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mercoledì 8 maggio 2019

ETIMOLOGIA DI GRIMPEDIUM

Molti navigatori sono giunti in questo portale digitando una ben strana e bislacca chiave di ricerca: GRIMPEDIUM. Che vorrà mai dire? Ebbene, non si tratta di un cumulo di lettere assemblate per puro caso. La keyword dall'aspetto latineggiante è nata da un errore concettualmente molto semplice, come mi accingo a dimostrare. Essendo però un errore tutto sommato redditizio in termini di visite (non di pecunio!), mi limiterò a svelarne gli arcani senza correggerlo nell'articolo in cui tuttora compare, sperando anzi che possa continuare ad attrarre altri curiosi dai meandri del Web. Devo ringraziare il Fratello Pietro Ferrari per la fortuita introduzione di questo stravagante vocabolo nel presente portale, dal momento che in un suo meritorio articolo sul famigerato serial killer Ted Bundy, NASCERE MALVAGI, nelle fonti bibliografiche è riportato il seguente riferimento:

J.W. Ocker, The New England Grimpedium. A Guide to Macabre and Ghastly Sites in the Northeast U.S., New York, Countryman Press, 2010. 

Si vede subito che il fatidico GRIMPEDIUM è un refuso, ossia un banale errore. Sta per GRIMPENDIUM: è stata omessa per fallace digitazione una consonante nasale -N-, cosa che può capitare a chiunque mentre si cimenta con la tastiera. Va da sé che il problema sta all'origine ultima di questa anomalia, dato che GRIMPENDIUM è una parola macedonia derivante dalla fusione di GRIM "truce" (con paralleli in longobardo e in norreno) e di COMPENDIUM "compendio" (termine eminentemente latino). A tutti gli effetti si tratta di un *GRIM-COMPENDIUM, ossia di un Compendio delle Atrocità. Mi domando che avrebbe pensato l'Erulo Odoacre se un folletto gli avesse insufflato nelle orecchie un simile vocabolo! Così abbiamo senza volerlo evocato una parola che prima non esisteva e che ha di per sé ben poca giustificazione, essendo di una fragilità logica molto spinta. La pronuncia sarà /gɹɪm'pi:dɪǝm/ anziché /gɹɪm'pendɪǝm/ come dovrebbe essere. Che altro dire? Anche questa è antropologia! Ecco, qualcosa si sta spargendo nella Rete tramite contagio memetico, acquisendo forma e sostanza di giorno in giorno!

domenica 4 novembre 2018

UN VARCO NEL MURO 

E i figli di Melkubelek dissero al Catafratto: “Rimuovi codesto Muro, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”.
Egli non diede segno di aver inteso la loro richiesta.
“Rimuovilo, orsù”, insistettero i figli di Melkubelek, cui si era aggiunto nel frattempo il nano Barbagliuk.
“Ci accontenteremmo di uno spioncino”, disse questi.
“E va bene”, borbottò il Catafratto.
Fu così che nel Muro apparve una piccola apertura, una finestrella.
Barbagliuk vi si affacciava più volte al giorno, ed ogni volta non scorgeva altro che nebbia, un‘impenetrabile cappa di nebbia.
I figli di Melkubelek si riunirono in assemblea.
“Non è giusto, dalla finestra non si vede un cazzo!”, protestarono.
Barbagliuk chiese la parola.
“Ho l’impressione che non ci sia rimedio. Con quel nebbione...”
 “Se il Catafratto abbattesse il Muro, la circolazione dell’aria spazzerebbe via la nebbia!”, gridò un tale fra il pubblico.
In fondo alla sala riunioni si udì un tramestio: era Fistulìk, il Senzaciaspole, che arrancava verso il palco.
“Posso parlare?”
“Parla, parla”, gli risposero in coro.
“Mi avevano raccontato che dall’altra parte c’era un panorama stupendo, ma non mi pare proprio.”
“C’è, c’è!”
“E chi ve lo dice? Io ho visto solo nebbia, e fra la nebbia mi è parso di scorgere un paesaggio orribilmente desolato e brullo.”
“Non è vero, non è vero!”
Ed ecco si udì una voce tonante e dal timbro inconfondibile risuonare nel salone:
 “Adesso mi avete proprio rotto i coglioni!”
I figli di Melkubelek tacquero, atterriti.  Il Catafratto adirato proseguì dicendo:
“Cosa credete che ci sia oltre il Muro? Non c’è niente, capite? niente! Vi ho aperto una finestra affinché poteste sincerarvene di persona e non siete ancora convinti, razza di babbei?”
L’assemblea si sciolse, i convenuti si allontanarono in silenzio, a capo chino, dalla sala delle adunanze.
Solo Barbagliuk rimase seduto al suo posto, a meditare sull’accaduto.
Fistulìk, reggendosi in piedi a fatica, lo esortò ad uscire.
“Debbo chiudere”.
“Vado”.
Era buio, fuori, talmente buio che Barbagliuk prese la direzione sbagliata. Dopo mezz’ora di marcia si ritrovò nei pressi del Muro.
Dalla vicina foresta giungevano i richiami degli uccelli notturni e un intenso aroma di muschio. Il nano, colto da una fitta improvvisa all’addome, si accovacciò e depose un discreto quantitativo di feci.  Mentre si nettava con una foglia di pioppo, avvertì un calpestio a pochi metri di distanza. Si fece ancora più piccolo e si rifugiò in mezzo a un cespuglio.
Risuonò una violenta imprecazione.
“Se prendo chi ha cacato sul sentiero, gli rompo la testa!”.
Barbagliuk rimase nascosto per oltre un quarto d’ora, sino a quando fu certo che lo sconosciuto pestamerde si fosse allontanato.
Tornò sui suoi passi, e dalla sala delle adunanze si diresse a casa.
Quella notte non riuscì a chiudere occhio.
L’indomani, all’alba, Fistulìk bussò alla sua porticina.
“Siamo convocati dal Catafratto”.
Barbagliuk avvertì un brivido corrergli lungo la schiena e per poco non si pisciò addosso.
Si avviarono verso l’augusta dimora del nobiluomo.
Fistulìk camminava con difficoltà, e il nano, data la differenza d’altezza, non poteva essergli d’aiuto.
Il Catafratto li ricevette sotto a un gazebo, nell’ampio giardino della sua villa.
“Sedetevi”.
Fistulìk si accomodò su una sedia, Barbagliuk su uno sgabello.
“Spira forse aria di sedizione tra i figli di Melkubelek?”.
“Lo escludo nel modo più categorico”, si affrettò a rispondere Fistulìk.
“Meglio, perché in caso contrario mi vedrei costretto a prendere provvedimenti severi. Molto severi.”
“Se posso…”
“La ascolto”.
Barbagliuk si schiarì la voce: “C’era grande attesa per l’apertura della finestra. Non le nascondo che anch’io credevo di vedere chissà che.”
“Ma non c’è nulla da vedere!”
“L’ho potuto appurare coi miei occhi, ma c’è gente che non si arrende neppure di fronte all’evidenza.”
“Che dovrei fare, secondo lei: demolire il Muro per convincere quegli stolti?”
“Li lasci uscire.”
Il Catafratto sobbalzò sulla poltrona.
“Lasciarli uscire?”
“Perché no? Così avranno modo di constatare che fuori non c’è altro che una landa deserta e inospitale.”
Il Catafratto rifletté per alcuni istanti.
“E sia: vadano pure. Farò aprire un varco nel Muro, sufficiente a farli passare uno alla volta.”
Durante il tragitto di rientro, Fistulìk esternò le proprie perplessità al nano.
“Non mi pare una buona idea.”
“Eppure non c’è altra soluzione. Costringerli qui non farebbe altro che esasperarli.”
“Sarà, ma non mi convince.”
Pochi giorni dopo, ultimata l’apertura della breccia, i figli di Melkubelek se ne andarono tutti quanti, uno in fila all’altro.
Ridevano sguaiatamente e cantavano come altrettanti ubriachi.
Nessuno di loro fece più ritorno.

Pietro Ferrari, gennaio 2016

mercoledì 31 ottobre 2018

LETTERATURA ONIRICA

L’apertura della sessione pomeridiana del convegno era prevista per le 14 e 30. Un quarto d’ora prima dell’inizio l’aula era già gremita, in gran parte di studenti iscritti al corso dell’oratore, il professor Canestracci - l’uomo che ero pagato per pedinare.
Mi sedetti in una posizione defilata, da cui potevo controllare agevolmente la sala e, all’occorrenza, allontanarmi senza dare nell’occhio.
Ero reduce da una notte insonne, l’ennesima. Quando si dorme poco, o non si dorme affatto, i processi mentali subiscono un rallentamento non dissimile da quello prodotto dagli oppiacei. Ciò nonostante, gli stimoli sensoriali non giungono attutiti, ma amplificati. Una condizione tutt’altro che piacevole.
Alla mia destra, poco lontano, un giornalista sudaticcio, collaboratore della Gazzetta dei Sottomessi, il quotidiano locale, si gingillava freneticamente con il tablet. Lo conoscevo di vista e di fama: era un assiduo frequentatore di strip club e bische clandestine. Spandeva intorno a sé un scia olfattiva greve e inconfondibile, un misto di profumo dozzinale, sudore rancido e whisky.
Il microfono diede uno di quei fischi acutissimi per cui i microfoni paiono essere appositamente progettati. Il moderatore, dopo una breve introduzione infarcita di omaggi servili ai notabili presenti in sala, diede la parola a Canestracci. Questi esordì facendo una panoramica sui precursori dell’onirismo: Macronio, Eustachio, Filemone d’Alicarnasso, sino a giungere agli esponenti tardo rinascimentali di quel singolare genere letterario. Si soffermò con particolare attenzione sulla figura di Ermenegilda da Brescia, la monaca-veggente autrice di un trattato sulla scrittura automatica e il sonnambulismo. Alle 16 l’uditorio cominciò a dare segni inequivocabili di cedimento. Gli studenti, stremati, boccheggiavano come pesci fuor d’acqua; un’anziana docente di pedagogia si accasciò al riparo di una tenda ed ivi giacque, esanime. Canestracci, eccitato dalla vista delle sofferenze che andava infliggendo al pubblico, si gettò a capofitto in un’analisi degli epigrammi di Giulebbe da Orvieto. La conclusione del discorso fu salutata da un applauso scrosciante, liberatorio. Mai in vita mia avevo desiderato tanto aprire il fuoco su un accademico.
Il moderatore ringraziò calorosamente il Canestracci per il “pregiatissimo intervento”, dicendosi certo che sarebbe “entrato negli annali dell’ateneo di Elissinia per la straordinaria limpidezza dell’esposizione e la sapienza dottrinale profusavi”.
Fu in quel preciso istante che giurai a me stesso che non avrei dato tregua a Canestracci sino al suo completo annientamento.
Prima di abbandonare la sala, versai nella borsa del giornalista – intento a congratularsi con l’oratore - il contenuto di una busta. Si trattava di una polvere ricavata dai semi dell’Anaurabo, un arbusto che cresce sulle pendici delle Ande, utilizzato dagli indigeni per provocare paralisi temporanee dei muscoli facciali.
Guadagnai una panchina nei giardinetti prospicienti la sede del convegno. Per ragioni inesplicabili, una studentessa che passeggiava da quelle parti con aria svagata venne a sedermisi accanto e attaccò bottone.

 -    Quanti pappagallini.
 -    Già, ce n’è una colonia.
 -    Lei è un ricercatore?
 -    In un certo senso.
 -    Le piace Elissinia?
 -    Si e no.
 -    A me piace molto, ma solo a ottobre.
 -    E negli altri undici mesi dell’anno?
 -    Non la sopporto.
 -    Dev’essere dura.

La ragazza vestiva in modo finto trasandato: la scelta degli abiti e il trucco rivelavano una sapiente cura dei dettagli. Aveva una chioma di capelli biondi di una lunghezza rara a vedersi. Distolsi rapidamente lo sguardo per non dare adito a malintesi.

 -    Dunque è un ricercatore.
 -    Ostinato.
 -    E le sue ricerche sono fruttuose?
 -    A volte. E lei che fa di bello?
 -    Studio.
 -    A quale facoltà è iscritta?
 -    Mi sto specializzando in criptozoologia.

Non riuscii a trattenere un sorriso.

 -    Che c’è, la cosa la diverte?
 -    Diciamo che è una disciplina di nicchia.
 -    Ma ho altre aspirazioni.
 -    Quali, se posso?
 -    Lavorare per una compagnia aerea.
 -    In bocca al lupo.

All’uscita della sala convegni si materializzò Canestracci. A fargli strada, due portieri dall’aspetto patibolare. Era attorniato da un nugolo di lacchè di entrambi i sessi.
Mentre mi alzavo dalla panchina, da sotto la mia giacca fece capolino la fondina della pistola. La studentessa se ne avvide, colsi lo stupore nel suo sguardo, ma non fece parola.

 -    Arrivederci –, le dissi.
 -    Arrivederci. Giulia. – disse a sua volta, porgendomi la mano.
 -    Marco.

Aveva una stretta di mano decisa. Ne dedussi che praticava una qualche disciplina sportiva, forse un’arte marziale. Lasciai defluire il corteo di Canestracci e, quando fu a una certa distanza, presi a seguirlo.

Il barista doveva aver assunto qualche sostanza psicotropa: da alcuni minuti era come pietrificato dietro al bancone, con gli occhi sbarrati, un sorriso ebete impresso sul volto. Nel locale, a parte me, c'era un solo avventore, un vecchio ubriaco che pareva anche lui in stato di trance catatonica. Lasciai una banconota da dieci euro nel piattino ed uscii. Nonostante fosse mezzanotte, il centro di Elissinia era una fornace.
Mi incamminai verso casa, imprecando a bassa voce. Giunto all'altezza di via dei Catafratti vidi sbucare dall'androne di un palazzo un grosso topo di fogna. Fui sul punto di sparargli, ma dopo un attimo di esitazione riposi la pistola nella fondina. Il roditore si rifugiò in un vicolo buio. 

Giunto a casa, mi buttai sul divano. Era stata una giornata pesante. Avevo dovuto seguire Canestracci a Milano, sin nei pressi di Galleria Buenos Aires. Vi si era fatto portare dall'autista, Casimiro Carella. Costui era una mia vecchia conoscenza:  un individuo rozzo ma provvisto di intuito animalesco e di una certa astuzia. Godeva dell'amicizia di più di un professore ordinario, grazie alle sue doti di procacciatore di mignotte. Ciò gli aveva garantito una vera e propria immunità all'interno dell'ateneo, la licenza al cazzeggio permanente e sistematici trattamenti di favore.

Scivolai in un sonno senza sogni. Poche ore dopo fui svegliato dallo squillo del telefono: un invito in questura.

 -    Deuterio: come si fa a chiamare così un figlio?
 -    Beh, meglio Deuterio che Stronzio.

I nomi insoliti mi hanno sempre affascinato. Certo dev’esserci un limite. Deuterio pareva effettivamente un po’ eccessivo, ma forse il padre era un chimico, vallo a sapere.
Il brigadiere Marostica invece era di diverso avviso.

 -    Solamente un cretino poteva scegliere un nome del genere.
 -    In effetti.

Ero stato convocato in questura in seguito al ritrovamento, lungo un sentiero nel parco, del cadavere di Canestracci. A fare la macabra scoperta, un podista che di nome faceva Deuterio. Marostica era nervoso, la morte violenta di un illustre docente universitario non era una rogna da poco. 

 -    Da quant’è che lo pedinavi?
 -    L’ho pedinato per una settimana.
 -    E come mai lo hai perso di vista proprio domenica?
 -    Perché ero pagato per pedinarlo fino a sabato.
 -    Ma guarda che coincidenza.
 -    Chiedi in agenzia: è tutto nero su bianco.
 -    Adesso mi riferisci quello che hai visto quando lo pedinavi.
 -    No problem.

Riferii. Marostica ascoltava e, di tanto in tanto, prendeva appunti su un taccuino. Mi lasciò terminare senza mai interrompermi, quindi se ne uscì dicendo:

 -    E’ una grave perdita per la città.
 -    Hai voglia di scherzare?
 -    La pietà non si nega a nessuno.
 -    Ma non si impone neppure a comando.
 -    Non cambierai mai.
 -    Nessuno cambia: né tu, né io. Tutt’al si più peggiora.
 -    Al tuo professore piacevano gli ortaggi?
 -    Perché?
 -    Il medico legale gli ha trovato una carota nel culo. Bella grossa, con un ciuffetto di foglioline.
 -    Qualcosa mi dice che non è morto per overdose di beta carotene.
 -    No: qualcuno gli ha stretto troppo un laccio al collo. Arrivederci, Marco.

Lo salutai con un cenno del capo e me ne andai. La morte di Canestracci mi lasciava indifferente, umanamente parlando, ma provavo un interesse di carattere professionale per le circostanze del decesso. Ora non restava che attendere i ritratti encomiastici del defunto sulla Gazzetta dei Sottomessi, le dichiarazioni fintamente affrante dei colleghi, i necrologi sul cancello principale dell’ateneo. Le acque sulla superficie paludosa di Elissinia si sarebbero agitate un poco, per riprendere poi l’immobilità limacciosa di sempre.

Il titolare dell’agenzia mi guardò storto da dietro la scrivania.

 -    Ha telefonato Marostica.
 -    Davvero?
 -    Mi ha chiesto di te.
 -    E quindi?
 -    E quindi preferirei non ricevere certe chiamate.
 -    Se è per quello, io preferirei non essere convocato in questura, però capita.
 -    L’unica cosa positiva di questa storia è che la moglie ci ha pagato in anticipo.
 -    L’hai sentita?
 -    Naturale.
 -    E…?
 -    Non mi è parsa particolarmente addolorata.
 -    Come biasimarla. C’è altro?
 -    Si: potremmo tornare in pista, se le indagini dovessero andare per le lunghe o non approdare a nulla. Tu che hai detto a Marostica?
 -    Una sintesi di quel che è scritto nel fascicolo consegnato alla vedova dell’illustrissimo.
 -    Ho la sensazione che ci sarà ancora del lavoro per noi. La moglie non può fare la figura di quella che se ne fotte del perché e del percome della morte del marito, dopo averlo fatto pedinare fino a ventiquattr’ore prima.
 -    Immagino l’abbiano iscritta nel registro degli indagati.
 -    Immagini bene. Tu tieni occhi ed orecchie ben aperti.
 -    Come sempre.

Era il momento di andare a trovare il Lello. Benché, dopo l’ultima scarcerazione, conducesse vita ritirata, rimaneva uno degli uomini più informati su tutto ciò che di losco fermentava a Elissinia. Lo conoscevo da una vita e mi doveva più di un favore.
Abitava nel sottotetto di un condominio dirimpetto al teatro cittadino. Usciva solo di notte, e non sempre. Per incontrarlo, bisognava conoscere le sue abitudini, e io sapevo di poterlo trovare, a metà settimana, al bar notturno di Viale Custoza. Fu proprio lì che lo incontrai, quella notte stessa.

 -    Guarda chi si vede -, disse quando mi sedetti al bancone.

Era più grigio e male in arnese del solito.

 -    Ti trovo bene –, replicai.
 -    Respirare respiro. Bevi qualcosa?
 -    Vodka.

Fece un cenno al barista e questi di lì a poco ci servì due bicchieri appannati dal gelo.

 -    Salute.
 -    Salute. Come mai da queste parti?
 -    Non lo indovini?
 -    Passeggiavo. E’ più salutare passeggiare in città che nel parco, ultimamente.
 -    Con tutti quei pollini, se uno è allergico, rischia grosso.
 -    Allo strangolamento siamo tutti quanti un po’ allergici.
 -    Un genere di allergia che si manifesta anche in assenza di graminacee.
 -    Magari in un appartamento.
 -    Anche.
 -    Certo che è strano: con una crisi allergica di quel genere, uno che fa? Va al parco. Non ti sembra curioso?
 -    Magari ce l’hanno accompagnato.
 -    Non a riprendere fiato, però.
 -    Media vita in morte sumus.
 -    Perbacco, Lello, mi sorprendi.
 -    Il tempo per leggere ed apprendere non mi è certo mancato.
 -    Ecco, allora rendimi edotto in merito a quel genere di allergia. Ti risulta che il luminare soffrisse di avitaminosi?
 -    Che io sappia, la vitamina A si assume per via orale, non rettale.
 -    Infatti. Grazie per la vodka.
 -    Da svidànja.

Al funerale di Canestracci non mancava un solo direttore di dipartimento. Oltre ai notabili di Elissinia, erano presenti parecchi curiosi. Nei tanti articoli dedicati dalla Gazzetta e dai quotidiani nazionali alla morte dell’accademico non si faceva alcuna menzione della carota. La notizia tuttavia era filtrata non si sa come, e in città non si parlava d’altro. I volti dei presenti, a cominciare dalle massime autorità dell’ateneo, tradivano un certo imbarazzo. Il rettore magnifico pronunciò un panegirico del defunto, ostentando insincera commozione. Al termine del discorso, un piccione planò sul cortile dov’era in corso la cerimonia, e sganciò uno schizzo di feci che andò a stamparsi con precisione millimetrica sull’abito blu dell’oratore.

Sul volto del Magnifico, che fino a pochi istanti prima appariva disteso, si dipinse una smorfia truce. Il piccolo inconveniente fece emergere il suo essere autentico, fosco e stizzoso. Tale fu la sua rabbia che, con un morso, frantumò il microfono, quindi, imprecando, scese dal podio e si allontanò respingendo in malo modo portieri, commessi e segretarie accorsi servilmente a confortarlo, manco fosse stato colpito da una scheggia di mortaio, anziché da uno schizzo di merda.

Mi congratulai in cuor mio con il piccione.

La cerimonia era a un passo dal naufragio, un rischio che l’Ateneo doveva ad ogni costo scongiurare. Così, il professore ordinario di arti divinatorie, Jacopo Guagliardi, detto lo Zoppo a causa della sua andatura claudicante, guadagnò faticosamente il podio e tentò di rimediare al disastro.

Tanto impacciato era nei movimenti quanto agile nel parlare: il suo fu un intervento dignitoso, privo di toni enfatici. La cosa mi sorprese non poco. Purtroppo, ultimato il discorso, mise un piede in fallo e si abbatté rovinosamente al suolo. Accorsero due portieri: il poveretto fu sollevato da terra come un fagotto di stracci e deposto su una panchina. Aveva un colorito cereo, gli occhi strabuzzati ed emetteva deboli lamenti simili a guaiti.

Si ritenne opportuno porre termine alla cerimonia.

Il pubblico defluì celermente, io mi soffermai ad osservare i capannelli di accademici che cicalecciavano nel cortile, indifferenti alla presenza della bara.

Me ne andai. Nell’uscire dal tetro edificio, udii una voce femminile pronunciare il mio nome. Mi voltai e vidi, sul marciapiede opposto, Giulia. Indossava un abito in maglina lungo, a balze, che le donava molto. Traversai la strada e le andai incontro.

  -    Buongiorno Giulia, come sta?
  -    Bene. Lei, le sue ricerche?
  -    Se ne parlassimo in tutta tranquillità davanti a una tazza di caffè?
  -    Perché no?

Entrammo al Samarcanda, locale frequentato dai vitelloni di Elissinia. Giulia ordinò una caipiroska alla fragola, io un Jameson.

 -    E’ andato al funerale?

Annuii.

 -    Conosceva il morto?
 -    Non personalmente. Lei?
 -    Ho dato il suo esame l’anno scorso.
 -    Ah. Che tipo era?
 -    Molto preparato, grande oratore. Però…
 -    Però?
 -    Niente. Parce sepulto.
 -    Non è ancora stato sepolto.
 -    Faceva un po’ troppo il piacione, mi spiego?
 -    Capito.
 -    Non sto dicendo che l’abbia fatto con me.
 -    Con altre studentesse, invece?
 -    Si, insomma, allungava le mani.
 -    Ci sono state lamentele?
 -    Non che io sappia.
 -    Quindi con lei non ci ha provato?
 -    Le ho già detto di no.
 -    Sorry.
 -    E’ solo che  non amo le domande troppo dirette.
 -    Io invece tendo a evitare le perifrasi, gli eufemismi. Poco fa lei mi ha fatto capire che il defunto era uno sporcaccione.
 -    Non ho detto questo.
 -    Non ha usato quel termine, ma il senso delle sue affermazioni era chiarissimo.
Inoltre…
 -    Inoltre?
 -    Ho la netta sensazione che le abbia fatto delle avances, che lei ha respinto.

Giulia tacque e distolse per un istante lo sguardo.

 -    Se anche fosse, la cosa non ha più alcuna importanza.
 -    Ne convengo.
 -    Sa cosa faceva quel porco? – disse fissandomi dritto negli occhi.
 -    No.
 -    Invitava le studentesse carine nel suo studio e...
 -    …e?
 -    Se la convocata stava al gioco, chiudeva la porta dello studio a chiave e si spogliava. Poi si sdraiava sul tappeto e chiedeva alla ragazza di togliersi le mutandine e sederglisi in faccia.
 -    E chi non ci stava veniva punita in sede d’esame?
 -    No, in tal caso una denuncia lui se la sarebbe beccata di sicuro, ma le accondiscendenti avevano il 30 assicurato.
 -    Ecco, ora il quadro della situazione è nitido. Un altro drink?
 -    Ma non dovevamo parlare davanti a una tazza di caffè?

Sorseggiando la seconda caipiroska, Giulia si sciolse ulteriormente.

 -    Cos’è questa storia della carota?
 -    Gliene hanno trovata una nel culo. Ne spuntava un’estremità, con tanto di foglioline.

Si mise a ridere, e faticò non poco a smettere.

 -    Che figuraccia! Ma se l’è meritata.
 -    Credo che il suo assassino, con quel gesto,  avesse in mente proprio di fare uno sfregio alla figura di uno stimato docente.
 -    Perché assassino? E se fosse stata una donna?
 -    Non penso. Canestracci aveva una bella stazza. Non escludo però il coinvolgimento di una donna, come mandante del delitto. Poi c’è un particolare curioso.
 -    Quale?
 -    La carota era una deep purple.
 -    Sarebbe a dire?
 -    Una varietà ibrida di colore viola scuro.
 -    Mai sentita!
 -    E’ stata immessa di recente sul mercato.
 -    Ma lei come fa a sapere queste cose? Non c’erano sui giornali.
 -    Anche lei sapeva della carota, di cui i giornali hanno taciuto.
 -    Ma non sapevo fosse viola.
 -    Me le ha dette un uccellino.
 -    Un pappagallino, magari?

Quella ragazza m’intrigava.

 -    E se passassimo al tu? -, le dissi.
 -    Di già? Siamo appena al secondo bicchiere.

Si, era decisamente un bel tipo. Restammo ancora un po’ a chiacchierare del più e del meno. O per meglio dire straparlammo entrambi, per via dell’alcol.

Al terzo whisky la mia lucidità mentale cominciò a vacillare. Giulia mi guardava ad occhi sgranati, ridendo alle mie battute. Tre caipiroska non sono uno scherzo. 

 -    Abiti in centro?
 -    Dietro alla stazione.
 -    Ti accompagno, se vuoi.
 -    Ok.

Uscimmo. Fatti pochi passi, mi squillò il cellulare. Era Lello.

 -    Che mi dici?
 -    Ho fatto il giro degli ortolani.
 -    E quindi?
 -    Quando posso trovarti?
 -    Ti trovo io solito posto solita ora.

Riagganciai.

 -    Appuntamento galante?
 -    Tutt’altro.

Giulia camminava appoggiandosi al mio braccio, e nonostante ciò la sua andatura era tutt’altro che stabile.

 -    Direi di evitare il corso, - suggerii -  c’è troppa gente a quest’ora.

Imboccammo Via Sarfatti, una via laterale scarsamente frequentata. All’improvviso, una decina di metri avanti a noi, vidi un corpo precipitare dall’alto di un edificio sul marciapiede sottostante, lanciando un grido terribile. Giulia sobbalzò per lo spavento.

Mi avvicinai per capire se l’uomo che giaceva al suolo fosse ancora vivo. Lo osservai, dal cranio rotto si andava allargando una pozza di sangue. Lo riconobbi subito: si chiamava Sastri, era nel giro dello spaccio.

Composi il 112 sulla tastiera del cellulare.

 -    Giulia, tra poco saranno qui i carabinieri. Ce la fai ad andare a casa da sola?
 -    Mi gira la testa.
 -    Vatti a sedere al bar di fronte alla Feltrinelli, prenditi un caffè. Appena mi libero, ti raggiungo.
 -    E tu che fai?
 -    Aspetto i caramba.

Giulia si diresse verso Via dei Catafratti. Io rimasi dov’ero, poco distante dal cadavere. Una piccola folla di curiosi si venne radunando sul post. L’ululato delle sirene si faceva sempre più acuto. Dopo poco giunsero un’ambulanza e due-diconsi-due vetture dei carabinieri. Da una di esse scese Marostica.

 -    Marco, ma tu sempre in mezzo ai casini stai?
 -    Ne farei volentieri a meno.
 -    Che è successo?
 -    L’ho visto venir giù come un sasso.
 -    Ma guarda – disse il brigadiere dopo aver osservato attentamente il morto –, una vecchia conoscenza. Tu che ci facevi qua?
 -    Passeggiavo.
 -    Se passeggiavi più svelto ti cadeva in testa.

I caramba si fiondarono nel palazzo prospiciente il tratto di marciapiede su cui giaceva il cadavere, io invece nel cesso del bar più vicino perché mi stavo pisciando addosso.

Raggiunsi Giulia alla Feltrinelli e l’accompagnai a casa. Non dissi di no quando mi chiese se volevo salire da lei. Mi aspettavo il classico appartamentino per studenti e invece mi trovai di fronte a un signor trilocale elegantemente arredato. Giulia si accorse del mio stupore.

 -    E’ di mio padre, un investimento. Mettiti comodo, ti raggiungo subito.

Mi sedetti sul divano, un ampio divano a isola. Giulia riapparve dopo una decina di minuti con indosso un accappatoio e si sdraiò lunga distesa sul divano, alla mia destra.

 -    Non è che mi faresti un favore?
 -    Dimmi.
 -    Mi massaggeresti i piedi? E’ una cosa che adoro, mi rilassa tantissimo.
 -    Ok.
 -    Non ti ho detto tutto.
 -    Cos’hai tralasciato?
 -    Premi con più energia. Sai che i vari punti della pianta del piede sono collegati ad alcune parti del nostro corpo?
 -    La chiamano riflessologia plantare. Stavi dicendo?
 -    Ho preso 30 e lode all’esame di Letteratura onirica.
 -    Ah.
 -    Ora mi giudicherai una troia.
 -    Tendo a non giudicare in modo affrettato.
 -    Sapessi che razza di maiale era Canestracci, un vero pervertito.
 -    Non sei costretta a parlarmene.

Lei però non chiedeva di meglio che spiattellare tutto quanto, fin nei dettagli.

 -    Faceva schifo a vedersi. Te lo immagini tutto nudo, con le palle penzoloni? Gli arrivavano quasi alle ginocchia.
 -    Oh la miseria!
 -    Non ridere. Il suo corpo flaccido mi disgustava, aveva un colorito cadaverico.

Hai presente i corpi degli annegati che riemergono in superficie quando sono gonfi di gas? Ecco, così.

 -    Che bella immagine.
 -    Si masturbava di continuo ma non gli si rizzava. Voleva che gli strizzassi le palle e l’uccello con una cordicella di cuoio. Poi mi faceva indossare uno strap-on...
 -    E bravo il professore.
 -    Tutto sommato me la sono cavata a buon mercato. Un paio di incontri e nient’altro.
 -    E non ti ha più cercata?
 -    No cioè, sì, ma ho preso tempo. L’ho rivisto all’esame, ed è stato di parola.
 -    Buon per te. Ora ti devo proprio salutare.
 -    Cos’è, ti ho scandalizzato?
 -    Figurati, è che ho da fare.
 -    Ti lascio il mio numero se vuoi.

Presi nota. Si alzò per accompagnarmi alla porta. Non la baciai: l’idea di lei con Canestracci mi procurava un certo disgusto.

Si chiamava Maurizio, ma tutti si divertivano a storpiarne il nome. Così, c’era chi lo chiamava Malizio, chi Novizio, chi invece Mestizio. E ogni volta il poveretto si affrettava a correggere con voce stridula il proprio interlocutore: “Non mi chiamo Solstizio, mi chiamo Maurizio!”, suscitando l’ilarità dei presenti.
Io non l’avevo mai sfottuto, ogni tanto però gli intimavo di levarsi dai coglioni, quando era troppo insistente nel chiedere uno spicciolo o una sigaretta (a me che non fumo).
Quel giorno lo vidi stravaccato su una panchina nei giardini del Castello.

 -    Uèh Maurì.
 -    Ciao Marcone.
 -    Sei già pieno a quest’ora?
 -    Ho bevuto solo un goccetto.
 -    Seee.
 -    Giuro.
 -    Meglio che non giuri. Ciao!

Il suo alito puzzava di vino che potevi sentirne l’odore a tre metri di distanza. Allungai il passo e dopo una decina di minuti giunsi in agenzia. La segretaria era al telefono e mi fece segno di entrare nell’ufficio del titolare.

 -    Eccoti finalmente! Da’ un’occhiata alla prima pagina del giornale.

Sulla prima pagina della Gazzetta spiccava un titolone: “Tragica caduta dal balcone”. Sastri non era uno sputapalline qualunque ma il pusher ufficiale dei rampolli della borghesia locale.

 -    La vedova Canestracci ha chiamato. Vuole vederti.
 -    Ti farò sapere.
 -    Presto però!
 -    Il tempo di passare in questura per testimoniare.

Negli uffici della questura notai una certa animazione.

 -    Brigadiere, ultimamente ci vediamo spesso.
 -    Persino troppo, direi. Tu che parere ti sei fatto sulla morte di Sastri?
 -    L’ho visto venir giù urlando. Non credo sia scivolato mentre stava annaffiando i gerani sul balcone.
 -    Tanto più che quella non era casa sua.
 -    Ah. E di chi?
 -    Perché me lo chiedi, lo sai già, sta sul giornale.
 -    Non l’ho ancora letto.
 -    Ci abita un avvocato, che però in quel momento era assente.
 -    Ah. E in merito al carotone, novità?
 -    L’indagine è in corso. Hai firmato la deposizione?
 -    Certo che sì. Ciao brigadiere, buon lavoro!
 -    Altrettanto a te.

Tutto si può dire di Elissinia tranne che sia un posto dove non succede niente. In pochi giorni, due morti ammazzati. Di Canestracci in città non si parlava più, la vicenda della carota era così imbarazzante per le autorità accademiche che nessuno, nei corridoi dell’università, osava fare il minimo cenno al docente. La vedova tuttavia non aveva alcuna intenzione di stare al gioco. Mi ricevette nel tardo pomeriggio.

 -    Se credono che resterò muta in disparte, si sbagliano! Mandria di ipocriti!
 -    Signora, le posso parlare con assoluta franchezza?
 -    Certo.
 -    Se fossi al suo posto non so se agiterei più di tanto le acque. Lei ha letto il mio rapporto…
 -    L’ho letto. So perfettamente che razza di porco fosse mio marito ma non è questo il punto. Non mi sta bene che i suoi “cari colleghi” passino agli occhi di tutti per dei galantuomini e lui per l’unica pecora nera dell’ateneo.
 -    Capisco.
 -    Quindi non starò zitta. Continui ad indagare.
 -    Neppure se questo significasse scoperchiare una sentina?
 -    In quella sentina di sicuro non ci sono soltanto le zozzerie di Ulderico!
 -    Ma ci sono anche quelle.
 -    Non mi importa. Tanto peggio di così… La sua immagine non potrebbe essere maggiormente infangata di quel che già è.
 -    In tutto questo il mio compito sarebbe?
 -    Incida il bubbone di questa città sino a farne uscire tutto il marcio.
 -    Signora, lei mi affida un compito per il quale non basterebbe una brigata di chirurghi.

Trovai Lello che leggeva un libro, seduto al solito tavolo, al solito bar, alla solita ora.

 -    Che leggi di bello?

Mi mostrò la copertina, logora.

 -    Rigodon? Passa il tempo ma non la tua passione per Céline, vedo. Che mi dici dell’allergico?
 -    Non ti sembra strano il volo di Sastri a pochi giorni dal ritrovamento del cadavere del prof? Ammettiamo, in via del tutto ipotetica, che Sastri fosse al corrente di qualcosa. Hai idea della quantità di lordume che scorre in questa tranquilla città di provincia?
 -    Ne ho idea. L’allergico avrà pestato i calli sbagliati?
 -    Non aveva debiti con cravattari.
 -    E allora?
 -    E allora bisogna cercare altrove.
 -    Resta da capire cosa leghi i due delitti.
 -    La risposta sta nella vita privata dell’allergico.
 -    Era un depravato con la passione per le studentesse troie.
 -    Sai che rarità.
 -    Oggi ho parlato con la moglie. Pare intenzionata a non lasciar posare la polvere sulla faccenda.
 -    E tu credi che le convenga?
 -    Per niente.

Le sale autoptiche erano posizionate nei sotterranei dell’istituto di medicina legale, situato a poche centinaia di metri dalla camera mortuaria. Appena entrato, fui investito da lezzi talmente mefitici che dovetti appoggiarmi alla parete del corridoio per non perdere l’equilibrio.

 -    Sentito che puzza? Ne è arrivato uno brutto!

Conoscevo Valerio da anni. Lavorava all’istituto, anzi, si può dire che quella fosse la sua seconda casa: era sempre lì, in mezzo ai morti.

 -    Cazzo Vale, che tanfo!
 -    Te l’ho detto, è di quelli brutti. L’han trovato chiuso nel bagagliaio di una macchina, doveva essere lì da giorni. Avessi visto che matasse di cagnotti!
 -    C’è Manelli?
 -    Ha finito adesso l’autopsia del puzzone.
 -    E’ nel suo ufficio?
 -    Aspetto che lo avverto.

Il medico settore mi ricevette dopo poco.

 -    Marco, hai scelto il giorno sbagliato per venirmi a trovare.
 -    Me ne sono accorto. Che ci faceva quel tizio nel bagagliaio?
 -    Si riposava dopo aver assunto del piombo tetraetile.
 -    Minchia, e con questo fanno tre morti ammazzati in sette giorni. Mica male per una città di provincia.
 -    Già.
 -    L’avete già identificato?
 -    Non ancora.
 -    E del prof che mi dici?
 -    Non posso dirti nulla di più di quel che già sai.
 -    Fai un piccolo sforzo.
 -    Credo che avesse dei vizietti.
 -    Tipo?
 -    Bdsm. Si faceva legare e frustare.
 -    Capito. Senti, ti lascio perché questa puzza è veramente atroce.
 -    Grazie tante, pensa che io invece devo restare qui ad annusarla.

Mi allontanai dal sotterraneo a passo spedito e una volta fuori camminai a lungo per togliermi dalle narici l’odore nauseabondo della putrefazione. Sapevo già che avrei dovuto portare in lavanderia ogni singolo capo di abbigliamento che avevo indosso. Il cellulare diede uno squillo. Era Giulia su Whatsapp: “Sei bravo a fare i massaggi”. Che gran puttana!

L’indomani, Elissinia si ritrovò sui tigì nazionali. C’era da immaginarlo: tre morti misteriose in una settimana non sono uno scherzo.  Il disagio della borghesia locale era palpabile, lo si respirava quasi, nelle vie del centro. I portieri dell’ateneo sfoderavano espressioni più truci del solito, parevano sul punto di mordere chiunque si avvicinasse all’ingresso del rettorato. Ce n’era uno cui anni prima era accaduto un incidente curioso: era stato inghiottito da una voragine spalancatasi nel manto stradale. Purtroppo ne era uscito vivo. Me lo trovai di fronte mentre traversavo il cortile della biblioteca centrale universitaria. Mi lanciò un’occhiata ostile.

 -    Beh?, gli domandai a muso duro.

Ero sul punto di tirargli un cazzotto sul grugno. Per sua fortuna abbassò lo sguardo e scantonò. Quell’individuo mi dava tremendamente sui nervi.

Nelle vicinanze della trattoria I Tre Fiumi vidi sbucare da un vicoletto una figura nota. 

 -    Ciao Marco.
 -    Lello, che ci fai in giro a quest’ora?
 -    Hai due minuti?
 -    Certo.
 -    Bene, allora facciamo due passi.

Ero davvero sorpreso di trovarlo in giro prima di mezzogiorno, di solito dormiva sino a tardi e usciva dopo il tramonto. Ci dirigemmo verso la basilica di San Simeone Salos.

 -    Marco, senti, te lo dico senza girarci troppo intorno: ti stai infilando in una cisterna piena di merda. Siamo amici da una vita, se ti parlo così significa che ne ho motivo. Lascia perdere questa storia.
 -    Cos’hai saputo esattamente?
 -    Quanto basta per dirti di mollare il colpo e alla svelta. Non è uno scherzo: rischi di finire anche tu in un bagagliaio.
 -    Questa città comincia a piacermi sempre meno.
 -    Purtroppo è così. Né tu né io possiamo farci niente.
 -    Mi resta la curiosità di capire quale sia, ammesso che esista, il rapporto fra queste morti. Oddio, un’ipotesi ce l’ho, ma è basata su delle semplici supposizioni, anzi su delle sensazioni.
 -    E quale sarebbe?
 -    Il prof aveva messo le mani sulla ragazza sbagliata. Che so, la figlia o la nipote di un santista.
 -    E Sastri?
 -    Sbaglierò ma secondo me Sastri è stato punito per lo stesso motivo. Del tipo nel bagagliaio non ho idea.
 -    Fuochino. Ora capisci perché è bene che tu te ne stia fuori? Chi li ha uccisi è ancora a piede libero.

Camminammo senza più parlare, sinché non giungemmo nei pressi della basilica.

 -    Sai cosa disse Simeone Salos al fratello Giovanni prima di abbandonare il deserto?
 -    No.
 -    Vado a prendermi gioco del mondo.

Lello si accese una sigaretta.

 -    Che ne diresti invece se noi andassimo a berci un bianchino?

Pietro Ferrari, agosto 2018

giovedì 20 settembre 2018

IL PRURITO DEL DRAGO
(Parte Terza)
 

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Vai alla Parte Prima

VIII 

La città dava il peggio di sé nelle ore notturne, quando le mura degli edifici rilasciavano il calore assorbito durante il giorno. Ondate di aria rovente trasformavano le strette  strade del centro in altrettante fornaci. Rinchiusi nelle proprie abitazioni, gli elissini boccheggiavano disperati. Attendevano il sopraggiungere dell’alba e di un poco di un refrigerio.
Di tanto in tanto un grido d’agonia squarciava il silenzio: la città aveva perso un abitante, stroncato dall’afa. Unici a rimanere attivi in quelle notti da incubo, gli addetti alle pompe funebri. Raccolti in crocchi intorno alle fontanelle nei giardini pubblici, vegliavano con uno stock di bare sempre a portata di mano, attenti a cogliere anche il più flebile rantolo che preannunciasse un decesso. Quando ciò accadeva, scattavano come branchi di lupi. Talvolta squadre di agenzie rivali si incrociavano nell’androne di un palazzo: ne scaturivano risse violentissime. La squadra che aveva la meglio irrompeva poi, trafelata, nella casa del morto. Neutralizzata la vedova con del cloroformio, i necrofori provvedevano al lavaggio, stiratura, vestizione e imballaggio del cadavere. Queste operazioni si svolgevano a una velocità stupefacente, frutto di un intenso addestramento. Il momento più critico era quello dell’uscita dal palazzo, e non tanto per  la difficoltà di calare una bara giù per scale anguste e pericolanti, ma per il rischio di vedersi scippare il morto da una squadra rivale appostata all’esterno. Fu durante una di queste notti che Kavàla e Garm fecero ingresso in città. Lo sgrinz, fedele alla parola data, li aveva condotti sino all’imboccatura del ponte.
  - Ho mantenuto il mio impegno. Non procederò oltre. Ci salutiamo qui, e per sempre. Confido di non ritornare più su questa terra in alcuna forma. Vi auguro di riuscire in ciò che vi prefiggete. Addio amici miei!
Kavàla carezzò il testone dell’onesto animale e altrettanto fece Garm. Erano entrambi emozionati.  Rimasero a guardare lo sgrinz che si allontava, sino a perdersi nel buio.
  - Non lo rivedremo mai più - singhiozzò Kavàla.
  - Ma non lo dimenticheremo.
Si misero in cammino, per sfuggire agli sciami di zanzare. Traversato di gran carriera il ponte in pietra che sovrastava il Nitico, si affacciarono su un ampio viale ai cui lati si ergevano costruzioni massicce.
  - Siamo ad Elissinia, finalmente.
Data l’ora, non si vedeva in giro anima viva.
  - Saranno morti tutti?
  - Non dire sciocchezze Garm, staranno dormendo.
Il viale sfociava in una piazza dominata da un imponente gruppo scultoreo: raffigurava un uomo in ginocchio, in abiti da domestico, intento a lucidare gli stivali di un uomo riccamente abbigliato e dal portamento altero.   
  - E adesso dove andiamo?
  - Chiediamo a quel cane randagio.
Un cane di mezza taglia, magro e dal pelo arruffato, si stava dirigendo verso di loro con andatura ciondolante. Aveva l’aria di essere avvezzo alla vita errabonda. Nei suoi occhi bigi la bontà d’animo traspariva, come spesso capita di osservare nei cani, sotto a un denso velo di tristezza.
  - Avete qualcosa da mangiare?
  - Dagli una galletta, Garm.
  - Siete nuovi di qui, vero? - chiese il cane sgranocchiando di gusto il cibo ricevuto.
  - Sì, e non abbiamo dove riposare.
  - A quest’ora è tutto chiuso. Ci sarebbe un posto fresco e riparato: se volete vi ci accompagno.
  - Sei senza padrone?
  - Ce l’avevo. E’ morto due anni fa.
  - Era molto anziano?
  - Non tanto, ma era malato. Ho vissuto con lui per sette anni.
  - Non è poco.
  - Specialmente per un cane. Ora, alla mia non più giovane età, mi ritrovo a spasso.
  - Non ci siamo ancora presentati: io sono Kavàla, lui è Garm. E tu, hai un nome?
  - Il mio padrone mi chiamava Anacleto.
Stavano così parlottando quando improvvisamente da un balcone si sporse un uomo in mutande, il quale li apostrofò aspramente.
  - La volete smettere di far rumore? Qui c’è gente che dorme!
  - Ci scusi, non volevamo disturbarla - replicò Kavàla.
  - E allora levatevi di torno!
  - Le pare questo il modo di rivolgersi a una donna?
L’uomo in mutande avvampò  di rabbia.
  - Adesso scendo e vi sistemo io! Vi concio per le feste!
Dì lì a poco si udì un gran trambusto, quindi una serie di pesanti tonfi seguiti da un urlo di dolore. I lamenti che giungevano da dietro il portone del palazzo non lasciavano adito a dubbi: l’uomo era caduto per le scale.
  - Sentite - suggerì Anacleto - togliamoci di qui, è meglio.
Mentre si allontanavano, una squadra di addetti alle pompe funebri sopraggiungeva di gran carriera reggendo una bara rozzamente intagliata. Due di essi forzarono il portone e ne uscirono reggendo il corpo esanime dell’uomo in mutande. Lo deposero nella cassa che i colleghi avevano poggiato sul marciapiede. In un battibaleno il coperchio fu inchiodato alla bara e la squadra ripartì a tutta velocità.
  - E’ bell’e morto? - domandò Kavàla, incredula.
  - Immagino di sì. A volte però, se non sono proprio morti del tutto, gli danno un aiutino.
  - E cioè?
  - Un colpetto alla base del cranio, giusto per accelerare la dipartita.
  - Certo che era proprio un bruto.
  - Se solo avesse immaginato quel che l’aspettava!
  - Mai lasciarsi trasportare dalla collera.
  - Mi ha sempre intrigato il tema delle passioni. Di un temperamento focoso si dice che è passionale.
   - E’ una questione di misura. Un individuo irascibile è un individuo spiacevole.
  - Anche un soggetto apatico non è propriamente il massimo.
  - Io sono stato spesso accusato di avere un atteggiamento apatico nei confronti della vita.
  - In effetti, Garm, un po’ lo sei davvero. Non ti curi di nulla: da quanto tempo non cambi l’abito che indossi? Sembri uno spazzacamino.
  - Ma io sono uno spazzacamino. Era quello, il mio mestiere. O meglio, lo è stato finché mi è capitato un incidente.
  - Racconta.
  - Una volta sono rimasto incastrato in una canna fumaria. E’ stato terribile.
  - Povero!
  - Da allora non ho più lavorato.
  - Hai cambiato mestiere?
  - No, ho smesso di lavorare del tutto. Mi sono dato alla meditazione.
  - E come mangiavi?
  - Grazie alla generosità del mio maestro Firlfrind.
  - E non hai fatto altro che meditare, da allora?
  - Sì, ma ti garantisco che è spossante.
  - Di grazia, qual era l’oggetto delle tue riflessioni?
  - La natura transeunte dei fenomeni, la mutevolezza delle forme.
  - Potevi almeno mutare i vestiti.
  - Lasciate che vi racconti una cosa - disse il cane. - Il mio padrone non ha mai lavorato in vita sua. Mai. Non l’ho mai visto chinarsi a strappare le erbacce in cortile. Era un tipo malinconico, usciva pochissimo di casa. Parlava sempre da solo.
  - Di che viveva?
  - Dell’eredità ricevuta da uno zio. E’ morto dopo aver speso gli ultimi spiccioli rimastigli.
  - Che storia!
  - Non mi sento di biasimarlo. Mi ha sempre dato da mangiare. Era un individuo inadatto alla vita, tutto qui.
Cammina cammina i tre amici giunsero nei pressi di una costruzione in pietra.
  - Seguitemi - disse Anacleto  - ma fate attenzione ai gradini: sono molti ripidi.
Discesero quattro rampe di scale e si ritrovarono nelle catacombe di Elissinia.
  - Sono state scavate nel tufo, secoli fa.
  - Da chi?
  - Dai primi seguaci della Nube Purpurea.
  - E perché si sono segregati qui sotto?
  - Per non essere uccisi.
  - E questi teschi a chi appartengono?
  - A quei primi seguaci.
  - Sono morti lo stesso, quindi.
  - Che ragionamento! Morire, prima o poi, si muore tutti, ma c’è modo e modo.
  - Così hanno preferito vivere come talpe?
  - Esatto.
  - Chiamala vita.
  - Ragazzi, le cose non sono mai così semplici come voi credete… C’è gente che passa l’intera esistenza in uno scantinato e poi muore, senza aver mai veramente vissuto. La vita come voi la intendete non è alla portata di tutti.
  - Io in queste catacombe non ci voglio stare. Non ci rimango un minuto di più! - esclamò Kavàla battendo i piedi per il nervoso.
  - Non ti preoccupare, dove vi porto io gli spazi non sono così angusti, fidati.
  - Dai Kavàla, coraggio, andiamo!
Garm si mostrava insolitamente deciso, cosa che sorprese non poco la ragazza, abituata a vederlo sempre titubante, in preda all’ansia e agli spasmi intestinali.
Anacleto si muoveva spedito.
  - Conosco palmo a palmo questi cunicoli! Ecco, vedete quella luce laggiù?
Al termine della galleria brillava una luce azzurra, la cui intensità andava aumentando man mano che il terzetto procedeva in quella direzione.
Kavàla strattonò Garm per un braccio.
  - Non pensi di dovermi una spiegazione? All’improvviso ti vedo deporre le tue titubanze e partire a spron battuto appresso a un cane in queste orride catacombe. Dove mi stai conducendo? E tu, Anacleto, credi forse che io sia così sciocca da credere che il nostro incontro con te sia stato casuale?
Garm interruppe la propria corsa.
  - Hai ragione. E’ il momento che io metta le carte in tavola. La missione di cui ti ho parlato consiste nel restituire la libertà al mio Re, rinchiuso nel sottosuolo di Elissinia. E’ alla sua prigione che siamo diretti.
Anacleto prese a sua volta la parola.
  - Non ti reputo sciocca, anzi. Il mio compito è quello di condurvi sino a colui che Garm dovrà liberare. Un compito che mi è stato assegnato da Firlfrind, come avrai già indovinato.
  - E chi sarebbe questo Re?
  - E’ il sovrano da cui pure tu dipendi, anche se non lo sai: il Re del Nulla.
Kavàla si zittì.  
  - Non possiamo indugiare oltre! - disse Anacleto. - Seguitemi, presto.
Si rimisero in cammino. Le pareti di roccia del cunicolo presentavano striature argentee la cui brillantezza, esaltata dalla rifrazione dei raggi luminosi provenienti dall’uscita, colorava l’ambiente di riflessi cangianti. 
Un soffio d’aria maleodorante li investì nel momento stesso in cui varcarono la soglia.
Dinanzi a loro si apriva una grotta smisurata, pullulante di anziani, uomini e donne.
Kavàla e Garm trasalirono.
  - Ecco dov’erano finiti i vecchi!
  - Credevo che fossero tutti morti.
  - Ma no - intervenne Anacleto. - Li hanno solo nascosti quaggiù.
  - Guarda quelli: sembrano statue di sale.
  - Sono i catatonici: trascorrono intere giornate immobili, paralizzati dalla disperazione.
  - Terribile!
  - Sono consapevoli di non avere più alcun futuro.
  - E quelle donne scarmigliate che vanno avanti e indietro gesticolando? Perché gridano così?
  - Sono affette da demenza. In fondo però stanno meglio di quegli altri: perse come sono nel loro delirio non si rendono conto di nulla.
  - Chi li ha messi quaggiù?
  - I loro figli. Non che mi senta di biasimarli. Vivere con un genitore ridotto in quello stato non è facile, anzi. Il fatto è che la ruota gira. Siete tutti destinati a invecchiare e un domani toccherà a voi finire in queste grotte.
  - Quaggiù io vedo solo afflizione e miseria.
  - Perché sei una donna sensibile. Ma ti domando: la vita va giudicata dal suo epilogo o dal suo cominciamento?
  - Spiegati meglio.
  - Dinanzi a te sta una moltitudine di anzianissimi: individui giunti al termine della propria esistenza. Logico che, vista da qui, ovvero dal suo triste approdo, la vita appaia uno strazio. Ma se li avessi visti quand’erano ancora bambini vivaci, intenti al gioco? Il tutto ti apparirebbe sotto una luce diversa.
  - Non c’è il minimo dubbio. Fatto sta che il tempo non procede a ritroso. Dunque, è sulla base del presente che io emetto un giudizio. Né potrei fare altrimenti.
  - Kavàla ha ragione, Anacleto.
  - D’accordo. Ma l’oscurità di quaggiù non vi induca a dimenticare che, in superficie, il sole sorge ancora.
  - E meno male. Per intanto, qui, c’è una puzza tremenda di pipì.
  - Questi poveretti se la fanno tutta addosso.
  - Che tristezza. E’ questo dunque ciò che ci aspetta?
  - Sì, se non avrete la fortuna di morire al momento giusto.
   - E quale sarebbe, di grazia, il momento giusto?
  - Quando si è ancora se stessi. Ma è un privilegio riservato a pochi.
  - Quanti sono i vecchi concentrati quaggiù?
  - Migliaia. Ci sono almeno una decina di grotte grandi come questa, piene zeppe di anziani. 
  - E quel bassorilievo là? – chiese Garm indicando con la mano un simbolo scolpito nella parete opposta della grotta. - Cosa raffigura?
  - E’ un simbolo antichissimo.
  - Sembra una ruota.
  - Infatti. Sta proprio a significare il susseguirsi ciclico delle nascite e delle morti, e i suoi bracci rappresentano le varie forme che la vita può assumere: esseri umani, animali, piante, demoni. Una ruota che è in perenne movimento.
  - E cosa la fa muovere?
  - Il desiderio di vivere che è in ciascuno di noi.
Mentre Garm e Anacleto così discorrevano, Kavàla seguitava a osservare i vecchi.
  - Non possiamo far niente per loro? - domandò sconsolata. - Se solo qualcuno rivolgesse loro una parola buona…
  - In questa grotta sono novecento. Ti garantisco che dopo una settimana a contatto con loro fuggiresti a gambe levate.
  - Intanto - disse Garm - io suggerirei di proseguire e porre la giusta distanza fra noi e questo luogo di dolore.
  - Ottima idea - replicò Anacleto e si diresse di buona lena verso una galleria prospiciente. La galleria era ampia abbastanza da consentire il passaggio di un carro, ma ingombra di oggetti ammassati alla rinfusa: valigie, scarpe, abiti, lenzuola.
  - Di chi è tutta questa roba?
  - Dei vecchietti. E’ il loro corredo, per così dire. I figli lo confezionano con cura, senza sapere che poi finirà sparso in questo modo dal personale ausiliario.
Farsi largo in quel baillame richiese non poca fatica. La galleria era lunga un centinaio di metri: impiegarono più di mezz’ora per percorrerla.
Superato l’ultimo sbarramento di valigie, si ritrovarono in una grotta grande quanto la prima, ma del tutto deserta, il cui pavimento privo di asperità era ricoperto da uno strato uniforme di sabbia finissima. Al centro della grotta videro quello che pareva l’orlo di un pozzo, il cui diametro non era inferiore ai venti metri. Vi si avvicinarono con circospezione e fecero per sbirciare oltre il bordo,. Quand’ecco che, dall’abisso, si levarono grida stridule.  Spaventati, si affrettarono a rifugiarsi nuovamente nella galleria. Creature alate, dai tratti vagamente antropomorfi, emersero dal pozzo e si librarono sotto la volta della grotta, per poi rituffarsi nel tenebroso abisso.
  - E adesso che facciamo? - domandò Kavàla.
  - Dovete scendere nel pozzo - rispose Anacleto. - E’ lì che lo tengono prigioniero.
  - Firlfrind mi parlò di questo luogo. Il solo modo per arrivare alla cella del Re è quello di convincere i pipistrelloni ad aiutarci.
  - Dimmi come.
Garm aprì la bisaccia e ne tirò fuori una manciata di pistacchi.
  - Ne vanno ghiotti. Con questi ci faremo offrire un passaggio.
  - Ma capiscono almeno la nostra lingua?
  - Firlfrind questo non me l’ha detto.
  - Lo scopriremo subito.
Senza indugi, la bella Kavàla tolse la bisaccia a Garm, uscì allo scoperto e lanciò un grido del tutto identico a quelli emessi dalle creature alate. Dall’abisso le rispose un coro di acuti stridii, e poco dopo apparvero due di quegli esseri volanti, che si posarono proprio dinanzi a lei.
  - Guardate cos’ho per voi - disse Kavàla tendendo loro una manciata di pistacchi. Gli occhi lattiginosi delle strane creature si spalancarono per la sorpresa. Sui loro volti diafani, dai lineamenti semiumani, apparve una specie di sorriso. Kavàla lasciò cadere un po’ di pistacchi fra i loro artigli protesi.
  - Se mi aiuterete, ve ne darò un bel sacchetto. Dovrete trasportare in fondo al pozzo me e il mio amico, e poi riportarci qui, insieme a un’altra persona. Mi avete compreso? Siamo d’accordo?
Le due creature annuirono entusiaste, sgranocchiando i pistacchi.
  - Potete uscire. Ci aiuteranno.
Garm, seguito dal cane, raggiunse Kavàla.
  - E tu, Anacleto?
  - Io vi aspetto qui. La mia parte l’ho fatta. Vi ho guidati fin quasi alla meta. Ora tocca a voi.
I due giovani montarono in groppa ai pipistrelloni. Quando si furono ben sistemati, i due esseri alati si alzarono in volo. Compiuti alcuni giri concentrici intorno all’imboccatura del pozzo, calarono repentinamente nell’abisso.
Kavàla lanciò un grido. Se l’oscurità ammette gradazioni, quella racchiusa fra le pareti del pozzo era senz’altro del genere peggiore: talmente fitta da risultare impenetrabile. Parve, ai due giovani, di sprofondare in una cisterna di nerissimo inchiostro. Seguendo una traiettoria a spirale, gli esseri alati scesero in fondo all’abisso. Qui giunti, deposero i propri passeggeri.
  - Dove sei Garm? Non ti vedo!
  - Sono qui Kavàla! E ora ci abbandonano in queste tenebre?
Si udì un cigolio: una pesante porta si stava aprendo, sospinta dalle creature alate. Una lama di luce fendette l’oscurità, dapprima debolmente, poi con sempre maggior forza, man mano che l’apertura si ampliava. Una volta spalancata del tutto la porta, si rivelò agli sguardi dei due giovani un corridoio dalle pareti rivestite di lastre di marmo.
  - Questo passaggio non può che condurre alla cella del Re.
Garm prese per mano Kavàla e si inoltrò con lei nel corridoio, scavato nella roccia seguendo un tracciato irregolare, zigzagante. Percorsi alcune decine di metri, udirono dei suoni provenire da dietro l’ennesima svolta. Voci umane. Restando ben nascosti, tesero le orecchie per cogliere il contenuto della conversazione che si stava svolgendo a pochi passi da loro.        
  - Ti ho mai detto di mio zio? - disse una voce maschile.
  - Sentiamo.
  - Era un uomo di un’avarizia e un’avidità incredibili. Pensa che una volta lo vidi derubare un vecchio mendicante zoppo. Il poveretto lanciò un grido, fece per inseguire il briccone, ma inciampò in una sporgenza del terreno e precipitò dal ponte.
  - Ah. La scena si svolgeva su un ponte?
  - Un ponte altissimo. Ricordo che il fiume era in piena. Un massa d’acqua imponente, che precipitava ruggendo verso valle. Non so come, il povero vecchio riuscì a tornare a galla e si aggrappò a un tronco d’albero trascinato dalla corrente. In quel momento, un gabbiano calò su di lui e lo beccò più volte in testa.
  - Pure!
  - Sono storie tristi, che stringono il cuore.
  - E tu non facesti niente per salvarlo?
  - Gli gettai una cima. Ma mi ero dimenticato di assicurarla a un sostegno e fu inghiottita dalle acque.
  - Un intervento risolutore.
  - Lo zio, nel frattempo, si era dileguato nei vicoli della città vecchia.
  - Ed è ancora vivo, quel fior di galantuomo?
  - No: morì poche settimane dopo il fattaccio. Il suo decesso avvenne in circostanze misteriose.
  - Sarebbe a dire?
  - Il suo cadavere era, come posso spiegarti, arrotolato come un panno. Strizzato.
  - E chi lo strizzò?
  - Non lo si seppe mai. Il corpo fu ritrovato in una camera chiusa a chiave dall’interno.
  - Si sarà strizzato da solo.
  - Impossibile. Non diresti così, se tu l’avessi visto.
  - E i suoi denari? Ne avrà avuti parecchi, immagino. Te ne ha lasciati un po’?
 - Qui viene il bello: la cassaforte era vuota, e così pure il bauletto nascosto sotto l’impiantito del pavimento. Gli avevano portato via tutto quanto.
  - Perbacco. Ecco perché ti sei ridotto a montar la guardia in fondo a un pozzo.
  - A proposito, vengono o no a darci il cambio?
  - Ho rinunciato a sperarci.
  - Doveva accadere dieci anni fa!
  - Tant’è.
  - Sarà cambiato, il mondo di lassù?
  - Mi sa proprio di sì.
  - Pensa che bello, rivedere la luce del giorno, i prati in fiore, le donne che sculettano! Te la ricordi almeno la parola d’ordine?
  - Ishtar.
  - Mi domando quanto dovremo attendere prima di sentirla pronunciare.        
Garm e Kavàla si scambiarono uno sguardo d’intesa, presero un bel respiro e svoltarono l’angolo. Due uomini sulla cinquantina, seduti ciascuno dietro a una scrivania, ai lati di una porta in legno massiccio, li fissarono allibiti.
  - Siamo venuti a darvi il cambio - disse Garm.
Il più corpulento dei due aprì bocca come per parlare ma non proferì parola, restandosene con un’espressione stupefatta. Il più magro invece replicò prontamente. 
  - Parola d’ordine?
  - Ishtar! - esclamarono all’unisono i due giovani.
L’uomo balzò in piedi rovesciando la sedia, e si mise a danzare in preda all’euforia.
  - E’ finita! E’ finita!
L’omaccione, dal canto suo, cominciava a riaversi dalla sorpresa.
  - Finita… Siamo liberi.
Kavàla non aveva mai visto in vita sua uomini più trasandati di quelli, a parte Garm. Indossavano abiti rattoppati, logori e bisunti.
  - Prima di tutto, il passaggio di consegne! - dichiarò l’omaccione, prendendo il controllo della situazione. - Allora: qui, in questa scatola di latta che un tempo conteneva biscotti, c’è la chiave della cella. I cassetti delle scrivanie contengono, nell’ordine: moduli dell’amministrazione carceraria, carta carbone, timbri, tampone per timbri, boccette di inchiostro.
  - I viveri, i viveri! - suggerì l’altro.
  - La dispensa è qui dietro. In questo armadio incastonato nella roccia. Visto quante belle scatolette? In quella nicchia laggiù potete fare i vostri bisogni. Si dorme per terra, sul paglione. Vi ho detto tutto. E ora firmatemi questo modulo, per la presa di consegna della chiave.
Garm e Kavàla firmarono diligentemente.     
  - Vent’anni, capite? Vent’anni rinchiusi qui sotto! Senza interruzione! - urlò il carceriere magro senza interrompere la sua danza. - Dovevano essere dieci, li hanno raddoppiati senza una spiegazione, quei maledetti! Ma ora è finita! Si torna nel mondo dei vivi!
  - Non dovete portare nulla con voi? - chiese Garm.
  - Non possediamo altro che questi stracci che ci vedete addosso.
  - E un sacchetto di pistacchi per i pipistrelli.
Prima di accomiatarsi, i due sorveglianti strinsero la mano ai due giovani.
  - E’ stato un vero piacere! - disse lo smunto, e si allontanò in tutta fretta seguito dal suo corpulento compare.     
Kavàla si strinse a Garm.
  - Dietro quella porta…
  - Sì, Kavàla: il Re del Nulla.

IX

Il potere è sempre oggetto di contesa. Neppure i despoti più crudeli sono al riparo dalle congiure. Elissinia, città torpida tanto nell’esercizio della virtù quanto in quello del vizio, ospitava le sue camarille, concentrate all’interno di circoli dai nomi altisonanti. Si trattava di conventicole di notabili - dediti all’accumulazione di ricchezze ed incarichi di rilievo - con la passione dell’intrigo, facenti capo a questa o quella sezione della Confraternita del Triangolo, al vertice della quale, nella città sul Nitico, si trovavano i Diadochi: Labano, Galvano e Carcarodonte.
Tutta la città era al corrente delle loro malversazioni, eppure, tutta la città strisciava ai loro piedi. Nella miseria morale dei potenti consiste, del resto, la consolazione della massa anonima dei subordinati.
L’autorità di Sarmand si arrestava sul limitare delle lussuose dimore dei Diadochi. Non potendo esiliarli come avrebbe desiderato, il Catafratto dovette accontentarsi di farli confinare in casa, proibendo loro ogni partecipazione alla vita civica. Insieme al titolo di Diadochi, Labano Galvano e Carcarodonte conservarono però il diritto di apparire, in effigie, nel corso delle cerimonie pubbliche di maggior prestigio. Sin da subito, inoltre, trovarono il modo di aggirare il divieto imposto dal Catafratto: servendosi di passaggi sotterranei, riuscivano a superare agevolmente, del tutto inosservati, i confini delle proprie tenute. Ma la notizia degli incontri clandestini fra i Diadochi e i soci della Confraternita del Triangolo non tardò a giungere all’orecchio di Sarmand, che disponeva di numerosi informatori. Con suo sommo disappunto, il Catafratto dovette arrendersi all’impossibilità di impedire le escursioni notturne dei Diadochi. Per scoraggiarle, fece intensificare i controlli nei pressi delle sedi della Confraternita. Nessuno poteva entrarvi od uscirne senza essere identificato e perquisito. Queste misure vessatorie non fecero che accrescere l’odio dei Triangolari nei confronti del Catafratto. La vendetta della Confraternita non si fece attendere. Forti delle prerogative di cui il Catafratto non aveva potuto spogliarli, i Diadochi chiesero ed ottennero dal proconsole Fistulòs l’emissione di un ordine di arresto nei confronti del solo amico di cui Sarmand disponesse in tutto l’orbe terracqueo: un personaggio noto con il nome di “Re del Nulla”. Era, costui, un uomo di età indefinibile, né brutto né bello, né magro né grasso, né glabro né irsuto, né alto né basso. Nessuno avrebbe saputo descriverne l’aspetto, fornirne un ritratto fosse pure approssimativo. Nemmeno Sarmand. Non apparteneva forse, il Re del Nulla, a quella strana specie di creature che si muovono nelle intercapedini fra il mondo reale e quello dei sogni? Sarmand si imbatté per la prima volta in lui durante la lettura di uno scritto anonimo intitolato “Redigere ad nihilum”, di cui la biblioteca centrale accademica possedeva un esemplare rarissimo. Il Regno del Nulla, di cui sino ad allora aveva ignorato persino l’esistenza, gli si rivelò in tutta la sua incontaminata bellezza: cieli azzurri, boschi rigogliosi, stagni di acqua cristallina, prati sfavillanti di fiori dalle tinte vivaci e, all’estremo orizzonte, il mare. Un mare calmo e profondo, la cui superficie una tiepida brezza leggera dolcemente increspava. Quello del Nulla era il regno dell’atemporalità e della permanenza delle forme: corruzione e mutamento ne erano banditi. Niente vi accadeva, niente vi poteva accadere, poiché l’evento, qualsiasi evento, implica un inizio, uno svolgimento e una fine. Custode e garante della conservazione di questo assetto immutabile, il Re. Sovente, il Catafratto si recava in visita in sogno presso il sovrano. Insieme facevano lunghe passeggiate attraverso quei paesaggi incantati. Il Re, di tanto in tanto, si staccava da terra e fluttuava nell’aria, librandosi a parecchi metri dal suolo, insieme alle rondini in volo. Poi ridiscendeva al suolo e riprendeva a camminare accanto al Catafratto, come se niente fosse. Capitava talvolta che incontrassero un abitante del Regno. Si trattava di persone, uomini e donne, assai singolari: li si poteva osservare sdraiati all’ombra dei salici, intenti a dormire o a fantasticare, immersi nei propri pensieri.            
L’arresto del Re fu per Sarmand un brutto colpo, aggravato dal mistero circa il luogo della detenzione del sovrano. Ciò non fece che inasprire la misantropia del Catafratto, la sua insofferenza verso il notabilato di Elissinia, il suo disgusto nei confronti del mondo.  L’interno della cella reale misurava tre metri per quattro. Vi trovavano spazio un divano, un libreria e uno scrittoio. Il Re, disteso sul divano, dormiva un sonno profondo e sognava, sognava.
Una carrozza trainata da una pariglia di cavalli bianchi si fermò all’ingresso di un palazzo nobiliare. Il conducente, un uomo dalla corporatura massiccia, il viso incorniciato da due imponenti mustacchi, fece segno al proprio assistente di scendere a terra. Questi obbedì, non senza fatica, poiché aveva gambe di diversa lunghezza. Il conducente commentò:  - In casi come questi si è soliti dire che uno ha una gamba più corta dell’altra. Ma non sarebbe altrettanto corretto affermare che ha una gamba più lunga dell’altra?
  - Si parte dal presupposto che una delle due sia proporzionata al resto del corpo. Ed è la gamba giusta. L’altra, quella sproporzionata, è la più corta - replicò l’assistente.
  - Un attimo: e se quella sproporzionata fosse tale in virtù di un’eccessiva lunghezza? In questo caso sarebbe corretto dire: ha una gamba più lunga dell’altra.
  - No, perché quella giusta, quella proporzionata, sarebbe comunque la più corta.
  - Vedi che ti contraddici: se il metro di misura è la gamba proporzionata, e questa fosse più corta di quella difforme, si dovrebbe dire…
  - Allora, mi fate scendere o no da questa benedetta carrozza? - ruggì il granduca sporgendo il viso paonazzo dal finestrino della vettura. L’assistente si precipitò ad aprire, caracollando, e sistemò la scaletta.
  - Non so cosa mi trattenga dal licenziarvi entrambi! Possibile che stiate sempre a sproloquiare?
  - Perdoni eccellenza, è lui che cavilla, utilizzando argomenti capziosi.
  - E tu lascialo cavillare! Su, piuttosto, prendi i bagagli!
Il granduca scese a terra e agitando il bastone da passeggio si rivolse al conducente:
  - Hai guidato in modo barbaro. Sembra che tu faccia apposta a prendere tutte le buche!
  - Eccellenza, mi deve scusare, ma la strada è un groviera.
  - Buono solo a trovare scuse! Vai, vai che è meglio!
La carrozza si allontanò verso le scuderie. Dal palazzo, nel frattempo, era uscito il maggiordomo: un uomo gobbissimo, il cui cranio pelato riluceva sotto i raggi del sole come una mela cotogna. 
  - Sua eccellenza ha fatto buon viaggio?
  - Pessimo. Desidero riposare nelle mie stanze per le prossime tre ore. Nessuno osi disturbarmi.
  - Eccellenza…
  - Che c’è adesso?
  - Una visita.
  - Da parte di chi?
  - Un messo di Sua Maestà.
Al granduca, per lo sorpresa, cadde il monocolo.
  - E me lo dite così? E’ da molto che aspetta?
  - Non più di mezz’ora. L’ho fatto accomodare nella sala delle armature.
  - Neppure il tempo di sciacquarmi il viso… Beh, annunciatemi, lo vedrò immediatamente!
  - Certo eccellenza.
Il gobbo – che era pure un po’ claudicante – si diresse verso la sala delle armature, mentre il granduca si arricciava nervosamente i baffi, interrogandosi sulle ragioni di quella visita inattesa. Annunciato dal maggiordomo, il granduca fece ingresso nel salone.
Il messo sedeva accanto a una finestra.
  - Eccellenza, stavo ammirando il vostro splendido parco - disse alzandosi in piedi in atteggiamento deferente.
  - Non tenetemi sulle spine. Cosa vi ha condotto qui? - tagliò corto il granduca.
  - Il Re…
  - Ebbene?
  - E’ stato rapito!
Il granduca riperse il monocolo.
  - Rapito? Il Re? Ma è una follia! Chi ha osato?
  - Gli elissini.
  - E chi sarebbero questi briganti?  
  - Gli abitanti di una città chiamata Elissinia.
  - Ma non esiste una città con quel nome!
  - Esiste, ma non in questo mondo.
  - Capisco - disse il Granduca scuotendo il capo.  - Il Re sta di nuovo sognando.
  - Guarda Garm, si sta svegliando!
Il Re si rizzò a sedere, mezzo intontito, si stropicciò gli occhi, e stette per qualche istante a osservare i due giovani in piedi dinanzi al divano. “Un altro sogno”, mormorò, e fece per distendersi di nuovo.
  - Maestà, non è un sogno, siamo veri!
  - Sì, buonanotte.
Kavàla si avvicinò al re e gli diede un pizzicotto sulla guancia.
  - Convinto adesso?
Il re si accarezzò la guancia, poi cinse i fianchi di Kavàla.
  - Ohibò, dunque non sto sognando…
  - Ecco, maestà, se ora vuol essere così gentile da togliermi le mani dal sedere, le presento l’uomo incaricato di liberarla.
  - Certo, certo. Capirà, mi occorrevano prove inoppugnabili. Ma questo simpatico giovane odora di selvatico come un alce maschio nella stagione degli amori!
  - Il mio nome è Garm, vengo da Gyelheim su incarico di Firlfrind.
  - Il buon vecchio mago! E lei, cara  fanciulla, come si chiama?           
  - Kavàla.
  - Un nome assai suggestivo, le si attaglia perfettamente. Dunque, a che devo il piacere della vostra visita?
Kavàla guardò Garm, sconcertata, quindi torno a rivolgersi al re.
  - Maestà, come le ho detto poco fa siamo qui per liberarla.
Il re poggiò un gomito sul bracciolo del divano e stropicciandosi il mento, mormorò:
  - La libertà è una chimera.
  - Maestà - disse Garm serio serio  - Non c’è tempo per i filosofemi, dobbiamo andarcene, e alla svelta.
  - Capisco. Apprezzo molto ciò che state facendo, credetemi. Sono pronto.
Il Re si alzò dal divano, rassettandosi gli abiti impolverati, e si dispose a seguire la coppia dei suoi liberatori.
  - Vent’anni di prigionia non son pochi - disse gettando un’ultima occhiata alla cella.
  - Sua Maestà non ha bagaglio? - domandò Kavàla.
  - Solo gli abiti che indosso.
  - Andiamo allora.
Garm con piglio determinato fece strada verso l’uscita.   
A metà circa del corridoio, un rumore di passi proveniente dalla direzione opposta li bloccò.
  - Chi potrà mai essere? I carcerieri hanno cambiato idea?
  - Ne dubito - replicò Kavàla, preoccupata.
Da dietro l’angolo sbucarono due figure, una maschile e l’altra femminile, che si immobilizzarono alla vista del terzetto.
  - Maestà! - esclamò l’uomo. Si trattava del Catafratto, con Lucretia al proprio fianco. La diavolessa, estratta la spada dal fodero, fece per affrontare i due giovani.
  - Calma, calma! - si interpose il re. - I ragazzi sono giunti da molto lontano apposta per liberarmi. Nessuno si azzardi a far loro del male.
Lucretia ripose l’arma.
  - Sarmand, quanto tempo! Cosa ti porta quaggiù? - disse il re rivolto all’amico di un tempo.
  - Sono stato tanto in pena per voi! Solamente ieri sono venuto a sapere dov’eravate tenuto prigioniero, e mi sono precipitato subito in vostro soccorso!
Il re, commosso, abbracciò prima Sarmand e poi Lucretia, quest’ultima con particolare trasporto.
  - Lasciate che vi presenti - disse il re. - Costui, cari ragazzi, è il grande Catafratto in persona, l’uomo più odiato di tutta Elissinia.
  - Troppo gentile, Maestà - si schermì Sarmand con un inchino.
  - Loro si chiamano Garm e Kavàla. E lei…
  - Lucretia, X Legio Infernalis - esclamò la diavolessa scattando sull’attenti.
  - Non sapevo che un demone potesse essere così grazioso. Bella soda, non c’è che dire.
  - Al re piace toccare con mano - bisbigliò Kavàla all’orecchio di Garm.
  - Ho notato - replicò questi, senza riuscire a nascondere un certo disappunto. Non aveva gradito le  palpazioni che il sovrano aveva riservato alla sua compagna di viaggio, e ancor meno la condiscendenza di lei, condiscendenza dovuta - peraltro - a mero compatimento. Ma la mente di Garm non era in grado di cogliere certe sfumature: difettava di quell’elasticità che solo l’uso protratto del mondo è in grado di conferire. 
  - Maestà, dovremo rinviare i convenevoli ad un altro momento: urge che ci si allontani di qui al più presto! - esclamò Sarmand.
La combriccola guadagnò l’uscita, lasciando spalancata la porta d’accesso così da rischiarare almeno un poco il fondo del pozzo.
  - Garm, i pistacchi!
  - Non servono pistacchi né altra frutta secca - disse Lucretia. Con tono imperioso, pronunciò un ordine in una lingua sconosciuta ed ecco che subito calarono dall’alto tre esseri alati.  Lucretia dispiegò le ali, e cinse il Catafratto per la vita.
  - Ciascuno di voi si stringa a uno di loro - disse, e si levò in volo.
Aggrappati alle strane creature, i tre si ritrovarono fuori dal pozzo in pochi minuti. Lucretia e Sarmand li stavano aspettando in prossimità dell’imbocco di una galleria. Anacleto li accolse scodinzolando.
  - E’ andato tutto bene, vedo.
  - Anacleto caro, visto che ce l’abbiamo fatta?
  - Non ne ho mai dubitato, Kavàla!
Il re del nulla diede una carezza al cane e domandò ai suoi liberatori:
  - E adesso?
  - Dobbiamo uscire di qui – rispose Garm.
Sarmand si avvicinò al sovrano.
  - Vogliate seguirmi, Maestà.
  - Quella non è la direzione da cui siamo venuti noi! – osservò Garm.
  - Siete passati dalle catacombe, vero? Conosco un percorso più sicuro che conduce direttamente ai sotterranei dell’accademia, dove io sono signore e padrone.
  - Verrò dove vorrete – puntualizzò il Re. – Purché vi mettiate d’accordo sulla direzione da prendere.
  - Se mi consentite, avrei un suggerimento – intervenne Anacleto. – Elissinia non è il luogo più adatto dove condurre il Re.
  - Se è per quello, nemmeno la provincia offre particolari garanzie! – obiettò stizzito il Catafratto. – Il Re ha nemici ovunque!
  - Tranne che nel proprio regno.
  - Il cane ha ragione, Sarmand. Non avrebbe senso trasferire il Re da queste grotte al mortorio dove trascorri le notti. Dobbiamo restituirlo alla luce del sole, all’aria pura, agli spazi aperti del suo regno.
Il Catafratto rifletté per qualche istante sull’osservazione di Lucretia.
  - Sia come voi dite – sospirò. – Sempre che ne siate capaci.
  - Lasciate fare a me. Mica per niente milito nella X Legio Infernalis!
  - Dunque, Maestà – disse Sarmand in tono accorato – ci separiamo un’altra volta?
  - Solo temporaneamente, mio caro.
Il sovrano prese sottobraccio l’amico e si allontanò con lui di qualche passo dal resto del gruppo.
  - Quando sarò tornato nel mio regno, potremo incontrarci ancora, per conversare come eravamo soliti fare in passato.
  - Incontrarci…e come?
  - In sogno, Sarmand, in sogno!
Il Catafratto annuì, e sul suo viso spigoloso apparve un timido, timidissimo sorriso.
  - Ed ora, amici, a noi! – disse il Re rivolto ai suoi liberatori. –Vi ringrazio tutti di cuore. Ci attende un lungo viaggio. Ma per fortuna – soggiunse indicando la bella diavolessa - abbiamo una guida d’eccezione.
Lucretia sguainò la spada e, pronunciando formule misteriose, la puntò verso l’alto. Subito la lama si accese di una luce abbagliante: se ne irradiarono raggi multicolori che avvolsero uno ad uno i presenti. Un vento impetuoso, proveniente da distanze inconcepibili, prese a soffiare nella grotta, sollevando turbini di sabbia. Quando la sabbia si posò, non vi era più alcuna traccia di Lucretia né dei suoi compagni. 

Epilogo 

I giardini del palazzo reale, affollati di persone festanti per il ritorno del sovrano, sfavillavano nel meriggio di una moltitudine di colori. Il clima era dolce, l’aria profumava di viole. Il re sedeva all’ombra di un gazebo, circondato dall’affetto dei sudditi. Fra essi i parenti di Kavàla, cui il buon mago Firlfrind, spezzando il sortilegio del viandante, aveva restituito forma umana.
  - Maestà, ci dica, cos’è questo mondo di cui tanto si parla? – gli fu chiesto.                   
  - E la vita, Maestà, cos’è mai la vita, di cui si favoleggia? – domandò una fanciulla che indossava un vezzoso cappellino.
  - Uno alla volta, miei cari, uno alla volta – rispose il Re del Nulla e si accinse a rispondere, non senza aver prima gettato un’occhiata benevola a una coppia di giovani intenti a passeggiare a braccetto nel parco, seguiti a breve distanza da un cane di mezza taglia.
Garm e Kavàla si gustavano il tepore di quella giornata radiosa.
  - Che meraviglia eh, Garm? – disse la ragazza in tono languido.
Il giovane, lindo e ben vestito, rimase per alcuni istanti in silenzio, sorridendole semplicemente.
  - Kavàla – disse infine – c’è una cosa che desidero mostrarti da tempo.
E scomparì con lei dietro a una siepe.

Pietro Ferrari, 2010 

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