martedì 12 febbraio 2019


PHILPADELPHIA EXPERIMENT

Titolo originale: The Philadelphia Experiment
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 1984
Lingua: Inglese
Durata: 102 min
Genere: Fantascienza
Regia: Stewart Raffill
Soggetto: Wallace C. Bennett, Charles Berlitz, Don Jakoby,
     William I. Moore
Sceneggiatura: William Gray, Michael Janover
Produttore: Douglas Curtis, Joel B. Michaels, Pegi Brotman
Produttore esecutivo: John Carpenter
Casa di produzione: New World Pictures
Distribuzione in italiano: Life International
Fotografia: Dick Bush
Montaggio: Neil Travis
Effetti speciali: Max W. Anderson, Lawrence J. Cavanaugh
Musiche: Kenneth Wannberg
Interpreti e personaggi
    Michael Paré: David Herdeg
    Nancy Allen: Allison Hayes
    Eric Christmas: Dottor James Longstreet
    Bobby Di Cicco: Jim Parker
    Louise Latham: Pamela
    Kene Holliday: Maggiore Clark
    Joe Dorsey: Sceriffo Bates
    Michael Currie: Magnussen
    Stephen Tobolowsky: Barney
    Gary Brockette: Assistente / Andrews
    Debra Troyer: Pamela da giovane
    Miles McNamara: Longstreet da giovane
    Ralph Manza: Jim da vecchio
    Patrick DeSantis: Jim da giovane
    James Edgcomb: Ufficiale Boyer
    Glenn Morshower: Meccanico
    Rodney Saulsberry: Dottore
    Stephany Faulkner: Giornalista televisivo n° 1
    Michael Villani: Giornalista televisivo n° 2
    Vivian Brown: Mamma Willis
    Ed Bakey: Papà Willis
    Vaughn Armstrong: Cowboy
    Lawrence Lott: Tecnico
    Bill Smillie: Predicatore evangelico
    Stephan O'Reilly: Punk rocker
    Clay Wilcox: Travestito
    Pamela Brull: Doris
    Pamela Doucette: Infermiera
    Deborah E. Dixon: Infermiera
    Charles Hall: Comandante
    Michael Ruud: Camionista
    Mary Lois Grantham: Signora Waite
    Rick Shrand: Mandell
    Robin Krieger: Tecnico dei raggi X
    Anthony R. Nuzzo: Tecnico del generatore
    Raymond Kowalski: Tecnico radio
    Jay Bernard: Ingegnere
    Steve Sachs: Primo marinaio
    Harry Beer: Secondo marinaio
    Andrew Bracken: Marinaio obnubilato
    Brent S. Laing: Tecnico radar
Doppiatori italiani
    Saverio Moriones: David Herdeg
Premi
    Fantafestival 1985 - Best Film
Titoli tradotti: 

    Tedesco: Das Philadelphia Experiment
    Polacco: Experyment Philadelphia
    Russo: Филадельфийский эксперимент
    Finlandese: Tuhon kuilu (lett. "Abisso di distruzione")

Trama:
Anno del Signore 1943. I marinai David Herdeg e Jim Parker della Marina degli Stati Uniti, sono assegnati al cacciatorpediniere USS Eldridge, mentre fervono i preparativi di un esperimento con campi elettromagnetici intensissimi, che dovrebbe rendere l'imbarcazione bellica invisibile ai radar. La nave è ormeggiata nel porto di Filadelfia ed è carica di equipaggiamento usato dalla squadra scientifica guidata dal dottor James Longstreet. Quando l'esperimento ha inizio, la USS Eldridge non scompare soltanto sui radar, ma diventa invisibile agli occhi degli spettatori. Sulla nave le apparecchiature impazziscono; i marinai Herdeg e Parker cercano di bloccare il generatore per interrompere l'esperimento, ma ricevono spaventose scosse elettriche e sono eiettati fuoribordo, nel vuoto. Non si vengono a trovare nel porto di Filadelfia durante il giorno, come si sarebbero aspettati, ma in uno sconosciuto deserto notturno. Un elicottero militare perlustra la zona con un fascio di luce, dando la caccia agli intrusi. Presto i due giovani si rendono conto di essere stati catapultati nel 1986, ben 43 anni nel futuro rispetto alla loro scomparsa. Qualcosa non va nell'aria, misteriose tenebre diurne offuscano  la luce solare e dovunque spira un vento che porta desolazione. Gli eventi prendono una china frenetica e sempre più angosciante. Jim Parker, che è rimasto saturato di radiazioni, emette lampi e scariche blu da un braccio, provando dolore e arrecando danni a tutto ciò che tocca.
In seguito alla distruzione di un punto di ristoro, andato a fuoco proprio a causa dei fenomeni elettrici descritti, David Herdeg prende in ostaggio la bella Allison, sequestrando la sua auto. La polizia riesce a catturarli. La sofferenza di Jim peggiora: viene portato in ospedale, dove sprofonda in una distorsione spaziotemporale e finisce risucchiato nel passato. David e Allison riescono quindi ad evadere dalla custodia degli agenti, dietro cui si nasconde la longa manus del maligno dottor Longstreet. Non soddisfatto del suo pernicioso esperimento del '43, lo scienziato pazzo lo ha replicato, dando vita a una spaventosa singolarità spaziotemporale senza orizzonte degli eventi, che minaccia di divorare l'intero pianeta. Visto che tutto sta per collassare, sarà proprio il marinaio David Herdeg, catturato dalla polizia militare, a offrirsi volontario per una missione disperata nel perfetto stile degli Yankee: ritornare indietro nel tempo fino all'origine degli eventi luttuosi, catapultandosi proprio sulla USS Eldridge per interrompere l'alimentazione del generatore e rimuovere la singolarità. Com'è naturale, nemmeno questa radicale manipolazione della realtà è in grado di cancellare l'amore tra David e Allison, che si ritrovano e si amano. Il finale puffesco è garantito!

Recensione: 
Se devo essere franco, questa pellicola non mi è piaciuta granché. L'ho subito trovata abbastanza pacchiana e ingenua, a tratti irritante come un paio di mutande piene di larve di processionaria. Gli effetti speciali mi paiono approssimativi e di scarso valore, molto al di sotto delle possibilità dell'epoca in cui il regista ha confezionato il suo prodotto. La trama è tutto sommato futile, i personaggi sono privi di spessore, persino infantili. Con lo stesso materiale si sarebbe potuto fare di meglio, anche senza possedere doti particolari di genialità. Anche se duole ammetterlo, il contributo del mitico Carpenter quasi non lo si riesce a distinguere nell'amorfa massa di trovate scontate. Un film brutto. Brutto come un gelato al gusto Gianni Morandi - o Veronica Moser, se preferite.  

Il mito memetico dell'esperimento di Filadelfia 

È molto in auge tra le genti la favola superstiziosa dell'esperimento di Filadelfia, detto anche Project Rainbow, che sarebbe avvenuto nel corso della seconda guerra mondiale e che avrebbe avuto inquietanti finalità militari. Esiste persino una data precisa per questo supposto esperimento scientifico: il 28 ottobre 1943. A dirigerlo sarebbe stato un individuo noto come Franklin Reno, anche noto come dottor Rinehart e di sospetta natura fantomatica. Com'è ovvio, dietro questo Rinehart ci sarebbe stato nientepopodimeno che Albert Einstein, coinvolto in ogni genere di porcheria. Sarebbe stata proprio la cosiddetta teoria del "campo unificato" a fornire le basi teorice del Project Rainbow. Gli eventi si sarebbero svolti nel seguente modo: alle ore 17:15 del 28 ottobre 1943, il cacciatorpediniere USS Eldridge (D-173), che era ormeggiato nel porto di Filadelfia, è svanito nel nulla, facendo la sua spettrale apparizione a Norfolk, in Virginia. Nel giro di alcuni minuti la nave sarebbe scomparsa da Norfolk per fare ritorno alla sua originaria sede, presso un molo del porto di Filadelfia. I corpi dei marinai ritrovati sarebbero stati trovati compenetrati con le strutture metalliche della nave. Se fosse vero ci sarebbe da cagarsi in mano dal terrore, perché nessuno di noi sarebbe al sicuro. Una distorsione nel tessuto della realtà potrebbe ghermire chiunque in qualunque momento. Il punto è che tutto ciò non è vero: si tratta di una leggenda metropolitana. Per usare un linguaggio più al passo coi tempi, diciamo che è una bufala, una fake news del XX secolo. In sostanza è una pataccata invereconda. La diffusione di questo mitologema obbedisce alle leggi della memetica. Il corredo memetico della bufala non è poi tanto complesso. Basta prendere Einstein e ogni barlume di razionalità si perde: allo scienziato di Ulm sono attribuiti dal volgo poteri al limite del sovrumano. Dal momento che egli incarnava la natura stessa del genio, nulla gli era davvero impossibile. Si noterà che oggi si parla spesso di teletrasporto quantistico, cosa che può trarre in inganno gli sprovveduti. Consiste infatti nel teletrasportare particelle subatomiche, non imbarcazioni!    

Uno spaziotempo labirintico 

Non si può dire che lo spaziotempo immaginato dall'artefice di questa pellicola sia simile a una forma di groviera, dato che i buchi di quel formaggio non sono tra loro comunicanti (nascono da bolle di gas di fermentazione dei batteri). Qui abbiamo invece a che fare con una topologia complessa e contorta, in cui i cunicoli uniscono passati e futuri molteplici, ramificandosi all'infinito. Sembra più di avere a che fare con un immenso termitaio, la cui mappa non è a disposizione di nessun essere umano. Ogni individuo trova dopo una lunga ricerca le radici del proprio presente in un lontano futuro in cui vede se stesso ormai anziano. Non si tiene conto delle difficoltà che una simile impostazione genera senza fine. A quanto pare lo spettatore medio non prova irritazione di fronte a paradossi e a tarli logici di ogni specie. Registi, sceneggiatori e produttori non sono in grado di gestire un simile caos filosofico. A dire il vero, sembra proprio che non si pongano nemmeno il problema.

Il postulato del tempo statico 

Non c'è niente da fare: le genti degli States sono affascinate, quasi ipnotizzate, dalla teoria del tempo statico. Credono fin nel più profondo del midollo che il flusso temporale e il succedersi degli eventi siano soltanto illusioni senza significato. Non vogliono sentire ragioni. Persino gli accademici di quel paese ostacolano con ogni mezzo qualsiasi teoria sulla natura del tempo che affondi le sue radici in un'ontologia tensionale e presentista, mentre stravedono per tutto ciò che è atensionale ed eternista. Questo esasperante B-eternismo ha poi ripercussioni spaventose nella produzione letteraria e cinematografica. Sono consapevole dell'inesistenza del tempo newtoniano ed assoluto. Non ignoro la relatività di Einstein. Tuttavia affermo che una teoria sulla natura del tempo deve rendere conto della realtà che osserviamo. Le discontinuità spaziotemporali devono essere compatibili con la successione ordinata degli eventi per ogni osservatore del cosmo fisico. Se invece il tempo è statico e ogni istante esiste ab aeterno proprio come esiste lo spazio, diventa possibile prendere scorciatoie che permettono di bypassare la natura irreversibile dei singoli eventi, facendosi delle belle passeggiate nel passato e nel futuro. Diventa possibile seminare assurdità come un fallo eretto semina spermatozoi. Questa macchina di produzione di paradossi, che tanto sollecita la fantasia degli Yankee, a me genera emicrania, sintomi di intossicazione e disgusto. 

Una toponomastica enigmatica 

Surreale è l'ingresso dei due marinai, David Herdeg e Jim Parker, in un punto di ristoro che sorge nel Nulla in mezzo al Niente, in un deserto che nemmeno Dio ha mai concepito nei suoi più oscuri periodi di down cocainico. Spaesati, i due militari si avvicinano al bancone, al cospetto di una grannie bisbetica, come di consueto con capelli canuti tinti di biondiccio, il volto contratto in smorfie sgradevoli. Se non fosse certo che è una donna del Midwest, aspra come il vomito più pastoso, si potrebbe persino pensare che sia giunta dall'Ucraina. Ecco uno dei due giovani bellimbusti ordinare la colazione, ovviamente a base di uova. La gerente chiede come gli ospiti vogliono queste benedette uova. Strapazzate, è la timida risposta. Poi accade che i marinai piovuti dalla distorsione spaziotamporale vogliono capire dove sono. Così si informano sulla toponomastica. "Come si chiama questo posto?", chiede uno dei due, non si riesce a distinguerli, visto che portano abiti identici e hanno fisionomie confondibili. La risposta della donna è raggelante, per quanto apparentemente normale: "Scotty John's Show. Non lo trovate su nessuna carta, questo è sicuro." Beh, ho trascritto il toponimo come Scotty John's Show perché mi sono trovato disorientato. Senza dubbio sarà un nome amerindiano, che nulla ha a che fare con l'anglosassone. Qualcosa che suona algonchino. Forse sarebbe meglio usare un'ortografia diversa, come Scottiejawnshaw. Tutte le ricerche su Google si sono dimostrate fallimentari, come spesso accade. 

La peste dei sequel 

Disgraziatamente è stato prodotto un seguito: Philadelphia Experiment 2, di Stephen Cornwell (1993). La casa produttrice è la Trimark Pictures. Nel cast non è presente alcun attore del film di Stewart Raffill. La trama è fondata su una banalità che definire pornografia concettuale è ancor poco. I brutti-cattivi nazisti del Reich hanno vinto la guerra, facendo sprofondare gli Stati Uniti in un incubo distopico. La vittoria tedesca è stata il frutto dell'aereo futuribile Phoenix, che da solo è riuscito a distruggere Washington DC provocando ben 15 milioni di morti, finendo però esso stesso in cenere nelle esplosioni. Questo Phoenix era l'opera di uno scienziato pazzo, Friedrich Mahler (notare il cognome d'origine ebraica). L'artefice di tale macchina di morte cade in disgrazia presso il Führer per la sua incapacità di costruirne una nuova. In realtà è stato il figlio di Mahler, l'anglizzato William Maller, a rendere possibile la vittoria, teletrasportando il Phoenix sulla capitale americana. Spetterà a David Herdeg, celebre risolutore di nodi storici, ritornare in piena Germania nazista per uccidere l'ebreo antisemita Friedrich Mahler, facendo dissolvere suo figlio all'istante grazie al paradosso del nonno (e de li mortacci sua). Tutto torna a posto, il Phoenix non viene mai costruito e Hitler si avvia all'istante sulla traiettoria che ha come punto finale il bunker di Berlino. Direi che il macero è il posto più adatto per questo genere di escrementi di celluloide. 

La peste dei remake 

C'è anche un remake del 2012, The Philadelphia Experiment, di Paul Ziller. A quanto ho letto, tra gli attori c'è ancora Michael Paré, ma questa volta nella parte del cattivo. Non perderò nemmeno tempo a visionare tale opera, tanto le probabilità che si tratti di una porcheria immonda sono elevatissime. Sono nauseato da questi tentativi di cavare sangue dalle rape. Un piatto di densa zuppa di bruconi è infinitamente meglio.

Altre recensioni e reazioni nel Web 

Girando nella Rete alla ricerca di riscontri su Philadelphia Experiment, ho trovato soltanto commenti anodini e opinioni mancanti di vigore. Sembra fare eccezione il sito Filmscoop.it, in cui troviamo qualche giudizio caustico. Ecco alcune gemme: 

Fiacco e poco appassionante ma non del tutto malvagio, l'idea per esempio è piuttosto originale anche se sviluppata un pò così; probabilmente nelle mani di Carpenter in veste di regista (ebbe l'idea quando era studente alla USC) oltre alla suspense ne avrebbe guadagnato anche in quanto a curiosità e divertimento.
Ma non essendo così il tutto si riduce ad una trama campata per aria intrisa di inseguimenti monotoni e dialoghi scialbi. Anche il finale, frettoloso, non suscita la minima emozione. La recitazione dei protagonisti è imbarazzante, ma assieme fanno una bella coppia ed è davvero uno dei pochissimi fattori che tiene lo spettatore ai confini della sonnolenza.
(Angel Heart)

Fra "Ritorno al futuro" e "Tron", un film talmente povero e ingenuo da riuscire quasi ad intenerire. Effetti speciali simpaticamente al risparmio, sceneggiatura risibile ("Stai bene?-Benone!/L'importante e che tu stia bene-Si, non ho niente, andiamo!/Si. Sei sicuro di star bene?-Dobbiamo far presto!/ Si certo, andiamo. Come ti senti?), attori imbambolati. Un b-movie divertente, noiosetto, lontanissimo dagli obiettivi che si prefiggeva. (atticus)

Se questi sono attori ho una speranaza anche io di diventarlo!!!
veramente brutto!!!!
(Bouree) 

Mai voto fu più azzeccato per un'ottima idea, ma con attori cani.
Un vero peccato perchè gli ingredienti c'erano tutti, ma la maionese è impazzita.

(Franx) 

Troviamo poco di buono su Filmtv.it. In tutto vedo soltanto due recensioni classificate come negative. Ne riporto una, a pubblica edificazione, con tanto di spaziature anomale: 

In Italia fece una comparsata o poco più nelle sale,ed ebbe maggiori fortune nel mercato home video, dove conquistò consensi e simpatie,visto che c'era,ai tempi, chi lo paragonava a "Ritorno al futuro" addirittura ritenendolo forse meglio. Senza scomodare quella chicca di Zemeckis, c'è da dire che lo spunto di "Philadelphia Experiment" non è niente male, anche se il fatto del viaggio spazio-temporale con una nave militare di mezzo assomiglia non poco al di poco precedente "Countdown":solo che,a parte quello, nel film non c'è granchè di memorabile.Non gli interpreti, tra i quali un Michael Parè nella sua stagione decisiva, ma che dimostrò che un bel ragazzo non sempre diviene una star, nè una stinta Nancy Allen reduce dalle sue collaborazioni con l'allora partner Brian De Palma, nemmeno gli effetti speciali, già vecchiotti se paragonati a quelli dei coevi "Ghostbusters" e "Indiana Jones e il tempio maledetto".La regia del modesto Stewart Raffill, su un'idea alla quale si appassionò John Carpenter,che pare dovesse dirigere la pellicola, tanto da produrla, è manieristica, non costruisce tensione nè pathos,e non sfrutta a dovere le occasioni possibili di due giovani degli anni Quaranta catapultati nell'era post-Vietnam. Ne fu fatto,nove anni dopo,un sequel che è stato praticamente trasmesso solo in tv.
(Will Kane)  

venerdì 8 febbraio 2019


L'ULTIMO UOMO DELLA TERRA

Titolo originale: The Last Man on Earth
Paese di produzione: Italia, Stati Uniti d'America
Anno: 1964
Durata: 86 min
Dati tecnici: B/N
Genere: Orrore, fantascienza, drammatico
Sottogenere: Postapocalittico
Regia: Ubaldo Ragona / Sidney Salkow
Soggetto: Richard Matheson
     (dal romanzo Io sono leggenda)
Sceneggiatura: Furio M. Monetti / Richard Matheson
     (accreditato come Logan Swanson)
Produttore: Robert L. Lippert
Fotografia: Franco Delli Colli
Montaggio: Gene Ruggiero, Franca Silvi
Musiche: Paul Sawtell, Bert Shefter
Scenografia: Giorgio Giovannini
Costumi: Angelina Menichelli
Interpreti e personaggi
    Vincent Price: Dott. Robert Morgan
    Franca Bettoja: Ruth Collins
    Emma Danieli: Virginia Morgan
    Giacomo Rossi Stuart: Sam Cortman
    Umberto Raho: Dott. Mercer
    Christi Courtland: Kathy Morgan
    Antonio Corevi: Governatore
    Ettore Ribotta: Sergente polizia
    Franco Gasparri: Un giovane
Doppiatori originali
    Emilio Cigoli: Dott. Robert Morgan
    Rita Savagnone: Ruth Collins
    Fiorella Betti: Virginia Morgan
    Cesare Barbetti: Sam Cortman
    Bruno Persa: Dott. Mercer


Trama:
Siamo nell'Anno del Signore 1968. Il dottor Robert Morgan (magistralmente interpretato dal tenebroso Vincent Price) sopravvive imprigionato in un incubo da cui non riesce a liberarsi. Come l'uomo di cui parlava Friedrich Nietzsche, che ripete per l'eternità lo stesso giorno senza mai potersi liberare, Morgan passa le sue giornate a snidare e a eliminare vampiri intorpiditi negli anfratti della città, per poi bruciarli in un dirupo; calate le tenebre, passa le sue notti rinchiuso in casa a vegliare e a ubriacarsi, resistendo all'assalto dei vampiri che gli vorrebbero penetrare in casa. Alcuni feticci sono le sole barriere tra sé e l'assalto notturno del mondo delle Ombre: uno specchio, un crocifisso, una corona d'aglio. Mentre il film procede, il protagonista spiega gli antefatti a una situazione tanto orripilante. Tre anni prima, quando il dottor Morgan viveva felice con la moglie Virge e la figlia, una grande pestilenza ha sconvolto l'Europa, giungendo presto in America ed estendendosi su tutto i pianeta. Il morbo ha mietuto un immenso raccolto di morte, ma presto si è capito che qualcosa non quadrava. Le autorità proibivano la sepoltura dei cadaveri, raccogliendoli per cremarli in roghi indifferenziati. Il assistente del protagonista, Sam Cortman, ha sospettato che questa misura nascesse dalla necessità di impedire ai morti di ritornare in vita. Il dottor Morgan, pieno di alterigia e di dogmi illuministi, irrideva e scherniva le teorie di Cortman, ritenendole superstizioni. Presto si è dovuto ricredere. Morta la sua adorata moglie Virge, l'ha nascosta alle autorità per seppellirla: la donna si è destata dal sepolcro ritornando a casa, come tipico dei vampiri detti Vurdalak. Il flashback finisce a questo punto. Sembra l'ennesima giornata assolata e canicolare, ma avviene qualcosa di inatteso. Morgan si imbatte in un cagnolino e pensa che la povera bestiola potrà alleviargli la solitudine. Così conduce il nuovo amico a casa. Gli analizza il sangue e i risultati provano che è infettato dal patogeno del vampirismo. Così lo elimina impalandolo, quindi lo seppellisce. A questo punto si fa viva una donna. Sopporta la luce del sole, è agile e scattante: la prima cosa che viene in mente al dottore è che possa trattarsi di un'altra superstite alla pandemia, immune al morbo. Le sue speranze sono destinate ad infrangersi, come già nel caso del cagnolino. La donna, il cui nome è Ruth, è infetta dal patogeno vampirico, come le creature uccise quotidianamente da Morgan; tuttavia fa parte di una comunità che ha imparato a usare un vaccino per tenere sotto controllo gli effetti della terribile malattia. Molto meno tolleranti di Ruth, i suoi compagni si organizzano per tendere un'imboscata al cacciatore di vampiri, riuscendo infine a trafiggerlo con una lancia, proprio sull'altare di una chiesa in cui si era rifugiato. Col suo estremo respiro, il moribondo li chiama "mostri", affermando di essere l'ultimo uomo della Terra. Una morte altamente simbolica, come le parole che consacrano la trasformazione del defunto in qualcosa di eterno, di indistruttibile. Un uomo di carne e di ossa può essere ucciso, ma chi potrà mai nulla contro un'idea?

 

Recensione: 
Una notevole bizzarria di questo film è che non si riesce bene a determinare l'identità del suo regista. Con ogni probabilità è corretta l'attribuzione a Ubaldo Ragona; tuttavia non si può nascondere che nella versione americana si specifica che il regista sarebbe invece Sidney Salkow. A quanto pare il regista cambia a seconda delle fonti, fermo restando che Ragona e Salkow sono due persone esistenti e tra loro diverse: non si tratta di un problema di pseudonimi. Pur districandomi assai a fatica nell'immensa supergalassia dei registi, direi, così a pelle, che il film sia da attribuirsi a Ragona: l'idea che sia di Salkow mi ispira un'istintiva ripugnanza. Eppure sono in molti a incarognirsi e ad attribuire il film a Salkow. Vedremo se in futuro saremo in grado di trovare prove che permettano di dirimere la questione una volta per tutte. In ogni caso, chiunque sia il regista, è sicuramente un genio. Le sequenze in bianco e nero trasmettono allo spettatore la più spettrale desolazione di un pianeta che ha subìto morte ontologica. La città un tempo brulicante di vita, ora è ridotta a un ammasso di blocchi di cemento bruciati dal sole che irradia una luce sinistra e mortifera. Le strade polverose, in mezzo alle macerie, sono costellate di corpi senza vita. La disperazione è diventata una proprietà materica, qualcosa che trasuda da ogni singolo atomo. Tutto ciò è sublime. Peccato che il pubblico all'epoca non abbia apprezzato tutto ciò. 

Punti di vista

Il perno attorno a cui ruota l'intera narrazione è ereditato dal romanzo di Matheson da cui il film in analisi è stato tratto: il famoso Io sono leggenda (I Am Legend, 1954). Fin dal Dracula di Bram Stoker e dal Nosferatu di Murnau tutto sembrava lineare, col vampiro che per necessità è un mostro, una deleteria anomalia nata dalla perturbazione delle leggi di Natura. In quanto aberrazione biologica e metafisica, il vampiro è per necessità solo, o comunque parte di una minoranza assolutamente esigua. Non si tiene in alcun conto la legge di propagazione del vampirismo, che - date le modalità di trasmissione del contagio - porterebbe presto il genere umano alla catastrofe: in genere il non-spirato viene neutralizzato, in modo molto conveniente, per la tranquillità di tutti, così non gli è lecito diffondere il contagio del suo peculiare modo di essere.  Persino nel mondo dell'umorismo da animule leggerelle, questa è la norma. Seguono questo canovaccio anche commedie come Amore al primo morso (Stan Dragoti, 1979) - in cui Dracula viene a trovarsi a New York e sposa una splendida modella. Prendiamo poi Un lupo mannaro americano a Londra (John Landis, 1981), ritenuto horror, ma a parer mio più che altro grottesco: l'ontologia in fin dei conti è la stessa. Licantropo o succhiatore di sangue, non c'è differenza. È un mostro immerso nella folla. Il romanzo di Matheson nega alla radice questa inveterata tradizione, cercando di innestare nella Noosfera un nuovo paradigma vampirico. Cambia il concetto stesso di teratogenesi. Come sarebbe visto un essere umano se fosse il solo superstite in un mondo di vampiri simili a zombie? Semplice: sarebbe lui il mostro. 

Un ecosistema vampirico 

La voce del dottor Morgan chiarisce subito, all'inizio della narrazione, un punto cruciale. In un mondo di vampiri, come avviene l'alimentazione? Tradizione vuole che il vampiro, non-morto per eccellenza, si nutra col sangue dei vivi, vampirizzandoli al contempo tramite un meccanismo simile all'infezione. Se vogliamo tagliare con la formulazione canonica del mito vampiresco, facendo del non-morto la normalità e dell'umano l'aberrazione, siamo costretti a ridefinire l'intero ciclo biologico! Se i vampiri non trovano esseri umani a cui succhiare il sangue, deperiscono fino alla morte. Pochi sanno che il vampiro, in caso di necessità, è in grado di sostentarsi anche con altri fluidi corporei, come lo sperma, ma il problema così non si risolve. Ecco le parole del dottor Morgan, intento a compiere la sua usuale perlustrazione mattutina dei dintorni di casa:

"Già. Sono padrone del mondo. Un mondo vuoto e silenzioso. E ancora tanti da bruciare... Ogni giorno di più. Si nutrono col sangue dei più deboli, e lasciano a me i loro corpi per il rogo."

Quindi si è instaurata una catena alimentare in cui vampiro mangia vampiro. Il motore del meccanismo di sopravvivenza è puramente darwinista: chi è meno adatto viene predato e soccombe. Chi perisce in questo modo, è morto per sempre, non resuscita più, proprio come coloro che sono infilzati dai paletti. Un'idea senza dubbio rivoluzionaria. Il dottor Morgan è rimasto indenne alla pandemia di vampirismo per un caso fortuito, forse perché da giovane era stato morso da un pipistrello ematofago a Panama, ricevendo così l'immunità. Essendo la sua condizione assolutamente unica, egli ha un solo destino possibile: l'Estinzione. Non può trasmettere il proprio genoma a un nascituro. Il genere umano non è comunque interamente destinato alla zombificazione: come abbiamo visto, alcuni hanno trovato il modo, tramite un vaccino, di evitare le caratteristiche meno desiderabili della condizione di non-spirati, mantenendo l'intelligenza e l'agilità. Possedendo un'organizzazione sociale, questi mezzi-vampiri possono aspirare a diventare la nuova specie dominante del pianeta. Il solo ostacolo sul loro cammino è proprio Morgan, che infatti viene abbattuto. Queste sono le inquietanti parole che Matheson attribuisce al Superstite della specie umana:

"Il cerchio si chiude. Un nuovo terrore nasce nella morte, una nuova superstizione penetra nell'inespugnabile fortezza dell'eternità. Io sono leggenda".

Il film e il romanzo

Non esistono film che traspongono alla perfezione la fonte scritta da cui sono stati tratti. Non se ne può trovare nemmeno uno in tutta la storia della Settima Arte. Su questo non posso nutrire il benché minimo dubbio. In genere, le pellicole tratte dai romanzi destano le più grandi perplessità da parte degli autori di questi ultimi. È proprio il caso di Matheson, che rimase soltanto in parte soddisfatto dell'opera di Ragona/Salkow. Così scelse, avendo poco fegato e non volendo esporsi, di essere accreditato con uno pseudonimo cui fa difetto ogni originalità: Logan Swanson. Tanto non ha senso nascondersi dietro un dito: se ancora fa discutere chi abbia diretto il film, l'identità di Swanson è certa e riportata ovunque nel Web. Sussistono differenze tra il romanzo e il film, seppur di lieve entità. Il protagonista di I Am Legend si chiama Robert Neville, non Morgan; non è uno scienziato ma un semplice autodidatta con grandi competenze soprattutto nell'etilismo. La pandemia descritta da Matheson è causata da un fantomatico vibrione denominato "vampiris", per cui non si trova cura alcuna: non è presente il pur imperfetto vaccino introdotto a un certo punto nel film. I vampiri nel romanzo sono agili e capaci di arrampicarsi, non hanno alcuna somiglianza con gli zombie. Il finale sembra divergere: Matheson fa morire Neville con una pastiglia letale datagli da Ruth, mentre Morgan viene premiato con una morte che gli merita l'ingresso nel Valhalla. A sentire Valerio Evangelisti (quello dell'orrido Eymerich), The Last Man on Earth sarebbe comunque il film tratto da I Am Legend più vicino alla fonte scritta. Non ho ragione di dubitarne, in ogni caso mi riserverò di approfondire l'argomento quando avrò letto e recensito l'opera di Matheson. 

L'Urbe desolata! 

Il film fu girato a Roma, in particolare nel quartiere EUR. In qualche modo si è trattato di un segno portentoso, funesto e profetico, che non sarebbe sfuggito agli Aruspici dell'Etruria: sono convinto che i politicanti abbiano fatto e facciano tuttora moltissimo per ridurre Roma come la città fantasma in cui Morgan si aggira a impalare corpi di vampiri!

martedì 5 febbraio 2019


2022: I SOPRAVVISSUTI

Titolo originale: Soylent Green
Anno: 1973
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Lingua: Inglese
Durata: 97 min
Rapporto: 2.35:1
Genere: Fantascienza, drammatico, poliziesco
Sottogenere: Postapocalittico, distopico, noir  
Regia: Richard Fleischer
Soggetto: Harry Harrison, dal romanzo Largo! Largo! (titolo
      originale Make Room! Make Room!)
Sceneggiatura: Stanley R. Greenberg
Produttore: Walter Seltzer, Russell Thacher
Casa di produzione: Metro-Goldwyn-Mayer
Fotografia: Richard H. Kline
Montaggio: Samuel E. Beetley
Effetti speciali: Robert R. Hoag, Matthew Yuricich
Musiche: Fred Myrow
Scenografia: Robert R. Benton
Interpreti e personaggi
    Charlton Heston: Detective Thorn
    Leigh Taylor-Young: Shirl
    Chuck Connors: Tab Fielding
    Joseph Cotten: Simonson
    Brock Peters: Hatcher
    Paula Kelly: Martha Phillips
    Edward G. Robinson: Sol Roth
    Stephen Young: Gilbert
    Mike Henry: Kulozik
    Lincoln Kilpatrick: Padre Paul
    Roy Jenson: Donovan
    Leonard Stone: Charles
    Whit Bissell: Santini
    Celia Lovsky: Ente Supremo
Doppiatori italiani
    Paolo Ferrari: Detective Thorn
    Melina Martello: Shirl
    Vittorio Di Prima: Hatcher
    Benita Martini: Martha Phillips
    Corrado Gaipa: Sol Roth
    Silvio Spaccesi: Charles
    Wanda Tettoni: Ente Supremo
    Romano Malaspina: Speaker
Premi e riconoscimenti     1975 - Saturn Award
        Miglior film di fantascienza
    1974 - Premio Hugo
        candidatura alla miglior rappresentazione drammatica
    1974 - Science Fiction and Fantasy Writers of America
        Miglior film
    1974 - Avoriaz Fantastic Film Festival
        Miglior film
Box Office: 3,6 milioni di dollari USA

Trama:
Nell'Anno del Signore 2022 la Terra, sfruttata fino all'estremo e sovrappopolata, fatica a sorreggere il peso del brulicante genere umano. New York è una spaventosa megalopoli in cui vegetano in asfissia, compressi come sardine in una scatola, ben 40 milioni di persone. L'atmosfera è satura di gas serra, il clima è torrido e la temperatura nella Grande Mela è costantemente al di sopra dei 30 °C. Come si può immaginare senza troppa fatica, un problema cruciale è la produzione di cibo per le masse, oltre alla logistica della sua distribuzione. Pochissimi plutocrati possono permettersi cibo fresco: non soltanto la carne, più preziosa dell'oro, ma anche le verdure hanno un costo esorbitante, a causa della carenza di terra coltivagile e di materie prime. La base della scarsa alimentazione per i meno fortunati è costituita dalle gallette di Soylent, un concentrato nutriente prodotto dall'omonima corporazione industriale e disponibile in varie versioni: può essere giallo, rosso o verde. Il Soylent verde, il più pregiato e disponibile in scorte limitate, è ottenuto dal plancton - almeno, così dichiarano i produttori. Tutto è in stato di fatiscenza, perché non esistono più le competenze necessarie per riparare le macchine, la cui usura esacerba giorno dopo giorno l'esistenza della popolazione, causando blackout e malfunzionamenti di ogni genere. Nei quartieri altolocati la vita è certo migliore - vi si trovano lussi come l'aria condizionata, l'acqua corrente e il maggiordomo di palazzo - ma a prezzo dello spaventoso aumento dell'entropia nell'ambiente esterno. In questo scenario angosciante opera il poliziotto Frank Thorn (magistralmente interpretato da Charlton Heston), che deve indagare sulla morte di un magnate delle industrie Soylent. L'agente convive con l'anziano Solomon "Sol" Roth, un uomo di cultura enciclopedica, che ricorda molte cose dei vecchi tempi dell'abbondanza e del consumismo. Le indagini sul plutocrate assassinato si rivelano subito difficili. Nel corso dei suoi sopralluoghi sul teatro del delitto, l'investigatore fa la conoscenza, anche carnale, della bella Shirl, una ragazza in dotazione all'appartamento, proprio come un soprammobile. A un certo punto, scavando nella vita del dirigente ucciso, si scopre un rapporto che contiene una notizia ferale: l'esaurimento delle risorse di plancton. Gli eventi precipitano. L'aziano Sol si reca a un Tempio per il suicidio assistito: raggiunto appena in tempo dall'amico, prima di morire gli parla della sua scoperta, incitandolo ad andare fino in fondo. L'impavido Thorn decide così di introdursi negli stabilimenti della Soylent per appurare la verità, che gli appare con il volto di Medusa: il Soylent verde è fatto con i cadaveri!  


Recensione:
Il capolavoro di Fleischer, drammaticamente profetico, dimostra una profonda conoscenza delle leggi di Natura e in particolare del secondo principio della termodinamica. In un sistema isolato, quale può essere ben considerato il nostro pianeta, l'entropia (ossia il disordine, il kipple) è in aumento. Possiamo certo diminuire localmente l'entropia, ma per farlo dobbiamo compiere lavoro, e il risultato sarà un ineluttabile aumento dell'entropia complessiva del sistema. Facciamo un paio di esempi.
1) Se dobbiamo refrigerare un appartamento afoso, diminuendo la temperatura interna da 30°C a 15 °C e rimuovendo l'umidità, dobbiamo consumare energia elettrica. Il condizionatore aumenterà la temperatura all'esterno dell'appartamento, condenserà il vapor acqueo in acqua liquida che sarà rimossa tramite un tubicino. Minor entropia all'interno, maggior entropia all'esterno, energia elettrica consumata. Un eccessivo uso di condizionatori farà collassare la rete elettrica. 

2) Le Maldive sono la meta ideale per viaggi romantici, molto apprezzata dalle coppiette. A sentire i turisti, quelle isole sono un autentico paradiso in cui tutto è pulito e non c'è l'ombra di una cosa che dia fastidio. Questo perché c'è un'isola lontana, che non viene mostrata ai turisti, in cui finisce tutta l'immondizia prodotta: tonnellate di plastica, di umido e di merda sotto l'implacabile luce della fornace solare! 
Va da sé che più aumenta la popolazione planetaria, più le condizioni di vita saranno difficili. Non soltanto si consumeranno le risorse, che non possono durare all'infinito, ma si produrranno quantità immani di merda! Merda di ogni tipo: non solo feci in senso stretto, ma anche ogni altro genere di rifiuti, cadaveri inclusi. Merda che dovrà essere rimossa: per farlo sarà necessario consumare altre risorse, in un circolo vizioso perverso. Finché non verrà a qualcuno l'idea di recuperarla, sempre spendendo energia, trasformandola così in cibo: è l'economia circolare! 
Soylent Green ha proposto per la prima volta una tragica riflessione,  facendo suonare un campanello d'allarme nel cervello delle plebi lobotomizzate dal culto materico dei consumi. Purtroppo il suono di quel campanello non è stato abbastanza forte: tanto basta dire che è fantascienza (cioè pornografia o sozzura), così tutto si sistema, l'intorpidimento della pancia piena è restaurato e la mente non si risveglierà più. Eppure qualcosa di disturbante e di subliminale resta a ronzare, come un moscone irrequieto, anche quando l'oblio ha cancellato la consapevolezza del disastro incombente.

Il mito del cambiamento di rotta

La verità che il film di Fleischer ci mostra è una sola: siamo spacciati. Non esistono scappatoie praticabili. Eppure molti continuano a fantasticare, saturando l'aria di cazzate.
Lo si sente dire sempre più spesso: sarà una catastrofe se non si invertirà la rotta. Hanno cominciato a strepitare con l'accordo di Parigi, nel 2015: l'aumento della temperatura media globale deve essere mantenuto ben al di sotto dei 2 °C, realizzando in tempi rapidissimi una società a zero emissioni di gas serra. Poi è arrivata l'orrida bambola voodoo svedese, Greta Thunberg, con quel suo ghigno stregonico, a strillare come un'ossessa che le emissioni di gas serra devono cessare subito, immediatamente. Si rivolge ai politici, strepitando, facendo pressing. Migliaia di coglioni pedalano senza sosta per alimentare qualche lampadina, senza capire il nòcciolo del problema. Si parla di "subito", di "immediatamente", come se esistesse la bacchetta magica di Harry Fotter. E come contano di fare? Non capiscono che i politici non faranno mai nulla? E come potrebbero fare qualcosa? Dovrebbero forse far cessare la produzione e la distribuzione di energia elettrica? Lasciare centinaia di milioni di persone senza luce, gas e acqua corrente? Impedire a tutti di lavorare, di spostarsi? Costringere tutti a morire d'inedia? Oppure affrontare rivolte di massa, da parte di gente che d'inedia non vuol morire? A questo punto qualcuno strepita che bisogna passare alle fonti rinnovabili, a sistemi sostenibili. È tutta retorica, composta da illusioni e da balle invereconde! Come contano di alimentare un'area metropolitana come quella di Milano usando pannelli solari? Il silicio va estratto, affettato, lavorato. Per fare tutto ciò bisogna emettere gas serra. Per fabbricare una torre eolica bisogna fondere grandi quantità di acciaio, per ottenere un macchinario che nel corso della sua vita non produrrà mai tanta energia "pulita" come quella sporca usata per costruirlo. Cosa intendono fare? Mobilitare la popolazione mondiale per produrre - inquinando - miliardi di pannelli solari? Sanno quanto ci vorrebbe per installarli dovunque, per metterli in opera? Li si dovrebbe trasportare, bruciando combustibili fossili o consumando energia prodotta da combustibili fossili, in un circolo vizioso. Per poi scoprire che tali pannelli, essendo neri, alterano l'albedo del pianeta, con conseguenze imprevedibili.
Soylent Green non concede nulla al mito del cambiamento di rotta, checché ne dicano i critici superficiali. Il pessimismo ambientale che vi viene affermato è assoluto, non dà speranza alcuna. Non solo Frank Thorn, a dispetto delle sue buone intenzioni e del suo amore per il genere umano, non riesce nel suo intento, ma viene deriso e ritenuto un pazzo: lo portano via in barella, non una sua parola che riesca a instillare un solo dubbio nella mente dei diseredati e degli afflitti che lo circondano. Raccolgo l'urlo di Thorn e faccio un annuncio, come il nocchiero che annunciò la morte di Pan a Palode: "Per conoscere il futuro della Terra, guardiamo Venere!" 


Un appello inascoltato 

Riporto a beneficio di tutti le toccanti parole del finale del film: 

Thorn: "Il Soylent è fatto con i corpi dei morti! È fatto coi cadaveri quello che mangiamo! Ci alleveranno come bestiame da macello, tra poco. Tu devi dirlo! Devi dirlo a tutti!"
Hatcher (in modalità scettica): "Sì, te lo prometto, andrò all'Ente Supremo." 
Thorn: "Bisogna dirlo! Hai capito, Hatch! Tutti devono saperlo! Il Soylent è fatto con i morti! Dovete fermarli, prima che sia troppo tardi!!"


Il timore superstizioso generato dalla pazzia e dalle parole dei febbricitanti è sempre stato di immenso profitto per i politici. Far passare qualcuno per folle, per delirante, permette quasi sempre di mettere a tacere la Verità.

Etimologia di Soylent 

A quanto pare ben pochi si sono chiesti quale sia l'origine del nome Soylent. Tutto è molto semplice: si tratta dell'unione tra soy "soia" e lentil "lenticchia". Tecnicamente parlando non è un portmanteau o parola macedonia, bensì una semplice giustapposizione di parole con semplificazione fonetica: cade soltanto la consonante liquida finale di lentil. Nel romanzo di Harry Harrison, Largo! Largo! (1966), il termine aveva un suo motivo ben preciso: la maggior parte delle cosiddette "bistecche soylent" (soylent steaks) erano prodotte proprio a partire da soia e lenticchie, almeno stando alla macchina pubblicitaria della corporazione che le produceva. La consapevolezza dell'etimologia, pur così lineare, si è persa presto. Passando dall'opera di Harrison al film, il nome è stato conservato anche in assenza di riferimenti alla sua origine. Dal film, il Soylent è presto entrato nella cultura popolare americana. Quando nel 2013 l'ingegnere elettronico statunitense Rob Rhinehart ha inventato un beverone a sua detta in grado di sostituire i pasti, lo ha battezzato proprio Soylent, in omaggio al film di Fleischer. 

Donne, sesso e reificazione

In un mondo sovrappopolato non c'è alcuno spazio per l'Utopia, ossia per le baggianate di quei decerebrati che reputano buona la natura dell'essere umano. Gli istinti di una creatura predatrice come Homo sapiens troveranno sempre modo di fare il loro corso, fino a scardinare ogni gabbia in cui il buonismo politically correct pretende di imprigionarli. L'educazione civica è mentitrice. Per vedere chiaramente le cose bisogna fare propria l'educazione cinica. Riconosciuto che il sesso è un bisogno fisiologico, ecco che nella società di Soylent Green la donna viene ridotta semplicemente a una cosa, a una macchina per estrarre lo sperma all'uomo. La bellissima Shirl è una proprietà a tutti gli effetti. Assegnata a un appartamento di un condominio, non ha più diritti di un oggetto come un comodino o un lampadario. Il proprietario dell'appartamento è anche il proprietario della donna e ne può disporre come meglio desidera. Può sottoporla a pulsioni sadiane, ad esempio riducendola a un pitale, se a questo lo spinge la propria indole perversa. Il sentire della schiava è irrilevante: viene usata come se fosse inanimata, come se non percepisse e non interpretasse nulla della realtà circostante. Quando un proprietario dell'appartamento muore, la donna passa in eredità al nuovo proprietario. Tutto ciò è come uno schiaffo dato agli utopiani, i cui sogni non hanno alcuna potenzialità di essere realizzati in un mondo al collasso.  

Il Tempio

Non mi interessa se qualcuno riterrà scandalose le mie parole. Invidio la morte di Heinrich Himmler, perché pochi al mondo hanno avuto un trapasso così immediato e indolore. Invidio la capsula di cianuro che non potrò mai avere. L'Italia dei servizi al collasso mi farà morire come un cane, rantolando nell'agonia in mezzo alla merda e al vomito. Ringrazio di tutto cuore Richard Fleischer per l'immagine confortante del Tempio in cui Sol Roth si reca per ritornare alla Casa del Padre. Un ambiente pulito e rilassante, in cui si viene avvolti in bianche vesti da catecumeno. Una sacerdotessa di Thanatos, pietosa e misericordiosa come nessun Dio saprà essere, porge quindi una coppa piena di nepente, una pozione che permette di deporre ogni dolore, ogni ambascia. La musica di Beethoven e le immagini di una Natura incontaminata, ormai irrimediabilmente perduta, sono concepite per far rilassare l'anziano uomo in procinto di congedarsi dagli orrori del mondo. Le lacrime che l'agente Frank Thorn versa per il caro amico non sono una finzione scenica: Charlton Heston era il solo a sapere che Edward G. Robinson aveva un tumore che non gli avrebbe lasciato scampo.  

La Chiesa

In nettissimo contrasto con la quiete e alla Pace del Tempio, c'è l'impressionate concentrazione di sofferenti nella chiesa, edificio opprimente la cui natura è simile a quella di un lazzaretto per appestati. Ormai il prete non si occupa più di teologia e neppure di liturgia. Non predica più, non ne avrebbe nemmeno il tempo, per non dire le forze. Non sembra che amministri più neppure i sacramenti: il suo solo compito sembra essere quello di nutrire i derelitti... col Soylent. Ovvio, non è disponibile altro. La Chiesa di Roma, che ha sempre istigato alla prolificità incontrollata, per contrappasso si trova sommersa da cadaveri deambulanti. Non bisogna credere che la sua opera sia misericordiosa: compito del prete non è realmente alleviare il dolore delle genti, ma prolungarlo il più possibile il nome della più terribile e nociva di tutte le dottrine, quella della "sacralità della vita". Guardando la cura con cui l'ecclesiastico sudato e frenetico si aggira tra i malati e i moribondi, sembrerebbe che il mio sia un giudizio ingeneroso. Eppure non è così. L'oceano di dolore è una delle tante forme di entropia che dilaga nell'Universo, ritorcendosi contro chi la produce - e portando danno a tutti. Non puoi lasciare gli animali in una stalla senza rimuovere le feci e pretendere che non ne siano soffocati.   

Altre recensioni e reazioni nel Web 

Interessante la recensione di Gabriele Repaci, apparsa su www.storiadeifilm.it


Ci sono un bel po' di recensioni sul sito www.filmtv.it, consultabili a questo indirizzo url:


Sono rimasto schifato da una recensione negativa. Ecco il link a un flame generato dall'intervento inverecondo di un troll, sospetto natalista. 


Anche se non sono poi così numerosi, questi troll cornucopiani, che vorrebbero soffocare la Terra sotto un oceano di feti, ogni tanto depongono nel Web i loro fetidissimi stronzi concettuali. Eccone un altro:


Indagando, forse si scoprirebbe che questi provocatori sono seguaci delle dottrine dell'homunculus seminale. Sono angosciati perché ogni emissione di sperma è per loro un massacro di esseri umani già formati: vorrebbero che ogni eiaculazione avesse come risultato la produzione di migliaia di bambini, ovviamente destinati a diventare... Soylent verde!

giovedì 31 gennaio 2019

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE LINGUE IMPOSSIBILI: IL CASO DEL PIRAHÃ

La lingua Pirahã (o Mura-Pirahã) è parlata dall'omonima esigua popolazione che vive in una zona remota dell'Amazzonia brasiliana. Unica superstite nota delle lingue Mura, prive di parentele esterne dimostrabili, ha suscitato un vespaio di polemiche tra i settari chomskiani per via della sua stravagante natura, che sembra violare un principio capitale della cosiddetta grammatica universale. La notizia è circolata in tutto il mondo: la lingua dei Pirahã ignora la ricorsività linguistica. Vediamo di riassumere le informazioni rilevanti nel modo più sintetico possibile.

1) La lingua Pirahã ha una struttura fonetica particolarmente semplice: il suo inventario di fonemi è in assoluto uno dei più poveri finora riscontrati tra gli idiomi del genere umano. Le vocali sono soltanto tre: /a/, /i/, /o/. Alcuni fonemi consonantici hanno allofoni molto diversi tra loro, ma questo non cambia le cose, trattandosi di varianti condizionate dalla posizione nella parola (es. si pronuncia [m-] all'inizio di una parola e [-b-] nel mezzo; si pronuncia [n-] all'inizio di una parola e [-g-] nel mezzo, etc.). Esiste una consonante glottidale /Ɂ/, che nell'ortografia più comune è trascritta con x.

2) La lingua Pirahã, come quella dei Nambiquara, non possiede veri numerali e in ogni caso non è possibile designare quantità maggiori di due. È stata definita "una lingua senza numeri". A quanto riportato nel 1986 da Daniel L. Everett, un missionario che passò molti anni tra quelle genti e infine divenne ateo, ci sono soltanto due parole per esprimere concetti attinenti ai numeri; per giunta il loro aspetto fonetico è estremamente simile, essendo distinte soltanto dall'intonazione. Esse sono hói "uno" e hoí "due", "paio". Nel 2008, in seguito alle ricerche eseguite sul campo da Michael C. Frank, si è appurato che in realtà hói più che "uno" significherebbe "poco" o anche "meno", mentre il quasi omonimo hoí significherebbe "più di uno", "qualche". Per fissare le idee, se dessimo a un Pirahã dieci savoiardi e subito dopo ce ne riprendessimo due, i biscotti rimasti sarebbero indicati con la parola hói - proprio perché sono meno di quelli che c'erano prima. Ogni quantificazione risulta impossibile. Stando così le cose, si capisce che concetto stesso di numero tra i Pirahã è a dir poco nebuloso. Possiamo dire che le api hanno le idee più chiare!

3) Nella lingua Pirahã manca qualsiasi distinzione tra singolare e plurale nei sostantivi e negli aggettivi. I pronomi personali plurali umani si formano aggiungendo ai pronomi personali singolari una sorta di suffisso, -a(i)tiso, che non sono riuscito a ricondurre a parole per indicare "molti" o simili. I pronomi di terza persona per indicare esseri non umani sono invariati al plurale. Tra l'altro, i pronomi personali umani sembrano proprio essere prestiti, forse non troppo remoti, dalla Língua Geral Amazônica (Nheengatu), una lingua del gruppo Tupí che un tempo era diffusissima in Brasile: serviva da mezzo di comunicazione tra i vari gruppi nativi ed era parlata persino dai coloni di ascendenza portoghese.

ti "io" (pron. [tʃi]) deriva da Nheeng. se-, ixé 
gi, gixai "tu" (pron. [ni], [niʔai]) deriva da Nheeng. ne-, indé 
hi "egli" deriva da Nheeng. i-,


I pronomi plurali di prima e seconda persona plurale della lingua Nheengatu, che non rientrano nelle categorie logiche dei Pirahã, non sono stati presi a prestito: ne sono stati prodotti di nuovi a partire da quelli singolari. 

tiatiso "noi", da ti "io" - diverso da Nheeng. iané-, iandé 
gixaitiso "voi", da gixai "tu" - diverso da Nheeng. pe-, penhẽ  
hiaitiso "essi", da hi "egli" - diverso da Nheeng. ta-, aintá 


4) Nella lingua Pirahã mancano termini per designare i colori. Gli unici aggettivi usati possono essere tradotti con "chiaro" e "scuro", non permettendo di specificare ulteriori qualità cromatiche. In dizionari presenti nel Web ho trovato tuttavia più di due parole: xaaíbi "chiaro", xíbigái "scuro" (ma anche "oscurità, ombra") e kopái "nero". Non basta: in un suo studio Everett riporta tio "scuro" (glossato con "dark") e ha incluso nel suo vocabolario diversi termini per indicare i colori. Si tratterebbe in realtà di frasi descrittive: per dire "rosso" bisogna ricorrere a una proposizione complessa che significa "essere come il sangue". È anche possibile che i Pirahã abbiano fabbricato queste frasi suppletive appositamente per rispondere alle domande degli etnologi, non perché sentissero la necessità di esprimere concetti pur così elementari. Everett deve aver mostrato qualcosa di rosso a un Pirahã, continuando ad assillarlo, chiedendogli che parola usava la sua gente per chiamare quell'oggetto rosso, fino ad estorcere qualcosa che tradotto suona "è come il sangue". Resta il fatto che tutto questo materiale andrebbe passato al vaglio.

5) La lingua Pirahã ha un sistema particolarmente semplice per designare la parentela. Anzi, parrebbe il più semplice finora noto, sempre prestando fede ad Everett. Non esistono parole distinte per indicare "padre" e "madre", ma solo una parola per dire "genitore": baíxi. Qualcuno obietterà che anche noi possediamo la parola "genitore" (e gli anglofoni hanno "parent"), che va bene per entrambi i sessi. Il punto è che i Pirahã non hanno i mezzi linguistici per distinguere tra "padre" e "madre". In concetto stesso di matrimonio come unione tra i sessi, fondamentale nella cultura cristiana, non ha per loro importanza alcuna.

6) Per esprimere il complemento di possesso, la lingua Pirahã usa mezzi abbastanza elementari: si prefigge il pronome personale non modificato al nome della cosa posseduta. Se c'è un possessore, il suo nome va prima del pronome, anch'esso non modificato. Questi due esempi sono riportati su Wikipedia (2019) e con ogni probabilità presi dall'opera di Everett:

paitá hi xitóhoi "i testicoli di Paita"
    (lett. "Paita, egli, testicoli")


ti kaiíi "la mia casa"
    (lett. "io, casa")


Non sono possibili nidificazioni possessive. Non è possibile, servendosi di un'unica stringa, tradurre una proposizione come "il legno dell'asta della freccia di Paita". Si rende necessario formulare in modo diverso i concetti, ad esempio in questo modo: "Paita ha una freccia. Questa è l'asta della freccia. Questo è il legno dell'asta".

7) Nella lingua Pirahã non è possibile alcuna struttura ipotattica e si notano soltanto limitatissimi esempi di paratassi. Non esiste alcuna congiunzione: il più comune esempio di paratassi consiste nel giustapporre due brevi frasi. Non esiste la possibilità di usare un unico verbo per due soggetti, come ad esempio in frasi come "Giovanni e Maria vengono". È necessario tradurre "Giovanni viene. Maria viene", e considerare questa come paratassi rudimentale. Everett ha dato inizio all'annosa controversia del suffisso -sai, che egli credeva un formante ipotattico, qualcosa di corrispondente all'italiano "che", "come", "quando" e all'inglese "that", "who", "which", "when", o addirittura uno strumento per sostantivare i verbi, come il famoso suffisso inglese -ing. Questi sono alcuni esempi dell'uso del suffisso -sai:

hi ob-áaxái kahaí kai-sai "egli sa davvero come fare frecce"
(dove kahaí "freccia"; kai- "fare", donde kai-sai "come fare", "facendo", etc.)  


tiobáhai hóoí ai-sai xabahíoxoi "la produzione di archi dei bambini non è corretta"
(dove ai- somiglia a kai- "fare" e potrebbe esserne una variante, anche se non mi è chiaro come una consonante /k-/ possa sparire)


pii boi-sai ti xaháp-i-hiabi-haí "se piove non verrò"
(dove pii "acqua", boi- "venire", i.e. "piovere", donde pii boi-sai "piovendo")


hi gáí-sai xaibogi ap-a-áti "egli ha detto di andare velocemente"
(dove g
áí- "dire", donde gáí-sai "dicendo", "avendo detto")

Alla fine lo stesso Everett, dopo aver approfondito la sua conoscenza della lingua, è giunto a una conclusione sconcertante e anti-chomskiana: nemmeno questo semplice suffisso -sai marca una costruzione ipotattica, si tratta soltanto di grossolana paratassi. Nessun formante in grado di sostantivare un verbo: si tratta soltanto di una particella enfatica. Un caso di tremendo equivoco, in cui colui che studia una lingua esotica la interpreta servendosi delle categorie della propria. Il Pirahã non permette frasi nidificate nemmeno a un singolo livello. La motivazione ipotizzata dall'antropologo è quasi lapalissiana: non avendo il concetto di numero (che è stato riscontrato persino nei pulcini!), i Pirahã non hanno nemmeno bisogno della ricorsività linguistica.  

8) Secondo quanto sostenuto da Mario Antonio Gonçalves, i Pirahã sarebbero in grado di apprendere il portoghese, lingua romanza, di chiaro ceppo indoeuropeo, notoriamente dotata di ricorsività possessiva, oltre che di costruzioni ipotattiche e paratattiche. A detta di tale autore, la maggior parte degli uomini di questo popolo sarebbe in grado di comprendere il portoghese. In realtà queste dichiarazioni non corrispondono a quanto dichiarato da Everett, la cui esperienza è molto più vasta. Si è potuto appurare che i Pirahã sono in grado di apprendere soltanto un lessico portoghese molto rudimentale. Utilizzano come lingua franca per comunicare con altri gruppi tribali uno strano idioma il cui vocabolario include parole portoghesi e Nheengatu, con grammatica rigorosamente Pirahã - cosa notata anche da Gonçalves - il che non toglie che la comunità sia in buona sostanza descrivibile come monolingue. Poche parole portoghesi sono state incorporate nella lingua nativa, come ad esempio kóópo "tazza" (< port. copo) e bikagogia "affare" (< port. mercadoria).  

9) Il verbo nella lingua Pirahã non è poi così semplice, pur non distinguendo il plurale dal singolare e pur specificando la persona tramite i pronomi preposti alla radice. Esiste la possibilità di formulare frasi transitive, il cui ordine è SOV (soggetto-oggetto-verbo). Così abbiamo per esempio: 

ti xíbogi ti-baí "io bevo il latte" (dove il verbo è ti- "bere", essendo -bai un suffisso intensivo)

ti gi kapigaxiítoii hoaí "io ti do la matita" (dove il verbo è hoai "dare")

Impressionante è il numero di suffissi (o meglio di affissi) che servono ad esprimere l'aspetto del verbo. Quello che si guadagna in semplicità con l'assenza di forme coniugate a noi familiari, lo si guadagna in complessità con questi bizzarre formazioni. Una classificazione di affissi verbali si deve a Sheldon (1988). Eccone alcuni: 

-boi (causativo / incompletivo)
-boiga (causativo / completivo)
-hoi (incoativo / incompletivo)
-hoaga (incoativo / completivo)
-aip (futuro / da qualche parte)
-aop (futuro / altrove)
-aob (passato)
-xiig (continuativo)
-ta (ripetitivo)
-ab (durativo)
-sog (desiderativo)
etc. 


L'uso del passato e del futuro deve essere ben peculiare, visto che tali genti non parlano di eventi troppo distanti nel tempo. Resta il fatto che né gli affissi verbali, né la struttura SOV delle brevi frasi transitive, possono essere etichettate come "ricorsività" allo scopo di salvare la teoria della grammatica generativa. Farlo sarebbe un atto di disonestà intellettuale.

I Pirahã e la religione 

Riporto in questa sede un intervento che mi è parso particolarmente significativo. Invito tutti a leggerlo con attenzione. 


Maurizio Pistone    
02/04/12

Non so se il signor Everett ha studiato la storia delle missioni, e in particolare la storia delle missioni in Brasile. Ma proprio lì, quasi quattrocento anni fa, alcuni sui colleghi cattolici (non è detto quale sia la religione di Everett, ma mi sembra di capire che sia un protestante) si trovarono di fronte a una situazione imbarazzante.

I missionari cattolici, che avevano studiato letteratura classica, immaginavano di trovare presso le tribù "pagane" credenze che in qualche modo fosse riconducibile a qualcuna delle religioni che avevano preceduto il cristianesimo.

Per loro questo era molto importante anche da un punto di vista teologico. Una delle prove tradizionali dell'esistenza di Dio è il consensus gentium. Ogni popolo, per quanto malvagio e perverso (e chi non è cristiano è ovviamente perverso e malvagio) ha comunque un'idea di Dio, una qualche forma di religione. Trovare popoli che non hanno idee riconducibili all'idea euromediterranea di "Dio" e di "religione", per loro fu fonte di infinito smarrimento. Da una parte sembrava preclusa la possibilità di comunicare con questi popoli: come si fa a tradurre la Bibbia in una lingua che non ha i termini base per esprimere il senso religioso? Ma la loro stessa fede sembrava messa in dubbio. Alla fine alcuni di loro, riscontrando presso quasi tutte le popolazioni, se non una qualche idea di Dio, almeno delle pratiche esorcistiche per allontanare il male, conclusero che, se non è universale l'idea di Dio, è universale quella del Demonio.

Dall'articolo sembra di capire che la prima scoperta di Everett sia appunto che queste persone non hanno nessun bisogno di essere convertite al cristianesimo. Per un missionario, è chiaramente una tragedia infinita. Quello che si dice della lingua (di cui so solo quello che ho letto in quell'articolo) in fondo è prevedibile. Popolazioni che vivono secondo modalità di caccia e raccolta, non hanno una coscienza del trascorrere del tempo. Vivono nel presente. Non coltivano. Non conservano la carne (questo punto mi sembra decisivo). Non pianificano la loro vita, per questo non hanno bisogno di strutture logiche e linguistiche complesse. Non hanno, presumibilmente, un'idea di proprietà privata. Non so se mancano del tutto dell'idea di numero, come è detto nell'articolo, ma è chiaro che la numerazione e il calcolo  sono strettamente legati all'idea di proprietà: "Dove sono i miei teschi di tapiro? Ne avevo diciotto, li ho contati proprio ieri, e adesso ce ne sono solo quindici! Chi mi ha rubato i miei teschi di tapiro?" Purtroppo nell'articolo non viene detto nulla sulla struttura familiare, che però nelle popolazioni che vivono a quello stadio di civiltà deve essere piuttosto lasca: "Quante mogli hai? Quanti figli hai?" "Eh... tanti..."

Insomma, non vorrei fare troppo l'analista dilettante, ma mi sembra che il signor Everett se la sia presa con Chomsky per non dover prendere di petto il Padreterno.  

Penso che il problema sia molto più profondo di quanto il Pistone possa immaginare. 

Interpretazione di Everett e reazione chomskiana 

Secondo Everett la lingua dei Pirahã sarebbe un esempio di idioma primordiale. La teoria da lui sostenuta implica che l'origine del linguaggio simbolico umano sia da ricercarsi nella specie Homo erectus. Il Pirahã sarebbe dunque un campione significativo delle lingue più antiche degli ominidi  dotati di sufficiente complessità cerebrale per articolare suoni e pensare con simboli, lingue anteriori alla stessa diffusione di Homo sapiens, ossia preadamitiche. Le sue peculiarità dimostrerebbero che le lingue sono nate come strumento di comunicazione e non di computo, come invece sostenuto da Chomsky e dai suoi mirmidoni. I Pirahã sarebbero rimasti talmente isolati da mantenere una cultura e un mondo concettuale non influenzato da sviluppi che si sono imposti nella maggior parte dell'umanità. In realtà non esistono lingue primitive. Questo ci dice l'evidenza. Anche il Pirahã è il risultato di una continua evoluzione fonetica e semantica che dura dalla notte dei tempi, a partire da una protolingua preistorica che oggi sarebbe irriconoscibile. Nonostante l'estrema lontananza dai nostri schemi logici e le sue carenze, dà comunque prova di una sua intrinseca complessità. A quanto ho appreso, Chomsky ha reagito a queste tesi in modo furibondo, accusando Everett di essere un "ciarlatano". Cercando in tutti i modi di occultare lo scandalo, il linguista ashkenazita idolatrato dai radical chic ha sostenuto in sintesi qualcosa di questo genere: i Pirahã sarebbero predisposti dalla Natura alla comprensione di proposizioni ricorsive, come tutti gli esseri umani, anche se poi per qualche misterioso, imperscrutabile motivo hanno deciso di non servirsene; potendo enumerare gli enti, avrebbero scelto di non farlo, a causa di una qualche specie di agnosia. 

Ordalia su Chomsky!

Spingo ogni ragionamento ai suoi limiti. Così, partendo dalla teoria di Noam Chomsky, vedo dove ci condurrebbe se restasse passo dopo passo coerente con le proprie premesse. Il risultato ha tutto il sapore del paradosso, come mi accingo a dimostrare. Appurato che per i grammatici generativi le lingue impossibili sono quelle che non hanno la ricorsività, e che tutte le lingue umane hanno la ricorsività (questo è il dogma fondante della loro setta), essi sono tenuti a una deduzione potenzialmente devastante: la lingua Pirahã non è una lingua umana. Sarebbe quindi d'obbligo postulare, se si portassero alle estreme conseguenze le dottrine chomskiane, che i Pirahã non sono realmente esseri umani, bensì ominidi. Questi poveri nativi si dovrebbero quindi ascrivere a una specie ominide finora sconosciuta, che potrebbe benissimo essere etichettata come Homo nambiquarensis pirahã. Oppure dovremmo pensare che i Pirahã siano sì appartenenti a Homo sapiens, ma che abbiamo vissuto così a lungo con ominidi di specie diversa da adottare una lingua non umana? Avrebbero perso una parte del corredo logico umano stando con esseri che tecnicamente sarebbero definibili come "subumani"? Va da sé che simili conclusioni non sarebbero soltanto definibili come razzismo: saremmo addirittura di fronte a un caso di infraspeciazione. Dunque il chomskismo, se si ammettesse la natura non ricorsiva del Pirahã, porterebbe all'infraspeciazione. Curioso che il mondo intellettuale dei Figli Americani di Ashkenaz, così impegnato sul fronte dell'antirazzismo e della democrazia, produca poi simili gemme, tali da fare impallidire le dottrine di Gobineau. Tra Noam Chomsky e Philip Roth, direi che non so chi ritenere il più abile produttore di vasi di Pandora.