mercoledì 14 novembre 2018


NAVE DA PREDA

Autore: Cyril M. Kornbluth
Anno: 1958
Titolo originale: Shark Ship

Aka:
Nave squalo, La Nave-Squalo, La virtù
     sterminatrice  

L
ingua:
Inglese
Tipologia narrativa: Racconto lungo / romanzo breve 
Genere: Fantascienza
Sottogenere: Distopia, fantascienza sociale,
     fantareligione, fantascienza post-apocalittica 
1a edizione it.: 1964

2a edizione it.:
1967
3a edizione it.: 1984
4a edizione it.: 1987
Editori (it.):
     Arnoldo Mondadori Editore (1964, 1984, 1987),
     Giacomo Feltrinelli Editore (1967)
Edizioni italiane (antologie): 
   1964:
Dimensioni vietate, Urania 334
   1967:
Fantasesso, Il brivido e l'avventura 25
   1984:
Catastrofi! Oscar 1767
   1987: Oltre la luna, Urania 1056

Traduttori:

    Cesare Scaglia (1964, 1967),
    Giuseppe Lippi (1984),
    Delio Zinoni (1987)

Dettagli dell'antologia Catastrofi!: 

   Titolo originale: Catastrophes! 

   Curatore: Isaac Asimov 

   Sezione: Distruzione della civiltà

Catalogo Vegetti:
 


Nota: Nel catalogo il titolo del racconto è riportato con il trattino (hyphen)Shark-Ship. Eppure non sembrano trovarsi riscontri di questa variante nel mondo anglosassone.

Trama:

Un futuro cupissimo. Gli abitanti dell'AMEN (Area Metropolitana del Nord Est), un opprimente megalopoli, avevano da tempo abbandonato il loro brulicante formicaio umano per vivere su una flotta di navi di acciaio, vincolati da un solenne giuramento a non avvicinarsi mai alla terraferma. L'unico sostentamento per questo popolo di navigatori è il pesce catturato nelle acque degli oceani. La flotta è formata da più convogli, ognuno agli ordini di un commodoro, ma ogni nave è autosufficiente e il suo capitano ha il potere assoluto. La disciplina è rigidissima: anche un'insignificante macchia di ruggine può compromettere la sopravvivenza e quando il pescato è scarso gli ultrasessantenni sono obbligati all'eutanasia. Le peregrinazioni della flotta duravano ormai da circa tre secoli, quando la nave del comandante Salter perde la rete. L'unica possibilità di salvezza è raggiungere la costa, sperando di riuscire a trovare acqua e cibo. Quello che i marinai vedono è spaventoso. Le antiche nazioni sono crollate, ci sono state morie catastrofiche su tutto il pianeta e sono sopravvissuti alcuni sparuti gruppuscoli di adepti di una setta sanguinaria di sadici cannibali che adorano il loro fondatore, un profeta chiamato Merdeka, il Prescelto, soprannominato anche Il Completo Straniero e l'Arci-Forestiero. Morto a causa di un aneurisma, il suo spirito aveva continuato ad aleggiare sui continenti, dando origine a spaventosi olocausti! 

Recensione:

Angosciante quanto geniale e profetico parto dell'ingegno di Cyril M. Kornbluth (1923-1958), l'uomo dai denti verdi che si innamorò perdutamente di una maliarda appartenente a un'importante famiglia mafiosa e diede inizio alla diffusione delle dottrine anarcocapitaliste, che ancora oggi affliggono il genere umano. Pregevole la trattazione di un tema che ancor oggi è visto come un tabù dalle istituzioni come dalle masse decerebrate: la sovrappopolazione con annesse conseguenze funeste. 

La storia del fanatico religioso all'origine del crollo della civiltà su cui si fonda il racconto è di una tristezza assoluta. Bambino esposto nell'immondizia - ci spiega Kornbluth - Merdeka aveva avuto un inizio più difficile di altri. Cresciuto in strada, tra i gangster, i lenoni e le prostitute, ha presto manifestato tratti di grave psicopatia, associati però a un immenso carisma che lo portava a lanciarsi in una violenta predicazione. Come la popolarità di Merdeka cresceva, si delineavano in lui tratti di estrema ferocia e di puritanesimo radicale: egli era la reazione stessa della Natura alla sovrappopolazione che soffocava il pianeta. La sua lotta contro la pornografia era senza quartiere. Preso dall'ira, diceva che i giornali pornografici "tu li bruci e quelli si moltiplicano come vermi in un secchio della spazzatura". Se l'eiaculazione era un delitto, il sadismo più efferato era incoraggiato, tanto che gli adepti iniziarono a massacrarsi a vicenda, persino in seno alla stessa famiglia. "La famiglia che prega assieme, si ammazza assieme" divenne un motto. In una vivida descrizione, ecco un bambino usare la fiamma ossidrica per farsi strada nella camera blindata dei suoi genitori, strangolando il padre nel sonno con un filo di acciaio e colpendo la madre al cranio con un pomolo massiccio: prima di morire la madre la aveva freddato a pistolettate nel cranio. Eppure Merdeka in indonesiano significa "libertà"! Il Prescelto, quando gli chiedevano che razza di nome fosse il suo, "rispondeva che lui non era un inglese bugiardo o un irlandese dalla voce assordante o un francese pervertito o un ebreo spilorcio o un russo barbaro o un tedesco dal grugno di rospo o uno scandinavo con la testa di segatura". Il buonismo politically correct gli era del tutto sconosciuto, e per lui una ragazza nuda era il Male personificato. Sarebbe bello se Valentina Nappi leggesse il racconto.

Un condominio dell'Apocalisse

A un certo punto il comandante Salter e i suoi uomini si imbattono in iscrizoni su targhe d'ottone, apposte all'entrata di un massiccio edificio formato da cubi di cemento, ormai in rovina. Eccone il testo:

APPARTAMENTI HERBERT J. BROWNELL JR. 

Nota a tutti gli inquilini

Un appartamento del Progetto è un Privilegio e non un Diritto. L'Ispezione Quotidiana è un Punto Fondamentale del Progetto. La Presenza almeno una volta alla settimana in una Chiesa o in una Sinagoga di vostra Scelta è Richiesta a tutte le Famiglie che vogliono mantenere la Buona Condotta; su Richiesta, la Famiglia dovrà fornire Prova della sua Presenza. Il possesso di Alcool e di Tabacco verrà considerata Prova Inoppugnabile di Indesiderabilità. Eccessivo uso d'Acqua, Eccessivo uso d'Energia e Spreco di Cibo saranno considerati come capi sufficienti a una completa Revisione della Desiderabilità. L'uso di una lingua diversa dall'Americano da parte di persone di età superiore ai Sei Anni sarà considerato Prova Inoppugnabile di Inassimilabilità, sebbene questo punto non vieti di usare lingue diverse dall'Americano a scopo liturgico.

Sotto c'era una targa più piccola, sempre in ottone:

Nulla di quanto detto potrà essere usato per sorvolare su Pratiche di Depravazione mascherate da Religione di qualsiasi tipo, e tutti gli Inquilini sono avvertiti che ogni tentativo di coprire Pratiche di Depravazione risulterà nell'immediata Espulsione e Denuncia. 

L'autore specifica che qualcuno vi aveva disegnato sopra un immenso cazzo, definito "volgare dettaglio anatomico". Come se il cazzo lo avessero soltanto gli uomini del volgo.

Il Costruttore di Ponti

Il finale interlocutorio, una raffinatezza stilistica poco apprezzata al giorno d'oggi, è stato evitato per un soffio: la narrazione si conclude con una nota etimologica sul significato della parola Pontifex, tradotta alla lettera come "Costruttore di Ponti", seguita dal sospiro di sollievo del cappellano della nave di Salter, felice di constatare che qualcuno ancora pregasse. A dover esser franco, sospiro di sollievo al pensiero che l'autore immaginasse che qualcuno tra gli epigoni di un'umanità terminale ancora rammentasse qualche nozione dell'augusta lingua di Roma!

Capacità profetiche e fallimenti

Come spesso accade, un'opera di fantascienza presenta elementi profetici. In questo caso, senza dubbio ha anticipato i tempi la capacità dell'autore di prevedere  qualche avvisaglia della spaventosa crisi ambientale causata dagli eccessi procreativi della popolazone planetaria. Suppongo che Kornbluth sia stato molto ottimistico a plasmare con la sua immaginazione una soluzione efficace come quella proposta da Merdeka il Prescelto, che ora della fine porrebbe fine a non pochi problemi. Molto più nociva è la cecità dell'IPCC con le sue baggianate sull'ossimoro chiamato "sviluppo sostenibile". Quel branco di moralisti ipocriti quanto pingui si dimostra incapace di comprendere e di ammettere che la causa dell'aumento delle emissioni climalteranti con conseguenti scovolgimenti climatici è una sola: la sovrappopolazione. Visto che non si vuole accettare questa verità innegabile e che non si vogliono controllare le nascite, si manifesteranno spaventosi genocidi e olocausti, di proporzioni mai viste. Una volta Charles Manson, uomo mitissimo, disse che per salvare l'Amazzonia bisognerebbe massacrare un miliardo di persone. Non basterebbe: i procreatori sopravvissuti colmerebbero i buchi demografici in men che non si dica. La speranza è che si insinuerà un virus capace di fare ciò che alla ragione appare impossibile. Quello che Kornbluth non è riuscito a prevedere è la rovina degli oceani, che è già in atto ai nostri giorni e che porterà presto all'anossia globale delle acque marine, con conseguenze catastrofiche. La flotta dei discendenti dell'AMEN non garantirebbe alcuna possibilità di sostentamento a nessuno in un mondo i cui oceani sono privi di vita e pieni di continenti fatti di plastiche galleggianti compattate.   

Biblioteca Galattica

Questa è la pagina della Biblioteca Galattica dedicata al racconto lungo di Kornbluth, ai confini col romanzo breve, con annessa valutazione:

sabato 10 novembre 2018

LE LINGUE HELLICONIANE MINORITARIE

L'Olonets e il Sibish non sono le sole lingue parlate dai popoli umani del pianeta Helliconia, nato dalla fertile fantasia di Brian W. Aldiss. Oltre agli umani e a i Phagor, vi sono poi alcuni popoli di ominidi, ciascuno dotato di lingua propria. Facciamo il punto su quanto siamo riusciti a comprendere e a catalogare. 

La lingua degli Ondod

Nel terzo volume della trilogia helliconiana, L'inverno di Helliconia, sono fornite alcune parole della lingua degli Ondod di Sibornal, ominidi imparentati con i Nondad (le due denominazioni risalgono evidentemente alla stessa protoforma). Queste parole Ondod sono incorporate in frasi in inglese, spesso non sono provviste di glossa, tanto che soltanto analizzando il contesto si possono trarre le seguenti sicure nozioni: 

biwack "dormire; avere sesso" 
gumtaa
"buono"
ishto? "vero?" (particella interrogativa)
kakool "cattivo, cosa cattiva, male"
kharber "dannazione, evento funesto"
loobiss "grazie"
occhara "specie di tabacco", "erba-pipa"
smrtaa "vendetta, morte" (lett. "retribuzione",
     traduce il greco nemesis)
takit "bere"
yaya "signora" 

Aldiss spiega che l'erba chiamata occhara e usata per fumare è un'erba che cresce sulle montagne. Non è affatto certo che sia simile all'erba da fumo chiamata veronika in Olonets, resa per comodità con "tabacco". Il significato della parola yaya è abbastanza congetturale, anche se mi pare verosimile; la parola più ardua è kharber, che dà problemi. In un'occorrenza sembra proprio un'imprecazione violenta, qualcosa come "dannazione!", mentre in un altro passo potrebbe sembrare più che altro un'alterazione del toponimo Sibish Kharnabhar.

Lo stesso autore glossa l'endoetnico Ondod come "Spirit People" o "Spirited People", che possiamo tradurre con "Popolo dello Spirito" (o "Popolo Spiritato"). Da questa informazione deduciamo che anche Nondad debba avere lo stesso significato ancestrale. La radice della protoforma doveva essere *NOND- "spirito", avendo poi perso la prima n- in Sibornal per un naturale processo di dissimilazione.

Possiamo dedurre anche un'altra importantissima parola:

-gatt "montagna, montagne"

Esiste una regione montuosa di Sibornal che è chiamata Sharagatt. Nel continente di Campannlat esiste invece una regione montuosa chiamata Cosgatt, nella terra dei barbari Driat. Probabilmente la parola -gatt "montagna" è un antichissimo resto della lingua dei Nondad, comune agli Ondod, che affiora in entrambi gli oronimi.

Aldiss vuole dare l'idea di come potrebbe essere la lingua di un popolo estremamente primitivo. Con sua buona pace, non esistono lingue primitive. Infatti la fonotassi dei termini Ondod non sembra elementare. Una lingua primitiva dovrebbe avere soltanto poche sillabe aperte: già la presenza di gruppi consonantici e di consonanti finali di parola dimostra che ha una lungua storia di usura fonetica.

L'etimologia esterna di queste voci, ovvero la fonte della loro ispirazione, è spesso determinabile con sicurezza:

biwack "dormire; avere sesso" : inglese bivouac
      "campo temporaneo"
kakool "cattivo" : greco
κακός (kakós) "cattivo"
ishto? "vero?" : russo есть (jest') "c'è"
loobiss "grazie" : russo любишь (ljubiš) "tu ami"
smrtaa "morte" : russo смерть (smjert') "morte"

Abbiamo poi alcuni antroponimi Ondod, la cui fonetica è davvero interessante:

Ipaak (f.)
Moub (f.)
Uuundaamp (m.)

Purtroppo non abbiamo la benché minima traccia di un indizio per arrivare a capire il loro significato.

La lingua dei Madi

Sappiamo per certo che Madi non è soltanto l'esoetnico attribuito a un tipo di ominidi dai parlanti Olonets: è anche l'endoetnico con cui queste creature singolari designano se stesse. Non soltanto: L'estate di Helliconia ci rivela anche il nome della loro lingua: hr'Madi'h. L'apparato flessivo sembra avere qualcosa in comune con la lingua dei Phagor, che probabilmente ne costituisce l'origine. Si tratterà di una semplice formazione genitivale: "che appartiene ai Madi", "la cosa dei Madi". Un'altra parola che ci viene spiegata è Ahd, che indica la Via, il cammino degli ominidi nomadi che sono i Madi, ciò che fonda la loro religione e che costituisce la sola ragione della loro esistenza. Essendo il sentiero migratorio chiamato uct in Olonets, deduciamo una cosa mirabile: si tratta di un remoto prestito dalla lingua hr'Madi'h. Ahd è diventato uct. Vediamo che spesso passando all'Olonets, parole di altre lingue mostrano un cambiamento di /a/ in /o/ o in /u/. Così Sibish yahdahl "vino di alghe" diventa in Olonets yoodhl. Allo stesso modo si è avuto il passaggio da Ahd a uct. La consonante -h- seguita da altra consonante si trasforma in un suono trascritto in modo sistematico con la lettera c. Il toponimo Phagor Hrrm-Bhhrd-Ydohk è diventato così Embruddock in Olonets. Ecco dimostrata l'etimologia di uct. Domanda: Aldiss era consapevole di tutto questo?

Un antroponimo dei Madi è menzionato ne La primavera di HelliconiaCathkaarnit. Il nome designa una coppia, così per distinguere i coniugi si preficce un pronome. Nell'originale inglese, il maschio è chiamato Cathkaarnit-he e la femmina Cathkaarnit-she. Evidentemente ad Aldiss interessava esprimere il concetto in modo comprensibile, così non ha usato forme pronominali hr'Madi'h oppure Olonets, che i lettori avrebbero trovato complicate. Ne consegue però un'importante deduzione: sia in hr'Madi'h che in Olonets esistevano - proprio come in inglese - pronomi di terza persona singolare differenziati per genere. Nel secondo romanzo, L'estate di Helliconia, abbiamo un antroponimo simile a Cathkaarnit portato da una Madi meticcia che è stata sposata dal Re di Oldorando. La Regina è chiamata Bathkaarnet-she. Il pronome inglese she non è stato riconosciuto: chi ha eseguito la traduzione ha pensato che fosse parte del nome originale. Forse i nomi propri di persona usati dai Madi sono tutti formati secondo questo schema: consonante + -athkaarn- + vocale + -t. Una molteplicità davvero scarsa, con poche combinazioni possibili:

Bathkaarnat, Bathkaarnet, Bathkaarnit,
Bathkaarnot, Bathkaarnut, Cathkaarnat,
Cathkaarnet, Cathkaarnit, Cathkaarnot,
Cathkaarnut, Dathkaarnat, Dathkaarnet,
Dathkaarnit, Dathkaarnot, Dathkaarnut,
Fathkaarnat, Fathkaarnet, Fathkaarnit,
Fathkaarnot, Fathkaarnut, Gathkaarnat,
Gathkaarnet, Gathkaarnit, Gathkaarnot,
Gathkaarnut, Hathkaarnat, Hathkaarnet,
Hathkaarnit, Hathkaarnot, Hathkaarnut,
Jathkaarnat, Jathkaarnet, Jathkaarnit,
Jathkaarnot, Jathkaarnut, Kathkaarnat,
Kathkaarnet, Kathkaarnit, Kathkaarnot,
Kathkaarnut, Lathkaarnat, Lathkaarnet,
Lathkaarnit, Lathkaarnot, Lathkaarnut,
Mathkaarnat, Mathkaarnet, Mathkaarnit,
Mathkaarnot, Mathkaarnut, Nathkaarnat,
Nathkaarnet, Nathkaarnit, Nathkaarnot,
Nathkaarnut
, etc. 

Originale ma un po' monotono, non trovate?

La lingua dei Kaci

I Kaci sono un popolo di Campannlat, che risiede in una regione selvosa e impervia chiamata Kace. La loro capitale è Akace. Non sappiamo con certezza se Kace sia una denominazone autoctona poi passata anche in Olonets, o se sia sorta in Olonets e l'endoetnico sia del tutto diverso. Come ci viene spiegato dall'autore, i Kaci sono pagani e hanno combattuto aspramente contro l'oppressiva Chiesa di Akhanaba. Possiamo dedurre che la lingua dei Kaci fosse diversa dall'Olonets. Il grado di parentela tra le due lingue non risulta chiaro, più che altro per mancanza di materiale da analizzare. Queste sono le poche nozioni estraibili dall'opera di Aldiss:

pabowr "idromele" :
     corrisponde all'Olonets beethel "idromele"
shoatapraxi "erba spinosa" :
     corrisponde all'Olonets brooth "spina" (lunga)

Evidentemente pabowr è formato dalla radice pab "miele", che corrisponde all'Olonets beeth. In shoatapraxi si vede in modo abbastanza agevole un composto formato da shoat "erba" e da praxi "spina": è il secondo elemento che si deve paragonare all'Olonets brooth. A questo punto si comprende all'istante il nome di un capo ribelle dei Kaci, menzionato nel secondo vomume della trilogia:

Skrumppabowr "Bevitore di Idromele" (n. pers.)

Così si aggiunge un altro interessantissimo vocabolo:

skrump- "bere"

Si tratta di una delle poche radici verbali deducibili con questi metodi dal materiale di Aldiss. Approfondendo l'analisi del poco che conosciamo, possiamo azzardarci ad affermare che il Kaci e l'Olonets derivano da una protolingua comune molto remota. Queste sono le protoforme attese:

*PɁAPƟJ- "miele" 
*PɁRAHƟW- "spina"

Non escludo che in futuro si potranno moltiplicare le deduzioni e le conoscenze.

I popoli maledetti di Helliconia

Nel secondo romanzo della trilogia, L'estate di Helliconia, troviamo un cenno significativo all'esistenza di popolazioni di colore nel continente di Campannlat. Il brano in questione è il seguente: 

"Re Sayren Stund inviò a JandolAnganol un uomo gobbo e dalla pelle scura chiamato Fard Fantil, munito di credenziali che lo qualificavano come un esperto in fatto di fornaci di ferro e di nuovi metodi. JandolAnganol lo mise immediatamente al lavoro."

Questo è il testo originale in inglese:

"King Sayren Stund sent JandolAnganol a dark hunchbacked man called Fard Fantil. Fard Fantil came with credentials showing him to be an expert in iron furnaces who understood new methods. JandolAnganol sent him to work immediately." 

La traduzione in spagnolo è molto significativa e soprattutto priva di ipocrisia. Il "dark hunchbacked man" di Aldiss è descritto in modo molto realistico come "negro jorobado"

"El rey Sayren Stund envió a JandolAnganol un negro jorobado llamado Fard Fantil. Las credenciales de Fard Fantil afirmaban que era un experto en fundición de hierro y que conocía los nuevos métodos. JandolAnganol lo puso a trabajar de inmediato." 

Ovvio che non ci si poteva attendere da Aldiss l'uso di parole come negro, nigger, Jim Crow e simili, anche se possiamo vedere che Fard Fantil, uomo di condizione servile, non era molto ben visto dall'etnia dominante di Campannlat. Interessante è la connessione tra questa infelice persona e il mestiere del fabbro. Presso molti popoli, i fabbri sono malvisti e creduti capaci di lanciare incantesimi. Questo pregiudizio nei confronti dei lavoratori di metalli si trova ad esempio tra i Tuareg. Il fabbro aveva come epiteto l'aggettivo "nero" nell'antica Irlanda. Persino in inglese troviamo la parola blacksmith "fabbro" (che fonde il ferro), che mostra incorporato l'aggettivo black, riferito alle polveri di ossidi scuri che emanano dalle fucine. Dalla narrazione di Aldiss, si capisce che Fard Fantil ha come lingua materna l'Olonets. La spiegazione più probabile è che la sua gente fosse ormai assimilata linguisticamente, ma sempre guardata con estremo sospetto e detestata. 

Driat e Thribriat

I Driat, il cui paese è chiamato Mordriat in Olonets, sono descritti più volte come barbari. Sono considerati subumani dai seguaci della religione di Akhanaba e spesso associati agli ominidi Madi e Nondad, eppure sembano più che altro umani marginali, odiati da tutti per i loro costumi pagani e per la loro ferocia. Sappiamo che parlano una lingua diversa dall'Olonets, ma non ne abbiamo potuto acquisire nemmeno una parola. Altre popolazioni considerate barbariche abitano più a sud. C'è il paese chiamato Thribriat in Olonets, il cui nome può essere analizzato come "Driat Meridionali", da un originario *Thrib-Driat, essendo il suffisso thrib- "sud" opposto a sib- "nord", donde vengono Sibornal e Sibish. Anche in questo caso non abbiamo molte informazioni. Aldiss menziona una regina barbara di Thribriat, Shannana, il cui nome richiama senza dubbio il materiale mitologico relativo a Tarzan e ai Tarzanidi. L'autore del libro epico intitolato Thribriatiad porta un nome assai singolare, Brakst, anche se è certo che l'opera è stata scritta in Olonets.

Il mitico paese di Ponipot

Anticamente esisteva il Regno di Ponpt, con le sue gloriose città, Powachet, Prowash e Gal-Dundar, che sorgeva sulle rive del fiume Aza, le cui acque sono definite "gelide". All'epoca dei fatti narrati ne L'estate di Helliconia, la regione era quasi disabitata e il toponimo Ponpt era pronunciato Ponipot per via della difficoltà di un così complicato gruppo di consonanti, che aveva reso necessario l'inserimento di due vocali eufoniche. Possiamo dedurre che nell'antica lingua di Ponpt la parola aza significasse "freddo, gelido". Penso che si trattasse di una lingua imparentata con l'Olonets, forse come il greco antico è imparentato col latino. Pur avendo molto in comune, tra i parlanti delle due lingue non sussisteva mutua intelligibilità. Proprio la mitica città di Gal-Dundar, il cui nome interpreto come "Mille Torri", doveva essere il centro di irradiazione del megalitismo helliconiano. Ne L'inverno di Helliconia si menzionano alcuni porti di Campannlat con nomi singolari, come Vaynnwosh, Dorrdal e Dowwel. Il primo comprende certamente -osh "città", mentre il secondo richiama il nome della regione di Findowel, che deve essere formato a partire dalla stessa parola. Non è impossibile che questi porti appartenessero all'area in cui anticamente si parlava la lingua di Ponpt. 

L'enigma di Oldorando

Il nome Oldorando fu attribuito dal sacerdote Yuli a uno stanziamento che in seguito sarebbe diventato un importantissimo regno. Aldiss ci spiega nel primo volume della trilogia, che quando Yuli dimorava nella città sotterranea di Pannoval e voleva diventare un sacerdote del dio ctonio Akha, era rimasto incantato da una melodia conosciuta come Oldorando. Quando poi riuscì a fuggire da Pannoval e a trovare spazio per sé, per sua moglie Iskador e per la sua progenie, usò proprio questa misteriosa parola, Oldorando, come nome della nuova fondazione. Ecco il brano tratto da La primavera di Helliconia, in cui si parla della fonte d'ispirazione di Yuli: 

"I cori erano importanti, e la monodia lo era anche di più, con una voce solista lanciata nella cavità della tenebra; ma ciò che Yuli finì per amare di più erano gli interventi delle voci inumane, le voci degli strumenti di Pannoval.
Nelle Barriere non s’era mai udito nulla di simile. L’unica musica conosciuta dalle tribù assediate era il rullo prolungato d’un tamburo di pelle, il ticchettare delle ossa animali battute l’una contro l’altra, e il battito delle mani umane accompagnate da una cantilena monotona. La lussureggiante complicatezza della nuova musica convinse Yuli della realtà della sua vita spirituale ancora in fase di risveglio. Una grande melodia, in particolare, lo travolgeva: “Oldorando”, che aveva una parte in cui uno strumento dominava tutti gli altri, e poi si confondeva con essi e finalmente si ritraeva in un suo rifugio armonioso."

Da tutto questo possiamo dedurre che Oldorando non era una parola del linguaggio corrente. Potrebbe essere una forma antica e ormai incomprensibile di Olonets, persino anteriore a quello che era conosciuto come antico Olonets, nel qual caso la sillaba ol- potrebbe stare per olle "dieci", ma non si può escludere che la lingua sacerdotale da cui il vocabolo Oldorando è stato tratto non avesse alcun nesso con l'Olonets. Trovo notevole che Aldiss, che plasmò Oldorando da El Dorado, abbia inserito questo nome come un masso erratico nel continente di Campannlat, ammantandolo di mistero e rendendolo inanalizzabile. 

Il senso degli studi su Helliconia

La filologia helliconiana, scienza inutile agli occhi delle genti, sembra provare che una creazione fantastica contiene una coerenza interna indipendente dall'autore, ossia che uno scrittore evoca qualcosa che esiste indipendentemente piuttosto che crearla da zero. So che può sembrare pazzesco, ma tutto mi spinge a crederlo. Tra l'altro, Aldiss in un'occasione ha scritto che tutto ciò che di filologico c'è nelle trilogia di Helliconia ("anything sound philological") si deve al Professor Thomas Shippey (si noterà l'errato verbo "sound" per "sounds", di certo è solo un refuso). Ho dato un'occhiata ad alcune delle creazioni di questo, e mi sembrano qualcosa di molto diverso dalle conlangs helliconiane. Già soltanto per questioni pratiche, non mi sembra possibile che Aldiss abbia consultato il Professor Shippey ogni volta prima di scrivere anche un semplice nome: la sua scrittura ne avrebbe risentito e si sarebbe inceppata di continuo.


Sarebbe una bella cosa se l'accademico in questione, che mentre mi accingo a pubblicare questo contributo risulta vivente, leggesse i miei articoli sulle conlangs helliconiane e dicesse la sua. Naturalmente questo mio appello cadrà nel vuoto, come è accaduto ogni volta che ho invitato un accademico. Convinzione disgraziatamente comune è che i blog siano merda e che nemmeno una sillaba di ciò che vi è scritto meriti una qualsiasi considerazione.

mercoledì 7 novembre 2018

LA LINGUA SIBISH DI HELLICONIA

Brian W. Aldiss riporta soprattutto informazioni sulla tipologia grammaticale della lingua Sibish, parlata dalle genti del continente settentrionale del pianeta Helliconia, Sibornal. Fornisce però ben pochi elementi concreti. Mentre sappiamo qualcosa della lingua Olonets parlata nei continenti di Campannlat e di Hespagorat - perché vi sono suoi vocaboli inclusi nei testi, oltre a numerosissimi antropinimi e toponimi da cui possiamo ricavare informazioni assai utili - della lingua Sibish ci mancano proprio i mattoni fondamentali. Per nostra sfortuna le glosse Sibish sono rare. L'inverno di Helliconia si svolge in gran parte a Sibornal tra parlanti della lingua Sibish, eppure nella massima parte dei casi gli appellativi relativi alla natura e alla cultura sono forniti in inglese o viene utilizzato il corrispettivo in Olonets, a cui siamo già abituati nel resto della saga helliconiana (ad esempio arang "capra", asokin "cane cornuto", hoxney "cavallo", yelk "bufalo", tenner "mese", pauk "trance", gossie "ombra di un morto", fessup "ombra di un morto", tether "annientamento", etc.); sono Olonets anche i termini astronomici (i nomi dei due soli, Batalix e Freyr, oltre a Weyr "Grande Inverno" e Myrkwyr "apparizione  della luce fioca"). A rigor di logica non sappiamo nemmeno con certezza se Sibish sia l'adattamento inglese con lo stesso suffisso -ish di English, etc., derivato da Sibornal per abbreviazione, o se sia realmente il nome dato alla lingua del continente settentrionale dai parlanti dell'Olonets. Possiamo dedurre che sia una parola genuina, dato che il nome dato a un abitante di Sibornal nell'originale inglese è Sibornalan (pl. Sibornalans) o Sibornalese, ma non *Sibishman sul modello di Englishman. La formazione non è chiarissima, a dover essere sinceri, comunque possiamo concludere che Sibish è proprio un vocabolo Olonets e che il suo suffisso -ish mostra consonanze con l'inglese per puro caso. Non sappiamo nulla del modo in cui le genti di Sibornal, gli Uskuti, chiamavano la propria lingua.

Queste sono le informazioni riportate nel secondo volume della trilogia, L'estate di Helliconia: 

   "– Naturalmente, ci aspettiamo che popoli primitivi abbiano credenze altrettanto primitive, perché è questo che li àncora al loro stato primitivo. Le cose sono in continuo miglioramento, là dove stiamo andando. – Quell'ultima frase era un’evidente traduzione in olonets di uno dei molti tempi usati dalla lingua sibish.
   Essendo di rango così elevato, Dienu Pasharatid si rivolgeva a SartoriIrvrash in olonets puro, mentre nel Campannlat l’olonets puro, contrapposto all’olonets locale, era appannaggio delle caste più elevate e dei capi religiosi, soprattutto all’interno del Sacro Impero Pannovalano, e stava diventando sempre più appannaggio esclusivo della Chiesa.
La lingua principale usata nel continente settentrionale era il sibish, un linguaggio pesante con un suo alfabeto, e, nel complesso, l’olonets era poco più diffuso del sibish, tranne lungo alcune coste meridionali dove erano comuni i traffici con il Campannlat.
   Il sibish usava molti tempi multipli e condizionali, non aveva la y, sostituita dalla i, che veniva pronunciata con durezza, mentre ch ed sh erano quasi sibilati. Il risultato di tutto questo era quello di conferire un suono sinistro ad un nativo di Askitosh quando parlava con uno straniero nella lingua di quest’ultimo. Forse, l’intera storia delle continue guerre settentrionali poggiava sul suono beffardo che i popoli di lingua sibish davano ad una parola come «Matrassyl». Peraltro, dietro la piccola smorfia delle labbra resa necessaria, si celava la forza spietata del clima di Helliconia, che scoraggiava la gente dall’aprire inutilmente la bocca per metà del Grande Anno."

E ancora:

"La preghiera ebbe inizio, recitata in denso sibish, con un abile uso del presente continuato, del condizionale eterno, del passato-nel-presente, del trasferenziale e di altri tempi complessi destinati a trasportare quel messaggio di ringraziamento fino all’Azoiaxic: forse la lunghezza della preghiera era calcolata in modo che fosse proporzionale alla distanza."

Per rendere l'idea della complessità grammaticale della lingua in questione, vengono usati artifizi poco gradevoli al lettore: 

"Dal momento che si trattava di un discorso, la donna utilizzò una sorta di sibish mandarino riservato ai preti-militanti.
   – Preti-Militanti, membri delle Commissioni Belliche, amici e nostro nuovo alleato – esordì, in tono imponente, agitando le corna bionde, – il tempo scarseggia sempre, quindi sono/sarò breve. Fra soli ottantatré anni, Freyr sarà/è al massimo della sua potenza, e di conseguenza il Continente Selvaggio e le sue barbare popolazioni sono/dovrebbero essere in una triste situazione, profetizzando l’imminenza della catastrofe. Esso sono/erano incapaci di affrontare il futuro come noi di Uskutoshk… giustamente, a mio parere… ci vantiamo di fare/facendo/continuando a fare.

Questo brano è invece dal terzo volume della trilogia, L'inverno di Helliconia:

Le discussioni nel corso delle riunioni sinodali si svolgevano in sibish altissimo, con clausole multiple, elaborate parentesi e spettacolari strutture verbali, ma in questa occasione l’argomento era di natura strettamente pratica e riguardava i rapporti fra i due grandi poteri di Sibornal, lo Stato e la Chiesa.
La Chiesa osservava con occhi allarmati, man mano che gli editti dell’Oligarchia diventavano sempre più severi, ed ora uno dei sacerdoti del Sinodo stava parlando all’assemblea proprio di questo.
– Il nuovo Decreto di limitazione del numero di persone per abitazione e simili regolamentazioni sono / continuano ad essere presentati dallo Stato come mosse per bloccare la pestilenza. Però stanno già causando altrettanto sconvolgimento quanto la peste può provocarne / ne provocherà / ne provoca. I poveri vengono sfrattati ed arrestati per vagabondaggio, oppure periscono a causa del freddo sempre più intenso.

Riporto un elenco di antroponimi di Sibornal.

1) Nomi propri di persona:

Besi (f.)
Devit (m.)

Dienu (f.)
Ebstok (m.)
Eedap Mun (m.)
Favin (m.)
Gagrim (m.)
Ghufla (f.)
Harbin (m.)
Insil (f.)*
Io (m.)
Kennigg (m.)

Lobanster (m.)
Lourna (f.)
Luterin (m.)
Odi (m.)
 
Odirin Nan (m.)
Rostadal (f.)

Umat (m.) 
Yaringa (f.)

*L'ipocoristico è Sil: Luterin Shokerandit chiama così Insil Esikananzi, da cui aveva invano cercato di ottenere una prestazione sessuale.

2) Cognomi:

Asperamanka
Besamitikahl
Chubsalid
Drikstalgil
Esikananzi
Evanporit
Fashnalgid
Gardeterark
Hernisarath
Jeseratabhar
Jheserabhay
Nainpundeg
Odim
Parlingelteg
Pasharatid
Rostadal
Shokerandit
Torkerkanzlag

Questo è un elenco di toponimi di Sibornal:

città:

Askitosh (Ashkitosh)**
Braijth
Ijivibir
Isturiacha
Juthir

Koriantura
Rattagon
Rungobandryaskosh
Utoshki
Vajabhar

**Ne La primavera di Helliconia si parla della fondazione della colonia sibornalana di Nuova Ashkitosh, mentre ne L'estate di Helliconia la forma usata è Askitosh.

province: 

Bribahr
Carcampan
Hazziz
Kharnabhar
Kuj-Juvec
Loraj
Sharagatt
Shivenink
***  
Uskutoshk 

***È anche un oronimo (vedi sotto).

altro:

Bambekk (un monastero)
Jerddal (fiume)

Rivenjk
(golfo)
Shiven (penisola)
Shivenink (monte)
Venj (fiume)

Glosse:

Azoiaxic "epiteto di Dio", prob. "Sommo"
eldawon "albero con tronchi sottili multipli"
savrila "pasticcino"
sherb "topo"
treebrie "carne di Nondad arrostita"
yadahl "bevanda alcolica di alghe"

La parola yadahl è passata in Olonets come yoodhl: i mutamenti fonetici dimostrano che l'età del prestito deve essere abbastanza antica. Appurato questo, comprendiamo che la vocale /a/ originaria si è oscurata dopo che il vocabolo è stato adottato dall'Olonets, con ogni probabilità in epoca anteriore a quella del Re Denniss. A parte lo strano epiteto di Dio, questa è anche l'unica delle glosse Sibish fornite da Aldiss ad avere una qualche rilevanza culturale. 

La parola sherb viene usata come termine ingiurioso usato sia dagli Uskut che dagli ominidi Ondod e compare soltanto ne L'inverno di Helliconia, così si può ipotizzare che appartenga alla lingua Sibish. Se fosse una parola degli Ondod, i fieri Uskut difficilmente l'avrebbero presa a prestito, dato il loro odio razziale nei confronti degli ominidi (definiti "protognostici" da Aldiss). Deduco che il significato originale di sherb sia proprio "topo" perché a poca distanza nel libro, in conversazioni tra Uskut si sentono le ingiurie "razza di sherb" e "razza di topo". Probabilmente il topo era ritenuto la quintessenza dell'idiozia e dell'ignoranza. Va detto che un termine gergale sherb è documentato in inglese, come mostrato dal dizionario dello slang urbano:


Sherb

1. something so unbelievably awesome that it can only be described by a nonsensical word.
2. something so downright sexy that reducing it to words by actually describing it would never be equivalent to its actual sexiness
"That's so totally sherb, bro."
"Did you see that guy we just passed?"
"Yeah, way sherb!"

Il vocabolo slang ha un connotato positivo, mentre la parola Sibish è chiaramente un'ingiuria.

Il termine savrila "pasticcino" è dedotto dalla forma attestata savrilas, che porta probabilmente il plurale inglese in -s. L'uso di Aldiss è quello di formare i plurali delle parole Sibish e Olonets come se fossero parole inglesi. Spesso i traduttori, a cui fa molto difetto il senno, riportano queste parole con la -s del plurale inglese come se facesse parte della radice. Così il testo originale ha pastry savrilas, tradotto una volta con "pasticcini di savrilas" e un'altra come "savrilas di pastella". Mi auguro che la persona responsabile di questo scempio possa essere presto inghiottita da una voragine o colpita da un micrometeorite mentre dorme. 

Elementi deducibili dall'analisi del materiale toponomastico e da altre attestazioni:

-osh "città", pl. -oshk  
uskut "uomo" (di Sibornal) 
ask- "terra, paese"
askit- / ashkit- "patria"
kharna- "ruota" 
-bhar / -bahr
"paese, distretto" 

La parola -osh (pl. -oshk) "città" corrisponde evidentemente all'Olonets volgare osh (Olonets puro os, ad esempio nel toponimo Osoilima), che ricorre nel toponimo Oysha come variante locale, a quanto ci dice lo studioso SartoriIrvrash ne L'estate di Helliconia. Esiste la possibilità che si tratti di un prestito culturale.

L'endoetnico Uskut "Sibornalano" e il suo aggettivo derivato Uskuti (usato anche come sostantivo) sono passati in Olonets come prestiti e sono ben attestati nelle opere helliconiane di Aldiss. Segue così all'istante che il toponimo Uskutoshk significa alla lettera "Le Città degli Uskuti", ossia "Le Città degli Uomini". Risulta evidente che, essendo Uskutoshk il nome della provincia ove si trovano due diverse città di Askitosh, il suffisso -k di -oshk abbia funzioni di plurale o di collettivo. Abbiamo chiara anche un'altra importante nozione: uskut- "uomo" (di Sibornal). Secondo una tradizione tipica di genti fiere, soltanto l'uomo della propria etnia è un essere umano in senso proprio, mentre gli uomini di altre etnie sono qualcosa di diverso, di inferiore. Vediamo un uso simile delle parole nella lingua Romaní, in cui rrom indica l'uomo gitano e gadjó indica l'uomo non gitano. Con ogni probabilità la radice uskut- è imparentata con la radice askit- / ashkit-, che possiamo trovare nel nome della città di Askitosh. Possiamo attribuire ad askit- / ashkit- il valore di "patria". La cosa è molto plausibile; ne potremmo dedurre che il Sibish conoscesse un fenomeno paragonabile all'apofonia (Ablaut). Andiamo anche oltre: il toponimo Rungobandryaskosh è interpretabile come "Città della Terra di Rungobandry", essendo ask- "terra, terra natia, paese", che è la base da cui sono stati formati askit- / ashkit- e uskut-. Proprio come in tedesco Heimat "Patria" è formato da Heim "casa, dimora".

L'elemento -bhar "paese, distretto" è contenuto chiaramente in Kharnabhar, nome di una regione glaciale e di uno stanziamento dove si trovava la Grande Ruota, un immenso monumento megalitico di somma importanza per la religione di tutte le genti di Sibornal. Kharnabhar ci appare subito come un composto: nessuno potrà mai farmi credere che sia una parola semplice e inanalizzabile come "sasso", "monte" o "albero". A riprova del fatto che l'analisi è corretta, troviamo questo stesso elemento -bhar nel cognome Jesaratabhar, chiaramente di origine locativa. Abbiamo poi una variante -bahr nel toponimo Bribahr. Data l'enorme rilevanza della Grande Ruota di Kharnabhar, non è poi così peregrino supporre che Kharna- significhi proprio "Ruota". Queste evidenze ci fanno pensare alla possibile presenza nel Sibish di consonanti aspirate simili a quelle del sanscrito: è innegabile la sonorità indianeggiante del toponimo Kharnabhar. Sembra tuttavia più probabile, data la scarsa frequenza di questi suoni nel materiale attestato, che si tratti di meri gruppi consonantici e non semplici fonemi: kh = k + h; bh = b + h. Un'altra prova è l'alternanza tra -bhar e -bahr

Il problema del sostrato

Gli Uskut chiamano spessissimo Campannlat "Continente Selvaggio". E se fosse una traduzione letterale? Certo, potrebbe alludere al fatto che quella terra era coperta in gran parte da foreste. Ne deduciamo che in Olonets la parola campann significa "foresta", mentre -lat significa "estensione". A sorpresa possiamo ritrovare la stessa radice nel nome della provincia sibornalana di Carcampan, analizzabile quindi come Car-campan. Le popolazioni di quelle terre, ritenute barbare dagli Uskut, forse parlavano una lingua diversa dal Sibish e più simile all'Olonets. Altri nomi di province, di città e di caratteristiche geografiche sono a dir poco strani, tanto da far sospettare l'esistenza di antiche lingue, in alcuni casi scomparse e assorbite dal Sibish, in altri casi conservate ancora in epoca storica. Così sembrano aver ben poco a che fare con la lingua di Uskutoshk nomi come Loraj, Kuj-Juvec e Hazziz.  

Un possibile prestito

Il termine Olonets keedrant "lunga veste" (da kee-, keev- "davanti", dran- "lungo") è usato più volte nel terzo volume nella sorprendente variante heedrant, come se l'occlusiva velare iniziale avesse subìto un'aspirazione. Non mi risultano altri casi simili, così ne deduco che la parola sia entrata in Sibish dall'Olonets come prestito, subendo il mutamento fonetico del tutto inatteso. Non mi risultano fenomeni di gorgia in Sibish, questo sarebbe al momento l'unico caso documentabile, a cui non sono in grado di dare una spiegazione attendibile. Notiamo però un possibile esempio di spirantizzazione: il cognome Jeseratabhar è formato con un elemento Jeserata-, che sembra ricorrere con una lieve variante anche nel cognome Jheserabhay. La lettera j- esprime senza dubbio un suono postalveolare, come quello dell'inglese jet e dell'italiano getto. Forse il digramma jh di Jheseratabhay indica una consonante simile ma aspirata, presente in sanscrito. Come interpretare questi dati? La parola keedrant è giunta a Sibornal tramite la mediazione di un dialetto dotato di gorgia? L'interferenza di un'etimologia popolare? Oppure è soltanto la labile memoria di Aldiss, che non si è ricordato bene una parola da lui stesso creata?

Abro Hakmo Astab!

Aldiss ci specifica con la massima chiarezza che questa maledizione è in una lingua antica che i parlanti del Sibish non comprendono, anche se il senso tradizionalmente tramandato è connesso con la contaminazione della luce dei due soli. Questo è quello che possiamo dedurre:

abro "luce solare"
hakmo "si contamini"
astab "diventi nera"

L'ultima parola può anche apparire come insulto indipendente, dal significato di "oscuramento" (id est morte). Questo è il rimprovero rivolto da Fashnalgid a Luterin Shokerandit: "Astab a te, razza di stupido arrogante. Perché non puoi neppure tentare di obbedire al sistema?"

Il punto è che non si tratta di radici Sibish. Probabilmente la formula blasfema appartiene alla lingua sacra degli Architetti, l'antico popolo che ha costruito la Ruota di Kharnabhar.

Il problema delle origini

Secondo la narrazione di Aldiss, sia l'Olonets che il Sibish dovrebbero derivare dall'evoluzione di una protolingua comune, a sua volta derivata dalla semplificazione fonetica della lingua dei Phagor. Tutto ciò appare assai poco plausibile. La narrazione dell'origine dell'umanità di Helliconia a partire da una specie di scimpanzé è talmente assurda e grottesca da meritare a stento una menzione: si tratta chiaramente di una favola inventata nella stazione spaziale terrestre Avernus, in orbita attorno al pianeta bisolare, tra i cui abitanti le epidemie di demenza non dovevano affatto essere una rarità. Per quanto riguarda la possibile derivazione del Sibish e dell'Olonets da un'antica protolingua comune, siamo in alto mare a causa delle immense lacune nel lessico conosciuto, specialmente della lingua degli Uskut. Potrei azzardarmi a supporre che l'Olonets mor "terra, paese" e il Sibish -bhar / -bahr "paese, distretto", abbiano un'origine comune. La protoforma attesa sarebbe *MBAHR-. A causa della natura altamente congetturale di questo materiale, specialmente di quello relativo al Sibish, direi che per ora è meglio non spingersi oltre.

Materiale lessicale infido

Tutto il materiale di Aldiss va attentamente filtrato, perché sono sempre possibili abbagli clamorosi. Ad esempio, a un certo punto ne L'estate di Helliconia leggiamo:

"Una volta che il complesso pasto fu terminato ed i liquori furono fatti circolare, ebbero inizio i discorsi.
Per primo, venne pronunciato un discorso di benvenuto da parte del
panjandrum locale, formulato in una terminologia quasi incomprensibile, poi Dienu Pasharatid si alzò in piedi.
Dopo un breve preliminare, e un fugace accenno al marito, la donna venne al punto, e disse di essersi sentita in dovere di fare ammenda per il modo in cui lui si era distaccato dalle procedure diplomatiche. Pertanto, aveva salvato il Cancelliere SartoriIrvrash dalla malinconica posizione in cui era venuto a trovarsi e lo aveva portato là."

Cosa significa panjandrum? La parola sarà Sibish? Sarà Olonets? Nessuna delle due: è semplicemente... inglese! Per colpa di un traduttore incompetente, la parola è rimasta inalterata nel testo in italiano, potendo così trarre in inganno i lettori. Pochissimi infatti conoscono termini così ricercati e stravaganti, che possono passare - anche per via della loro singolare fonotassi - per parole helliconiane. Aldiss faceva largo uso di forme simili e perdeva il suo tempo a baloccarsi con le più ingannevoli bizzarrie della lingua inglese, anziché pensare seriamente a scrivere dizionarietti di Sibish e di Olonets!

Così glossa la voce panjandrum il traduttore di Google:

panjandrum/panˈdʒandrəm/

noun
  
person who has or claims to have a great deal of authority or influence.
   "e greatest scientific panjandrum of the 19th century"

Questa è invece la spiegazione data da Etymonline:


panjandrum (n.)

mock name for a pompous personage, 1755, invented by Samuel Foote (1720-1777) in a long passage full of nonsense written to test the memory of actor Charles Macklin (1697-1797), who said he could repeat anything after hearing it once.

Peccato! 

L'ispirazione di Aldiss

Già abbiamo appurato che il nostro autore fabbricava parole a partire da lingue esistenti, di cui aveva qualche conoscenza erratica. A volte possiamo intuire anche la genesi di dettagli più complesse. Il nome di Luterin Shokerandit, protagonista del terzo romanzo helliconiano, è nato da una frase pronunciata sottovoce da qualcuno e udita per puro caso: Luther shoke (i.e. shook) her hand and hit it, ossia "Luther ha scosso la mano di lei e l'ha colpita". Con ogni probabilità si alludeva a un uomo chiamato Luther piuttosto che a Martin Lutero.

Purtroppo Aldiss non era un filologo e non mostrava uno speciale interesse per la linguistica, così non è mai riuscito a costruire interamente le lingue di Helliconia. Non ha prodotto qualcosa di paragonabile all'opera di Tolkien e ha fornito soltanto indicazioni scarse e contraddittorie sulla pronuncia delle proprie conlangs. Tutto quello che sappiamo lo abbiamo dovuto dedurre usando la logica a partire dai dati estratti. In sostanza, si tratta di una splendida occasione persa, come spesso accade. Qualcosa che avrebbe potuto arricchire immensamente il genere umano e che invece è rimasta in una specie di Limbo, destinata a sprofondare verso il Macigno Originale, tra i gossie e i fessup.

domenica 4 novembre 2018

UN VARCO NEL MURO 

E i figli di Melkubelek dissero al Catafratto: “Rimuovi codesto Muro, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”.
Egli non diede segno di aver inteso la loro richiesta.
“Rimuovilo, orsù”, insistettero i figli di Melkubelek, cui si era aggiunto nel frattempo il nano Barbagliuk.
“Ci accontenteremmo di uno spioncino”, disse questi.
“E va bene”, borbottò il Catafratto.
Fu così che nel Muro apparve una piccola apertura, una finestrella.
Barbagliuk vi si affacciava più volte al giorno, ed ogni volta non scorgeva altro che nebbia, un‘impenetrabile cappa di nebbia.
I figli di Melkubelek si riunirono in assemblea.
“Non è giusto, dalla finestra non si vede un cazzo!”, protestarono.
Barbagliuk chiese la parola.
“Ho l’impressione che non ci sia rimedio. Con quel nebbione...”
 “Se il Catafratto abbattesse il Muro, la circolazione dell’aria spazzerebbe via la nebbia!”, gridò un tale fra il pubblico.
In fondo alla sala riunioni si udì un tramestio: era Fistulìk, il Senzaciaspole, che arrancava verso il palco.
“Posso parlare?”
“Parla, parla”, gli risposero in coro.
“Mi avevano raccontato che dall’altra parte c’era un panorama stupendo, ma non mi pare proprio.”
“C’è, c’è!”
“E chi ve lo dice? Io ho visto solo nebbia, e fra la nebbia mi è parso di scorgere un paesaggio orribilmente desolato e brullo.”
“Non è vero, non è vero!”
Ed ecco si udì una voce tonante e dal timbro inconfondibile risuonare nel salone:
 “Adesso mi avete proprio rotto i coglioni!”
I figli di Melkubelek tacquero, atterriti.  Il Catafratto adirato proseguì dicendo:
“Cosa credete che ci sia oltre il Muro? Non c’è niente, capite? niente! Vi ho aperto una finestra affinché poteste sincerarvene di persona e non siete ancora convinti, razza di babbei?”
L’assemblea si sciolse, i convenuti si allontanarono in silenzio, a capo chino, dalla sala delle adunanze.
Solo Barbagliuk rimase seduto al suo posto, a meditare sull’accaduto.
Fistulìk, reggendosi in piedi a fatica, lo esortò ad uscire.
“Debbo chiudere”.
“Vado”.
Era buio, fuori, talmente buio che Barbagliuk prese la direzione sbagliata. Dopo mezz’ora di marcia si ritrovò nei pressi del Muro.
Dalla vicina foresta giungevano i richiami degli uccelli notturni e un intenso aroma di muschio. Il nano, colto da una fitta improvvisa all’addome, si accovacciò e depose un discreto quantitativo di feci.  Mentre si nettava con una foglia di pioppo, avvertì un calpestio a pochi metri di distanza. Si fece ancora più piccolo e si rifugiò in mezzo a un cespuglio.
Risuonò una violenta imprecazione.
“Se prendo chi ha cacato sul sentiero, gli rompo la testa!”.
Barbagliuk rimase nascosto per oltre un quarto d’ora, sino a quando fu certo che lo sconosciuto pestamerde si fosse allontanato.
Tornò sui suoi passi, e dalla sala delle adunanze si diresse a casa.
Quella notte non riuscì a chiudere occhio.
L’indomani, all’alba, Fistulìk bussò alla sua porticina.
“Siamo convocati dal Catafratto”.
Barbagliuk avvertì un brivido corrergli lungo la schiena e per poco non si pisciò addosso.
Si avviarono verso l’augusta dimora del nobiluomo.
Fistulìk camminava con difficoltà, e il nano, data la differenza d’altezza, non poteva essergli d’aiuto.
Il Catafratto li ricevette sotto a un gazebo, nell’ampio giardino della sua villa.
“Sedetevi”.
Fistulìk si accomodò su una sedia, Barbagliuk su uno sgabello.
“Spira forse aria di sedizione tra i figli di Melkubelek?”.
“Lo escludo nel modo più categorico”, si affrettò a rispondere Fistulìk.
“Meglio, perché in caso contrario mi vedrei costretto a prendere provvedimenti severi. Molto severi.”
“Se posso…”
“La ascolto”.
Barbagliuk si schiarì la voce: “C’era grande attesa per l’apertura della finestra. Non le nascondo che anch’io credevo di vedere chissà che.”
“Ma non c’è nulla da vedere!”
“L’ho potuto appurare coi miei occhi, ma c’è gente che non si arrende neppure di fronte all’evidenza.”
“Che dovrei fare, secondo lei: demolire il Muro per convincere quegli stolti?”
“Li lasci uscire.”
Il Catafratto sobbalzò sulla poltrona.
“Lasciarli uscire?”
“Perché no? Così avranno modo di constatare che fuori non c’è altro che una landa deserta e inospitale.”
Il Catafratto rifletté per alcuni istanti.
“E sia: vadano pure. Farò aprire un varco nel Muro, sufficiente a farli passare uno alla volta.”
Durante il tragitto di rientro, Fistulìk esternò le proprie perplessità al nano.
“Non mi pare una buona idea.”
“Eppure non c’è altra soluzione. Costringerli qui non farebbe altro che esasperarli.”
“Sarà, ma non mi convince.”
Pochi giorni dopo, ultimata l’apertura della breccia, i figli di Melkubelek se ne andarono tutti quanti, uno in fila all’altro.
Ridevano sguaiatamente e cantavano come altrettanti ubriachi.
Nessuno di loro fece più ritorno.

Pietro Ferrari, gennaio 2016

mercoledì 31 ottobre 2018

LETTERATURA ONIRICA

L’apertura della sessione pomeridiana del convegno era prevista per le 14 e 30. Un quarto d’ora prima dell’inizio l’aula era già gremita, in gran parte di studenti iscritti al corso dell’oratore, il professor Canestracci - l’uomo che ero pagato per pedinare.
Mi sedetti in una posizione defilata, da cui potevo controllare agevolmente la sala e, all’occorrenza, allontanarmi senza dare nell’occhio.
Ero reduce da una notte insonne, l’ennesima. Quando si dorme poco, o non si dorme affatto, i processi mentali subiscono un rallentamento non dissimile da quello prodotto dagli oppiacei. Ciò nonostante, gli stimoli sensoriali non giungono attutiti, ma amplificati. Una condizione tutt’altro che piacevole.
Alla mia destra, poco lontano, un giornalista sudaticcio, collaboratore della Gazzetta dei Sottomessi, il quotidiano locale, si gingillava freneticamente con il tablet. Lo conoscevo di vista e di fama: era un assiduo frequentatore di strip club e bische clandestine. Spandeva intorno a sé un scia olfattiva greve e inconfondibile, un misto di profumo dozzinale, sudore rancido e whisky.
Il microfono diede uno di quei fischi acutissimi per cui i microfoni paiono essere appositamente progettati. Il moderatore, dopo una breve introduzione infarcita di omaggi servili ai notabili presenti in sala, diede la parola a Canestracci. Questi esordì facendo una panoramica sui precursori dell’onirismo: Macronio, Eustachio, Filemone d’Alicarnasso, sino a giungere agli esponenti tardo rinascimentali di quel singolare genere letterario. Si soffermò con particolare attenzione sulla figura di Ermenegilda da Brescia, la monaca-veggente autrice di un trattato sulla scrittura automatica e il sonnambulismo. Alle 16 l’uditorio cominciò a dare segni inequivocabili di cedimento. Gli studenti, stremati, boccheggiavano come pesci fuor d’acqua; un’anziana docente di pedagogia si accasciò al riparo di una tenda ed ivi giacque, esanime. Canestracci, eccitato dalla vista delle sofferenze che andava infliggendo al pubblico, si gettò a capofitto in un’analisi degli epigrammi di Giulebbe da Orvieto. La conclusione del discorso fu salutata da un applauso scrosciante, liberatorio. Mai in vita mia avevo desiderato tanto aprire il fuoco su un accademico.
Il moderatore ringraziò calorosamente il Canestracci per il “pregiatissimo intervento”, dicendosi certo che sarebbe “entrato negli annali dell’ateneo di Elissinia per la straordinaria limpidezza dell’esposizione e la sapienza dottrinale profusavi”.
Fu in quel preciso istante che giurai a me stesso che non avrei dato tregua a Canestracci sino al suo completo annientamento.
Prima di abbandonare la sala, versai nella borsa del giornalista – intento a congratularsi con l’oratore - il contenuto di una busta. Si trattava di una polvere ricavata dai semi dell’Anaurabo, un arbusto che cresce sulle pendici delle Ande, utilizzato dagli indigeni per provocare paralisi temporanee dei muscoli facciali.
Guadagnai una panchina nei giardinetti prospicienti la sede del convegno. Per ragioni inesplicabili, una studentessa che passeggiava da quelle parti con aria svagata venne a sedermisi accanto e attaccò bottone.

 -    Quanti pappagallini.
 -    Già, ce n’è una colonia.
 -    Lei è un ricercatore?
 -    In un certo senso.
 -    Le piace Elissinia?
 -    Si e no.
 -    A me piace molto, ma solo a ottobre.
 -    E negli altri undici mesi dell’anno?
 -    Non la sopporto.
 -    Dev’essere dura.

La ragazza vestiva in modo finto trasandato: la scelta degli abiti e il trucco rivelavano una sapiente cura dei dettagli. Aveva una chioma di capelli biondi di una lunghezza rara a vedersi. Distolsi rapidamente lo sguardo per non dare adito a malintesi.

 -    Dunque è un ricercatore.
 -    Ostinato.
 -    E le sue ricerche sono fruttuose?
 -    A volte. E lei che fa di bello?
 -    Studio.
 -    A quale facoltà è iscritta?
 -    Mi sto specializzando in criptozoologia.

Non riuscii a trattenere un sorriso.

 -    Che c’è, la cosa la diverte?
 -    Diciamo che è una disciplina di nicchia.
 -    Ma ho altre aspirazioni.
 -    Quali, se posso?
 -    Lavorare per una compagnia aerea.
 -    In bocca al lupo.

All’uscita della sala convegni si materializzò Canestracci. A fargli strada, due portieri dall’aspetto patibolare. Era attorniato da un nugolo di lacchè di entrambi i sessi.
Mentre mi alzavo dalla panchina, da sotto la mia giacca fece capolino la fondina della pistola. La studentessa se ne avvide, colsi lo stupore nel suo sguardo, ma non fece parola.

 -    Arrivederci –, le dissi.
 -    Arrivederci. Giulia. – disse a sua volta, porgendomi la mano.
 -    Marco.

Aveva una stretta di mano decisa. Ne dedussi che praticava una qualche disciplina sportiva, forse un’arte marziale. Lasciai defluire il corteo di Canestracci e, quando fu a una certa distanza, presi a seguirlo.

Il barista doveva aver assunto qualche sostanza psicotropa: da alcuni minuti era come pietrificato dietro al bancone, con gli occhi sbarrati, un sorriso ebete impresso sul volto. Nel locale, a parte me, c'era un solo avventore, un vecchio ubriaco che pareva anche lui in stato di trance catatonica. Lasciai una banconota da dieci euro nel piattino ed uscii. Nonostante fosse mezzanotte, il centro di Elissinia era una fornace.
Mi incamminai verso casa, imprecando a bassa voce. Giunto all'altezza di via dei Catafratti vidi sbucare dall'androne di un palazzo un grosso topo di fogna. Fui sul punto di sparargli, ma dopo un attimo di esitazione riposi la pistola nella fondina. Il roditore si rifugiò in un vicolo buio. 

Giunto a casa, mi buttai sul divano. Era stata una giornata pesante. Avevo dovuto seguire Canestracci a Milano, sin nei pressi di Galleria Buenos Aires. Vi si era fatto portare dall'autista, Casimiro Carella. Costui era una mia vecchia conoscenza:  un individuo rozzo ma provvisto di intuito animalesco e di una certa astuzia. Godeva dell'amicizia di più di un professore ordinario, grazie alle sue doti di procacciatore di mignotte. Ciò gli aveva garantito una vera e propria immunità all'interno dell'ateneo, la licenza al cazzeggio permanente e sistematici trattamenti di favore.

Scivolai in un sonno senza sogni. Poche ore dopo fui svegliato dallo squillo del telefono: un invito in questura.

 -    Deuterio: come si fa a chiamare così un figlio?
 -    Beh, meglio Deuterio che Stronzio.

I nomi insoliti mi hanno sempre affascinato. Certo dev’esserci un limite. Deuterio pareva effettivamente un po’ eccessivo, ma forse il padre era un chimico, vallo a sapere.
Il brigadiere Marostica invece era di diverso avviso.

 -    Solamente un cretino poteva scegliere un nome del genere.
 -    In effetti.

Ero stato convocato in questura in seguito al ritrovamento, lungo un sentiero nel parco, del cadavere di Canestracci. A fare la macabra scoperta, un podista che di nome faceva Deuterio. Marostica era nervoso, la morte violenta di un illustre docente universitario non era una rogna da poco. 

 -    Da quant’è che lo pedinavi?
 -    L’ho pedinato per una settimana.
 -    E come mai lo hai perso di vista proprio domenica?
 -    Perché ero pagato per pedinarlo fino a sabato.
 -    Ma guarda che coincidenza.
 -    Chiedi in agenzia: è tutto nero su bianco.
 -    Adesso mi riferisci quello che hai visto quando lo pedinavi.
 -    No problem.

Riferii. Marostica ascoltava e, di tanto in tanto, prendeva appunti su un taccuino. Mi lasciò terminare senza mai interrompermi, quindi se ne uscì dicendo:

 -    E’ una grave perdita per la città.
 -    Hai voglia di scherzare?
 -    La pietà non si nega a nessuno.
 -    Ma non si impone neppure a comando.
 -    Non cambierai mai.
 -    Nessuno cambia: né tu, né io. Tutt’al si più peggiora.
 -    Al tuo professore piacevano gli ortaggi?
 -    Perché?
 -    Il medico legale gli ha trovato una carota nel culo. Bella grossa, con un ciuffetto di foglioline.
 -    Qualcosa mi dice che non è morto per overdose di beta carotene.
 -    No: qualcuno gli ha stretto troppo un laccio al collo. Arrivederci, Marco.

Lo salutai con un cenno del capo e me ne andai. La morte di Canestracci mi lasciava indifferente, umanamente parlando, ma provavo un interesse di carattere professionale per le circostanze del decesso. Ora non restava che attendere i ritratti encomiastici del defunto sulla Gazzetta dei Sottomessi, le dichiarazioni fintamente affrante dei colleghi, i necrologi sul cancello principale dell’ateneo. Le acque sulla superficie paludosa di Elissinia si sarebbero agitate un poco, per riprendere poi l’immobilità limacciosa di sempre.

Il titolare dell’agenzia mi guardò storto da dietro la scrivania.

 -    Ha telefonato Marostica.
 -    Davvero?
 -    Mi ha chiesto di te.
 -    E quindi?
 -    E quindi preferirei non ricevere certe chiamate.
 -    Se è per quello, io preferirei non essere convocato in questura, però capita.
 -    L’unica cosa positiva di questa storia è che la moglie ci ha pagato in anticipo.
 -    L’hai sentita?
 -    Naturale.
 -    E…?
 -    Non mi è parsa particolarmente addolorata.
 -    Come biasimarla. C’è altro?
 -    Si: potremmo tornare in pista, se le indagini dovessero andare per le lunghe o non approdare a nulla. Tu che hai detto a Marostica?
 -    Una sintesi di quel che è scritto nel fascicolo consegnato alla vedova dell’illustrissimo.
 -    Ho la sensazione che ci sarà ancora del lavoro per noi. La moglie non può fare la figura di quella che se ne fotte del perché e del percome della morte del marito, dopo averlo fatto pedinare fino a ventiquattr’ore prima.
 -    Immagino l’abbiano iscritta nel registro degli indagati.
 -    Immagini bene. Tu tieni occhi ed orecchie ben aperti.
 -    Come sempre.

Era il momento di andare a trovare il Lello. Benché, dopo l’ultima scarcerazione, conducesse vita ritirata, rimaneva uno degli uomini più informati su tutto ciò che di losco fermentava a Elissinia. Lo conoscevo da una vita e mi doveva più di un favore.
Abitava nel sottotetto di un condominio dirimpetto al teatro cittadino. Usciva solo di notte, e non sempre. Per incontrarlo, bisognava conoscere le sue abitudini, e io sapevo di poterlo trovare, a metà settimana, al bar notturno di Viale Custoza. Fu proprio lì che lo incontrai, quella notte stessa.

 -    Guarda chi si vede -, disse quando mi sedetti al bancone.

Era più grigio e male in arnese del solito.

 -    Ti trovo bene –, replicai.
 -    Respirare respiro. Bevi qualcosa?
 -    Vodka.

Fece un cenno al barista e questi di lì a poco ci servì due bicchieri appannati dal gelo.

 -    Salute.
 -    Salute. Come mai da queste parti?
 -    Non lo indovini?
 -    Passeggiavo. E’ più salutare passeggiare in città che nel parco, ultimamente.
 -    Con tutti quei pollini, se uno è allergico, rischia grosso.
 -    Allo strangolamento siamo tutti quanti un po’ allergici.
 -    Un genere di allergia che si manifesta anche in assenza di graminacee.
 -    Magari in un appartamento.
 -    Anche.
 -    Certo che è strano: con una crisi allergica di quel genere, uno che fa? Va al parco. Non ti sembra curioso?
 -    Magari ce l’hanno accompagnato.
 -    Non a riprendere fiato, però.
 -    Media vita in morte sumus.
 -    Perbacco, Lello, mi sorprendi.
 -    Il tempo per leggere ed apprendere non mi è certo mancato.
 -    Ecco, allora rendimi edotto in merito a quel genere di allergia. Ti risulta che il luminare soffrisse di avitaminosi?
 -    Che io sappia, la vitamina A si assume per via orale, non rettale.
 -    Infatti. Grazie per la vodka.
 -    Da svidànja.

Al funerale di Canestracci non mancava un solo direttore di dipartimento. Oltre ai notabili di Elissinia, erano presenti parecchi curiosi. Nei tanti articoli dedicati dalla Gazzetta e dai quotidiani nazionali alla morte dell’accademico non si faceva alcuna menzione della carota. La notizia tuttavia era filtrata non si sa come, e in città non si parlava d’altro. I volti dei presenti, a cominciare dalle massime autorità dell’ateneo, tradivano un certo imbarazzo. Il rettore magnifico pronunciò un panegirico del defunto, ostentando insincera commozione. Al termine del discorso, un piccione planò sul cortile dov’era in corso la cerimonia, e sganciò uno schizzo di feci che andò a stamparsi con precisione millimetrica sull’abito blu dell’oratore.

Sul volto del Magnifico, che fino a pochi istanti prima appariva disteso, si dipinse una smorfia truce. Il piccolo inconveniente fece emergere il suo essere autentico, fosco e stizzoso. Tale fu la sua rabbia che, con un morso, frantumò il microfono, quindi, imprecando, scese dal podio e si allontanò respingendo in malo modo portieri, commessi e segretarie accorsi servilmente a confortarlo, manco fosse stato colpito da una scheggia di mortaio, anziché da uno schizzo di merda.

Mi congratulai in cuor mio con il piccione.

La cerimonia era a un passo dal naufragio, un rischio che l’Ateneo doveva ad ogni costo scongiurare. Così, il professore ordinario di arti divinatorie, Jacopo Guagliardi, detto lo Zoppo a causa della sua andatura claudicante, guadagnò faticosamente il podio e tentò di rimediare al disastro.

Tanto impacciato era nei movimenti quanto agile nel parlare: il suo fu un intervento dignitoso, privo di toni enfatici. La cosa mi sorprese non poco. Purtroppo, ultimato il discorso, mise un piede in fallo e si abbatté rovinosamente al suolo. Accorsero due portieri: il poveretto fu sollevato da terra come un fagotto di stracci e deposto su una panchina. Aveva un colorito cereo, gli occhi strabuzzati ed emetteva deboli lamenti simili a guaiti.

Si ritenne opportuno porre termine alla cerimonia.

Il pubblico defluì celermente, io mi soffermai ad osservare i capannelli di accademici che cicalecciavano nel cortile, indifferenti alla presenza della bara.

Me ne andai. Nell’uscire dal tetro edificio, udii una voce femminile pronunciare il mio nome. Mi voltai e vidi, sul marciapiede opposto, Giulia. Indossava un abito in maglina lungo, a balze, che le donava molto. Traversai la strada e le andai incontro.

  -    Buongiorno Giulia, come sta?
  -    Bene. Lei, le sue ricerche?
  -    Se ne parlassimo in tutta tranquillità davanti a una tazza di caffè?
  -    Perché no?

Entrammo al Samarcanda, locale frequentato dai vitelloni di Elissinia. Giulia ordinò una caipiroska alla fragola, io un Jameson.

 -    E’ andato al funerale?

Annuii.

 -    Conosceva il morto?
 -    Non personalmente. Lei?
 -    Ho dato il suo esame l’anno scorso.
 -    Ah. Che tipo era?
 -    Molto preparato, grande oratore. Però…
 -    Però?
 -    Niente. Parce sepulto.
 -    Non è ancora stato sepolto.
 -    Faceva un po’ troppo il piacione, mi spiego?
 -    Capito.
 -    Non sto dicendo che l’abbia fatto con me.
 -    Con altre studentesse, invece?
 -    Si, insomma, allungava le mani.
 -    Ci sono state lamentele?
 -    Non che io sappia.
 -    Quindi con lei non ci ha provato?
 -    Le ho già detto di no.
 -    Sorry.
 -    E’ solo che  non amo le domande troppo dirette.
 -    Io invece tendo a evitare le perifrasi, gli eufemismi. Poco fa lei mi ha fatto capire che il defunto era uno sporcaccione.
 -    Non ho detto questo.
 -    Non ha usato quel termine, ma il senso delle sue affermazioni era chiarissimo.
Inoltre…
 -    Inoltre?
 -    Ho la netta sensazione che le abbia fatto delle avances, che lei ha respinto.

Giulia tacque e distolse per un istante lo sguardo.

 -    Se anche fosse, la cosa non ha più alcuna importanza.
 -    Ne convengo.
 -    Sa cosa faceva quel porco? – disse fissandomi dritto negli occhi.
 -    No.
 -    Invitava le studentesse carine nel suo studio e...
 -    …e?
 -    Se la convocata stava al gioco, chiudeva la porta dello studio a chiave e si spogliava. Poi si sdraiava sul tappeto e chiedeva alla ragazza di togliersi le mutandine e sederglisi in faccia.
 -    E chi non ci stava veniva punita in sede d’esame?
 -    No, in tal caso una denuncia lui se la sarebbe beccata di sicuro, ma le accondiscendenti avevano il 30 assicurato.
 -    Ecco, ora il quadro della situazione è nitido. Un altro drink?
 -    Ma non dovevamo parlare davanti a una tazza di caffè?

Sorseggiando la seconda caipiroska, Giulia si sciolse ulteriormente.

 -    Cos’è questa storia della carota?
 -    Gliene hanno trovata una nel culo. Ne spuntava un’estremità, con tanto di foglioline.

Si mise a ridere, e faticò non poco a smettere.

 -    Che figuraccia! Ma se l’è meritata.
 -    Credo che il suo assassino, con quel gesto,  avesse in mente proprio di fare uno sfregio alla figura di uno stimato docente.
 -    Perché assassino? E se fosse stata una donna?
 -    Non penso. Canestracci aveva una bella stazza. Non escludo però il coinvolgimento di una donna, come mandante del delitto. Poi c’è un particolare curioso.
 -    Quale?
 -    La carota era una deep purple.
 -    Sarebbe a dire?
 -    Una varietà ibrida di colore viola scuro.
 -    Mai sentita!
 -    E’ stata immessa di recente sul mercato.
 -    Ma lei come fa a sapere queste cose? Non c’erano sui giornali.
 -    Anche lei sapeva della carota, di cui i giornali hanno taciuto.
 -    Ma non sapevo fosse viola.
 -    Me le ha dette un uccellino.
 -    Un pappagallino, magari?

Quella ragazza m’intrigava.

 -    E se passassimo al tu? -, le dissi.
 -    Di già? Siamo appena al secondo bicchiere.

Si, era decisamente un bel tipo. Restammo ancora un po’ a chiacchierare del più e del meno. O per meglio dire straparlammo entrambi, per via dell’alcol.

Al terzo whisky la mia lucidità mentale cominciò a vacillare. Giulia mi guardava ad occhi sgranati, ridendo alle mie battute. Tre caipiroska non sono uno scherzo. 

 -    Abiti in centro?
 -    Dietro alla stazione.
 -    Ti accompagno, se vuoi.
 -    Ok.

Uscimmo. Fatti pochi passi, mi squillò il cellulare. Era Lello.

 -    Che mi dici?
 -    Ho fatto il giro degli ortolani.
 -    E quindi?
 -    Quando posso trovarti?
 -    Ti trovo io solito posto solita ora.

Riagganciai.

 -    Appuntamento galante?
 -    Tutt’altro.

Giulia camminava appoggiandosi al mio braccio, e nonostante ciò la sua andatura era tutt’altro che stabile.

 -    Direi di evitare il corso, - suggerii -  c’è troppa gente a quest’ora.

Imboccammo Via Sarfatti, una via laterale scarsamente frequentata. All’improvviso, una decina di metri avanti a noi, vidi un corpo precipitare dall’alto di un edificio sul marciapiede sottostante, lanciando un grido terribile. Giulia sobbalzò per lo spavento.

Mi avvicinai per capire se l’uomo che giaceva al suolo fosse ancora vivo. Lo osservai, dal cranio rotto si andava allargando una pozza di sangue. Lo riconobbi subito: si chiamava Sastri, era nel giro dello spaccio.

Composi il 112 sulla tastiera del cellulare.

 -    Giulia, tra poco saranno qui i carabinieri. Ce la fai ad andare a casa da sola?
 -    Mi gira la testa.
 -    Vatti a sedere al bar di fronte alla Feltrinelli, prenditi un caffè. Appena mi libero, ti raggiungo.
 -    E tu che fai?
 -    Aspetto i caramba.

Giulia si diresse verso Via dei Catafratti. Io rimasi dov’ero, poco distante dal cadavere. Una piccola folla di curiosi si venne radunando sul post. L’ululato delle sirene si faceva sempre più acuto. Dopo poco giunsero un’ambulanza e due-diconsi-due vetture dei carabinieri. Da una di esse scese Marostica.

 -    Marco, ma tu sempre in mezzo ai casini stai?
 -    Ne farei volentieri a meno.
 -    Che è successo?
 -    L’ho visto venir giù come un sasso.
 -    Ma guarda – disse il brigadiere dopo aver osservato attentamente il morto –, una vecchia conoscenza. Tu che ci facevi qua?
 -    Passeggiavo.
 -    Se passeggiavi più svelto ti cadeva in testa.

I caramba si fiondarono nel palazzo prospiciente il tratto di marciapiede su cui giaceva il cadavere, io invece nel cesso del bar più vicino perché mi stavo pisciando addosso.

Raggiunsi Giulia alla Feltrinelli e l’accompagnai a casa. Non dissi di no quando mi chiese se volevo salire da lei. Mi aspettavo il classico appartamentino per studenti e invece mi trovai di fronte a un signor trilocale elegantemente arredato. Giulia si accorse del mio stupore.

 -    E’ di mio padre, un investimento. Mettiti comodo, ti raggiungo subito.

Mi sedetti sul divano, un ampio divano a isola. Giulia riapparve dopo una decina di minuti con indosso un accappatoio e si sdraiò lunga distesa sul divano, alla mia destra.

 -    Non è che mi faresti un favore?
 -    Dimmi.
 -    Mi massaggeresti i piedi? E’ una cosa che adoro, mi rilassa tantissimo.
 -    Ok.
 -    Non ti ho detto tutto.
 -    Cos’hai tralasciato?
 -    Premi con più energia. Sai che i vari punti della pianta del piede sono collegati ad alcune parti del nostro corpo?
 -    La chiamano riflessologia plantare. Stavi dicendo?
 -    Ho preso 30 e lode all’esame di Letteratura onirica.
 -    Ah.
 -    Ora mi giudicherai una troia.
 -    Tendo a non giudicare in modo affrettato.
 -    Sapessi che razza di maiale era Canestracci, un vero pervertito.
 -    Non sei costretta a parlarmene.

Lei però non chiedeva di meglio che spiattellare tutto quanto, fin nei dettagli.

 -    Faceva schifo a vedersi. Te lo immagini tutto nudo, con le palle penzoloni? Gli arrivavano quasi alle ginocchia.
 -    Oh la miseria!
 -    Non ridere. Il suo corpo flaccido mi disgustava, aveva un colorito cadaverico.

Hai presente i corpi degli annegati che riemergono in superficie quando sono gonfi di gas? Ecco, così.

 -    Che bella immagine.
 -    Si masturbava di continuo ma non gli si rizzava. Voleva che gli strizzassi le palle e l’uccello con una cordicella di cuoio. Poi mi faceva indossare uno strap-on...
 -    E bravo il professore.
 -    Tutto sommato me la sono cavata a buon mercato. Un paio di incontri e nient’altro.
 -    E non ti ha più cercata?
 -    No cioè, sì, ma ho preso tempo. L’ho rivisto all’esame, ed è stato di parola.
 -    Buon per te. Ora ti devo proprio salutare.
 -    Cos’è, ti ho scandalizzato?
 -    Figurati, è che ho da fare.
 -    Ti lascio il mio numero se vuoi.

Presi nota. Si alzò per accompagnarmi alla porta. Non la baciai: l’idea di lei con Canestracci mi procurava un certo disgusto.

Si chiamava Maurizio, ma tutti si divertivano a storpiarne il nome. Così, c’era chi lo chiamava Malizio, chi Novizio, chi invece Mestizio. E ogni volta il poveretto si affrettava a correggere con voce stridula il proprio interlocutore: “Non mi chiamo Solstizio, mi chiamo Maurizio!”, suscitando l’ilarità dei presenti.
Io non l’avevo mai sfottuto, ogni tanto però gli intimavo di levarsi dai coglioni, quando era troppo insistente nel chiedere uno spicciolo o una sigaretta (a me che non fumo).
Quel giorno lo vidi stravaccato su una panchina nei giardini del Castello.

 -    Uèh Maurì.
 -    Ciao Marcone.
 -    Sei già pieno a quest’ora?
 -    Ho bevuto solo un goccetto.
 -    Seee.
 -    Giuro.
 -    Meglio che non giuri. Ciao!

Il suo alito puzzava di vino che potevi sentirne l’odore a tre metri di distanza. Allungai il passo e dopo una decina di minuti giunsi in agenzia. La segretaria era al telefono e mi fece segno di entrare nell’ufficio del titolare.

 -    Eccoti finalmente! Da’ un’occhiata alla prima pagina del giornale.

Sulla prima pagina della Gazzetta spiccava un titolone: “Tragica caduta dal balcone”. Sastri non era uno sputapalline qualunque ma il pusher ufficiale dei rampolli della borghesia locale.

 -    La vedova Canestracci ha chiamato. Vuole vederti.
 -    Ti farò sapere.
 -    Presto però!
 -    Il tempo di passare in questura per testimoniare.

Negli uffici della questura notai una certa animazione.

 -    Brigadiere, ultimamente ci vediamo spesso.
 -    Persino troppo, direi. Tu che parere ti sei fatto sulla morte di Sastri?
 -    L’ho visto venir giù urlando. Non credo sia scivolato mentre stava annaffiando i gerani sul balcone.
 -    Tanto più che quella non era casa sua.
 -    Ah. E di chi?
 -    Perché me lo chiedi, lo sai già, sta sul giornale.
 -    Non l’ho ancora letto.
 -    Ci abita un avvocato, che però in quel momento era assente.
 -    Ah. E in merito al carotone, novità?
 -    L’indagine è in corso. Hai firmato la deposizione?
 -    Certo che sì. Ciao brigadiere, buon lavoro!
 -    Altrettanto a te.

Tutto si può dire di Elissinia tranne che sia un posto dove non succede niente. In pochi giorni, due morti ammazzati. Di Canestracci in città non si parlava più, la vicenda della carota era così imbarazzante per le autorità accademiche che nessuno, nei corridoi dell’università, osava fare il minimo cenno al docente. La vedova tuttavia non aveva alcuna intenzione di stare al gioco. Mi ricevette nel tardo pomeriggio.

 -    Se credono che resterò muta in disparte, si sbagliano! Mandria di ipocriti!
 -    Signora, le posso parlare con assoluta franchezza?
 -    Certo.
 -    Se fossi al suo posto non so se agiterei più di tanto le acque. Lei ha letto il mio rapporto…
 -    L’ho letto. So perfettamente che razza di porco fosse mio marito ma non è questo il punto. Non mi sta bene che i suoi “cari colleghi” passino agli occhi di tutti per dei galantuomini e lui per l’unica pecora nera dell’ateneo.
 -    Capisco.
 -    Quindi non starò zitta. Continui ad indagare.
 -    Neppure se questo significasse scoperchiare una sentina?
 -    In quella sentina di sicuro non ci sono soltanto le zozzerie di Ulderico!
 -    Ma ci sono anche quelle.
 -    Non mi importa. Tanto peggio di così… La sua immagine non potrebbe essere maggiormente infangata di quel che già è.
 -    In tutto questo il mio compito sarebbe?
 -    Incida il bubbone di questa città sino a farne uscire tutto il marcio.
 -    Signora, lei mi affida un compito per il quale non basterebbe una brigata di chirurghi.

Trovai Lello che leggeva un libro, seduto al solito tavolo, al solito bar, alla solita ora.

 -    Che leggi di bello?

Mi mostrò la copertina, logora.

 -    Rigodon? Passa il tempo ma non la tua passione per Céline, vedo. Che mi dici dell’allergico?
 -    Non ti sembra strano il volo di Sastri a pochi giorni dal ritrovamento del cadavere del prof? Ammettiamo, in via del tutto ipotetica, che Sastri fosse al corrente di qualcosa. Hai idea della quantità di lordume che scorre in questa tranquilla città di provincia?
 -    Ne ho idea. L’allergico avrà pestato i calli sbagliati?
 -    Non aveva debiti con cravattari.
 -    E allora?
 -    E allora bisogna cercare altrove.
 -    Resta da capire cosa leghi i due delitti.
 -    La risposta sta nella vita privata dell’allergico.
 -    Era un depravato con la passione per le studentesse troie.
 -    Sai che rarità.
 -    Oggi ho parlato con la moglie. Pare intenzionata a non lasciar posare la polvere sulla faccenda.
 -    E tu credi che le convenga?
 -    Per niente.

Le sale autoptiche erano posizionate nei sotterranei dell’istituto di medicina legale, situato a poche centinaia di metri dalla camera mortuaria. Appena entrato, fui investito da lezzi talmente mefitici che dovetti appoggiarmi alla parete del corridoio per non perdere l’equilibrio.

 -    Sentito che puzza? Ne è arrivato uno brutto!

Conoscevo Valerio da anni. Lavorava all’istituto, anzi, si può dire che quella fosse la sua seconda casa: era sempre lì, in mezzo ai morti.

 -    Cazzo Vale, che tanfo!
 -    Te l’ho detto, è di quelli brutti. L’han trovato chiuso nel bagagliaio di una macchina, doveva essere lì da giorni. Avessi visto che matasse di cagnotti!
 -    C’è Manelli?
 -    Ha finito adesso l’autopsia del puzzone.
 -    E’ nel suo ufficio?
 -    Aspetto che lo avverto.

Il medico settore mi ricevette dopo poco.

 -    Marco, hai scelto il giorno sbagliato per venirmi a trovare.
 -    Me ne sono accorto. Che ci faceva quel tizio nel bagagliaio?
 -    Si riposava dopo aver assunto del piombo tetraetile.
 -    Minchia, e con questo fanno tre morti ammazzati in sette giorni. Mica male per una città di provincia.
 -    Già.
 -    L’avete già identificato?
 -    Non ancora.
 -    E del prof che mi dici?
 -    Non posso dirti nulla di più di quel che già sai.
 -    Fai un piccolo sforzo.
 -    Credo che avesse dei vizietti.
 -    Tipo?
 -    Bdsm. Si faceva legare e frustare.
 -    Capito. Senti, ti lascio perché questa puzza è veramente atroce.
 -    Grazie tante, pensa che io invece devo restare qui ad annusarla.

Mi allontanai dal sotterraneo a passo spedito e una volta fuori camminai a lungo per togliermi dalle narici l’odore nauseabondo della putrefazione. Sapevo già che avrei dovuto portare in lavanderia ogni singolo capo di abbigliamento che avevo indosso. Il cellulare diede uno squillo. Era Giulia su Whatsapp: “Sei bravo a fare i massaggi”. Che gran puttana!

L’indomani, Elissinia si ritrovò sui tigì nazionali. C’era da immaginarlo: tre morti misteriose in una settimana non sono uno scherzo.  Il disagio della borghesia locale era palpabile, lo si respirava quasi, nelle vie del centro. I portieri dell’ateneo sfoderavano espressioni più truci del solito, parevano sul punto di mordere chiunque si avvicinasse all’ingresso del rettorato. Ce n’era uno cui anni prima era accaduto un incidente curioso: era stato inghiottito da una voragine spalancatasi nel manto stradale. Purtroppo ne era uscito vivo. Me lo trovai di fronte mentre traversavo il cortile della biblioteca centrale universitaria. Mi lanciò un’occhiata ostile.

 -    Beh?, gli domandai a muso duro.

Ero sul punto di tirargli un cazzotto sul grugno. Per sua fortuna abbassò lo sguardo e scantonò. Quell’individuo mi dava tremendamente sui nervi.

Nelle vicinanze della trattoria I Tre Fiumi vidi sbucare da un vicoletto una figura nota. 

 -    Ciao Marco.
 -    Lello, che ci fai in giro a quest’ora?
 -    Hai due minuti?
 -    Certo.
 -    Bene, allora facciamo due passi.

Ero davvero sorpreso di trovarlo in giro prima di mezzogiorno, di solito dormiva sino a tardi e usciva dopo il tramonto. Ci dirigemmo verso la basilica di San Simeone Salos.

 -    Marco, senti, te lo dico senza girarci troppo intorno: ti stai infilando in una cisterna piena di merda. Siamo amici da una vita, se ti parlo così significa che ne ho motivo. Lascia perdere questa storia.
 -    Cos’hai saputo esattamente?
 -    Quanto basta per dirti di mollare il colpo e alla svelta. Non è uno scherzo: rischi di finire anche tu in un bagagliaio.
 -    Questa città comincia a piacermi sempre meno.
 -    Purtroppo è così. Né tu né io possiamo farci niente.
 -    Mi resta la curiosità di capire quale sia, ammesso che esista, il rapporto fra queste morti. Oddio, un’ipotesi ce l’ho, ma è basata su delle semplici supposizioni, anzi su delle sensazioni.
 -    E quale sarebbe?
 -    Il prof aveva messo le mani sulla ragazza sbagliata. Che so, la figlia o la nipote di un santista.
 -    E Sastri?
 -    Sbaglierò ma secondo me Sastri è stato punito per lo stesso motivo. Del tipo nel bagagliaio non ho idea.
 -    Fuochino. Ora capisci perché è bene che tu te ne stia fuori? Chi li ha uccisi è ancora a piede libero.

Camminammo senza più parlare, sinché non giungemmo nei pressi della basilica.

 -    Sai cosa disse Simeone Salos al fratello Giovanni prima di abbandonare il deserto?
 -    No.
 -    Vado a prendermi gioco del mondo.

Lello si accese una sigaretta.

 -    Che ne diresti invece se noi andassimo a berci un bianchino?

Pietro Ferrari, agosto 2018