheggiai nel posteggio interno del motel. Non era certo popolato: cinque vetture compresa la mia.
Al banco della reception, il deserto.
Sofia sedette su una poltrona e prese a sfogliare una rivista.
Un urlo spaventoso, proveniente dal piano superiore, risuonò nella hall. Sofia scattò in piedi come una molla.
“Andiamo via subito!”
Ci fiondammo all’esterno. Neanche il tempo di mettermi alla guida e dall’ingresso del motel vidi uscire un uomo corpulento con una camicia bianca imbrattata di sangue. Aveva un’espressione folle stampata in volto.
“Parti, cazzo, parti!”
Innestai la prima e lasciai il posteggio a tutta birra.
Nello specchietto retrovisore, intravidi il tizio che correva a perdifiato, inseguendoci.
“Quello è un pazzo fottuto!”
Sofia era terrorizzata, si calmò solo quando entrammo in Pavia.
“Ti riporto al bar?”
“Sì sì per favore. Ti spiace se ci vediamo un’altra volta?”
“Non c’è problema.”
Quando arrivammo, il bar era chiuso.
“E adesso come faccio?”
“Non ti preoccupare. Ti do un passaggio a casa. Dove abiti?”
“Milano, via Chiesa Rossa. Sai dov’è il Takeout?”
“Sì.”
“Grazie, sei un tesoro.”
“Secondo me quello ha ammazzato qualcuno.”
“Non sono fatti nostri.”
“Ci sono telecamere a circuito chiuso in quei posti.”
“E con ciò? Mica abbiamo fatto niente di male. Siamo entrati e siamo usciti.”
“Articolo 593 codice penale.”
“Cos’è? Non sono un avvocato.”
“Omissione di soccorso.”
“Cosa conti di fare, chiamare gli sbirri?”
Eravamo all’altezza del mobilificio di Corso Partigiani, appena prima di entrare a Certosa. Si scorgevano distintamente i lampeggianti di due ambulanze nei pressi del semaforo, in mezzo al paese.
“Tutte stanotte capitano?”
Rallentai l’andatura. Il transito sulla statale dei Giovi era bloccato: oltre alle ambulanze, altre vetture erano ferme in mezzo alla strada, alcune messe di traverso. Si vedevano vetri rotti e, quel che è peggio, corpi umani riversi sull’asfalto.
Accostai e feci inversione.
“Dove sono gli infermieri?”
“Non ne ho idea. Passiamo da Pontelungo.”
“Prendi per il Cantone Tre Miglia”
“No Sofia, è una strada stretta: se troviamo un ostacolo siamo fottuti. Preferisco allungare il tragitto e non correre rischi.”
Lungo il rettilineo dopo Ponte Carate non incrociai una macchina che fosse una.
Sofia smanettava al cellulare.
“Ho provato a chiamare le mie amiche. Non mi risponde nessuna!”
A duecento metri dalla rotonda di Zeccone, vidi il lampeggiante blu di un’auto della polizia. Un agente, in piedi in mezzo alla strada, stava puntando la pistola in direzione di un gruppo di persone nei pressi delle case. Si udirono colpi di arma da fuoco.
Invertii nuovamente direzione.
“Ma si può sapere che succede stanotte? Senti Sofia, vieni a dormire a casa mia e domattina ti porto a casa.”
“Sempre se ci arriviamo.”
Non replicai, sapevo che aveva ragione.
Accesi l’autoradio.
Un cronista di Radio Popolare stava parlando di violenti scontri in corso a Milano.
Sofia si mise a pregare in arabo.
Pietro Ferrari, novembre 2019
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