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domenica 19 settembre 2021

UN RELITTO ETRUSCO IN TOSCANO: BISCHERO 'STUPIDO', 'PENE'

Qual è l'origine della notissima parola toscana bischero? Quanti se lo saranno chiesto, senza poter trovare una risposta! Nell'uso comune, bìschero significa "stupido, minchione", ma questa semantica è di chiara origine peniena. Il bìschero è innanzitutto il membro virile. Ricordo ancora che in un fumetto erotico alcune signore chiacchieravano dalla parrucchiera, lamentandosi che i mariti pretendevano la fellatio, incuranti che i loro bischeri fossero bisunti e maleodoranti. Il passaggio da "membro virile" a "scemo" è molto ben documentato in un gran numero di casi. Basti pensare a parole come minchione, pirla, baggiano, citrullo, etc. Gli organi genitali sono per loro natura la negazione dell'intelligenza, maschili o femminili che siano: hanno reazioni puramente impulsive e devono essere controllati perché non facciano disastri.
 
Come al solito, la fantasia dei romanisti si è scatenata. Si può partire dal responso di Google alla chiave di ricerca "bischero":  

Dizionario
Definizioni da Oxford Languages

bischero
/bì·sche·ro/
sostantivo maschile


    1. Ciascuno dei cavicchi che servono a tirare o allentare le corde degli strumenti a seconda che si girino in un senso o nell'altro.
    2. TOSCANO • POP.
    Il pene.
  •         FIG.
    Grullo, buono a nulla; persona che si crede furba e invece si rivela stupida e minchiona (in questo sign. anche f. -a ).
Origine

Prob. alterazione di pìspolo, altra voce tosc. equivalente a bischero nei sign. di ‘cavicchio’ e ‘pene’, con attrazione del pref. bis- con valore pegg. e cambio di suff. •1521.
 

Per completezza, riporto anche la definizione della parola cavicchio, visto che non è di uso comune. La fonte è sempre quella indicata da Google. 

Dizionario
Definizioni da Oxford Languages  
 
cavicchio
/ca·vìc·chio/
sostantivo maschile


    1. Legnetto rotondo piantato su una parete per appendervi oggetti.
  •  Legno cilindrico, aguzzo a un'estremità, con cui si fanno buchi nel terreno per piantare o seminare erbaggi.
  •  Piolo delle scale di legno portatili.
  •  Piccola zeppa troncoconica di legno duro per turare i fori lasciati dai chiodi nei fasciami.
  •  Bischero (per strumenti a corda).
    2.    ESTENS.
    Cavicchio osseo, prominenza dell'osso frontale nei Ruminanti Cavicorni.

Origine

Der. di cavicchia •sec. XVI.

L'opinione della Crusca 


Matilde Paoli (Accademia della Crusca), fa riferimento all'articolo di Alberto Nocentini, Bischero: un caso apparentemente risolto, "Archivio Glottologico Italiano", XC - 2005, f. 1, pp. 114-116: 114. Il suo contributo è del 2009.

"Nello stesso articolo Nocentini, oltre a delineare il percorso semantico della forma, percorso ormai riconosciuto da tempo dagli studiosi di etimologia, formula l'ipotesi che essa risalga, anziché alla radice *bisc-/*pisk- 'dondolare, girare, muoversi', come proposto precedentemente in LEI (vol. VI, coll. 84-90),  al lemma *pipa con il probabile significato originale di 'cannuccio, cannello', a cui sarebbero da connettersi anche l'aretino pipo o pipi 'membro virile dei bambini' e l'aretino e senese pìrolo che ha lo stesso valore, oltre a quello di 'qualsiasi oggetto affusolato'."
 
Le conclusioni della Crusca sono quindi le seguenti: tra il pippo, il pirla e il bischero sussisterebbe assoluta identità e l'etimologia sarebbe da cercarsi in un'onomatopea.
 
La bischerata dei banchieri Bischeri 
 
Nell'abominevole social Quora mi sono imbattuto in un'invereconda stronzata, che tuttavia è molto diffusa tra il volgo: il solito tentativo di far derivare l'origine di un vocabolo da un cognome.   
 
 
L'utente Daniele Bologna ha scritto quanto segue:
 
I Bischeri erano una ricca famiglia di banchieri della Firenze medievale.
Il loro cognome è diventato sinonimo di stupido in vernacolo fiorentino per un fatto avvenuto alla fine del '200 e legato alla fondazione del Duomo: quando il Comune di Firenze decise di costruire la cattedrale di Santa Maria del Fiore si decise di edificarlo in un'area dove la famiglia Bischeri aveva diverse proprietà immobiliari. (più o meno nella posizione dove oggi c'è la cupola del Brunelleschi).
Il Comune allora offrì loro una cifra enorme per poter acquistare quelle proprietà per liberare il terreno e iniziare il cantiere.
I Bischeri pensando di poter speculare sul prezzo rifiutarono più volte le offerte del Comune, finché il governo cittadino perse la pazienza e decise di passare all'esproprio forzato di quei terreni dando ai Bischeri una miseria come indennizzo.
Per questo motivo i Bischeri divennero lo zimbello della città. Cambiarono perfino cognome in Guadagni perchè già allora Bischero era diventato un nomignolo beffardo. 
 

Questi Bischeri sono esistiti realmente. Così Wikipedia in italiano: 

"I Bischeri furono una cospicua famiglia fiorentina, il cui cognome costituisce una famosa etimologia popolare, che gode però di scarsa considerazione tra i linguisti[1] per bìschero, il tipico appellativo toscano indirizzato a persone ingenue e poco furbe."

[1] Vedi Nocentini (2005), di cui sopra. 

E ancora: 

"Si hanno tracce dei Bischeri in Firenze fin dalla metà del XIII secolo e nei decenni successivi questi si imposero come ricchi possidenti e mercanti, conseguendo molte cariche pubbliche, tra cui ben 15 priorati dal 1309 al 1432 e due gonfalonieri di Giustizia (Noferi e Giovanni). La famiglia Bischeri aveva le proprie case nella zona tra Piazza del Duomo e Via dell'Oriuolo, nota oggi come "Canto dei Bischeri" ed il suo stemma era bardato di otto di nero e di oro."
 
I Bischeri non sono stati la causa dell'uso della parola bischero; semmai sono stati scherniti e messi in satira dal volgo proprio per via del loro nomen omen
 
Un'attestazione antica 
 
Anche se i romanisti pensano di ridurre tutto a formazioni onomatopeiche, il bischero era già noto nell'Etruria dell'antichità. Il vocabolo viscri è attestato in un'iscrizione su statuetta bronzea recante un testo in scriptio continua. Questa è la traslitterazione: eitviscriture/arnθalitlepumpus (Ar 4.4, CIE 2627). La prima parte del testo è da separarsi in eit viscri ture "così dona il membro", mentre la seconda indica il soggetto della frase, ossia il nome del donatore: Arnθ Alitle Pumpus.  
 
eit "così" 
viscri "membro" 
ture "dona" 
 
Traduco viscri in modo generico con "membro" oppure "organo interno". Marzolla era convinto che si trattasse di una fallo, rappresentato "con crudo realismo" (1984). Forse aveva ragione. Si noterà che l'uomo rappresentato dalla statuetta non indossa le vesti di un aruspice. La trafila semantica deve essere stata questa: "organo" => "budello" => "pene".  
 
Il toscano bischero "pene", "stupido" è senz'altro il più chiaro e glorioso relitto etrusco ben vivo e vitale ai nostri tempi. 
 
Pallottino riteneva probabile l'evoluzione dell'approssimante /w/ in una fricativa /v/ o /β/ in etrusco, che sarebbe avvenuta precocemente rispetto al latino. Si può citare a questo proposito il toponimo Velzna, corrispondente al latino Volsinii (Novi), da cui si è sviluppato l'italiano Bolsena, con una consonante iniziale occlusiva. Ecco, la derivazione del toscano bischero dal sostrato etrusco sarebbe un altro notevole esempio di questo sviluppo. Possiamo ricostruire un latino volgare *bīscru(m) come antenato diretto della parola in analisi. 

A questo punto i romanisti potrebbero obiettare che il termine toscano è attestato a partire dal XVI secolo, trovandosi però nel cognome Bischeri già nel XIII secolo: c'è una grande distanza temporale tra l'etrusco, verosimilmente spentosi agli inizi del I secolo d.C. o forse poco oltre. Questa non è una prova convincente, anche considerando che non si tratta di un dottismo. I resti delle lingue di sostrato hanno spesso una considerevole tenacia e possono continuare la loro esistenza occulta come fiumi carsici per molti secoli, emergendo poi all'improvviso. 
 
Possibili prestiti dal proto-tirrenico
al proto-italico e al proto-germanico
  

Indago alcuni possibili prestiti dall'etrusco al latino, più antichi di quello che ha dato origine alla parola bischero

Traduco quanto riportato dalla Wikipedia in inglese: 

 
vīscus n. (genitivo vīsceris); terza declinazione (soprattutto plurale)
  1. Ogni organo interno del corpo.
  2. (anatomia) interiora, viscere, intestini, organi interni  
  Sinonimi: intestīnum, interāneum, exta, prōsicium, 
      prōsecta, hīllae

Etimologia 

Di origine non chiara[1]; forse dal proto-indoeuropeo *weys- (“girare, ruotare”).

[1] De Vaan, Michiel (2008).
 
La ricostruzione proto-indoeuropea è abbastanza discutibile e potrebbe essere fallace: a quanto se ne sa, la radice è presente soltanto in latino; al limite sarà stata presente in altre lingue derivanti dal proto-italico, anche se all'attuale stato delle conoscenze non lo sappiamo. Reputo più probabile pensare che dall'antico etrusco sia giunta al proto-italico questa parola come prestito.  

Traduco quanto riportato dalla Wikipedia in inglese: 


virga f. (genitivo virgae); prima declinazione 
   1. ramoscello, giovane germoglio 
   2. asta, 
   3. bastone, bastone da passeggio 
   4. bacchetta (magica) 
   5. (in senso figurato, latino tardo, latino medievale) pene
 
Etimologia 

Dal proto-italico *wizgā, probabilmente dal proto-indoeuropeo *wisgeh₂ (“asta o ramo flessibile”). Possibilmente imparentato col proto-germanico *wiskaz (“fascio di fieno o di paglia, ciuffo”).[1] Dal proto-indoeuropeo *weys- (“produrre, procreare”), o in alternativa da una radice *weyḱs- (vedi *weyḱ-)(2). Indipendentemente da ciò, è probabilmente un doppione di viscum(3)
 
[1] Alberto Nocentini, Alessandro Parenti, “l'Etimologico - Vocabolario della lingua italiana”, Le Monnier, 2010
(2) La radice *weyḱ- ha il significato di "entrare; stanziarsi; stanziamento" (nota mia).
(3) Latino viscum "vischio" (nota mia).

La ricostruzione proto-indoeuropea è abbastanza discutibile e potrebbe essere fallace: a quanto se ne sa, la radice è presente soltanto in latino e in germanico. Questa radice ha l'aria di essere un termine di sostrato o di adstrato, preso proprio da una lingua tirrenica. I Neogrammatici lo hanno preso e lo hanno proiettato nelle Steppe, come è loro costume. 
 
Questa è la trafila da me presupposta: 

Proto-tirrenico: 
    *wisk- 
Significato: "membro", "organo"
     per estensione: "budello", "pene"
=> Proto-indoeuropeo occidentale:
    *wizg- / *wisk- / *wi:sk- 
Significato: "asta flessibile", "membro"; "organo", "budello" 
=> Proto-italico, Proto-germanico.  

martedì 24 agosto 2021

ETIMOLOGIE ENOLOGICHE: IL CECUBO E L'ABBUOTO

Per molto tempo, il miglior vino dell'antica Roma è stato il cècubo (latino caecubum). Fin da quando ho sentito menzionare questa bevanda per la prima volta, mi sono interrogato sull'etimologia del suo nome. Mi sono anche reso conto che non esisteva una letteratura scientifica in grado di diradare le tenebre dell'ignoranza. Da quell'epoca sono cambiate molte cose e la possibilità di trovare informazioni interessanti si è accresciuta notevolmente. Ho quindi utilizzato il Web per cercare lumi. Questo riporta il celeberrimo Vocabolario Treccani: 
 
 
cècubo s. m. [dal lat. (vinum) Caecŭbum]. – Famoso vino che si produceva in età romana nel Caecubus ager, nel territorio di Fondi; il nome è stato ridato oggi a un vino rosso pallido prodotto nella stessa zona, spec. a Sperlonga.
 
Ecco. Appurate queste cose, peraltro già note da secoli, mi chiedo come sia possibile che nessuno abbia cercato di indagare più a fondo sull'etimologia del toponimo Caecubus ager, chiaramente connesso con l'oronimo Caecubi montes "Monti Cecubi", da cui derivò il nome della pregiata bevanda.

L'eccellente bevanda raggiunse il culmine della sua fama quando fu usata dal dal popolo di Roma per festeggiare la morte della povera Cleopatra, come documentato da un componimento di Orazio (Libro I, Ode 37). Questa è la parte che ci interessa:   

Nunc est bibendum, nunc pede libero
pulsanda tellus, nunc Saliaribus
ornare pulvinar deorum
tempus erat dapibus, sodales.

Antehac nefas depromere Caecubum
cellis avitis, dum Capitolio
regia dementis ruinas
funus et imperio parabat

contaminato cum grege turpium
morbo virorum, quidlibet impotens
sperare fortunaque dulci
ebria. ... 

Traduzione: 

O amici, ora bisogna brindare, ora bisogna battere la terra con il piede libero, era ora di ornare le immagini degli dei con cibi degli dei Salii.

Prima di ora non era lecito spillare il cecubo dalle cantine degli antenati, mentre una regina preparava folli rovine per il Campidoglio e per l'Impero

con un gregge di uomini turpi contaminato dalla perversione, sfrenata nello sperare qualsiasi cosa ed ubriaca per la dolce fortuna. ...

La storia del nobilissimo liquore di Bacco ebbe una brusca e inattesa fine, che è possibile leggere come un portento. Uno stravagante esperimento di geoingegneria voluto dal Divo Nerone ha portato alla perdita del cècubo. Siccome all'Imperatore dava sommo fastidio la persistente nebbiolina che gravava sull'area, decise di fare scavare un canale con lo scopo di aumentare la ventilazione. Altri affermano invece che egli cercasse di esumare un fantomatico tesoro appartenuto a Didone, sepolto in quei luoghi secondo una leggenda popolare. Fatto sta che l'imponente opera di scavo ebbe come conseguenza concreta una perdita irreparabile per Roma: l'ager Caecubus non diede più uve in grado di produrre ottimo vino. Dopo che la produzione cessò, rimase soltanto il vino che già stava invecchiando nelle cantine, menzionato ancora da Marziale. Sembra che tra le ultime persone ad averne bevuto, un secolo dopo gli scavi di Nerone, ci sia stato il medico Galeno.  

Un'etimologia popolare di Caecubus 

Secondo una leggenda di origine non chiara, Caecubus sarebbe stato un ipocoristico del nome del politico e letterato Appio Claudio Cieco (Appius Claudius Caecus), vissuto dal 350 a.C. al 271 a.C., che fu anche un militare e tra le altre cose rivestì le cariche di censore, console, dittatore. Egli aveva ricevuto il suo cognomen, Caecus "Cieco", a causa della sua effettiva cecità, attribuita dalla superstizione del volgo all'ira degli Dei, irritati dalle sue riforme religiose. Su quali siano in concreto queste riforme, il Web è diviso. Alcuni parlano di un'identificazione delle divinità greco-romane con quelle celtiche e germaniche - cosa che mi pare assai dubbia: nella Roma di quell'epoca l'idea di cosa fosse la Germania doveva essere abbastanza nebulosa. Altri parlano dell'assegnazione di alcuni riti del culto di Ercole a una famiglia diversa da quella che tradizionalmente li praticava. Anche questa informazione non l'ho potuta verificare. 
 

Secondo una storiella raccontata nel Web, la plebe avrebbe rumoreggiato nel vedere Appio Claudio Cieco nell'atto di bere avidamente il vino. I popolani avrebbero così commentato dicendo: "Caecus bibendum." A questa frase è stato attribuito il significato di "Cieco che beve". Così si sarebbe formato l'ipocoristico Caecubus. Il problema è che tale frase non è grammaticalmente corretta. In latino il cieco che beve può essere soltanto Caecus bibens. Se ammettessimo come vera questa spiegazione etimologica, la seguente trafila fonetica avrebbe portato a Caecubus partendo dal latino arcaico, quello parlato nel III-IV secolo a.C.:  

*Kaikos bibēns =>
*Caicus bibēns  => 
*Caecububs  => 
Caecubus  
 
Le forme declinate sarebbero state livellate per analogia. Quindi per il genitivo avremmo una trafila fonetica come questa: 
 
*Kaikei bibentis =>
*Caicei bibentis =>  
*Caecububuntis => 
*Caecubuntis
Caecubī, subentrato per analogia a Caecubu(b)s.  

Il passaggio da *Caicei bibentis a *Caecububuntis e quindi a *Caecubuntis si spiegherebbe con il tipico indebolimento delle sillabe atone in una fase del latino in cui l'accento cadeva sulla sillaba iniziale delle parole, prima che fosse regolato dalla quantità della penultima sillaba.

Mi rendo conto che tutto ciò sia a dir poco grottesco. Il Caecus bibendum riportato sistematicamente nei siti del Web è a dir poco sospetto e punta all'invenzione. Chi lo ha escogitato non era certo un latinista e non cita alcuna fonte antica.
Ecco una breve confutazione. Il gerundivo di bibere "bere" è bibendus e significa "che deve essere bevuto", "da bere". Non è possibile che la forma neutra bibendum concordi con Caecus, che è maschile, oltre al fatto che non significa "che beve". Così si dice Carthago delenda (est) "Cartagine deve essere distrutta", con un gerundivo femminile. Solo i metallari direbbero Carthago delendum o Caecus bibendum nel loro latino distorto. Se anche considerassimo bibendum come un gerundio, dovrebbe essere preceduto dal nome al dativo: Caeco bidendum, il cui significato sarebbe però "il Cieco deve bere". Nemmeno questa soluzione è soddisfacente per motivi semantici. 
 
 
bibendum 
 
1) accusativo del gerundio di bibō
2) accusativo maschile singolare del gerundivo (bibendus
     di bibō
3) nominativo neutro singolare del gerundivo (bibendus
     di bibō
4) accusativo neutro singolare del gerundivo (bibendus
     di bibō
5) vocativo neutro singolare del gerundivo (bibendus
     di bibō
 
Riporto il link a un compendio sull'uso del gerundivo e del gerundio in latino.  


Con ogni probabilità il mito del cieco che beve è soltanto una fabbricazione moderna. Il pacchetto memetico è stato diffuso nella Noosfera da una manciata di siti pubblicitari che hanno a che fare con il turismo enologico. La stessa narrazione ha tutte le caratteristiche dell'etimologia popolare.  

Abbiamo provato che la leggenda del Caecus bibens è nel migliore dei casi molto dubbia. Tuttavia, l'etimologia di ager Caecubus e di Caecubi montes è in ogni caso connessa con la stessa radice della parola latina caecus.  
 
 
caecus 
   femminile: caeca 
   neutro: caecum 
 
1) senza luce
2) cieco, che non vede 
3) mentalmente o moralmente cieco; accecato 
4) cieco, casuale, vago, indiscriminato, senza scopo 
5) senza germogli (termine botanico) 
6) invisibile, che non può essere visto 
7) che non può essere conosciuto, nascosto, segreto, oscuro  
8) che ostacola la vista, non trasparente, opaco 
9) che ostacola la percezione, oscuro, fosco; incerto, dubbio   


Proto-indoeuropeo: *kaikos "monocolo"
        (*kéh2ikos nella ricostruzione laringale)
   Proto-italico: *kaikos "cieco", "senza occhi" 
   Proto-germanico: *χaiχaz "monocolo" 
       Gotico: haihs "monocolo"
       Norreno: Hárr (epiteto di Odino) 
   Proto-celtico: *kaikos "cieco"; "monocolo" 
       Antico irlandese: cáech "monocolo"  
       Medio gallese: coeg "monocolo", "cieco" 
   Greco: καικίας (kaikías) "vento di Nord-Est"
         (lett. "che oscura il cielo")
   Proto-Indoario: *kaikaras "strabico" 
       Sanscrito: kekaraḥ "strabico" 
 
Cosa notevolissima, questa radice è documentata anche nell'onomastica etrusca. La mia idea è che fosse un prestito dal proto-italico.
 
Etrusco: 
1) Kaikna, Caicna, Keikna, Ceicna, Cecna (gentilizio)
=> Latino Caecina, Cēcina, Cēcinna (gentilizio); Caecinius (gentilizio).  
Caecina è anche un idronimo ben attestato (attuale Cècina, in Toscana centro-meridionale).
2) Ceice (cognomen): corrisponde al cognomen latino Caecus e al gentilizio Caecius;
Ceicesa "quello di Ceice" (patronimico).
Dai dati mostrati si deduce l'esistenza di questa radice:
kaik-, keik-, ceic- "scuro", "torbido".
Il fiume Cècina ha ricevuto questo nome per via delle sue acque torbide.  
 
Abbiamo anche alcune parole contenute nei glossari latini, che attribuirei all'etrusco per via dei peculiari suffissi: caecua, caecuba e caecuma "civetta". Ad esempio, nel Totius latinitatis lexicon di Egidio Forcellini (terminato nel 1761, prima edizione postuma nel 1771), leggiamo quanto segue:  
 
Caecua et Caecuma, noctua quae lucem fugit, Lex. Philol. 
 
Si capisce subito che caecua, caecuba e caecuma (anche senza dittongo, cecua, cecuba, cecuma) sono varianti di una stessa parola antica; interessante è constatare che sono glossate con noctua "civetta", un evidente derivato di nox "notte" (noctua a tempore noctis dicta, ci spiega Sesto Pompeo Festo). Si vede quindi che la radice che ha formato caecua e varianti, deve essere caec- "oscurità". 

Si menziona un'ulteriore variante: cicuma. Esichio riporta il vocabolo κικυμίς (kikumís), con lo stesso significato di "civetta". La scansione metrica sembra che fosse /ki:ky:'mis/ (vedi Henry George Liddell, Robert Scott, A Greek-English Lexicon, 1843), cosa del tutto inusuale per una parola greca; del resto Esichio non glossava soltanto parole greche e spesso non riportava la loro origine. Anche questa alternanza tra il dittongo -ae- e una vocale lunga -ī- sembra a dir poco strana. Esichio potrebbe aver reso on -i- una vocale chiusa dell'etrusco, derivata dal dittongo -ei-.  
 
W.M. Lindsay, nel suo lavoro Bird-names in Latin glossaries (1918), cita due possibili esiti romanzi: toscano di Lucca cuccumeggia e sardo cuccumeu, entrambi col senso di "civetta". Non fornisce ulteriori dettagli.  

 
Credo che quanto fin qui raccolto possa bastare.
 
Conclusioni 
 
A questo punto possiamo attribuire significati antichi e concreti:  
 
*Kaikubos = Nebbioso 
ager Caecubus = Campo Nebbioso 
Caecubi montes = Monti Nebbiosi 
 
In milanese la nebbia è chiamata scighéra: questa parola deriva da *caecāria, dalla radice di caecus. Questo perché la nebbia impedisce od ostacola la vista. Una semantica simile è all'origine del cècubo e la questione si può dire risolta. 
 
L'abbuoto 

I Wikipediani traducono il latino caecubum con abbuoto, che è il nome oggi dato a un vitigno coltivanto in Lazio e al vino che se ne ottiene, rosso e molto pregiato. Dobbiamo ricordare che anche usando la stessa uva che coltiviamo ancor oggi, gli Antichi avevano metodi di vinificazione molto diversi. A parer mio la traduzione è quindi da considerarsi impropria.
 
 
Abbuoto 
"Vitigno a bacca nera di origini remote, dalle cui uve in un passato remoto si produceva con molta probabilità il famoso Cécubo, più volte decantato da Orazio. Secondo quanto riporta il Drao (1934) – unico studioso a essersi occupato, per quanto ne sappiamo, di questo vitigno –, era originariamente coltivato nell’area pedemontana e collinare del comune di Fondi, in provincia di Frosinone. Agli inizi del Novecento fu descritto come vitigno italiano anche dagli ampelografi francesi Viala e Vermorel. Nulla si conosce circa l’etimologia del nome e dei sinonimi, il cui principale è Aboto; l’unica curiosità è che risulta sempre il primo vitigno di qualsiasi classificazione alfabetica, non solo italiana ma anche straniera. È stato iscritto al Registro Nazionale delle Varietà di Vite nel 1970." 


Qual è dunque l'etimologia di abbuoto? Ecco il responso dell'Oracolo di Google alla richiesta di maggiori informazioni sull'origine dello strano vocabolo: 
 
"Sull'etimologia non si hanno notizie certe, presumibilmente il nome deriva dalla vicinanza dell'area di origine, in particolare la zona di San Raffaele – Fondi, al lago di San Puoto. Molto probabilmente il termine “Abbuoto” proviene proprio dalla trasformazione del nome “San Puoto”." 
 
Il lago di San Puoto si trova nella pianura pontina a circa 3,5 chilometri da Sperlonga, in provincia di Latina. San Puoto deriva dal latino Sanctus Potitus. Il sinonimo San Potito è evidentemente una forma dotta. La possibilità più concreta è che il nome dell'abbuoto derivi direttamente da una formula di brindisi: a un certo punto "a Puoto!" è diventato "abbuoto!" per naturale evoluzione fonetica. Del resto, si nota che anche i Romani antichi brindavano con il caecubum abbandonandosi a manifestazioni di allegria e battendo selvaggiamente i piedi sul pavimento.
Ammettendo che l'antroponimo Potitus abbia dato oltre a Puoto anche *Pòto, si spiegherebbe all'istante la variante più rara e senza dittongo, abòto
 
Non bisogna confondere la denominazione del vino detto abbuoto con una parola omofona, usata nella stessa regione, che indica invece un tipo di involtino. Riporto giusto un paio di citazioni (i grassetti sono miei). 
 

"L’abbuoto viticusano (abbuot nel dialetto locale, cioè “avvolto”) è un insaccato di ovino cotto, a base di carne e frattaglie ovine, uova, peperoni dolci e peperoni piccanti, spezie, tipico di Viticuso, una piccolissima comunità montana della provincia di Frosinone a 825 metri sopra il livello del mare."


"L’abbuoto detto anche abbticchie sono involtini di interiora d’agnello è un piatto povero della cucina ciociara e del paese di Picinisco, ottenuto utilizzando le parti meno nobili dell’agnello: budella, frattaglie e trippa."    

martedì 10 agosto 2021

ALCUNE NOTE SUI PETROGLIFI E SULLE ISCRIZIONI DELLA VAL CAMONICA

La Val Camonica, in provincia di Brescia, trae il suo nome dall'antica popolazione dei Camuni (latino Camunni, greco Καμοῦνοι), artefice della più vasta collezione di incisioni rupestri dell'intero pianeta. Sono state classificate dall'UNESCO ben 140.000 opere, ma ne vengono scoperte sempre di nuove. Il loro numero potrebbe arrivare alla sorprendente cifra di 300.000. Le più antiche manifestazioni artistiche risalgono alla fine del Paleolitico e si distinguono svariati periodi nel corso dei millenni. Si segnalano alcune raffigurazioni stupefacenti di soggetti che non ci si aspetterebbe, come ad esempio la lotta tra due "astronauti" e addirittura un "brontosauro", roba che farebbe impazzire i complottisti. Molti sarebbero sorpresi se venissero a sapere che la tradizione petroglifica dei Camuni non si è mai veramente interrotta fino a tempi abbastanza recenti. Le varie epoche storiche hanno comportato la sovrapposizione di molteplici strati: le istoriazioni più moderne venivano ad essere eseguite accanto a quelle precedenti, creando a volte anacronismi sbalorditivi. In alcuni periodi le incisioni rupestri sono scarse, come se l'arte fosse entrata in stato di quiescenza. Così è accaduto con la conquista da parte dei Romani (I secolo a.C.): soltanto con la decadenza dell'Impero si è avuta una graduale ripresa della produzione di petroglifi. Dopo un nuovo periodo di scarsa attività, si sono avute successive incisioni in epoca moderna, postmedievale. Con buona pace di chi dice che esiste soltanto ciò che si trova in Google con qualche pressione di un tasto, devo dire che non è sempre facile reperire informazioni valide. Ancor più arduo è ottenere fotografie di alcune iscrizioni recenti. 
 
 
Iscrizioni antiche in lingua camuna 
 
I primi tentativi di traslitterare le iscrizioni camune redatte nell'alfabeto encoriale sono stati abbastanza fuorvianti. Si vedano a questo proposito gli studi di Maria Grazia Tibiletti Bruno e di Alberto Mancini. All'epoca in cui mi interessai per la prima volta a questo argomento, si aveva l'impressione che il camuno fosse una lingua completamente isolata, senza somiglianza con qualsiasi altra lingua del pianeta e del tutto impenetrabile. In fondo la cosa poteva anche sembrare logica: un popolo simile, con una cultura tanto peculiare, residuo di una preistoria inconoscibile, avrebbe ben potuto parlare una lingua priva di parentele determinabili. Tuttavia, una volta decifrato correttamente l'alfabeto, numerose iscrizioni sono risultate redatte in una lingua affine all'etrusco, tanto che alcune possono essere comprese con un certo grado di sicurezza. Era bastata la lettura erronea di pochi caratteri per oscurare ogni cosa. Riporto nel seguito alcuni interessanti esempi di testi etruscoidi.  
 
asθ "colpisci" (1)  
enesau "del nostro" (2)  
mi ruas "io sono del fratello" (3)  
munθau "dell'ordinatore" (4) 
nuni "prega" (5) 
pueia is "rapisci la donna" (6) 
ren "con la mano" (7)
ril "età" (8)
seh manals "figlia dal ricordo" (9)  
sele useu "sole allo zenit" (10) 
tine "nel giorno" (11) 
tiu ulu "luna crescente" (12) 
θiu "dell'acqua" (13)
uahθ raseu "nella formula dell'uomo" (14) 
un "a te" (15)
unsθ "in voi" (16)
unu "voi" (17) 
unus "di voi" (18) 
zeriau "del rito" (19)

(1) Cimbergo, Roccia 49
(2) Berzo-Demo, Roccia 2 
(3) Piancogno, Roccia delle Spade
(4) Foppe di Nadro, Roccia 6  
(5) Berzo-Demo, Roccia 2  
(6) Bedolina 
(7) Zurla, Roccia 22 
(8) Berzo-Bemo, Roccia 2
(9) Piancogno, Roccia delle Spade 
(10) Foppe di Nadro 
(11) Crap di Luine, Roccia 6 
(12) Crap di Luine, Roccia 6  
(13) Foppe di Nadro, Verdi, Roccia 2 
(14) Piancogno, Roccia della Biscia 
(15) Foppe di Nadro, Roccia 27 
(16) Crap di Luine, Roccia 6
(17) Berzo-Demo, Roccia 3 
(18) Berzo-Demo, Roccia 2 
(19) Seradina

In camuno l'antica consonante liquida *-l finale di parola è spesso diventata -u, velarizzandosi completamente. L'idea è stata enunciata anni fa dal canadese Glen Gordon e mi sono reso conto che è molto produttiva. Questa velarizzazione non sembra invece essersi applicata all'interno delle parole, davanti a consonante ed esiste comunque qualche possibile eccezione anche in posizione finale. 

Elementi morfologici camuni ed etruschi: 
 
-au, uscita del genitivo, corrisponde all'etrusco -al  
-als, uscita dell'ablativo, corrisponde all'etrusco -alas 
-s, uscita del genitivo, corrisponde all'etrusco -s,  
, uscita del locativo, corrisponde all'etrusco , -θi  
-u, uscita del genitivo, corrisponde all'etrusco -l 

Lessico camuno ed etrusco: 
 
asθ "colpisci" corrisponde all'etrusco asθ "colpisci" 
      (scritto su una glans missilis
enesau "del nostro" corrisponde all'etrusco enas "di noi", 
      enesci "nel nostro"
manals "dal ricordo" corrisponde all'etrusco manim 
      "monumento; ricordo" 
mi "io" corrisponde all'etrusco mi "io"  
munθau "dell'ordinatore" corrisponde all'etrusco munθ 
      "ordinatore"
nuni "prega" corrisponde all'etrusco nuna "preghiera" 
pueia "donna" corrisponde all'etrusco puia "moglie" 
raseu "dell'uomo" ha la stessa radice dell'etrusco rasna 
      "etrusco"  
ren "con la mano" corrisponde all'etrusco rens "della
      mano", rinuś "delle mani", rinuθ "nelle mani"
ril "età" corrisponde all'etrusco ril "età"
ruas "del fratello" corrisponde all'etrusco ruva "fratello"
seh "figlia" corrisponde all'etrusco seχ, sec "figlia"
sele "allo zenit" corrisponde all'etrusco seleita-, seleta 
      "massimo" (*) 
tine "nel giorno" corrisponde all'etrusco tinśi "nel giorno" 
tiu "luna" corrisponde all'etrusco tiu, tiv "luna"  
θiu "dell'acqua" corrisponde all'etrusco θi "acqua"
uahθ "nella formula" corrisponde all'etrusco vacal, vacl 
      "formula, preghiera"  
un "a te" corrisponde all'etrusco un "te", une "a te" 
unsθ "in voi" corrisponde all'etrusco unuθ "in voi" 
unu "voi" corrisponde all'etrusco unu "voi", unum "voi, 
      vi" (acc.) 
unus "di voi" corrisponde all'etrusco unuse "a voi"
useu "sole" corrisponde all'etrusco usil "sole" 
zeriau "del rito" corrisponde all'etrusco zeri "rito" 

(*) La traduzione, opera di Giulio Mauro Facchetti, mi pare molto verosimile. Questa radice sel- potrebbe avere corrispondenze in anatolico: hittita šēr "sopra", lidio serli- "somma autorità". 

Si ha qualche notevole prestito indoeuropeo. In un petroglifo (Bedolina) si vedono chiaramente un lupo, un serpente e un cerchio. Come evidenziato da Adolfo Zavaroni, accanto al lupo compare la scritta ulk e accanto al serpente compare la scritta anki. Il cerchio riporta invece la scritta uka. Nonostante le interpretazioni di Zavaroni siano nella maggior parte dei casi fallaci, in quanto dettate da un'applicazione incongrua e aprioristica del metodo etimologico, in questo caso sono da considerarsi verosimili, perché abbiamo a che fare con figure parlanti - un fenomeno riscontrabile spesso anche tra gli Etruschi.

anki "serpente" (IE *ang(h)wi-, latino anguis "serpente") 
uka "unione (IE *jeug- / *jug- "unire")  
ulk "lupo" (IE *wḷkw- "lupo") 

Abbiamo poi un'importante radice indoeuropea documenta in un'iscrizione sinistrorsa i cui caratteri somigliano a quelli dell'alfabeto latino (Castelliere di Dos dell'Arca, Capo di Ponte):
 
DIEV  

Esiste anche un'altra attestazione più antica e assimilata alla fonologia dellingua nativa, derivata dalla stessa protoforma (Naquane, Roccia 60): 

ties "di Giove" 

Si tratta evidentemente di un genitivo sigmatico della stessa parola.

Gli autori antichi erano ben consapevoli dell'esistenza di un vero e proprio etrusco alpino. Fondandosi sull'autorità di Catone il Censore, Plinio il Vecchio riporta che gli Euganei si suddividevano nelle tre stirpi: Camuni, Triumpilini e Stoni. Era evidente la loro somiglianza con i Reti, oltre all'origine linguistica comune con gli Etruschi.

Raetos Tuscorum prolem arbitrantur a Gallis pulsos duce Raeto. Verso deinde in Italiam pectore Alpium Latini iuris Euganeae gentes, quarum oppida XXXIIII enumerat Cato. ex iis Trumplini, venalis cum agris suis populus, dein Camunni conpluresque similes finitimis adtributi municipis.  
(Plinio il Vecchio, Naturalisi Historia, Libro III, paragrafi 133-134)

"Si ritiene che i Reti siano di stirpe etrusca, scacciati dai Galli e guidati da Reto Voltandoci verso l'Italia, [incontriamo] i popoli euganei delle Alpi sotto la giurisdizione romana, dei quali Catone elenca trentaquattro insediamenti. Fra questi i Trumplini, resi schiavi e messi in vendita assieme ai loro campi e, di seguito, i Camunni molti dei quali [furono] assegnati ad una città vicina." 

Tito Livio ci trasmette un'importante opinione sulla lingua di queste genti.
 
Alpinis quoque ea gentibus haud dubie origo est, maxime Raetis, quos loca ipsa efferarunt ne quid ex antiquo praeter sonum linguae nec eum incorruptum retinerent. 
(Tito Livio, Ab Urbe Condita, Libro V, paragrafo 33

"Anche le popolazioni alpine hanno senza dubbio origine da questa gente [gli Etruschi], soprattutto i Reti, che i luoghi stessi hanno reso selvaggi, non conservando nulla del passato, salvo il suono della lingua e neppure questo incontaminato." 
 
Spesso si trova sonum linguae tradotto in modo fuorviante con "inflessione della parlata", come se si trattasse di un semplice accento. Non ci sono dubbi che Tito Livio alludesse invece alla concreta somiglianza dei vocaboli oltre che alla fonetica. L'allusione alla "contaminazione" è un indizio del fatto che si percepivano non sono somiglianze con l'etrusco, ma anche differenze, dovute anche a prestiti lessicali da altre lingue.  

 
Le iscrizioni in alfabeto latino 

Nonostante la scarsità sostanziale di petroglifi camuni di età romana, sono noti due alfabetari latini incisi sulle rocce a Piancogno e a Redondo. Si trovano anche alcune iscrizioni in latino. Interessante è il caso di un antroponimo bizzarro, leggibile a Crap di Luine (Boario), sulla Roccia 10:

MVCRO
 
In latino la parola mucro (genitivo mucrōnis) indicava una pietra liscia e appuntita o una punta di pietra. Si tratta di un vocabolo non indoeuropeo, molto probabilmente preso a prestito dagli Etruschi. 
 
A Foppe di Nadro, sulla Roccia 29, si trova un'iscrizione latina: 
 
SCAB(O) / LVCIVS  

La vocale (O) è in realtà non è visibile. Zavaroni fa notare che la A si SCAB(O) è di tipo falisco, simile a una R. Per questo motivo sono in passato state date interpretazioni fuorvianti, leggendo SCRB iupu o SCRB upui (Mancini, 1980). 

A Cimbergo, sulla Roccia 5, si trova un'iscrizione latina destrorsa: 
 
IOVIS 
 
Nonostante sia un chiarissimo genitivo del nome della divnità celeste ("di Giove"), alcuni autori hanno interpretato il testo come un'abbreviazione di IOVI S(ACRUM) "sacro a Giove" (Buonaparte, 1985; Valvo, 1992).
 
Un'iscrizione rupestre destrorsa trovata a Bedolina, su una roccia vicina a una baita, è redatta in lingua camuna ma in caratteri latini. La lunghezza complessiva è di 6,2 centimetri. Questo è il testo:

SILAV TOSSIAI ACILAV 

Si vede subito che ACILAV è corradicale dell'etrusco acil "opera". Possiamo tradurlo con "dell'opera", data la presenza della tipica desinenza camuna -au, corrispondente all'etrusco -al. La lettura di questa iscrizione ha una storia molto tormentata. Si pensi che Altheim nel 1937 aveva letto la sequenza come TITOSAN.QUUOS, cosa in apparenza sensata, se non fosse che la prima lettera T- era nata da un suo arbitrio, non sopportando egli la lettura IITOSAN.QUUOS. Prosdocimi per contro si contentò di una ricostruzione mutila, ?]TOS[x]NQ[xx]O[?, dove x indica un carattere illeggibile. La restaurazione della corretta lettura del testo si deve a Zavaroni, con l'aiuto di Priuli. 

 
Scene venatorie ed erotiche 
 
Nell'antichità preromana erano diffusissime raffigurazioni connesse con la caccia, ma anche con la zooerastia, ovvero col sesso con animali: questa pratica era diffusa tra i Camuni. A Còren del Valento si trova un notevole petroglifo, databile 10.000 anni fa (inizi del Neolitico), che illustra un guerriero intento a copulare con un equino infilandogli il mazzone gigantesco nell'ano, scavando morbosamente nell'intestino retto. 
 
 
La fantasia era sfrenata fin dall'inizio: in petroglifi del Mesolitico, in diversi casi si vede un cane intento a leccare lo sfintere anale di un cervo! Si noterà che il cane leccatore, il cervo leccato e il cacciatore hanno tutti e tre il fallo eretto fino a scoppiare. Mi accingo ad enunciare un'ipotesi assai ardita, che molti troveranno stupefacente. I Camuni devono aver selezionato una particolare varietà di segugi addestrati specificamente per infilare la lingua nel buco del culo ai cervi. Il cervo maschio, nel sentirsi lambire la parte più intima, con insistenza, doveva provare un grandissimo piacere. Così il fiero animale cadeva facile preda delle imboscate dei cacciatori, che prima lo trafiggevano con le lance e poi lo sodomizzavano, scaricando lo sperma nel budello, tra le feci ancora calde. Questi dovevano essere i segreti degli antichi Clan di cacciatori Camuni! Non so cosa darei per poter avere una macchina del tempo e studiare questo popolo così bizzarro. Senza dubbio dovevano imperare virus e parassiti molto inconsueti, a causa di costumanze sodomitiche così fantasiose! Pure nessun Dio ha mai mandato una pioggia di fuoco e di zolfo sulle fiere genti di quella valle e sfido qualunque cultore delle Scritture a provarmi il contrario.  

 
Petroglifi e iscrizioni dell'Età
Medievale e Moderna 

 
Alle Campanelle di Cimbergo ci sono opere petroglifiche molto interessanti, di epoca decisamente più tarda di quelle del periodo più glorioso della storia dei Camuni. L'opinione generale degli accademici vorrebbe queste testimonianze ispirate a uno spirito non religioso, "laico", mentre non gode più di grande credito l'idea che si siano avuto l'intento di risacralizzare tramite simboli cristiani i precedenti luoghi di culto pagani. Tale interpretazione semplicistica non tiene conto del fatto che i valligiani istoriavano ciò che vedevano nella loro vita di tutti i giorni e ciò che costituiva il loro immaginario. Non esiste "vandalismo", come certi neopagani si ostinano ad affermare con una certa dose di rabbia: tutto contribuisce alla sedimentazione dei fossili della Storia e ha il suo interesse. Abbondano incisioni che rappresentano impiccagioni con tanto di boia, a volte cancellate a colpi di scalpello, certo per paura superstiziosa. Altre opere petroglifiche rappresentano torri con vedette provviste di stendardo, aquile imperiali e soldati armati del cosiddetto spiedo friulano, una specie di alabarda usata dagli eserciti delle Venezie nei secoli XIV-XV (Sansoni, 1996). Troviamo anche numerose manifestazioni di religiosità (Cominelli, 2006), non soltanto ortodosse: oltre a raffigurazioni di chiavi, bare e monaci, si notano anche simboli esoterici come il Nodo di Salomone e persino quelle che sembrano prove dell'esistenza di una rudimentale forma di Satanismo. 
 
Questo testo è in apparenza un imperativo piissimo: 
 
Ambula in via D(omi)ni 
 
Ed ecco qualcosa che non ci si aspetterebbe: 
 
666 
 
Il Numero Satanico precede una scritta in lingua romanza, non completamente comprensibile, anche se è senza alcun dubbio un'allusione al fulmine, assai temuto dai montanari: 
 
Quan che il folgora se bussa [?] una […][…]che risa [?]  
 
Un'altra iscrizione romanza, poco sopra, allude al frumento: 

N[…] compr[…] c[]na formet vago del plan d[…] cimberc en sac […] 

Il vocabolo formet /for'met/ è proprio il frumento (latino frūmentum). Vicino si trova quella che dovrebbe essere la firma di uno scalpellino: 
 
 [.]DO DE FRANZO A SCHRITO IN QVESTO PREDO 

Ci vorrebbe un'enciclopedia per esporre in dettaglio tutto lo scibile sulla cultura e sulla storia della Val Camonica. Tanto per rendere l'idea dell'ambiente singolare, basterà citare un episodio grottesco risalente alla metà del XVIII secolo: i protagonisti sono dei fratacchioni che in una chiesa facevano crapule, ingurgitando quantità ingenti di vino e di ostie!
 
 
Il Diavolo con la mandragola 
 
Sempre a Cimbergo si trova una sorprendente raffigurazione del Demonio, ritratto come un umanoide paffuto. Si noti la caratteristica itifallica: l'organo sessuale del Diavolo è eretto ma penzolante, proprio come nei guerrieri antichi dipinti nell'atto di cacciare i cervi. Il cranio del Principe delle Tenebre è massiccio e sferico, l'espressione è grifagna e due piccolissime corna sporgono sull'ossatura parietale. Una coda non troppo pronunciata pare ravvisarsi su un fianco della figura diabolica. Nel complesso lo stile può sembrare molto involuto, addirittura rudimentale, eppure credo che questa raffigurazione meriti di essere ricordata e commentata. Vicino al Diavolo itifallico si vede uno stranissimo vegetale, un po' somigliante ad una rapa: è una mandragola, pianta dal notorio potere afrodisiaco, sicuramente associata all'atto sessuale. Molto interessante è l'articolo di Carlo Cominelli, Angelo Giorgi, Salvatore Lentini e Pier Paolo Merlin, Per una storia della mandragora nell'immaginario della Valcamonica (Italia settentrionale), pubblicato su Eleusis - Piante e composti psicoattivi (2004). Riporto il link: 

https://www.samorini.it/doc1/alt_aut/ad/
cominelli-storia-mandragora-immaginario-
valcamonica.pdf


L'uomo bisognoso e il pappone 
 
Non lontano dal luogo dove è incisa la figura del Diavolo con la mandragola, è presente un'altra sorprendente testimonianza di vita quotidiana della Valcamonica. Questo è il testo dell'iscrizione, in lingua romanza: 
 
Roro, dam una bella pula de foter che la tolirò ades ades de quelli de Cim[bergo] la più

L'interpretazione è chiarissima:

"Roro, dammi una bella ragazza da fottere che la prenderò or ora da quelli di Cimbergo di più"
 
Lo stravagante antroponimo Roro è verosimilmente un ipocoristico di Roberto o di Rodolfo
Il termine pula indica alla lettera una giovane gallina e potrebbe ben tradursi con "pollastra" o "pollastrella". Soltanto un ritardato avrebbe difficoltà a capire che la parola allude a una ragazza in un contesto sessuale.  
Il verbo foter /'foter/ "fottere" è notevole per la conservazione della terminazione -er dell'infinito, che nelle parlate attuali è scomparsa. Compare lo stesso verbo sessuale, inciso nella roccia, in altre due occasioni, segno dell'estremo interesse delle genti camune per la sessualità sfrenata.  

Pur di evitare di ammettere la scandalosa esistenza di uno stravagante pappone di nome Roro, i romanisti si sono inventati interpretazioni fantomatiche. Innanzitutto si sono concentrati sull'osceno verbo foter, facendolo passare a viva forza per un'improbabile contrazione del sostantivo forahter "forestiero", anche se il risultato non è grammaticalmente sensato! Questo caso grottesco mi richiama alla memoria l'interpretazione surreale che un archeologo ha dato di un bassorilievo sumerico in cui un uomo è raffigurato nell'atto di penetrare una donna more ferarum: secondo lui quella sarebbe stata la raffigurazione di un tentativo di salvataggio di una povera donzella dalle acque dell'Eufrate!  
 
 
L'epilogo 
 
L'ultima testimonianza nota dell'arte petroglifica camuna è a quanto pare una scritta novecentesca di argomento religioso: 
 
W IL S. PADRON   

Se il genere umano sopravvivrà, non è escluso che al libro dei petroglifi camuni possano aggiungersi nuove pagine.