venerdì 12 giugno 2020

 
COBRA VERDE

Titolo originale: Cobra Verde
Paese di produzione: Germania Ovest
Anno: 1987
Lingua: Tedesco, Ewe   
Durata: 111 min
Genere: Avventura
Regia: Werner Herzog
Soggetto: Bruce Chatwin (dal romanzo Il viceré di Ouidah)
Sceneggiatura: Werner Herzog
Produttore: Lucki Stipetić
Produttore esecutivo: Walter Saxer, Salvatore Basile
Fotografia: Viktor Růžička
Montaggio: Maximiliane Mainka
Musiche: Popol Vuh
Scenografia: Ulrich Bergfelder
Costumi: Gisela Storch
Interpreti e personaggi:
    Klaus Kinski: Francisco Manoel da Silva/Cobra Verde
    King Ampaw: Taparica
    José Lewgoy: Dom Octavio Coutinho
    Salvatore Basile: Capitano Fraternidade
    Peter Berling: Bernabé
    Guillermo Coronel: Euclides, il taverniere nano
    Nana Agyefi Kwame II: Re Bossa Ahadee
    Nana Fedu Abodo: Yovogan
    Kofi Yerenkyi: Bakoko
    Kwesi Fase: Kankpé
    Benito Stefanelli: Capitano Pedro Vicente
    Kofi Bryan: Messaggero del Re Bossa
    Carlos Mayolo: Governatore di Bahia 
    Marcela Ampudia: Bonita
    Maria Elvira Chavez Mejia: Wanderleide
    Luz Marina Rodriguez Molina: Valkyria
    Awudu Adama
    Ho Ziavi' Zigi Cultural Troupe: Coro di ragazze danzanti
Doppiatori italiani:
    Dario Penne: Francisco Manoel da Silva/Cobra Verde
Location:
    Colombia (Villa de Leyva, Valle del Cauca), Brasile, Ghana
Colonna sonora:
   Cobra Verde è il sedicesimo album dei Popol Vuh (1987).
   Contenuto:
   1. Der Tod des Cobra Verde (4:35)
   2. Nachts: Schnee (1:51)
   3. Der Marktplatz (2:30)
   4. Eine andere Welt (5:07)
   5. Grab der Mutter (4:30)
   6. Die singenden Mädchen von Ho, Ziavi" (Zigi Cultural
       Troupe Ho, Ziavi) (6:52)
   7. Sieh nicht überm Meer ist's (1:26)
   8. Hab Mut, bis daß die Nacht mit Ruh' und Stille kommt
      (9:32)
   2006 bonus track
      OM Mani Padme Hum 4" (Piano Version) (5:28)
   Compositore: Florian Fricke (tranne il coro danzante)
 
Trama: 
Una siccità spaventosa colpisce il Sertão, una desolata regione del Brasile, uccidendo il bestiame del fattore Francisco Manoel da Silva. L'uomo biondo e segaligno si trova costretto a lavorare come garimpeiro in una fangosa miniera d'oro, una specie di girone infernale a cielo aperto. Quando il padrone lo priva della paga, Da Silva insorge e lo uccide. Si rifugia quindi nella foresta, dove assume il nome di Cobra Verde (ossia "Serpente Verde") e diventa un temutissimo bandito che semina il terrore nel Sertão. Durante una visita in una città, assiste alla fustigazione di un mandingo. Un compagno dello schiavo legato al palo cerca di fuggire, ma incontra lo sguardo truce e gelido del Cobra Verde, che con la sola forza di volontà lo convince a ritornare al luogo della punizione e a sottoporsi alle frustate. Dom Octávio Coutinho, un proprietario terriero, è testimone dell'accaduto e ne resta profondamente colpito: dice quindi al bandito biondo che gli servono uomini come lui e gli propone di fare il guardiano degli schiavi che lavorano nelle sue piantagioni di canna da zucchero. Cobra Verde accetta l'incarico, pensando bene di nascondere la propria problematica identità di fuorilegge. Per un po' tutto sembra filare liscio. I guai iniziano per via di un fatto oltremodo singolare: l'uomo manifesta una strana reazione alla vista dei corpi femminili, caratterizzata da inturgidimento dei corpi cavernosi e da sommovimento dei dotti seminali, accompagnata da impellente necessità di eiettare lo sperma a contatto con l'oggetto del desiderio. Accade così che Cobra Verde, già noto per essere un infaticabile montatore, particolarmente arrapato dalle donne di colore, si lascia sedurre dalle figlie mulatte di Dom Coutinho, possedendole carnalmente e ingravidandole tutte. "Tanto non ho niente da perdere", dice tra sé e sé prima di iniziare a penetrare quel ben di Dio. Secondo le costumanze barbariche di quel contesto, Dom Coutinho avrebbe potuto far uccidere all'istante il seduttore delle sue figlie - che ormai gli ha rivelato la propria identità banditesca. Invece gli propone un affare lucroso ma pericolosissimo, sperando di provocarne così la morte. Francisco Manoel da Silva Verde è incaricato di recarsi in Africa, nel Regno di Dahomey, allo scopo di riaprire la rotta atlantica del commercio degli schiavi, forzando il blocco navale imposto dagli Inglesi. Gli concedono l'apposita patente di mercante di esseri umani e gli aprono un conto in banca, in cui saranno depositati i proventi del suo lavoro. Arrivato in Dahomey, il Re Bossa Ahadee lo riceve e si lascia da lui convincere a riprendere le forniture di schiavi; gli concede anche di prendere possesso della roccaforte portoghese di Elmina, abbandonata da tempo, facendone la propria residenza. Tra quelle mura il brasiliano trova Tarapica, un robusto Yoruba libero, unico superstite della precedente spedizione. I due diventano subito soci e riescono con successo a restaurare la rotta atlantica, inviando carichi di schiavi in Brasile. La loro fortuna dura poco: il Re Bossa, che è mentalmente instabile, accusa Da Silva di un gran numero di crimini fantomatici, tra cui l'avvelenamento del levriero reale. La condanna è la pena di morte per decapitazione. Accade l'insperato: il nipote del sovrano fa rapire nottetempo Da Silva e Tarapica, pensando di utilizzarli in un complotto. Il suo intento è infatti quello di rovesciare Re Bossa e di salire al trono. L'impresa ha qualcosa di eroico. L'uomo venuto dal Brasile addestra un esercito di donne gerriere, riuscendo col duro impegno nel suo intento di portate a compimento la Rivoluzione. Le cose però non vanno come si attendeva. Non appena il tiranno è stato abbattuto, il nuovo Re abbandona chi gli ha permesso di ottenere la vittoria. La vita di Da Silva è sconvolta da una ferale notizia: la schiavitù è stata abolita dal Brasile. Il suo conto in banca è stato confiscato. Non gli rimane più alternativa. Non può ritornare nella sua terra d'origine, dove lo aspetta la forca. Ammesso e non concesso che riesca ad arrivarci, visto che l'Inghilterra ha messo una taglia sulla sua testa. I suoi sogni sono annientati: le sue ultime forze le impiega nel vano tentativo di mettere in mare una grossa barca senza remi e senza vela. 
 

Incipit: 

"La madre di Francisco Manoel sospira,
Francisco, sento tanto dolore, ho paura.
La madre di Francisco Manoel sta gridando.  
La siccità è durata per quasi dodici anni,
Son malate le pietre, il mondo sta finendo,
E se soffri t'inganni.
Io ora morirò. Fa' piano, questa panca per tristezza si spezza.
Non muoverti, sta' fermo.
L'alba, la terra, l'acqua stan diventando nere.
Dio perplesso fa finta che sia il suo volere.
Francisco nel suo viaggio legge un verso del cielo,
Non fissare lo sguardo al sabbioso orizzonte, alla spiaggia salata,
Non chiedere ragioni, non indagare il torto: inutili questioni.  
Il Fato ti riserva questo regalo antico,
Ti manderà un'amante, ti manderà un amico."

Recensione: 
Le febbrili vicende narrate dalla pellicola hanno come epilogo l'annichilimento del protagonista, che in ogni istante della sua esistenza terrena ha lottato invano contro quell'orrida e plumbea cosa chiamata "realtà". Un uomo deformato dalla poliomielite procede sulla battigia, con andatura quadrupede. La sua figura distorta e sofferente sembra il sigillo geroglifico dell'avventura fallimentare di Cobra Verde, quasi il sardonico e beffardo commento delle spaventose forze che muovono il Destino. Nelle originali intenzioni del regista, Francisco Manoel da Silva sarebbe dovuto morire affogato mentre cercava di far scivolare tra le onde la pesantissima imbarcazione. La morte sarebbe stata per lui la fine dei tormenti della vita, ma non avrebbe aggiunto nulla alla narrazione. Egli appartiene a quella specie di uomini che non si sentono a loro agio da nessuna parte. 
 
"Come descrivere questa mia stupida esistenza? Come dire quanto sia triste e solitaria, senza famiglia, senza amici? Il solo uomo bianco in questo paese, forse nell'intero continente. Intanto sono diventato padre di 62 bambini, ma questo non mi procura alcuna soddisfazione. Può darsi che l'anno prossimo io possa tornare, e sposarmi. Vorrei vivere nella terra del ghiaccio e della neve. Ovunque, purché sia lontano da qui. Il caldo è crudele e non dà tregua, ti scorre dentro il corpo come una febbre. Eppure, nonostante ciò, il mio cuore si fa ogni giorno più freddo." 
 
Quando si è in Brasile, l'Africa è una terra utopica. Quando si arriva in Africa, il Brasile è il Giardino dell'Eden.  
 
 
Visioni apocalittiche 
 
Fortissimo è il tema herzoghiano della decadenza cosmica, che pochi sembrano aver notato. Il bandito Cobra Verde giunge in una città, suscitando il terrore della popolazione, Si scatena un fuggi fuggi generale, tutti corrono a nascondersi, urlando in preda alla disperazione. Un bambino cerca di trasportare un barile facendolo rotolare, poi vi rinuncia. Nella piazza, piena di sporcizia, una scrofa brunastra grufola oscenamente mentre viene montata con fatica da un magro verro grigio chiazzato di bianco. La prima volta che ho visto il film ho avuto una distorsione percettiva: ai miei occhi quel verro è sembrato un cane! Solo guardando con attenzione ho potuto capire che quello non era un atto di bestialità tra specie diverse. C'è un altro dettaglio degno di nota, non facile a stamparsi nella memoria perché l'azione accade in pochi secondi: è in corso un funerale e qualcuno ordina a gran voce di riportare la bara indietro nella chiesa. Il prete, colto dal marasma e oppresso dai paramenti sgargianti, si affretta a salire le scale da cui era appena sceso, inseguendo il feretro. I partecipanti lo imitano prontamente, accalcandosi e incespicando, come se si fossero defecati nelle brache!  

La Venere Nera 

Spicca una scena surreale di altissimo valore simbolico. Cobra Verde raggiunge una regione selvosa in cui sorge lo scheletro di una grande chiesa in rovina. A un certo punto passa un convoglio di schiavi e di asini, con molti bagagli. In due reggono una portantina velata di bianco. Il bandito spara e mette tutti in fuga. Poi urla: "Il danaro o la vita!" Dalla portantina esce una Venere Nera, coperta di un lungo velo bianco. La donna prosperosa risponde con voce sensuale: "La vita!" Avanza con movenze languide, mimando una danza erotica, quindi si getta tra le braccia dell'uomo. I due si conoscono e sono amanti. L'uomo percorre molte miglia a piedi ogni giorno per potere incontrare la Venere Nera. È scalzo e afferma di non potersi fidare delle scarpe. Non si fida nemmeno di un cavallo, proprio come non si fida della gente. "La sola cosa che voglio è andare via di qui verso un altro mondo", aggiunge. Non ha la benché minima idea delle delusioni che lo attendono.   

 
La poesia del Taverniere Nano 

In questo film trova spazio una delle più bizzarre ossessioni di Herzog: la tematica nanesca! Già il bambino che spinge il barile desta qualche sospetto, in quanto non ci si riesce a togliere dalla mente l'idea che sia in realtà un nano. Poi, quando Cobra Verde entra nella locanda, vediamo che il suo gerente è un autentico nano. Per la precisione, è affetto da nanismo ipofisario (infatti è abbastanza ben proporzionato nelle membra). Il taverniere si presenta: il suo nome completo è Euclides Alves da Silva Pernambucano Wandereley. Il bandito nota subito il cognome Da Silva. Non è improbabile che i due siano lontani parenti. Euclides ha un'innata vena poetica e lo dimostra subito: "Soltanto la mia schiena e il mio torace sono deformi. La notte sogno di trasportare un'intera catena di montagne sulle mie spalle." Cobra Verde ne è subito ammirato. "Hai più fegato tu di tutta questa città", commenta. Euclides gli porta da mangiare, con ogni probabilità riso e fagioli. Il fuorilegge resta fino a notte fonda a farsi una bella bevuta di acquavite di canna, e nel frattempo ascolta con grande interesse. Riporto il dialogo:      

Cobra Verde: "Come fai a sapere tante cose?"
Euclides: "Le so dal nostro prete, e lui le ha imparate dal nostro vescovo." 
Cobra Verde: "E da dove viene la neve?" 
Euclides: "Aah! Puoi vederla tu stesso, viene giù dalla luna. C'è tanta neve sulla luna. È per questo che la vedi così bianca. Bianca e fredda. Se guardi con attenzione la vedi." 
Cobra Verde: "Come succede?" 
Euclides: "Beh, ecco, la luna tira su l'acqua che le serve dall'oceano e poi, quando arriva la notte, le cime delle montagne attraggono i fiocchi di neve. Dentro la neve c'è del sale, ma solo tanto quanto ce n'è nelle nostre lacrime." 
Cobra Verde: "E dove si trova?"
Euclides: "Oh, molto, molto lontano. Devi andare verso ovest. Ci vogliono quattro anni a dorso di cavallo e dieci a piedi. E alla fine del viaggio troverai delle grandi, grandi montagne, che si innalzano sempre più alte, fino a raggiungere le nuvole, e quando avrai raggiunto le nuvole, allora là troverai la neve. La neve cade solo durante la notte, e viene giù leggera come le piume, ed è la luna a mandarcela e ce la manda giù attraverso le nuvole. E quando arriva, è come se l'intero mondo diventasse leggero, come il cotone. Soffice e leggero. E allora anche i leoni diventano bianchi, e anche le aquile reali. Tutto si avvolge in un candido mantello e non capisci più dov'è l'inizio e dov'è la fine. E quando cammini in mezzo alla neve, i tuoi piedi non pesano assolutamente niente. E i fiocchi ti girano intorno, ti accarezzano, ti sfiorano leggeri, come piume di uccelli."
Euclides (dopo una pausa): "Fra un anno o due venderò questa locanda, andrò ad ovest e mi arrampicherò in cima a quella montagne!"  
Cobra Verde: "Io andrò verso il mare. Il Sertão inaridisce i cuori e uccide il bestiame." 
Euclides: "Quando arrivi al mare fai molta attenzione. Perché è da lì che nascono gli uragani, e anche i fiocchi di neve. Almeno così ti ci eleveranno padre!" 
Cobra Verde (stringendo la mano ad Euclides): "Non ho mai avuto un amico in tutta la mia vita. Addio amico!"  

Tutto questo è puro genio! È struggente! Una visione utopica della neve e del gelo.   
 
Zucchero insanguinato  
 
La lavorazione della canna da zucchero è lunga e complessa. Richiede grande cura ed esperienza, oltre alla dura fatica. Dom Coutinho ne illustra per sommi capi le varie fasi. A un certo punto Cobra Verde è testimone di un fatto orribile. Uno schiavo mandingo rimane con un braccio intrappolato in un ingranaggio. Un suo compagno è costretto a recidere l'arto servendosi di un machete. Il fatto è ritenuto pura e semplice quotidianità. È ritenuto normale. Quindi irrilevante. Eppure all'improvviso siamo messi di fronte a una tremenda verità: in questo mondo tutto è insanguinato, persino lo zucchero!  

 
Il concetto di razza in Brasile 

Nel Profondo Sud degli States, nella Confederazione, bastava una goccia di sangue africano per fare di una persona un "negro". Anche se il suo aspetto era in tutto e per tutto quello di un bianco. Ricordo vagamente un film in cui una divina attrice, credo che fosse Ava Gardner, si trovava ad essere considerata una "negra" perché nelle sue vene scorreva un ottavo o un sedicesimo di sangue nero. In Brasile è in vigore un concetto completamente diverso, fondato sul fenotipo anziché sull'interezza del corredo genetico. In altre parole, una persona è classificata come preto "nero", pardo "mulatto" (alla lettera "marrone, bruno") o branco "bianco", non tanto per via dei suoi ascendenti, bensì del suo mero aspetto fisico, della sua apparenza. Quindi una persona con un ottavo o con un sedicesimo di sangue nero è considerata bianca a tutti gli effetti. Le interazioni tra queste parti della popolazione seguono dinamiche complesse e difficilmente comprensibili. Solo per fare un esempio, di solito gli uomini pardos cercano di sposare una moglie bianca o comunque dalla pelle più chiara della propria. Il personaggio di Manoel Francisco da Silva ci mostra uno schema di comportamento molto diverso: egli è un uomo dai caratteri somatici nordici, che potrebbe essere un discendente dei Goti, ed ama possedere carnalmente un gran numero di donne nere o mulatte - tanto che ci si potrebbe anche chiedere se in vita sua abbia mai conosciuto una bianca. In Brasile è una pratica comune e radicata viaggiare in lungo e in largo, intrattenere relazioni occasionali con donne sconosciute e ingravidarle, senza che la cosa comporti biasimo sociale. Le realtà di quella terra sono incredibili e varie. Pochi sanno che la Confederazione continua a vivere nel comune di Americana (Stato di San Paolo), dove la Bandiera Ribelle è tuttora molto venerata dai discendenti degli esuli giunti dopo la fine della Guerra di Secessione. Ebbene, non di rado si vedono persone di colore portare con orgoglio il vessillo dei Confederati! 

Anacronismi e altre incongruenze 

La vicenda di Cobra Verde inizia verso il 1880 e si conclude esattamente nel 1888, anno in cui avvenne la definitiva abolizione della schiavitù nell'Impero del Brasile. Il Re del Dahomey, Bossa Ahadee, è vissuto in realtà un secolo prima degli eventi narrati nel film: noto anche come Tagbesu (Tagbessou), regnò dal 1740 al 1774. Negli anni in cui è ambientata la pellicola regnava invece Glele (Glèlè), detto anche Badohou, che morì nel dicembre del 1889.   
 
Sono stato colpito dall'insegna della taverna il cui gerente è il nano Euclides: riporta la scritta "BAR RESTAURANTE". Una scritta che suona molto moderna. Sappiamo che la parola "bar" nella sua attuale accezione era già in uso nel mondo anglosassone, eppure mi sembra strano che fosse già stata importata in Brasile sul finire del XIX secolo. Probabilmente è un insidioso anacronismo di cui Herzog non si è accorto. Può anche darsi che io mi sbagli, sarebbero necessarie ricerche approfondite che esulano dallo scopo di una recensione e che richiederanno una trattazione in altra sede.
 
Nel paese africano notiamo la presenza di abbondanti fichi d'India (nome scientifico: Opuntia ficus indica), cosa un tantino singolare. Non ho approfondite conoscenze di botanica storica che mi permettano di dire se tale specie è attecchita in Africa. Sappiamo che è ben acclimatata in Sicilia, così potrebbe anche darsi che fosse presente nel Dahomey sul finire del XIX secolo. Quando ho appreso che il film è stato in parte girato in Colombia, lì per lì ho pensato che l'incongruenza potesse avere questa origine. Sembra tuttavia che le scene ambientate in Africa non siano state girate in Sudamerica, bensì in Ghana, così il problema persiste. 

Ricorre un errore geografico abbastanza marchiano. Mentre il Regno di Dahomey si trovava in quello che oggi è chiamato Benin, il forte portoghese di Elmina sorge nel territorio del Ghana, a oltre 500 chilometri dalla capitale del Re Bossa. Per raggiungerlo è necessario andare dal Dahomey verso occidente, cosa che Francisco Manoel da Silva non avrebbe potuto fare con una semplice passeggiata. 
 
Il fratacchione paraninfo 

La religione del Dahomey era il culto Voodoo (Vodun). Un pingue missionario si trova a corte da tempo, ma i suoi tentativi di ottenere conversioni alla Chiesa Romana si sono sempre dimostrati pressoché inutili. L'ecclesiastico, vagamente somigliante a un Bud Spencer semicalvo, invecchiato ed incattivito, vestito con un saio bianco, ha approfittato dell'ospitalità del Re Bossa per spargere il proprio seme in un gran numero di ventri femminili fecondi, generando così tanti figli da rendere difficile la conta. In particolare le figlie le fa prostituire senza scrupolo alcuno: in poche parole è un pappone della peggior specie. Nessuno mette in dubbio il suo fervore religioso, che però non impedisce interpretazioni a dir poco bizzarre delle dottrine eucaristiche cattoliche: quando sta distribuendo la comunione ai suoi pochi parrocchiani, non esita a dare l'ostia in bocca a una capra maculata!  
 
 
Il viceré di Ouidah  
 
Bruce Chatwin scrisse un lungo e complesso romanzo, intitolato Il viceré di Ouidah (prima edizione: 1980), pubblicato in Italia da Adelphi (1983). Werner Herzog ha comperato dallo scrittore i diritti cinematografici sull'opera, in modo tale da poterne trarre ispirazione per il suo film. La trama del romanzo in questione è per necessità molto più elaborata di quella di Cobra Verde: moltissimi dettagli e sviluppi narrativi non sono stati trasposti in pellicola. L'opera di Chatwin all'epoca fu considerata "eccessivamente violenta" e "barocca" dai soliti critici radical chic pieni di nauseante buonismo politically correct. L'ispirazione venne allo scrittore nel corso di una sua visita in Benin, in un periodo molto difficile di torbidi politici. La figura di Francisco Manoel da Silva è ispirata a quella di Francisco Félix de Sousa (scritto anche Souza), un negriero vissuto agli inizi del XIX secolo. Nato a Bahía nel 1754, morì a Ouidah nel 1849, alla venerabile età di 94 anni. Era riuscito a diventare il Viceré (chacha) del Regno di Dahomey. È stato definito "il più grande mercante di schiavi". Pochi sanno che i suoi discendenti, che portano il suo cognome, sono tuttora tra le famiglie più potenti dell'intera Africa, se non addirittura la più potente. Si trovano in Benin, Ghana, Togo e Nigeria. Una cosa sorprendente salta subito agli occhi: mentre Francisco Félix de Sousa somigliava un po' a Garibaldi ed era biondiccio, i suoi discendenti sono tutti neri. Non è così difficile comprenderne il motivo: il Viceré ebbe un harem di donne native e fu padre di un'ottantina di figli. Fu sepolto in un santuario della religione Vodun, che praticava assiduamente nonostante l'adesione di forma alla Chiesa Romana. 
 
Il Dahomey e le sue responsabilità 
 
Appare subito evidente che l'origine del concetto di regalità nelle culture dell'Africa subsahariana ha avuto origine nell'Egitto dei Faraoni. Il Re del Dahomey era considerato una divinità sulla terra. La sua vita era regolata da strani tabù. Ad esempio gli era vietato guardare il mare. Quando il Re Bossa Ahadee finisce detronizzato, viene murato vivo con le sue mogli nella sua estrema dimora-tomba. Pur votate alla morte, le donne si occupano di praticargli una specie di eutanasia. Pochi sembrano considerare una dato di fatto: i regni africani erano società guerriere che praticavano la schiavitù. Il Dahomey era in perenne guerra con gli Egba e ne traeva un gran numero di schiavi, che poi venivano venduti al Brasile e ad altre nazioni. I regni africani erano i principali fautori del mercato di esseri umani. Migliaia di prigionieri finivano incatenati in orrendi pozzi. In fondo tutto ciò è abbastanza coerente, dato che la schiavitù è stata pratica comunissima dovunque per millenni e nessuno pensava come una persona del XXI secolo. I fanatici attivisti del buonismo politically correct si rifiutano di considerare queste cose, perché il loro intento è quello di riscrivere la Storia secondo i propri desiderata ideologici. Non esiste qualcosa di simile all'uomo nero innocente da contrapporre all'uomo bianco perverso e maligno: Homo sapiens è dominato dalla schizofrenia. Come diceva l'Ispettore Derrick, umano e disumano possono convivere in ognuno di noi.

 
Il coro danzante
 
Ho incontrato non poche difficoltà per identificare la lingua del coro di ragazze danzanti che cantano alla fine del film, mentre scorrono i titoli di coda. Già in una sequenza le si era viste ed erano presentate dal corrotto fratacchione come il suo "coro di monache". Sono partito dal nome del gruppo, Ho Ziavi' Zigi Cultural Troupe, per arrivare al suo luogo di origine, che è Ziavi, nel distretto di Ho, in Ghana. Ho poi trovato nel Web materiale che mi ha permesso di risalire alla lingua delle canzioni. Si tratta della lingua Ewe, appartenente al ceppo Gbe. È parlata in Ghana e in Togo da più di 3 milioni di persone. Allo stesso ceppo appartiene anche la lingua Fon, anche detta Fon-gbe, parlata in Benin, Togo e Nigeria da circa 1,5 milioni di persone. Il Fon era proprio la lingua ufficiale del Regno di Dahomey. 
 
Curiosità 
 
Lo schiavo rimasto con un braccio intrappolato e spappolato in una macchina è stato interpretato da un attore mutilato, che portava una protesi. Girare la scena è stato quindi molto semplice: il braccio finto finito tra gli ingranaggi della pressa ha dato l'impressione di un incidente reale! 
 
Il produttore ha suggerito a Herzog di impiegare attori afroamericani per i ruoli delle persone di colore, ma lui si è rifiutato in modo categorico e ha voluto reclutare professionisti africani locali. Una scelta che approvo appieno.
 
La parte del film ambientata in Africa è stata girata per prima, in quanto è stata ritenuta più complessa e difficile. La parte ambientata in Brasile è stata girata subito dopo. La città in cui Cobra Verde sparge il terrore è ben riconoscibile: è Villa de Leyva, in Colombia. Si riconoscono subito i suoi edifici in stile coloniale. Herzog ha dimostrato la propria maestria riuscendo a rappresentare un'atmosfera di disfacimento che manca nel borgo attuale. 

Nel 1994 nacque a Cleveland (Ohio) il gruppo musicale Cobra Verde, post-punk e hard rock, tuttora attivo. La sua denominazione trae chiaramente origine dal film herzoghiano. Il primo album pubblicato ha un titolo molto suggestivo: Viva la Muerte.
 
 
L'epilogo 
 
Questo è stato il quinto e ultimo film in cui Werner Herzog ha diretto Klaus Kinski, dopo Aguirre furore di Dio (1972), Nosferatu - Il principe della notte (1979), Woyzeck (1979) e Fitzcarraldo (1982). Spesso i recensori insistono nel chiamare Kinski "attore-feticcio" di Herzog. Non so da dove questa bislacca denominazione abbia tratto la sua origine, fatto sta che il rapporto tra i due non è mai stato semplice. Sembra che all'origine della rottura ci sia stato un episodio di aggressione fisica. Il biondo e intemperante attore a quanto pare si lanciò contro il regista tentando di strangolarlo. Una foto molto diffusa nel Web ci mostra lo scatto dell'aggressore, gli occhi pieni di odio e il volto stravolto dalla possessione diabolica. Non ci sono dubbi: Kinski era un uomo con più di un aspetto, per usare un modo di dire comune tra i Vichinghi. In altre parole, egli era un genuino berserk. Guardando la foto, comprendiamo all'istante il significato della locuzione "avere il verme negli occhi", che descriveva i guerrieri invasati. Al culmine del suo dispotismo, il bizzoso attore pretese che Herzog rimuovesse il direttore della fotografia, Thomas Mauch, che aveva collaborato ai suoi film fin dal principio. Mauch fu sostituito, ma lo stesso Kinski non comparve in altri film herzoghiani. In seguito il regista descrisse il suo rapporto con lui nel film documentario Kinski, il mio più caro nemico (1999).

mercoledì 10 giugno 2020

 
AGUIRRE, FURORE DI DIO

Titolo originale: Aguirre, der Zorn Gottes
Paese di produzione: Germania Ovest
Anno: 1972
Lingua: Inglese, Quechua, tedesco  
Durata: 90 min
Rapporto: 1,33:1 (4:3)
Genere: Storico, drammatico
Regia: Werner Herzog
Soggetto: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Produttore: Werner Herzog
Casa di produzione: Werner Herzog Filmproduktion
Fotografia: Thomas Mauch
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Musiche: Popol Vuh
Interpreti e personaggi:
    Klaus Kinski: Don Lope de Aguirre
    Helena Rojo: Doña Inés de Atienza  
    Del Negro: Frate Gaspar de Carvajal
    Ruy Guerra: Don Pedro de Ursúa
    Peter Berling: Don Fernando de Guzmán
    Cecilia Rivera: Flores de Aguirre
    Alejandro Repullés: Don Gonzalo Pizarro 
    Daniel Ades: Perucho
    Edward Roland: Okello
    Armando Polanah: Armando
    Justo González: González
    Indios della Cooperativa Lauramarca
Doppiatori italiani:
    Pier Luigi Zollo: Lope de Aguirre 
Titoli tradotti: 
    Spagnolo: Aguirre, la cólera de Dios (Spagna)
         Aguirre, la ira de Dios (America Latina)
    Catalano: Aguirre, la còlera de Deu
    Inglese: Aguirre, the Wrath of God  
    Francese: Aguirre, la colère de Dieu
Colonna sonora: 
    Aguirre è il settimo album dei Popol Vuh.
 Registrazione: 1972-1974
 Anno di rilascio: 1975
 Contenuto:
   Lato 1
   1. Aguirre I (7:22)
     I. L'Acrime di Rei
     II. Flöte"
   2. Morgengruß II (2:55)
   3. Aguirre II (6:15)
   4. Agnus Dei (3:03)
   Lato 2
   1. Vergegenwärtigung (16:51)
   CD bonus track (2004)
   1. Aguirre III (7:16)
 Compositore:
Florian Fricke, tranne il brano 2, composto da Daniel Fichelscher 

  Nota: Soltanto Aguirre I e Aguirre II formano la colonna sonora del film.
 
Trama: 
Anno del Signore 1560. Dall'impervia regione andina parte una spedizione guidata da Gonzalo Pizarro, diretta verso l'Amazzonia profonda alla ricerca del favoloso Paese di Eldorado. I Conquistaderes, oppressi dalle corazze metalliche e dal peso delle armi, marciano seguiti da centinaia di Indios ridotti in schiavitù, facendosi strada a fatica nella foresta melmosa. Questi nativi, originari delle Ande e ben adattati al clima rigido, soffrono molto, si ammalano e muoiono in gran numero. L'ultimo giorno dell'anno, date le crescenti difficoltà, Gonzalo Pizarro dà ordine a un gruppo di quaranta uomini di discendere lungo il fiume servendosi di zattere, avvertendo che se non saranno di ritorno entro una settimana, saranno considerati dispersi. A capo del gruppo viene messo il valoroso Pedro de Ursúa. Come secondo in comando viene scelto il fiero Lope de Aguirre. Il pingue Don Fernando de Guzmán assume l'incarico di rappresentare la Corona di Spagna, mentre Frate Gaspar de Carvajal funge da portatore della Parola di Dio e tiene al contempo il diario dell'impresa. Contro il consiglio di Pizarro, seguono la spedizione esplorativa anche l'amante di Ursúa, Doña Inés, e la giovane figlia di Aguirre, Flores. La spedizione esplorativa, partita il 4 gennaio, si trova subito in difficoltà: una delle zattere rimane intrappolata in un gorgo e non riesce a raggiungere la riva. Nel corso della notte, gli uomini a bordo della zattera bloccata rimangono uccisi. Si diffonde il panico, perché c'è la certezza che gli artefici dell'agguato siano Indios della foresta. Come se non bastasse, la notte successiva il fiume si gonfia e trascina via le restanti zattere. A questo punto Ursúa vorrebbe tornare indietro via terra per cercare di ricongiungersi a Pizarro e ai suoi, ma incontra l'opposizione di Aguirre e della maggior parte degli uomini, che non vogliono obbedire: ha così inizio la sedizione. Ursúa viene deposto, ferito e imprigionato in una gabbia. Don Fernando de Guzmán, inizialmente eletto comandante, viene quindi proclamato Imperatore di Eldorado da Aguirre, che dichiara detronizzato il Re di Spagna Filippo II. Viene indetto un processo farsesco e Ursúa è condannato a morte. Tuttavia l'Imperatore posticcio all'ultimo gli salva la vita - con grande disappunto di Aguirre. La spedizione continua per mezzo di un'unica zattera appena costruita traendo la materia prima dalla foresta. Il feroce Aguirre dà fin da subito prova di grande squilibrio e di indole tirannica, soggiogando gli uomini col terrore. Nessuno osa protestare: soltanto Inés esprime la sua opinione contraria, venendo ignorata. Durante una sosta in un villaggio abbandonato e pieno di cibo, vengono scoperte tracce di cannibalismo. Segue una fuga precipitosa. Discendendo il fiume, la zattera è raggiunta da due indigeni in canoa. Questi vengono fatti salire; gli spagnoli notano che uno di loro porta al collo un gioiello d'oro. L'incontro finisce in modo violento. Avendo il fratacchione dato una bibbia agli ospiti, li uccide a causa della loro blasfemia quando il volume viene gettato via con sdegno, forse su istigazione delle parole dell'interprete. Le cose vanno sempre peggio. L'Imperatore obeso e fittizio si ingozza di frutta e di mais mentre i suoi sudditi muoiono di fame. In preda a un capriccio puerile, scaraventa in acqua l'unico cavallo rimasto. Quest'azione dissennata non resta senza conseguenze. Poco dopo, l'inetto Guzmán viene trovato garrotato vicino alla latrina. Il suo immane corpo è senza vita. Aguirre è ora il capo indiscusso, ma il suo destino è segnato, il suo cammino conduce all'annientamento.

Citazioni: 

"Io sono Aguirre, Furore di Dio! Se io, Aguirre, voglio che gli uccelli cadano fulminati, gli uccelli devono cadere stecchiti dagli alberi! Sono il furore di Dio, la terra che io calpesto mi vede e trema!" 
(Lope de Aguirre) 
 
"I miei uomini misurano tutto con l'oro, ma per me conta solo il potere. L'oro lo lascio ai servi."
(Lope de Aguirre) 

"Lo sapete, Inés, che per la gloria di Nostro Signore la Chiesa deve stare sempre dalla parte del più forte."
(Frate Gaspar de Carvajal) 

"Terremoti, epidemie e inondazioni si sono abbattuti sul mio popolo, ma quello che ci hanno portato gli Spagnoli è infinitamente peggiore. Mi hanno dato il nome di Balthazar. Ma in realtà il mio vero nome è Runodimah, "Colui che parla". Prima ero il signore di queste terre, e tutti dovevano abbassare lo sguardo davanti a me. Nessuno osava guardarmi negli occhi, e ora sono in catene, come il mio popolo, e devo abbassare io lo sguardo. Voi mi avete tolto tutto ciò che avevo. Avete fatto di me un misero schiavo. Sei tu a farmi pietà adesso, perché so bene che nessuno di voi potrà uscire vivo da questa foresta."
(Balthazar) 

"Io, il Furore di Dio, mi sposerò con mia figlia e fonderò con lei la dinastia più pura che abbia mai regnato sulla terra. Noi due insieme regneremo su tutto questo continente. Resisteremo! Sono il Furore di Dio, e Dio è con me! 
(Lope de Aguirre) 

 
Recensione: 
Questo vibrante capolavoro merita di essere visto e rivisto molte volte. Ogni volta si coglie un particolare nuovo. È una sinfonia della Catabasi e dell'Annichilimento, in cui il Cosmo rivela la sua vera natura di Caos, essendo ogni parvenza di ordine il semplice frutto di un processo allucinatorio. Tutto ha inizio con un incitamento alla ribellione. Così Lope de Agirre rammenta ai suoi uomini che se Hernán Cortés non avesse disobbedito agli ordini, non avrebbe conquistato un impero. Come pronuncia queste parole, si avverte che qualcosa è cambiato in modo irreversibile. Si è instaurata una frattura ontologica. In modo subdolo, nel vicecomandante si è accesa la sinistra fiammella della follia. È l'innesco di una metamorfosi funesta che non potrà in alcun modo arrestarsi. Il titanismo prometeico farà presto il suo corso, portando il protagonista al delirio solipsistico. Si capisce bene che egli è diventato una monade leibniziana, quando scruta un albero e si illude di riconoscere tra i rami la sagoma spettrale di un vascello abbandonato, candido come uno scheletro seccato dal sole del deserto. L'uomo pieno di hybris non ha più alcun contatto con il mondo esterno. La realtà è una gran brutta cosa: la si può definire come l'insieme dei fenomeni del mondo sensibile che non mutano secondo i desideri e le disposizioni degli esseri senzienti. Non c'è in essa alcuna malleabilità, alcuna duttilità. Si oppone a ogni movimento e lo rende penoso. Eppure c'è sempre chi non si arrende a questa caratteristica del contesto incubico chiamato "vita". Per questo motivo il feroce e biondo conquistador si deteriorerà istante dopo istante, ormai vinto dalle febbri malariche, finendo col tenere il suo monologo farneticante di fronte a un branco di simpatiche scimmiette dalla coda prensile. Tutti coloro che lo accompagnavano sono stati uccisi dalle frecce avvelenate, anche la figlia con cui fantasticava di generare tramite copula incestuosa una nuova razza di semidei. La zattera si sta sfaldando, ormai è in buona parte sotto il pelo dell'acqua mista a rifiuti. Resta solo il Disfacimento, quella forza tremenda quanto ineluttabile che corrode ogni cosa, dissolve ogni struttura, fa precipitare ogni essere nel Nulla. Le note dei Popol Vuh codificano questa Nemesi, stampandone il progredire nelle sinapsi dello spettatore!

Principio d'induzione 
 
Il ragionamento fatto da Aguirre è in sé molto logico. Si basa su un assunto profondamente radicato nella mente di ogni esemplare della specie Homo sapiens: il principio d'induzione. Tutti sanno che Hernán Cortés si impadronì del Messico dopo aver abbattuto l'Impero Azteco - divendo così uno degli uomini più ricchi del pianeta. Allo stesso modo è ben noto che Francisco Pizarro, che divenne un notabile a Panama, raggiunse l'Impero dell'Inca e con stratagemmi fraudolenti non faticò troppo ad abbatterlo. Forte di queste evidenze, Aguirre è sicuro dell'esistenza di un'altra civiltà autoctona, ancora più ricca e gloriosa di quelle già conquistate. Egli chiama questa nuova nazione con un nome che è rimasto famoso: Impero di Eldorado. "Il Messico non è stato un'illusione", dice il condottiero a coloro che dubitano, già vinti dalle febbri amazzoniche. Quindi Eldorado deve esistere; è una necessità storica. In realtà sappiamo che il mito di Eldorado ebbe origine in Colombia dalla civiltà dei Muisca, oggi più noti come Chibchá, che avevano raggiunto una ricchezza e un livello tecnologico paragonabile a quello dei Maya. Si dice che un loro sovrano si recasse una volta all'anno sulle acque della laguna di Guatavita (a 60 km circa da Bogotá), col corpo nudo coperto di polvere d'oro. Così gli fu dato un nome che fu tradotto in spagnolo come El Dorado, ossia "Il Dorato". La civiltà dei Muisca fu abbattuta da eserciti di Tercios spagnoli e di Lanzichenecchi bavaresi, ma il mito di Eldorado visse di vita propria, tanto che per molto tempo fu data per scontata l'imminente scoperta di una nuova civiltà, con una tale abbondanza d'oro da permetterne l'uso per lastricare le strade. Lo stesso Voltaire, nel Candido, ha raccolto e sviluppato questo mitologema. La fede nell'esistenza di Eldorado durò fino al 1800, quando si scoprì che Walter Raleigh aveva ingannato il mondo e che non avevano alcun fondamento le sue favole sull'esistenza di un mare interno grande come il Mar Caspio, con una città di nome Manoa posta su una sua riva e dotata di dimore dai tetti di oro massiccio. 
 
L'avidità di un ecclesiastico violento 
 
Frate Gaspar de Carvajal è interpretato in modo splendido da Joseph Nicholas Anton Del Negro, attore e pittore ispanoamericano più noto col nome artistico di Del Negro. All'inizio del film ci dà l'impressione di essere una persona umana e moderata, piena di compassione per l'orrenda vita degli indigeni, tanto da annotare sul suo diario: "I nostri schiavi indios valgono poco o nulla. Il cambio di clima li fa morire come mosche. Non abbiamo tempo di dar loro una sepoltura cristiana." La sua ambiguità emerge nel corso del suo dialogo con Dona Inés, quando dichiara senza mezzi termini che il compito della Chiesa è quello di stare col più forte. Quando vede il ciondolo d'oro portato al collo da un nativo, l'ecclesiastico impazzisce. Viene rapito da una forza totalizzante, quella dell'avidità. Il suo volto è deformato, i suoi occhi brillano di una luce spaventosa. Credo di aver visto una luce simile soltanto negli occhi di Chikatilo, il Mostro di Rostov. L'esito di questa possessione è una crisi violenta che lo porta a uccidere. L'indio che porta la bibbia a un orecchio e la scaraventa a terra, perché non parla, è una reminiscenza che Herzog ha tratto dalle cronache della Conquista del Perù: fu l'Inca Atahuallpa il protagonista di una simile vicenda. La profanazione del testo sacro è ciò che trasforma Carvajal in un berserk: afferrata una spada, trafigge non soltanto l'indio che aveva gettato via la bibbia, ma anche il suo compagno, che all'inizio i soldati avevano scambiato per una donna. Nessun pentimento. L'unico commento da parte dell'uomo di Chiesa, mentre ritrae la lama insozzata di sangue, è questo: "Convertire questi selvaggi è davvero un compito arduo". Dal canto suo, Don Lope de Aguirre ritiene che la religione sia un ingombrante mucchio d'immondizia, utile unicamente per conservare il potere. Lo dice anche in modo esplicito, quando rivolge al fratacchione queste parole: "Prete, non dimenticarti di pregare. Altrimenti il tuo dio te la farà pagare cara." 
 
Una profezia insidiosa 
 
I due indios che salgono sulla zattera di Aguirre, trovandovi poco dopo una brutta fine, spiegano il motivo della loro visita. Da lungo tempo il loro popolo attendeva la venuta dei Figli del Sole, che sarebbero giunti in quell'angolo della Terra con strumenti in grado di produrre il rumore del tuono, perché la Creazione era stata lasciata incompleta dall'Artefice ed essi vi avrebbero posto rimedio. Il contenuto dell'antica profezia dei Figli del Sole era di una verità cristallina, anche se chi la aveva enunciata si era dimenticato di un dettaglio importante. I Figli del Sole sono malvagi come loro padre. 
 

Il vero Lope de Aguirre 
 
Lope de Aguirre (circa 1510 - 1561) nacque a Oñati, nella valle di Araotz, nella provincia basca di Gipúzcoa. I suoi interessi fin da giovane furono rivolti alle portentose notizie che giungevano dal Nuovo Mondo. Aveva ventun anni quando Hernando Pizarro, fratello del più famoso Francisco, fece ritorno dal Perù portando con sé immense ricchezze del distrutto Impero dell'Inca. Aguirre, che si trovava a Siviglia, fu talmente colpito dall'accaduto che giurò di diventare egli stesso un conquistador. Giunto in Sudamerica, si distinse subito per la violenza, l'indole collerica e l'implacabile sete di vendetta. Un giudice lo aveva fatto frustare in pubblico, accusandolo di aver sfruttato gli indigeni (ebbene sì, la Corona faceva del suo meglio per proteggerli). Aguirre percorse a piedi  molte miglia per trovare questo giudice, dopo tre anni lo sorprese a Cuzco mentre si trovava in una biblioteca e lo uccise conficcandogli un pugnale in una tempia fino a spaccargli il cranio. Prese realmente parte alla spedizione di Pedro de Ursúa, ammutinandosi e facendolo uccidere. Scrisse realmente una lettera a Filippo II, dichiarando l'indipendenza dalla Corona di Spagna e proclamamando come sovrano l'hidalgo Hernando de Guzmán - che uccise presto. Le sue imprese superarono la fantasia di Herzog, dato che riuscì a raggiungere l'Oceano Atlantico alla testa di uomini armati con cui pensava di invadere la colonia di Panama, passare l'Istmo e compiere una spedizione navale per impadronirsi del Perù. La sua megalomania lo portò al disastro. Circondato e vinto a Barquisimeto, in Venezuela, si dice che abbia ucciso la propria figlia Elvira per impedire che fosse profanata. Tradito dai suoi, fu catturato e fucilato. Il cadavere fu squartato e i suoi pezzi vennero inviati in varie città venezuelane come monito. Giudicato in un processo postumo, fu condannato per lesa maestà.
 
Una testimonianza etnologica

Ancora oggi nella regione dell'Orinoco c'è chi ritiene Aguirre uno spirito maligno, un demonio. Ricordavo un brano sull'argomento e dopo una lunga ricerca sono riuscito a trovarlo. Lo pubblico in questa sede: 
 
Il demonio del Casiquiare 
 
«Verso il 1599* si registrò un'altra punta nella bruciante febbre dell'Eldorado quando Pedro de Ursua, uomo talmente di pochi scrupoli da essere soprannominato "sbudellatore di indios", ottenne da Andrea Hurtado de Mendoza, viceré del Perù, il titolo di Governatore di Omagua e di Eldorado.
  Pedro de Ursua riuscì a metter insieme in breve tempo una specie di esercito di Francischiello, formato per lo più da poveri disgraziati, la schiuma degli spostati e dei falliti che si trovava nelle colonie spagnole. Una spedizione che assurse in seguito ad esempio da manuale per la disorganizzazione dimostrata.
  Tra questi disperati c'era certo Lope de Aguirre "... piccolo di statura e smilzo, brutto, con la barba nera e con un paio di occhi grifagni come quelli dell'aquila".
  Strano a dirlo, Lope de Aguirre era uno dei pochi che allora non credessero alla favola dell'Eldorado; forse perché anni di continui patimenti e frustrazioni subite rincorrendo inutilmente questo mito, gli dovevano aver insegnato a diffidare dei pazzi condottieri. Aguirre aveva accettato di partecipare a questa spedizione per un altro scopo. Possedeva un piano ambizioso: creare un proprio regno nel Sudamerica.
  Poco per volta riuscì a guadagnarsi dei proseliti approfittando del malcontento che, dopo i primi entusiasmi, serpeggiava sempre in questo genere di spedizioni. Così, arrivati nel territorio di Omagua, esplose nel gennaio del 1561 la rivolta e Pedro de Ursua venne fatto a pezzi assieme agli ufficiali.
  Poi, ben consci di non poter ritornare nella colonia spagnola dove li attendeva la forca, gli ammutinati concepirono un piano audace e disperato. Navigando, solcarono le acque scure del Rio Negro fino a quando queste confluirono in quelle del Rio della Amazzoni. 
  Qui, dagli indigeni, appresero l'esistenza di una via d'acqua segreta che univa il Rio Negro all'Orinoco: era il Rio Casiquiare, un corso d'acqua unico al mondo nel suo genere che collega due fiumi di opposte direzioni, in quanto uno socia sulla costa venezuelana mentre l'altro confluisce nel Rio della Amazzoni. 
  Aguirre risalì questa nuova via mai solcata da alcun uomo bianco; alla fine sbucò di fronte all'isola Margarita, vicina al delta dell'Orinoco. Marciò verso Barquisimeto, una colonia posta nei pressi di Coro, conquistandola con un colpo di mano. Ma ebbe l'imprudenza di dichiarare Barquisimeto indipendente dal Regno di Spagna e di proclamare troppo tempestivamente il proprio regno personale, mentre ancora i suoi seguaci non erano completamente d'accordo. E ci rimise la testa.
  Lope de Aguirre entrò comunque nelle saghe venezuelane. Ancor oggi è identificato con uno spirito del male, uno dei tanti che popolano l'Orinoco. 
  E quando il tempo si fa minaccioso e si alzano dalle paludi marcescenti i fuochi fatui, ci si segna ancora pensando che l'anima del demonio Aguirre sia tornata a ghermire una nuova preda.»
(Tratto da Storia Moderna, di Gabriele De Rosa, ed. Minerva Italica, 1982) 

*Deve essere un refuso per 1959. 

 
La vera spedizione di Gonzalo Pizarro 

Possiamo tracciare la genesi della narrazione del film: Herzog ha ibridato due storie diverse. Le gesta di Lope de Aguirre, che prese parte alla spedizione di Pedro de Ursúa, sono state fittamente intrecciate a quelle di Gonzalo Pizarro (1502, secondo alcuni 1510 - 1548), la cui spedizione avvenne quasi un ventennio prima, nel 1541. Assieme a Francisco de Orellana (1511 - 1546), Pizarro partì da Quito (attuale Ecuador) alla ricerca di un luogo irreale chiamato Paese della Cannella (País de la Canela), per via della supposta abbondanza di cinnamomo. Fu questa la spedizione a cui prese parte il fratacchione diarista, Gaspar de Carvajal. Il reclutamento permise di mettere assieme 220 spagnoli e 4.000 indigeni. Prima partì Pizarro con questi contingenti, mentre Orellana, secondo in comando, si riunì a loro dopo essere stato a Guayaquil per reclutare altri armati e per trovare cavalli. Dopo aver seguito il corso del Rio Coca e del Rio Napo, cominciarono gravi problemi. Mancanza di viveri e febbri tropicali. 140 spagnoli e 3.000 nativi persero le loro vite in condizioni abiette. Fu decisa la costruzione di una nave, usata da 50 uomini comandati da Orellana per andare alla ricerca di cibo. Come nel film herzoghiano, l'imbarcazione non fece ritorno e fu considerata dispersa. Due anni dopo la partenza, Pizarro raggiunse Quito con 80 superstiti. Orellana seguì invece il corso del Rio delle Amazzoni, arrivando infine alla sua foce - primo europeo a riuscire in una simile impresa. Fu lo stesso Carvajal a darne testimonianza nella sua opera Relación del nuevo descubrimiento del famoso Río Grande que descubrió por muy gran ventura el capitán Francisco de Orellana

Possibili incongruenze nella fauna  
 
Richiamo l'attenzione su alcuni dettagli della fauna che compare nella pellicola di Herzog. 
 
Si nota un maiale nel villaggio abbandonato dai cannibali. Si tratta di un porco dall'aspetto bizzarro, scuro e abbastanza simile a quello di un cinghiale. Siamo nel 1560, così ci si chiede se l'allevamento dei suini domestici si fosse già diffuso in territori non ancora appartenenti alla Corona di Spagna. Nel Nuovo Mondo esistono porci selvatici, come ad esempio i pecari in Messico, già ben conosciuti dai nativi in tempi preispanici (gli Aztechi chiamavano coyametl questo animale). Si tratta però di animali molto aggressivi, di cui non è mai stata tentata la domesticazione. 
 
Sempre nel villaggio già menzionato si può vedere una cagna distesa a terra e intenta ad allattare i cuccioli. Il suo pelo è nero, se si eccettua una macchia bianca sulla parte inferiore del corpo. Si comprende subito che non è cane autoctono. I cani nativi dell'America sono ancor oggi un mistero e avevano caratteri molto strani. Così è nota una razza canina allevata dagli Aztechi, caratterizzata dal corpo glabro e dall'assenza di voce. Purtroppo questi cani sono oggi estinti e a quanto mi risulta le loro tracce sono difficili da identificare. Mi domando se i chihuahua ne possano preservare almeno in parte l'eredità genetica dei cani nudi del Messico antico. La cosa non è affatto sicura e richiede studi approfonditi.
 
Non deve essere invece considerata anacronistica la presenza dei polli, la cui storia in Sudamerica è davvero interessante. Si pensa che siano stati portati nel Nuovo Mondo da Cristoforo Colombo e subito usati per scambi commerciali dai nativi. Così il pollame, facilmente trasportabile in gabbie, deve essere giunto precocemente in territori non soggetti alla Corona di Spagna, diffondendosi in Amazzonia e arrivando agli Incas nel giro di pochi decenni. Il nome dell'Inca Atahuallpa significa "Gallo". L'etimologia della parola atawallpa non è chiara. Probabilmente in tempi più antichi indicava un uccello selvatico affine al gallo cedrone, che avrebbe dato il nome anche all'animale domestico. Studi recenti sembrano dimostrare che i polli abbiano raggiunto il Perù almeno un secolo prima di Colombo, portati dai Polinesiani. L'argomento merita una trattazione approfondita, ma non è questa la sede adatta.  

Possibili incongruenze nella flora 

Richiamo l'attenzione su alcuni dettagli della fauna che compare nella pellicola di Herzog. 
 
Sempre nel villaggio dei cannibali, si vede che gli uomini di Aguirre, all'inizio sospettosi, si gettano su una gran quantità di banane acerbe e le divorano avidamente. Il problema che mi pongo è questo: nel 1560 sarebbe stato possibile rinvenire banani in aree amazzoniche non sottoposto al dominio degli Spagnoli? Sappiamo che la prima piantagione di banane del Nuovo Mondo risale al 1502. Certo, le novità si diffondevano rapidamente, ma la pianta del banano richiede molta più fatica e ingegno dell'allevamento dei polli (la riproduzione non avviene in modo naturale, richiede innesti, etc.). Cuzco cadde nel 1533 e non si vedeva traccia alcuna di banane in tutto il Tawantinsuyu. Non è facile trovare informazioni per capire nei dettagli la cronologia della diffusione di questa coltura in Sudamerica. In ogni caso mi sembra eccessivo credere che avesse raggiunto l'Amazzonia solo una trentina di anni dopo la caduta di Cuzco.   
 
Una possibile incongruenza culinaria  

Il fratacchione, Gaspar de Carvajal, commenta l'arbitrio del demente Don Pedro de Guzman, che ha gettato nel fiume il cavallo. Queste sono le sue parole: 
 
"Ha commesso un grave errore. Una volta, in Messico, ho visto un intero esercito di Indios scappare da un cavallo. E in più quel cavallo poteva sfamarci per una settimana." 

Il punto è che all'epoca non si mangiava carne equina. Sarebbe stato ritenuto un costume non cristiano. In questo secolo il consumo di carne equina ci appare del tutto naturale. Eppure fino a non troppo tempo fa non era così. In Sudamerica esiste ancora una diffusa avversione all'idea di mangiare il cavallo. Penso che tra le genti di Spagna del XVI secolo non ci sarebbero state molte persone disposte a infrangere questo tabù, nemmeno in condizioni di estremo bisogno.
 
Uno strano effetto speciale 
 
Due uomini pianificano la fuga, per un semplice motivo: ritengono che sia meglio andare con gli Indios che rimanere con quel pazzo di Aguirre. Il condottiero ascolta le loro parole, senza essere visto, così invia Perucho a compiere l'esecuzione. Uno dei disertori sta contando. Quando arriva a dire "nove", Perucho abbatte la spada sul suo collo, sbalzandone via la testa, che finisce tra i cespugli. Per qualche istante si vede la testa recisa, la cui faccia è fatta di gomma, muovere le labbra, da cui esce la parola "dieci". Tutto ciò mi è parso inquietante, ma al contempo inverosimile. 
 
Curiosità  

Secondo la rivista Time, questo è uno dei 100 film migliori di tutti i tempi. Concordo appieno! 
 
Il film fu girato in inglese, unica lingua che potesse accomunare un cast multinazionale. Quindi fu fatto il doppiaggio in tedesco, non senza problemi, visto che Kinski pretendeva un compenso stratosferico per le sessioni di registrazione.     
 
Klaus Kinski ebbe modo durante le riprese di comportarsi in modo eccessivo ed intemperante. Una notte era disturbato da alcuni uomini della troupe che giocavano a carte in una capanna, vociando senza sosta. Così afferrò un fucile e sparò nella capanna, alla cieca: soltanto per puro caso non uccise nessuno. Una comparsa fu mutilata di una falange. Il fucile gli venne confiscato da Herzog, che lo detiene tuttora. In un'altra occasione Kinski colpì alla testa un uomo della troupe con una spada. Se la vittima dell'aggressione non avesse indossato un pesante casco, probabilmente avrebbe perso la vita. 
 
Herzog aveva scritto d'impeto la sceneggiatura del film, ispirato dal genio, mentre era in viaggio con la sua squadra di calcio. Il punto è che arrivò Kinski, ubriaco fradicio, che si mise a vomitare sui fogli, rendendoli assolutamente illeggibili. Herzog fu costretto a gettare via tutte; non gli riuscì mai di ricostruire con esattezza i testi perduti, per quanto sforzasse la sua memoria. 
 
Molte delle scene, inedite e incomprensibili, offuscavano negli attori il confine tra la recitazione nel personaggio e la semplice reazione alle situazione. In una scena iniziale, quando la carrozza che trasporta la figlia di Aguirre si ribalta e minaccia di collassare, una mano entra dal lato destro dell'inquadratura per aiutare gli attori a mantenere la presa. Quella mano appartiene al regista! 
 
Il suonatore di flauto andino era un mendicante con problemi mentali. Si spaventava facilmente e non fu facile gestirlo. 
 
Herzog fu truffato da trafficanti senza scrupoli, che gli dovevano vendere le scimmie per il finale. Si trattava di esemplari di una specie molto amabile, la scimmia scoiattolo (nome scientifico: Saimiri sciureus). Disperato, pur di recuperare gli animali, il regista si finse un veterinario e affermò che mancava un certificato vaccinale. Per fortuna la sua strategia ebbe successo. 
 
Nel corso delle riprese ci fu soltanto un caso di epatite, di probabile origine oro-fecale. Nessun caso di malaria. Il regista fu assalito dalle formiche di fuoco mentre maneggiava un machete. Come conseguenza dei morsi dei furiosi imenotteri, dovette stare qualche giorno a letto con la febbre. 

Tracce della sceneggiatura originale 

All'inizio il vascello fantasma intravisto dal febbricitante Aguirre doveva essere reale. Nelle intenzioni del regista, quel relitto era tutto ciò che rimaneva della spedizione di Orellana, di cui si è parlato diffusamente. In seguito alla distruzione dei fogli della sceneggiatura, corrosi dal vomito acidissimo di Kinski, l'idea fu abbandonata. 
 
Aguirre doveva raggiungere, solo superstite, la foce del Rio delle Amazzoni e finire nell'Oceano. A quel punto doveva vedere un minuscolo pappagallo, che ripeteva all'infinito una sola parola: "Eldorado!" Anche questa idea è naufragata. Potere della materia rigettata da Kinski, più ebbro di Balaram! Sembra che abbia ingurgitato quantitativi immensi delle più disparate bevande alcoliche, rasentando il coma etilico e creando un'acre mistura scura in grado di turbare gli incubi di Herzog per molti anni! 

Etimologia di Aguirre 

Il cognome Aguirre ha la sua origine nella lingua basca (Euskara), che era l'idioma materno del celebre Don Lope: l'ortografia originale è Agirre (varianti Agerri, Agerre e persino Ager). È un cognome tipico della nobiltà del Paese Basco. La sua etimologia è abbastanza incerta, anche se è opinione comune che derivi dall'aggettivo ageri "manifesto, evidente, prominente". Dato che la consonante rotica debole -r- in basco non alterna con quella forte -rr-, bisognerà a mio avviso supporre una protoforma *ageri-re. In questo caso la rotica forte si sarebbe sviluppata come il prodotto dell'unione di due rotiche deboli. Il significato originale del cognome dovrebbe quindi essere "Luogo esposto" o "Luogo prominente". Si hanno anche diversi cognomi derivati: Eizagirre, Agirresarobe, Agirrezabal (da zabal "largo, ampio"). Molte famiglie cognome Aguirre sono documentate in tutto il Paese Basco e se ne trovava una persino a Tolosa, nella Linguadoca profonda.

Etimologia di Runodimah
 
Il significato del vero nome dell'indio Balthazar, Runodimah, è ben spiegato da lui stesso nel corso del film. Mentre egli parla con la figlia di Aguirre, Flores, ne fa esplicita menzione: "Colui che parla". Ha tutta l'aria di essere una cattiva trascrizione di un originario Runa Rimaq, che è dal Quechua runa "uomo", rimaq "che parla" (rimay significa "parlare"). Dalla stessa radice verbale proviene anche il nome della città di Lima: è stato preso da quello del torrente Rimaq, ossia "Parlante", con riferimento al suono limpido e cristallino prodotto dalle sue acque mentre scorrono sulle rocce. Un suono a cui veniva con ogni probabilità attribuito un significato oracolare. Strano a dirsi, nel Web il nome dell'indio è trascritto come Runo Dama, anche se ascoltando il film si sente nitidamente che non è così. La lingua parlata da Balthazar e dagli Indios poi uccisi dal fratacchione è un bel problema. A quanto si legge nel Web, dovrebbe essere una varietà di Quechua, eppure non riesco a distinguerne una sola parola e anche la fonologia sembra abbastanza diversa. Gli attori provengono dalla Cooperativa Lauramarca e dovrebbero quindi parlare Quechua. Dubito che il problema sia il mio udito difettoso, visto che il Quechua di Cuzco lo riesco a distinguere bene.