giovedì 13 giugno 2019

LA MORTE NON BARA

“Quindi lei mi sta dicendo che mia moglie è un agente del Mukhabarat?”
“Questo è quanto.”
L’uomo seduto di fronte a me si prese la testa fra le mani.
“Fossi in lei non ne farei una tragedia.”
“Eh già, dopo dieci anni di matrimonio scopro che mia moglie lavora per i servizi segreti iracheni e secondo lei non dovrei fare una piega!”
“La prenda con filosofia.”
“Non dica sciocchezze!”
“Senta, lei ha due opzioni: fingere di non sapere e continuare la vita di sempre. Oppure dire a sua moglie che sa… e poi prendere un bel respiro.”
“Cosa intende dire?”
“Qual è il suo record di immersione in apnea?”
“Non capisco.”
“Mezz’ora sott’acqua resiste?”
“Certo che no.”
“E allora le suggerisco la prima opzione. Grazie per il whisky.”
Vuotai il bicchiere, gli lasciai il conto da pagare e me ne andai. Passando per viuzze laterali poco frequentate, tornai in agenzia. Ne avevo rilevato la proprietà dal mio ex principale, ammalatosi di sclerosi laterale amiotrofica. Livia, la segretaria, era passata alle mie dipendenze.
“Ho provato a chiamarla ma suonava a vuoto.”
Mi ricordai in quell’istante di aver silenziato il cellulare.
“Ci sono novità?”, chiesi.
Livia sorrise in modo enigmatico e indicò il monitor del pc. Mi avvicinai alla scrivania e diedi un’occhiata.
Sulla home page del Corriere spiccava un titolo: “Ucciso il rettore dell’Università di Pavia”.
Mi ci vollero alcuni istanti per riprendermi dallo sbigottimento.
L’articolo conteneva dettagli sconcertanti: il professor Alessio Frugoli era stato ritrovato cadavere in riva al Ticino, in zona Canarazzo, a pochi km dalla città. Sul suo corpo, evidenti segni di torture.
Chiamai subito Lello.
“Hai saputo?”
“Ho saputo.”
“Quando possiamo vederci?”
“Alle 15 in Piazza della Scala.
“Ok”.
Lello si era trasferito a Milano da un anno, in un bilocale situato in Viale Zara, ereditato da suo zio. Quando mi aveva parlato del trasloco credevo scherzasse. Invece era serissimo.
Arrivai in relativo orario. Lello mi aspettava davanti all’ingresso delle Gallerie d’Italia.
“Andiamo in un posto che so io”.
Lo seguii per un discreto tratto di strada. Zoppicava, segno che la sua artrite era andata peggiorando.
Si infilò in un bar che non conoscevo, salutò il proprietario e ordinò una bottiglia di bianco. Ci sedemmo a un tavolo d’angolo.
 “Vedrai che casino verrà fuori… stavolta non potranno nascondere la polvere sotto il tappeto.”
 “Secondo te perché lo hanno scaricato al Canarazzo?”
“Perché è fuori mano ma non troppo.”
 “Ho parlato con un amico al Forlanin:  chi ha torturato Frugoli si è accanito.”
“Volevano punirlo.”
“Probabile.”
“Non è probabile, è certo. Se lo hanno torturato è perché volevano vendicarsi e lasciare un messaggio. Ti ho mai detto che l’avevo conosciuto di persona?”
 “Davvero?”
“Ti stupisce?”
“No, ma non sapevo…”
“Ora lo sai.”
“In che occasione?”
“A Zurigo.”
“E che ci andava a fare a Zurigo, Frugoli?”
“Lugano è troppo frequentata dagli italiani, avrebbe corso il rischio di essere riconosciuto da qualcuno.”
“Stiamo parlando di?”
“Stiamo parlando di Bdsm. E non solo: Frugoli pippava come un formichiere e questo lo so con assoluta certezza perché l’ho visto coi miei occhi. Saliva da Pavia con un terzetto di compari. Un pastore protestante che frequentava l’ambiente li aveva soprannominati “i porci di Gerasa”, pensa un po’ te.”
“E chi erano gli altri?”
“Lanfetta, il suo assistente e il titolare della Ecogreen Costruzioni Bio, il grassone.”
“Lanfetta? Il docente di lingue protosemitiche?”
“Proprio lui.”
“Ma è una ripugnante cariatide!”
“E un formidabile sporcaccione. A Pavia basta che gratti un poco la patina di vernice bianca e la merda schizza sino al cielo.”
Si fermò per alcuni istanti a riflettere.
“Dimmi di più sulle torture.”
“Bastonature sulle piante dei piedi, tracce di bruciature su tutto il corpo, una quantità incredibile di tagli superficiali, piccole mutilazioni…”
“Lo hanno castigato di brutto.”
Squillò il mio cellulare. Era Livia.
“Indovini un po’.”
“Sarebbe?”
“E’ morto il professor Bongiovanni!”
Ammutolii.
“Mi ha sentito?”
“Sì. Come e quando?”
“Strangolato nel suo appartamento alla Minerva.”
Riagganciai.
“Lello, hanno ucciso il gran maestro Bongiovanni.”
Lello picchiò un tale pugno sul tavolo  da far tintinnare i bicchieri.
“Bingo!”
Un bip annunciò l’arrivo di un messaggio Whatsapp sul mio cellulare. Livia, ancora. Lo lessi ad alta voce:
“Segni di torture sul cadavere di Bongiovanni.”
“Lello, poche ore dopo aver scaricato al Canarazzo il cadavere del magnifico, entrano in casa del gran maestro e fanno la festa anche a lui… cosa diavolo sta succedendo?”
“A Pavia vien giù tutto, ecco cosa sta succedendo. Dammi qualche ora, voglio informarmi un po’ in giro.”
Accompagnai Lello alla più vicina fermata della metro.
“A Pavia tra poco ci saranno più agenti della Digos che sampietrini. Stai in campana, Marco.”

Posteggiai vicino al Castello Visconteo. Già che c’ero, feci un giro per i giardini, stranamente semideserti.
Il cellulare mi avvertì dell’arrivo di una mail. Nell’Oggetto si leggeva: “E se guarderai nell’abisso, l’abisso guarderà in te”. Allegato alla mail, un file video. Di norma non apro gli allegati quando si tratta di messaggi provenienti da sconosciuti ma in questo caso dovevo fare un’eccezione. Per forza.
Il filmato mostrava un uomo nudo, polsi e caviglie legati, sdraiato a pancia in giù a gambe divaricate su una specie di panca da palestra. Una figura femminile con indosso una tuta in latex gli ravanava nel culo con tutta quanta una mano. La videocamera si spostò sino a mostrare il volto dell’uomo legato alla panca. Benché avesse una pallina infilata in bocca non faticai a riconoscerlo. Era il magnifico rettore Alessio Frugoli.
Inoltrai la mail a Lello.
Il telefono squillò dieci minuti dopo.
“Ho visto il filmato.”
“Mi chiedo perché me l’abbiano spedito.”
“Ti hanno messo un’arma in mano. Se divulghi quelle immagini, sputtani il defunto e i suoi sodali.”
“E perché dovrei farlo?”
“Infatti te lo sconsiglio vivamente.”
“E se a farlo fosse il mittente della mail?”
“Lo ha già fatto, inviandotela.”
“Sì ma non capisco il senso. Se non rendo pubblico il filmato, non ha ottenuto nulla!”
“E’ qui che sbagli. Riporre un’arma in un cassetto non significa distruggerla. L’arma è sempre lì, pronta per l’uso. Solo che se premi il grilletto, quella ti esplode in faccia.”

La donna che mi sedeva di fronte in agenzia portava bene i suoi 62 anni.
“Lei capisce che un genitore oggi come oggi ha il diritto di sapere a cosa sta andando incontro suo figlio… Un matrimonio è un passo impegnativo sia dal punto di vista affettivo che finanziario.”
“Certo. Meglio non fare scelte affrettate.”
“Appunto, ed è per questo che mi sono rivolta a lei. So che è una persona seria e discreta.”
“La discrezione è il fulcro della mia deontologia professionale, signora.”
 “Non vorrei essere equivocata: mio figlio è un uomo adulto ed è liberissimo di decidere della sua vita. Io intendo solo fare il possibile per evitare che commetta un’imprudenza.”
“Comprendo perfettamente. La contatterò non appena avrò informazioni sulla signorina.”
Quando la cliente fu uscita tornai ad immergermi nella lettura dei quotidiani. I delitti di Pavia campeggiavano su tutte le prime pagine. L’espressione “torture efferate” ricorreva ovunque come un mantra. A Bongiovanni avevano messo una mordacchia per poi sottoporlo, nella sua abitazione, a sevizie di ogni genere. In pieno giorno, senza che nessuno dei vicini si accorgesse di nulla. La sua morte non era stata meno crudele di quella del rettore. E le telecamere del palazzo? Manomesse, tutte quante.
Mentre riflettevo su queste circostanze, si spalancò la porta. Livia dalla soglia mi lanciò un’occhiata diabolica.
“E fanno tre!”.
La osservai incredulo.
“Hanno ammazzato l’avvocato Salteri! Me l’ha detto adesso un mio amico dalla questura di Milano.”
 “Come lo hanno ucciso?”
“Un cecchino. Salteri era nel suo studio a San Babila. Gli hanno sparato dal tetto di un palazzo di fronte.
In quel preciso istante squillò il mio cellulare. Era Lello.
“Hai saputo?”
“Un istante fa.”
 “Un colpo da maestro: gli hanno scoperchiato la calotta cranica da ottocento metri di distanza! E’ cominciata la mattanza e per una volta tocca ai pesci grossi.”
Salteri, oltre ad essere uno degli avvocati più noti di Milano, era affiliato a una loggia storica, la Lafcadio Ambrosini.
“Sbaglierò ma ho l’impressione che si tratti di una ritorsione.”
“Non sbagli. Qualcuno a Pavia deve aver pensato che bisognasse reagire subito.”
“In modo eclatante, direi.”
“Ora devo andare, ci aggiorniamo.”
Livia, immobile sulla soglia, mi squadrava impassibile.
“Hanno indetto un consiglio comunale straordinario, per stasera. Ci va?”
“Penso proprio di sì.”

Tre ore dopo, raggiunsi la sala consiliare, strapiena di gente come non si vedeva da decenni.
“E’ una ferita a tutta quanta la città… le istituzioni democratiche reagiranno… … questo è il momento di essere uniti… non ci faremo intimidire”.
Nel pronunciare queste parole la voce del sindaco vacillò. Segno che intimidito lo era eccome.
In sala, tra il pubblico, individuai parecchie facce note. Mi assalì un senso di nausea.
Nell’andarmene, incrociai all’uscita il brigadiere Marostica.
“Dove vai così di fretta Marco?”
“Dentro si respira aria pesante.”
“Anche fuori se è per quello.”
“Buonanotte brigadiere.”

L’indomani, al mio risveglio, la prima cosa che vidi fu un geco sulla parete accanto al letto. Poi un altro in bagno, proprio sopra lo sciacquone, e infine un terzo in cucina, accanto al frigo. Sulla strada per l’ufficio mi fermai a far colazione al bar del Turco, così chiamato per via della sua inveterata avversione per il fumo. Dentro c’erano solo due avventori, due vecchie conoscenze, gente che alle nove del mattino invece del caffelatte sorseggia vino bianco. “Marco! Vieni che ti faccio vedere una cosa”. Il Turco prese dal cassetto della cassa un mazzo di carte.
“Scegline una, guardala e mettila via.”
“Fatto.”
“Adesso pensa intensamente a quella carta.”
Chiuse gli occhi e si stropicciò le tempie.
“Pensa alla carta!”
“E’ quello che sto facendo.”
“Fante di fiori!”
Lo guardai basito: aveva indovinato.
“Come cazzo hai fatto?”
“Il bravo prestigiatore non svela mai i suoi segreti. Hai letto la Provincia di oggi?”
“Ho visto la locandina davanti all’edicola: il ministro dell’Interno sarà oggi a Pavia.”
“C’è il centro blindato!”
“E te credo.”
Evitai Strada Nuova e, facendo il giro largo, mi recai nei pressi del monumento a Garibaldi, in piazza Castello. Qui, seduto sulla panchina di fronte alla fontana, sedeva un individuo sulla sessantina, piuttosto male in arnese, che mi rivolse uno sguardo d’intesa. Era padre Adamo.
Lo conoscevo dai tempi di Genova, città in cui ho vissuto i primi trent’anni della mia vita. All’epoca il suo caso finì sui giornali: un sacerdote sospeso a divinis per atti di esibizionismo e voyeurismo! Qualche anno dopo aver traslocato a Pavia scoprii, non senza stupore, che anche lui ci si era trasferito. Non aveva perso, tuttavia, le vecchie inclinazioni. Assiduo frequentatore di locali notturni, possedeva una conoscenza enciclopedica in materia di attricette e webcam girl.
“Adamo, come va?”
“La facciamo andare.”
“Dia un po’ un’occhiata.”
Avevo salvato sul tablet le foto della signorina consegnatemi dalla cliente.
“Ma io questa la conosco!” esclamò Adamo “E’ la Simona!”.
“Sicuro?”
“Sicurissimo, ci ho fatto dei privé con questa qua, vuoi che non me la ricordi?”
Insomma venne fuori che la signorina aveva un passato di spogliarellista e intrattenitrice in locali milanesi e della bergamasca, fra cui il Vanexa, di cui conoscevo l’ex gestore. Lo avrei contattato nel pomeriggio: mi fidavo delle competenze dello spretato ma mi occorreva una conferma.
E la conferma venne.

I notiziari della sera diedero ampio risalto al discorso del ministro dell’Interno. Quanto basta per convincermi a spegnere il televisore. A mezzanotte in punto ricevetti una chiamata di Lello.
“Sai quando sono i funerali?”
“Domattina alle 10. Le bare saranno esposte nel cortile delle statue. Prorettore vicario in pole position per il discorso.”
“Misure di sicurezza al massimo.”
“Ovvio.”
“Ci andrai?”
“Non credo proprio.”
Riagganciai.
Uscii a fare due passi. In Piazza Petrarca il solito viavai di automobili. Mi diressi al Castello. A un tratto mi sentii chiamare per nome da un tale seduto sul sedile passeggero di una Audi Q7 posteggiata in Viale XI Febbraio.
Mi avvicinai. Era un tizio sulla cinquantina, ben vestito, mai visto prima. E non era solo a bordo.
Mi fece cenno di avvicinarmi.
“Sali.”
“Non ci penso proprio.”
“Calma”, disse lo sconosciuto, “vogliamo solo fare due chiacchiere”.
“Io no.”
Il tizio mi fulminò con lo sguardo.
“Hai preso informazioni su una brava ragazza.”
“Mi pagano per questo.”
“Te la devi scordare.”
“Gratis?”
Sorrise, mettendo in mostra un paio di denti d’oro, e disse a quello alla guida: “Che ti dicevo? E’ uno che sa stare al mondo”, quindi, rivolto a me:
“Quanto costa un’amnesia?”
 “Tremila euro.”
Con la massima disinvoltura, il tizio prese dal taschino della giacca una mazzetta di banconote da 500 euro.
Ne contò sei, lentamente.
“Alla signora che diciamo?”
“Che la ragazza è a posto. Non una macchia.”
“Bravo.”
Intascai i soldi. L’autista mise in moto. Rimasi ad osservare la vettura che si allontanava verso il rondò Vittorio Necchi. Quella notte non riuscii a prendere sonno.

“Il commando ha fatto irruzione nel locale e falciato a raffiche di mitra i partecipanti alla riunione.”
Ascoltai incredulo il notiziario televisivo. Non riuscivo a capacitarmi che fosse accaduto davvero. Una strage in una loggia massonica pavese!
A una settimana dall’assassinio di Salteri, tre uomini armati di fucili d’assalto irrompono in una delle più note sedi massoniche della provincia e sterminano i presenti. Un fatto senza precedenti nella storia della Repubblica italiana!
Contai sino a dieci, squillò il cellulare. Era Lello.
 “Professionisti. Armi munite di silenziatori.”
“Aspettiamoci di tutto.”
“Golpe compreso.”

Una città in stato d’assedio avrebbe avuto un aspetto più rilassato. In Strada Nuova i passanti, studenti compresi, sgattaiolavano lungo i marciapiedi come animali braccati. Poliziotti ad ogni angolo, armi in pugno. Mi fiondai dal Turco.
“Marcone!”
“Whisky.”
“Lo sai che è morto il Giampiero?”
“Quando?”
“Ieri sera, è caduto dal Ponte coperto.”
“E come cazzo ha fatto?”
“Aveva bevuto più del solito”.
“Se n’è andata una delle più grandi spugne di Pavia. Brindiamo alla sua memoria.”
Tintinnarono i bicchieri. Fu un momento commovente.

Miranda. Che ci faceva Miranda sotto casa mia?
“Quanto tempo. Come mai da queste parti?”
“Hai un attimo da dedicarmi?”
“Non far caso al disordine che c’è in casa.”
“Come se fosse una novità.”
Salimmo.
“Dio mio Marco sei peggiorato”, disse appena entrata. “Pare un campo rom.”
“Se sei venuta per fare dello spirito puoi andartene anche subito.”
“Apprezzo la tua delicatezza.”
“Ho avuto un’ottima maestra. Facciamo in fretta.”
Si accomodò sul divano.
“Ti ricordi Roberto?”
“Quale dei due? Il primo o il secondo?”
“Il secondo.”
“Beh?”
“Mi dà il tormento”
“E quindi?”
“Vorrei che tu gli parlassi.”
“Perché non sei venuta in agenzia a discuterne?”
“Dobbiamo essere così formali? Credevo che in nome della nostra antica amicizia…”
“Hai dieci secondi per uscire. Nove…”
“Stronzo!”
“Otto…”
La udii imprecare lungo le scale.

“Quindi lei mi garantisce che…”
“Non sono emersi elementi tali da far ritenere con certezza che la signorina rappresenti un elemento poco raccomandabile.”
La cliente mi fissò dritto negli occhi.
“Non so perché ma la sua risposta non mi rassicura. Quanto le devo?” tagliò secca.
“Niente.”
“Niente?”
“A riprova della mia buona fede.”
“Beh, la ringrazio.”
Prese dal divanetto la sua borsa griffata e fece per andarsene. Si arrestò per un istante sulla soglia.
“Nel caso dovessero giungerle alle orecchie nuovi elementi, la pregherei di contattarmi.”
“Non mancherò, signora.”
Appena se ne fu andata andai in bagno a sciacquarmi la faccia.
Lo specchio mi restituì l’immagine di un vecchio farabutto.
Bussarono alla porta.
“Può uscire o se lo sta ancora scrollando?”
“Che c’è Livia?”
“Apra, per favore”
“Mi dia un attimo.”
“Finisca pure senza fretta, mi sto solo pisciando addosso.”

La giornata era trascorsa in modo del tutto improficuo. Non avevo concluso un accidente. Arrivato all’altezza di Via Innocenzo III, mi si materializzò davanti all’improvviso Marostica, in borghese.
“Marco!”
“Cazzo brigadiere, lei mi vuol far venire un infarto.”
“Ti spaventi per così poco? E’ da un po’ che tu ed io non facciamo due chiacchiere.”
“Sono a corto di argomenti.”
“Perché non ti credo?”
“Perché è prevenuto, ecco perché.”
“Vieni, ti offro un caffè.”
“Non a quest’ora. Poi finisce che non dormo.”
“E allora un bianchino, quel cazzo che ti pare, non farla lunga.”
Entrammo al bar di piazza Italia. Mi avvicinai al bancone.
“No, ci sediamo nella saletta. E’ più discreta.”
Per essere discreta lo era: non c’era un’anima.
Ordinai una vodka.
 “Dunque, dicevamo. Tu che hai orecchie dappertutto…”
“Insomma.”
“Non fare il modesto. Senti, veniamo al sodo: hai captato qualcosa?”
“Brigadiere, questa domanda va fatta alla polizia politica, non a un semplice investigatore privato.”
“Eppure tu sai sempre tutto.”
“Almeno fosse così.”
“Allora dimmi, in via del tutto confidenziale, quel poco che sai.”
“So quello che lei sa già molto bene: c’è una guerra in corso e in città il più pulito ha la rogna.”
 “Quindi non sai una minchia?”
“Perché, cosa credeva? Che avessi sottomano i nomi del commando?”
“No perché in tal caso staresti già dentro a una buca da qualche parte in Oltrepò.”
“E perché proprio in Oltrepò?”
“Per dire.”

La conversazione con Marostica mi aveva messo di malumore. Di tornare a casa non se ne parlava proprio, così mi misi a vagare come un’anima in pena. In Viale Matteotti vidi un tale raggomitolato per terra. Mi avvicinai e lo riconobbi. Era padre Adamo.
“Che è successo, don? Si sente male?”
“Mi hanno picchiato.”
“Chi è stato?”
“Non lo so, due energumeni…”
Lo aiutai a rimettersi in piedi. Aveva la faccia gonfia, un occhio mezzo chiuso.
Lo accompagnai sino a una panchina, quindi andai alla fontanella a bagnare un fazzoletto.
“Non avevo fatto niente di male…”
“Scusi, perché ha giù la braghetta?”
“Ma no, niente, me la sarò scordata aperta a casa.”
“Non mi prenda in giro, don.”
Premendosi il fazzoletto sul viso, Adamo si mise a raccontare.
“Non giudicarmi male, la natura umana è imperfetta. Ero ai giardini del castello…”
“Per puro caso.”
“A un certo punto vedo due ragazze.”
“E non ha potuto fare a meno di esibirsi.”
“Purtroppo no”, sospirò, “poi sono arrivati i fidanzati, e mi hanno rincorso. Correvano forte, mi hanno raggiunto e il resto lo vedi da te.”
“Don, lei deve darsi una calmata… Le prende le pastiglie?”
“Non sempre.”
“O quelle o i cazzotti: cosa preferisce?”
“Le pastiglie.”
“E allora le prenda. Vuole che le chiami un taxi? Ce la fa ad arrivare a casa?”
“No non c’è bisogno, ce la faccio”
Accompagnai lo spretato per un tratto.
“Che brutti tempi stiamo vivendo. Il gesto più innocente viene sistematicamente male interpretato.”
“Sa com’è, c’è gesto e gesto.”
“Vero. Questo è per te, a titolo di ringraziamento.”
Mi porse una pallina avvolta nel cellophane.
“Roba buona eh! Così fai serata con la tua segretaria, la Luciana.  Bella gnocca! Te li fa i pompini?”
Non risposi.
“E daglieli due colpetti ogni tanto!”
“Vada a dormire, che è meglio.”
“Per la polverina magica fanno di tutto quelle porcone! Se vuoi te ne presento una, sta al collegio Bellarmino.”
“Scusi don, ma se ci sono ‘ste porcone disposte a tutto per la bamba, come dice lei, perché se ne va in giro a mostrare l’uccello alle ragazze al parco?”
“Perché, come dice il mio consulente finanziario, bisogna diversificare gli investimenti.”
Lo vidi sparire, finalmente, nell’androne condominiale.
Mentre mi allontanavo, mi giunse di nuovo la sua voce.
“Marco!”
Affacciato alla finestra, lo spretato mi osservava con un’espressione stravolta.
“Che c’è ancora?”
“Non me la racconti giusta. Secondo me te la bombi eccome, quella bella maialona!”

La pallina non la buttai, poteva sempre tornare utile. Quella notte, stranamente, riuscii a dormire qualche ora.

“Hai sprecato i migliori anni della tua vita. Preparati ai peggiori.”
Una lettera anonima, scritta in stampatello, nella cassetta delle lettere. La busta non recava traccia di timbro postale, né l’indicazione del destinatario.  Mi sforzai di immaginare chi potesse avermela recapitata ma non mi venne in mente nessuno. La riposi in un cassetto.
Un minuto dopo squillò il cellulare.
“Marco, perché non fai un salto da me?”
Era Marostica.
“E' una cosa urgente?”
“Diciamo che è nel reciproco interesse.”
Mezz’ora dopo bussavo alla sua porta.

“Prego Marco, accomodati. Caffè?”
“Non si disturbi.”
“Immagino tu conosca il motivo di questo colloquio.”
“A dire il vero, no.”
“Fai le ore piccole, ti svegli sempre tardi e non sei aggiornato sulle novità. Dovresti saperlo che il mattino ha l'oro in bocca.”
“Mi ha convocato per dispensarmi consigli di vita?”
Marostica si fece serio.
“Stamattina Adamo Sarti è stato trovato impiccato alla ringhiera della scala nel suo condominio, con le mani legate dietro alla schiena. Vi conoscevate vero?”
“Lo conoscevate  meglio voi, visto che era un vostro informatore.”
“Quand'è l'ultima volta che l'hai visto?”
“Ieri notte, dopo le 11, steso sull'Allea di Viale Matteotti. Lo avevano gonfiato di botte.”
“Chi?”
“Dei giovanotti, così ha detto.”
“E poi?”
“L'ho aiutato ad alzarsi, l'ho accompagnato verso casa e me ne sono andato. Stop.”
“Secondo te chi l'ha ucciso?”
“Non ne ho la minima idea.”
“Non ti pare strano che quello incontra a te e poche ore dopo finisce appeso?”
“Diciamo meglio: quello incontra dei tizi che lo riempiono di botte e poi finisce appeso. Io non c’entro un cazzo.”
“E pensare che una volta Pavia era una noiosa città di provincia…”
“I bei tempi andati.”
“Tieni occhi e orecchie bene aperti, Marco.”
“Come sempre, brigadiere.”

Accanto all’ingresso dell’agenzia, un gatto rosso mangiava crocchette da una ciotola. Era un randagio che faceva spesso tappa da quelle parti. Entrai e non vidi Livia. Un istante dopo udii dei rumori provenire dal bagno, come se qualcuno stesse sferrando calci alla porta. Aprii e la vidi seduta a terra, imbavagliata, le mani legate dietro la schiena. La liberai dalla fascetta di plastica e dalla ball gag che le avevano ficcato in bocca. 
“Che è successo Livia? E’ ferita?”
“Due stronzi con il passamontagna sono entrati e mi hanno legata. Mi hanno chiesto dov’è la cassaforte, ho detto loro che la chiave ce l’ha solo lei, mi hanno messo la pallina in bocca e sono andati a rovistare nel suo ufficio.”
“Le hanno fatto del male?”
“Vuol sapere se mi hanno stuprata? No, non mi hanno violentata ma mi hanno sbatacchiato l’uccello in faccia, quelle merde. Ed è una cosa che non sopporto.”
“Hanno detto qualcosa di particolare?”
“A parte ‘Non urlare se no ti ammazziamo’, no.”
“Bastardi!”
“Millecento euro al mese non ripagano questo schifo.”
“Mi spiace, Livia, davvero.”
Andai in ufficio: avevano vuotato tutti i cassetti sul pavimento e il notebook era sparito.
“In che razza di casino si è cacciato?”
“Livia, le assicuro che non ho combinato nulla che possa giustificare tutto questo. Non riesco a immaginare cosa credessero di trovare.”
“Fossi in lei non ne parlerei a Marostica. Non servirebbe a niente. E poi non ho voglia di rispondere a domande sgradevoli.”
“Vero. Non servirebbe a niente.”
“Le do una mano a sistemare. Da solo non combinerebbe granché.”

I funerali delle dodici vittime della strage paralizzarono la città. Non avevo mai visto in vita mia tante facce fintamente contrite. Mi rifiutai di guardare un solo programma televisivo, di leggere un solo articolo di giornale sull’argomento.
Lello mi chiamò anche quella sera, dopo le 22.
“Non hai idea della quantità di stronzate che stanno dicendo in tele.”
“Immagino.”
“Senti, secondo me la visita all’agenzia era per farti capire che loro sanno che tu sai.”
“Cosa so, io? Niente! E non me ne importa nulla delle loro faide!”
“Magari è per via del filmato.”
“E che c’entro io col filmato? Me lo hanno inviato e da me si è fermato! Io mi faccio i fatti miei.”
“Probabilmente volevano incoraggiarti a continuare così.”
“Potevano trovare un altro modo, quei figli di puttana!”
“E’ gente che non va per il sottile, lo sai bene.”
“Comunque sia hanno passato il limite.”
“E quindi?”
“E quindi cosa?”
“Ti metti a fare il giustiziere della notte? E a chi spari, visto che manco sai chi sono?”
“Ma quale giustiziere della notte, a me basta solo che non mi rompano i coglioni!”
“Secondo me la cosa si chiude qui.”
“Voglio sperare.”
“E certo. Vivi e lascia vivere.”
“Lascia ammazzare, vorrai dire.”

Al brigadiere non dissi una parola dell’accaduto. Il giorno dopo, a mezzogiorno circa, ricevetti una chiamata in agenzia. Era una donna.
“Possiamo incontrarci?”
“La porta dell’agenzia è aperta, venga quando vuole.”
“Pensavo a qualcosa di più discreto.”
“Qui è discreto.”
“Non potrò essere lì prima delle 18”
“Nessun problema. Posso sapere il suo nome?”
“Simona.”
“A dopo.”
Cosa poteva volere da me quella donna? Lo avrei scoperto presto.
Dal giorno dell’intrusione tenevo sempre a portata di mano la Beretta APX (anagramma di Pax, ci avete fatto caso? Quelli di Gardone Val Trompia hanno un morboso senso dell’umorismo). Non che fossi convinto servisse a qualcosa ma averla accanto mi dava maggiore tranquillità.
In ogni caso, all’occorrenza non avrei esitato a usarla.
Livia se ne andò alle 17, come suo solito.
Alle 18 e 10 suonarono all’ingresso.
Andai ad aprire.
Dove avevo già visto quello sguardo? Quella chioma di capelli neri e lisci? E quel sorriso indecifrabile?
Le dissi di entrare.
Era il tipo di donna che non passa inosservata.
Ci sedemmo in ufficio, la scrivania a fare da linea di demarcazione.
Indossava una gonna a tubino in pelle e un top bianco.
“La ascolto.”
“Volevo ringraziarla.”
“Di cosa?”
“Lo sa benissimo.”
“La questione, per quanto mi riguarda, è risolta.”
“Tengo molto a Giulio.”
“Bene.”
“La gente giudica senza sapere di cosa parla.”
“Purtroppo.”
“Gente che, fra l’altro, farebbe meglio a guardare i propri peccati prima di scagliarsi contro quelli degli altri.”
“Vero. Nel suo caso però la faccenda può dirsi chiusa.”
“Ci sposiamo a settembre.”
“Meglio di così…”
“Grazie anche a lei.”
“Non c’è di che. Mi sono limitato a tradire la mia deontologia professionale e a vendere per denaro il mio silenzio.”
“E chi non si vende, a questo mondo? Siamo tutti in vendita, in un modo o nell’altro.”
“Già.”
“Si vede che la sua parola ha un valore, se bisogna pagare perché stia zitto.”
“Mettiamola così: ho un certo credito, in giro. Ora si tratta solo di capire se questo credito avrà un futuro oppure no. Gradisce qualcosa da bere?”
“No, grazie, anzi, è meglio che vada. Il mio fidanzato mi aspetta.”
“Non facciamolo aspettare, allora.”

Quella sera avrei cenato in trattoria ma lungo il tragitto mi fermai dal Turco.
“Marco, vieni che ti mostro una cosa.”
Da sotto il bancone tirò fuori un foglio, una volantino con il testo bilingue russo-inglese. Nel bel mezzo, la foto a colori di un lanciagranate RPG-7.
“Ti interessa?”
“Dico ma sei ammattito? Che me ne faccio di questo coso, ci ammazzo le mosche?”
“E’ una replica, mica è vero!”
“E vorrei anche vedere!”
“Dai, non ti arrabbiare, stasera la bevuta è gratis.”
Mi sedetti a un tavolino. La televisione era accesa col volume a zero. In un angolo, un avventore abituale fissava il vuoto.
Squillò il cellulare. Una voce femminile che non riconobbi pronunciò queste parole:
“Ore 21, chiesa del Carmine, navata destra, primo pilastro. La contatterò io.”
Chi diamine era, stavolta?

Avevo bevuto troppo. Arrivai in Carmine con una certa fatica, rasentando i muri. La chiesa era piena di anziani: una distesa di teste canute. La locandina all’ingresso annunciava la lettura di brani scelti dal ‘Diario di guerra di Edmondo Bazzelli’.
Presi posto su una sedia nel punto stabilito.
Il pubblico salutò con un applauso l’apparizione di un bellimbusto imbrillantinato che si piazzò al microfono e, dopo una prolissa introduzione, cominciò a leggere le pagine del Diario. Si atteggiava manco fosse Vittorio Gassman.
Improvvisamente mi giunse alle narici una ventata greve e nauseabonda di gas intestinali, sfiatati da chissà chi, forse dal fotografo obeso seduto alla mia destra. Un prete dall’espressione malvagia si materializzò all’improvviso da dietro il pilastro, saettando occhiate ostili sul pubblico.
Ebbi l’impressione di trovarmi in un obitorio, circondato da cadaveri ai primi stadi della decomposizione. La situazione era del tutto insostenibile.
Stavo per andarmene quando mi sentii toccare a una spalla.
Mi girai e vidi una donna sulla quarantina, con un abito a tubino nero. Una figura del tutto fuori posto in quella sede. Con un cenno del viso mi invitò a seguirla. 
Non esitai un istante. Sul sagrato della chiesa, ripresi finalmente fiato.
La sconosciuta discese i gradini con un’eleganza sapientemente coltivata.
Abito Ralph Lauren, acconciatura “di tendenza” con chignon basso, trucco non vistoso: bel tipo davvero.
“Beh? Dove andiamo?”
“Ho la macchina posteggiata qui vicino.”
La macchina era una Lexus LC 500.
Salii a bordo.
La signora in nero partì sgommando.
Dall’impianto stereo uscirono le note di una canzone che conoscevo bene: “My Weak Side” di Mr.Kitty.
“Non ha risposta alla mia domanda: dove siamo diretti?”
“A fare un giro.”
E facciamolo ‘sto giro, pensai.
“Posso sapere come ti chiami?”
“Florinda.”
“Come la Bolkan.”
“Ecco, bravo, proprio lei. Piaceva a mio padre.”
“Ho visto di recente un film di Fulci con la Bolkan, Non si sevizia un paperino. Pare sia un film di culto. A me non è piaciuto per niente, a parte una sequenza.”
“Quella della Bouchet che adesca il ragazzino?”
“Indovinato.”
“Siete così prevedibili, voi uomini. A me la Bolkan piace soprattutto in Metti una sera a cena.”
“Anche a me, se è per quello.”
Alla rotonda di Viale Indipendenza svoltò a sinistra e, di lì, in Viale Golgi. Imboccata la tangenziale Ovest, seguì le indicazioni per Bereguardo.
“Marco, posso darti del tu, vero?”
“Naturalmente.”
“Se adesso io mi fermassi in una piazzola e ti facessi un pompino, tu avresti qualcosa in contrario?”
“Non credo proprio.”
“Non mi fraintendere: la mia ero solo una curiosità di carattere, diciamo così, antropologico.”
“Antropologia a parte, dove siamo diretti?”
“Hai altri impegni?”
“Nessun impegno: vorrei solo capire.”
“Non c’è niente da capire. Ascolta qui.”
Un tocco al trackpad ed ecco uscire dalle casse ‘Go with the Flow’ dei Queens of the Stone Age.
Se non altro, sarebbe stata una notte diversa dalle altre.

Ci lasciammo alle spalle Bereguardo. Dopo alcuni km svoltammo in una strada sterrata che si inoltrava in un bosco. Procedemmo a lenta andatura per una decina di  minuti. Il bosco si infittiva in modo inquietante, avvolgendo la strada come in un bozzolo. Vidi apparire alla nostra sinistra un muro di cinta. Lo costeggiammo sino ad arrivare nei pressi dell’entrata, un cancello imponente oltre il quale si apriva una tenuta di campagna.
Il cancello si aprì: eravamo attesi.
Percorso un viale coperto di ghiaia illuminato da faretti, giungemmo dinanzi a una villa nobiliare, relativamente ben conservata.
Florinda spense il motore e scese dall’auto. La seguii senza fare domande.
Saliti i pochi gradini che conducevano all’ingresso, non dovemmo far altro che spingere il portone, oltre il quale si apriva un corridoio le cui finestre erano schermate da tende di velluto. Alle pareti, stampe che raffiguravano scene di caccia… all’uomo.
Al termine del salone si apriva un salone, arredato in modo bizzarro, dominato al centro da una specie di trono. Su di esso, sedeva un personaggio a dir poco singolare.
Non avevo mai visto in vita mia un uomo così piccolo. Sembrava tale e quale ad Harry Earles, il nanetto biondo del film di Tod Browning “Freaks”. Identico sia nell’aspetto che nell’abbigliamento, mi osservava con un sorriso indecifrabile.
Florinda, poco lontano, stava versando un drink.
“Non dirmi che non ti piace il Talisker”.
“Infatti non lo dico”, le risposi.
Mi passò il bicchiere.
L’omino alzò la mano sinistra.
“Viviamo tempi difficili, non crede?”
“Altroché.”
“Basta un nonnulla, e ci si ritrova su un tavolo settorio.”
“Già, a volte basta davvero poco.” 
“Una parola di troppo.”
“Anche.”
“Florinda cara, unisciti a noi.”
“Sono qui.”
“Ora le mostro una cosa.”
Schioccò le dita. Dal fondo del salone si fecero avanti due individui corpulenti, il volto celato da maschere,  spingendo una cabina munita di rotelle coperta da un telo colorato.
A un cenno del nano, fu tolto il telo.
La “cabina” altro non era che una gabbia. Al suo interno, un uomo sulla sessantina, nudo e in manette. Una gag ball gli impediva di proferire parola.
“Lo riconosce?”
Feci segno di no al padrone di casa.
“Eppure dovrebbe. Lo osservi bene.”
Non lo riconobbi.
“Come, lei non conosce l’illustre professor Corsati?”
Corsati? Il temutissimo ordinario di Diritto delle società offshore? E che ci faceva, rinchiuso in gabbia come un animale, in una villa sperduta nella Valle del Ticino?
“E’ uno sporcaccione, sa, il professore? Ma noi gli vogliamo bene lo stesso, vero Florinda?”
“Come no. Un bene dell’anima.”
Florinda si accostò alla gabbia del professore e gli strizzò crudelmente i testicoli.
“Accadono brutte cose. Cose di cui, onestamente, vorremmo non dover essere testimoni.”
“Posso socratizzarlo, zio?”
“Non ora, Florinda. Non vorrei turbare la sensibilità del nostro ospite. Ci occuperemo di lui in un secondo tempo. Marco, mi dica: ha mai seviziato qualcuno?”
“Sinceramente no.”
Lo zio mi fissò incredulo, come se avessi pronunciato la cosa più inverosimile al mondo.
“Se mettessimo un po’ di musica?” Florinda si diede ad armeggiare con un impianto stereo.

Ai quattro angoli del salone erano collocati diffusori acustici Enigma Veyron System.
Poco dopo, l’ambiente fu inondato dai bassi di “Bind, Torture, Kill”, album del 2006 dei Suicide Commando.
“Lei mi sorprende, Marco. Trovo bizzarro questo suo moralismo.”
“Non è moralismo. E’ solo che non mi attira l’idea.”
“Desidero offrirle un’opportunità unica.”
“La ascolto.”
“Le piacerebbe sottoporre a waterboarding il professore? Se vuole può farlo, adesso. I miei collaboratori saranno lieti di aiutarla.”
“Anch’io!”, esclamò Florinda
Non avrei potuto essere maggiormente consapevole del fatto di trovarmi in mezzo a dei pericolosissimi psicopatici. Soppesai con cura le parole.
“La ringrazio, davvero, ma non sono dell’umore giusto.”
Il nanetto non dissimulò il proprio disappunto.
“Non le va a genio proprio nulla, a quanto pare.”
“Qualcosa sì, zio. Penso proprio che mi si scoperebbe volentieri.”
Mi vidi rivolgere un’occhiata di disapprovazione – non so fino a che punto sincera.
“Davvero?”
“In questo momento gradirei un altro bicchiere di whisky.”
Lo zio scese dal trono servendosi di una scaletta in legno coi gradini imbottiti.
“Portatemi il professore!”
Florinda si sedette accanto a me sul divano.
“Sta’ a vedere Marco, ora lo zio ne combina una delle sue”.
“Sono finiti i giorni dei tuoi trionfi, miserabile!”
I due, aperta la gabbia, afferrarono e lo trascinarono di fronte allo zio.
“Tenetelo forte!”
Lo zio, fatti pochi passi, estrasse da un braciere un ferro da marchiatura per bovini e lo calcò sulla schiena dello sventurato.
Odore di carne bruciata si diffuse in tutto il locale insieme allo straziante muggito di dolore del professore.
“Summum ius, summa iniuria!” esclamò il nanetto.
“Che ti avevo detto? Lo zio è capriccioso.”
Il professore fu gettato nuovamente nella gabbia.
Lo zio sembrò acquietarsi. Tornatosi a sedere, mi rivolse lo sguardo più placido del mondo.
“Nel preciso istante in cui ha varcato la porta di questa villa lei è diventato nostro complice. Se ne rende conto, vero?”
Preferii non contraddirlo.
“Le cose cambiano. Equilibri che sembravano immodificabili si sgretolano nel volgere di poche ore. La città sul Ticino non sarà mai più la stessa. Molti dovranno perire.”
“Credevo che la mattanza fosse finita.”
“Finita? Ma se è appena cominciata! Non mi guardi così, la strage nella loggia non è opera mia. Io sono un umile artigiano… faccio la mia parte, do il mio piccolo contributo, nient’altro.”
Florinda mi si strinse addosso.
“Siamo formichine che lavorano a un più grande disegno, Marco.”
“Non riesco a seguirvi… Sinceramente.”
“Go with the flow, Marco, go with the flow”, mi sussurrò Florinda.
All’improvviso mi si annebbiò la vista. Cos’aveva messo nel whisky, la stronza? Piombai in un sonno di piombo.

Mi svegliai, intirizzito, sul sedile posteriore di un’automobile, con una gran voglia di pisciare e un discreto mal di testa.
Scesi dalla vettura. Mi trovavo nel cortile di un autodemolitore e non c’era nessuno in giro. Svuotai la vescica e tastai le tasche della giacca: non mi avevano sottratto nulla, a cominciare dal cellulare.
Lo accesi. Erano le 6 e un quarto del mattino e mi trovavo a pochi km da Milano. Per quale motivo mi avessero scaricato lì, lo sapeva soltanto il diavolo.
Squillò il telefono. Numero sconosciuto, voce maschile ignota.
“Il cancello è accostato, esci. Segui la strada, avanti duecento metri arrivi alla statale. Alla tua destra c’è la fermata dell’autobus.”
Mi attenni alle istruzioni ricevute.
Lungo il tragitto digitai il numero di Lello.
“Sei a casa?”
“Sì. Tutto bene?”
“Mica tanto. Ti va se passo da te entro un’oretta?”
“Certo.”

Quando mi aprì la porta, notai nel suo sguardo un attimo di sbigottimento.
“Marco, sei pallidissimo. Che è successo?”
“Ti spiace se mi siedo?”
“Stai scherzando, vieni, accomodati, ti preparo qualcosa di caldo.”
Mi sdraiai sul divano.
Dopo poco Lello tornò porgendomi una tazza di camomilla. Ne bevvi un sorso.
“Che ti è capitato?”, chiese sedendosi in poltrona.
Gli raccontai l’avventura della notte precedente.
“Marco, la situazione sta prendendo una brutta piega, vogliono metterti in mezzo a tutti i costi. Forse è meglio se vieni via da Pavia per un po’. Puoi venire a stare da me.”
“Non ci capisco più niente.”
“Immagino che Corsati non sia più nel novero dei vivi.”
“Non ne ho la minima idea, so solo che lo hanno marchiato a fuoco sotto i miei occhi.”
“Che ti ha detto il nano? ‘E’ appena cominciata’?”
“Esatto.”
“Scorrerà altro sangue allora.”
“Sicuro.”
“Potremmo fare delle ricerche in merito alla villa che mi hai descritto, ma qualcosa mi dice che è meglio lasciar perdere.”
“Infatti.”
“Senti, Marco, tu a Pavia per un po’ non devi mettere piede. Molla tutto.”
“E a Livia che dico?”
“Le dici che per un mesetto l’agenzia chiude, che le paghi comunque il salario e ti rifarai vivo al più presto”
“Cazzo.”
“Credimi, è la cosa migliore.”
“Non servirebbe a niente Lello. Se vogliono mi possono beccare benissimo anche qui.”
“Come vuoi, in ogni caso per te la porta è sempre aperta.”
“Se non ti dispiace me ne sto qui un’oretta, poi vado.”
“Stai quanto vuoi.”

Rientrai a Pavia in treno nel primo pomeriggio.
Durante il tragitto ricevetti un sms da un numero sconosciuto:
“Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, cripta di Severino Boezio, ore 18”.
Non esitai a rispondere.
“Avete rotto i coglioni!”
Due minuti dopo:
“Fai il bravo, Marco.”
Era quella puttana di Florinda, ne ero certo. Passai dall’agenzia, presi la pistola dal cassetto e alle 17 e 45 mi recai all’appuntamento.
In chiesa non c’era anima viva.
Raggiunsi l’ingresso della cripta.
Al suo interno, di fronte all’altare, vidi lei. Vestita esattamente come Clara Calamai nella scena finale di Profondo Rosso.
“Dove hai trovato questo impermeabile? Da un noleggio costumi?”.
“Lo zio ti manda i suoi saluti e un piccolo dono.”
Mi porse una scatola.
La aprii: conteneva una chiave.
“E quindi?”
“Apre la cassetta di sicurezza nella camera 26 dell’Hotel Alba. Tanti auguri, Marco. Esco prima io. Tu aspetta qualche minuto.”
La afferrai per un polso e le impedii di muoversi.
“No, adesso tu aspetti!”
“Mi fai male.”
“Per chi mi avete preso? Dopo lo scherzo di ieri notte, adesso dovrei partecipare a una caccia al tesoro?”
“Mi metto a strillare sai? Dico che hai cercato di violentarmi!”
“E chi vuoi che ti senta? La chiesa è deserta.”
Allentai la stretta.
“Sai che ti dico? Riprenditi la chiave, non so che farmene.”
“No, Marco: è tua.”
Mi si strinse contro e mi diede un bacio.
“Lasciami andare ora.”
“Usciamo insieme, tu avanti a me di un passo.”
“Come vuoi.”
Ci separammo una volta giunti in Viale Matteotti.

Conoscevo il portiere dell’Hotel Alba. Era un ex pugile, un tipo a posto. Quando mi vide arrivare, quella sera, non disse una sola parola. Si limitò a porgermi la chiave della camera 26.
Salii al piano. Il corridoio del secondo piano era deserto, la stanza era in perfetto ordine. Aprii la cassetta di sicurezza. Conteneva una chiavetta usb.
“Ma puttana di quella troia!”.
Scesi le scale imprecando. Quasi mi dimenticai di rendere la chiave della stanza al portiere.
Una volta a casa, accesi il portatile e inserii la chiavetta.
Conteneva un solo file, intitolato “Morituri”.
Era un elenco di nomi, parecchi dei quali a me noti.
Nomi di persone destinate a morire di morte violenta.
Spensi il notebook.
“Cazzo”.
Per ragioni che non riuscivo a capire, volevano che sapessi chi stavano per uccidere. Stavolta non avrei parlato a nessuno della cosa, neppure a Lello. Accadesse quel che doveva accadere.
Non chiusi occhio, quella notte. L’alba mi sorprese seduto in poltrona, in tinello, in compagnia di una bottiglia di whisky semivuota.
Erano decine di nomi, perdio. Una mattanza.
Andai in bagno a lavarmi la faccia, quindi indossai la giacca ed uscii.
In fondo, era un giorno come un altro. 

Pietro Ferrari, giugno 2019

domenica 9 giugno 2019


ANCHE I NANI HANNO COMINCIATO
DA PICCOLI

Titolo originale: Auch Zwerge haben klein angefangen
Paese di produzione: Germania Ovest
Anno: 1970
Durata: 96 min
Dati tecnici: B/N
Lingua: Tedesco
Genere: Grottesco, orrore
Regia: Werner Herzog
Soggetto: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Thomas Mauch
Montaggio: Maximiliane Mainka
Musiche: Florian Fricke (Popol Vuh)
Interpreti e personaggi:
    Helmut Döring: Hombre*
    Gerd Gickel: Pepe
    Paul Glauer: L'educatore
    Erna Gschwendtner: Azucar
    Pepi Hermine: Il direttore 
    Gisela Hertwig: Pobrecita
    Gerhard März: Territory
    Hertel Minkner: Chicklets
    Gertrud Piccini: Piccini
    Alfredo Piccini: Anselmo
    Marianne Saar: Theresa
    Brigitte Saar: Cochina
    Erna Smollarz: Schweppes
    Lajos Zsarnoczay: Chapparo


*Scritto anche Hombré, con ogni probabilità per suggerire la corretta pronuncia con una vocale finale piena, diversa dal tipico suono indistinto della -e finale in tedesco.

Traduzioni del titolo: 
     Inglese: Even Dwarfs Started Small
     Spagnolo: También los enanos empezaron pequeños
     Francese: Les nains aussi ont commencé petits
     Svedese: Dvärgar har också varit små
     Ungherese: A törpék is kicsin kezdték
     Russo: И карлики начинали с малого
     Polacco: Nawet karły były kiedyś małe
     Turco: Cüceler de Başta Küçüktü
     Persiano: حتی کوتوله‌ها در آغاز کوچک بودند
     Ebraico (moderno): גם גמדים התחילו בקטן

Riconoscimenti:
    È stato presentato nella Quinzaine des Réalisateurs al 23º
    Festival di Cannes.



Trama:
La narrazione si apre con un minuscolo nano tiroideo in posa per una foto segnaletica, tormentato dalla voce inquisitoria di una poliziotta-belva che gli impartisce ordini. L'essere piccolissimo dal cranio sproporzionato si rifiuta di collaborare e rimane chiuso in un ostile mutismo, non riconoscendo alcuna responsabilità nei disastri di cui viene accusato. Cosa notevole, regge una targa con la scritta "Nr. 1300761". Si sente la voce severa di un investigatore, che cerca di estorcere una confessione, senza successo. A questo punto ha inizio un lungo flashback - in pratica l'intero film: è il racconto dell'origine della Rivolta, una violentissima eruzione di anarchia che ha sconvolto la colonia penale in cui conduceva la sua miserabile esistenza un gruppo di infelici, tutti affetti da nanismo. Il Presidente lascia l'istituto per un impegno non specificato. Il suo tirapiedi, il Maestro, rimane asserragliato nella sua dimora tenendo in ostaggio Pepe, uno dei nani, legato a una sedia. I compagni di Pepe ne chiedono a gran voce la liberazione, ma non vengono ascoltati. Così inizia l'insurrezione. Per prima cosa abbattono una grande palma con un sistema ingegnoso, dando fuoco alla sua base e facendo schiantare il fusto al suolo per mezzo di una fune. Gli atti distruttivi si moltiplicano in un crescendo di aberrazioni. Alcuni ribelli uccidono una scrofa, lasciando i suoi maialini affamati a gemere. Bruciano i vasi di fiori e infieriscono sui più deboli, due nani ciechi a cui i genitori snaturati hanno cavato gli occhi. Non esiste limite alla loro bramosia di devastazione!

Recensione:  
Un film apocalittico, annichilente, che non può essere dimenticato. Non vale oblio capace di cancellarne le tracce mnestiche, perché sono come marchi impressi col fuoco nel nucleo stesso dell'essere.

"Un agghiacciante spazio concentrazionario circondato da una distesa desolata di rocce vulcaniche." 
(Pietro Ferrari) 


Anche se l'intreccio narrativo di questa sublime opera d'arte è a dir poco tenue, ogni particolare ha la sua importanza e ci rivela l'Abisso. Ne raccomando vivamente la visione a tutti!    


I Nani del Caos 

I nani deformi della colonia penale sono mostrati in una luce a dir poco sinistra. Sono esseri maligni nello spirito quanto grotteschi e distorti nel corpo. Non li si può definire davvero esseri umani: sono potenze del Caos! Il loro cuore è un calderone demoniaco di odio verso qualsiasi essere vivente. Totalmente privi di empatia, seviziano e uccidono animali godendo del loro strazio. Potrebbero sembrare affetti da gravi deficit cognitivi, ma non ci si deve lasciare ingannare dalle apparenze. In realtà non hanno alcun ritardo mentale e sono capaci di parlare alla perfezione. Se non lo fanno è solo perché non vogliono. Il silenzio ostile in cui si trincerano è più inquietante di mille parole perverse. Devastano ogni cosa, distruggono il cibo, lo sprecano in modo immondo, se lo lanciano addosso, lo gettano a terra e lo calpestano. Una piccoletta addirittura rompe un gran numero di uova, una ad una, gettando a terra albume e tuorli. Non si deve pensare che gli insorti facciano tutto questo perché non conoscono il valore delle cose, che dissipino ogni risorsa perché nessuno ha mai insegnato loro le cose basilari della vita. No, niente affatto. Esprimono il loro feroce odio verso il cibo anziché goderne ed essere felici, per pura malvagità. Sono animati dai Demoni, gli Spiriti Immondi ispirano ogni loro azione. Eppure, al contempo, anche il più piccolo e insignificante atto che compiono è mosso dal più totale odio verso l'esistenza e il suo Artefice, causa prima di ogni afflizione, di ogni dolore, di ogni miseria. 

Alcune note sull'ambientazione 

Nel Web si trovano non pochi errori. C'è chi pensa che il film sia ambientato in una sperduta campagna tedesca, solo perché Herzog lo girò in tedesco. In realtà la storia è ambientata nelle Canarie, per l'esattezza nell'isola vulcanica di Lanzarote. L'ho capito prima ancora di reperire nel Web questa informazione, dalla sola visione della pellicola in lingua originale. Semplice: ho ascoltato i dialoghi in tedesco e ho letto i sottotitoli in italiano. A un certo punto una macchina si ferma e ne scende una nana, che chiede informazioni su come giungere a San Cristobal, provenendo da Arrecife. Orbene, Arrecife si trova proprio a Lanzarote. Il paesaggio è tutto fuorché europeo. Vediamo che i nomi (o soprannomi) dei Nani Maligni sono quasi tutti spagnoli: Hombre, Pepe, Cochina, Pobrecita, Azucar, Anselmo. Fanno eccezione gli anglosassoni Chicklets (alla lettera "Polletti") e Territory (alla lettera "Territorio"), quest'ultimo di origine chiaramente neolatina. C'è anche una Piccini, piuttosto italianeggiante - sembra che sia il cognome stesso dell'attrice, posto che non sia un nome d'arte. Direi che manca soltanto il mitico Bagonghi. La colonna sonora ha un inizio convulso in un canto popolare canario, che si ripresenta più volte nel corso della vicenda nanesca, come un getto di lava che erutta all'improvviso da una camera magmatica occulta. Straziante, ossessiva, questa musica non sembra certo che sia stata concepita dalla progenie di Sigfrido. Invece scopriamo che il compositore è Florian Fricke (1944-2001), unico membro stabile della rock band tedesca Popol Vuh. Ricordo bene che proprio ai Popol Vuh si deve la splendida colonna sonora del Nosferatu di Herzog (1979).


Titheroygaka 

L'isola di Lanzarote ha preso il suo attuale nome dall'esploratore genovese Lancelotto Malocello, che vi approdò nel 1336. Il nome che i nativi Guanche della tribù dei Mahos davano alla loro terra era Titheroygaka (Titerogaka), che significa qualcosa come "La Rossa", con riferimento all'abbondanza di terra color ocra (in berbero continentale si ha titehuggaqt "rossa"). Le peculiari formazioni vulcaniche che si possono osservare nel capolavoro di Herzog si sono formate a seguito dell'eruzione del vulcano Timanfaya negli anni dal 1730 al 1736. Pietre acuminate e profonde voragini, come quella in cui i Nani del Caos gettano il furgone in fiamme. L'assenza di montagne, grotte, valli e nascondigli fu la causa dell'estinzione della popolazione indigena: incapaci di opporsi agli spagnoli, questi Guanche furono sottoposti a spaventose razzie. Quando nel 1402 giunse a Lanzarote il mercenario francese Jean de Béthencourt, ne restavano circa trecento. Triste fu il loro destino, che li condannò a perire di lì a poco, sopraffatti dai maltrattamenti, dalla schiavitù e dai morbi importati dagli invasori. Terra di dannazione e di oblio, Lanzarote fa da degna cornice alla triste esistenza dei Nani del Caos. La storia di quei luoghi, densissima di orrori, resta come un rumore di fondo, indecifrabile ma assordante, che non si disperde mai e che perdurerà fino alla Fine dei Tempi. 

Riferimenti alle dottrine del Nazionalsocialismo 

Alcuni critici hanno pensato che Herzog abbia voluto rappresentare nella sua pellicola la follia del III Reich. Va però detto che il regista tedesco a questo proposito è sempre stato piuttosto evasivo. Le sue risposte sono a parer mio insoddisfacenti. Il fatto che egli intendesse soltanto descrivere e mostrare una semplice storia, non è poi così convincente. Nel corso della ribellione, una nana fa allusione a qualcosa di sorprendente mentre lancia le sue invettive al Maestro: menziona l'eterna lotta contro la Bestia interiore. In questi anni tutti sbraitano e urlano contro il Nazionalsocialismo come se il Reich Millenario fosse una realtà tuttora vivente e operante, poi non sanno nemmeno cosa sia. Non ne conoscono le dottrine, lo banalizzano, lo riducono a "quella cosa là dei brutti-cattivi", oppure aggrediscono i loro avversari con epiteti disumanizzanti... che sono in perfetto stile nazista! Ecco, nella colonia penale dei Nani del Caos c'è meno demenza di quella che vedo sui social network. Perdita di memoria non è solo dimenticare le atrocità, è anche dimenticarne le cause. Adolf Hitler descriveva il tormento e la lotta interiore dei Mischlinge, ossia di coloro che avevano sia antenati ariani che ebrei - perché riconosceva queste cose in se stesso. Immaginava che ogni Mischling fosse il teatro di una lotta senza quartiere che la parte ariana conduceva contro la parte giudaica. Che dire di Heydrich, l'autore della Soluzione Finale? Egli fu visto ubriaco mentre imprecava contro la sua immagine allo specchio, affermando di scorgervi il suo "ebreo interiore". Potremmo ritenere che la stessa NSDAP non sarebbe mai esistita senza questi presupposti. Pur essendo Judefrei, ossia "privo di ebrei", il Partito Nazionalsocialista era plasmato interamente da Mischlinge, elementi le cui condizioni mentali erano di un'entropia assoluta. Lo stesso marasma ontologico lo vediamo riprodotto nel microcosmo dei Nani Maligni, tanto nelle "istituzioni educatrici" quanto nelle creature da loro tormentate. C'è un altro riferimento a un tema molto popolare nella Germania hitleriana. Si tratta di una menzione fugace che non è sfuggita soltanto agli spettatori più attenti. A un certo punto una delle nane si lamenta delle ossessioni dei carcerieri e in particolare di "tutte quelle storie sul rapporto con la Natura". Hombre ha l'abitudine di ripetere in modo pappagallesco e ossessivo frammenti di frasi udite in giro. Così come continua col suo destabilizzante "Ja, Ja, Polizei!", a un certo punto ripete sghignazzando "Sì, sì, il rapporto con la Natura".


La Rivolta dei Nani

Quello descritto da Herzog è un mondo di un'oscurità solida, dura come l'acciaio, in cui non è affatto facile trascinarsi nella quotidiana sopravvivenza. Non è pensabile nemmeno il passaggio casuale di una singola particella di luce, perché anche un microscopico barlume solare sparirebbe nella caligine e andrebbe distrutto. I fotoni emessi dall'astro diurno si perdono nella cenere sospesa nell'aria e finiscono col diventare il Nulla. Non esiste speranza, non esiste Salvezza. Si diffonde dovunque soltanto la Luce Nera della Disperazione. L'unica possibilità è la ribellione contro l'Artefice di una condizione che può essere chiamata in un solo modo: Inferno. Un'insurrezione violentissima contro l'ordine esistente, contro la natura stessa delle cose, il cui fine ultimo è riportare i dannati alla loro condizione di origine, quella di coloro che non esistono, che non sono mai esistiti!    

Un pianeta di nani? 

I Nani del Caos non hanno alcun contatto con il mondo esterno. Nutriti con pappine di latte in polvere, sono condannati alla deprivazione sensoriale. Vivono in condizioni di isolamento pressoché assoluto da ogni flusso informativo e da ogni influenza culturale. Si ha l'impressione che Herzog non abbia nemmeno ambientato la vicenda sulla Terra che conosciamo, ma su un pianeta interamente popolato da nani tiroidei. Questa impressione, che colpisce come un pugno allo stomaco, crea un intenso effetto di straniamento. Persino l'unica persona che capita in prossimità della colonia, la donna di Arrecife, è una nana. Sarà una coincidenza? C'è soltanto una scena che ci riporta nel nostro mondo, dimostrando che non si tratta di una copia grottesca della Terra tutta abitata da umani in miniatura. Quando Hombre viene indotto dai suoi compagni a consumare un'unione carnale con Pobrecita, scopre un gran pacco di riviste erotiche di proprietà del Maestro. All'inizio le accatasta e cerca di usarle come un rialzo per salire sul letto dove la sua piccolissima compagna lo attende. Quindi nasce in lui la curiosità, così comincia a sfogliare le pagine e a contemplare le figure di nudo femminile. Si tratta di donne di corporatura normale e ben formata, non di nane. La cosa lo stupisce non poco, così lascia perdere Pobrecita per andare a mostrare a tutti la sua scoperta, destando un'epidemia di ilarità. 


Lo sposalizio degli insetti 

Una nana dal volto cascante, tanto da sembrare quasi una novantenne, con un che di puttanesco e di arrogante nello sguardo, si vantava di essere la creatrice di un bellissimo quadretto chiamato "Il Mondo degli Insetti". Aveva impiegato infinite ore a catturare e a far morire tra atroci sevizie ogni genere di insetto, per poi cucire su quei corpicini ormai inerti brandelli di tessuti in modo tale da antropizzarli e da immortalare le loro sagome in un matrimonio. Una cavalletta era lo sposo, con un microscopico frammento di seta assicurato al torace, descritto come un "piccolo frac". La sposa era una grossa libellula. Un velo di tulle fungeva da abito nuziale, con l'aggiunta di una sottoveste. Il padre della sposa, che sembrava proprio un vecchio trombone pieno di prosopopea e di plutocratica sicumera, era uno scarabeo tondeggiante alla cui lucida corazza era stato cucito un piccolo cappello a cilindro. Un'ancella era un elegante icneumonide, una di quelle vespe parassitogene dal corpo affusolato: la sua bellezza non l'aveva salvata dall'essere bucata da uno spillo. Un laboratorio artigianale degli orrori e del sadismo più efferato. Un ragno si annidava nel sottofondo della scatola in cui la rachitica donna di Lilliput teneva questi suoi tesori, tentando di sfuggire al suo orrido destino. Niente da fare, sarebbe stato snidato e perforato nel morbido ventre, come tutti gli altri.     


I polli carognari

I polli sono uccelli bizzarri, genuini eredi dei dinosauri. Hanno una caratteristica singolare: beccano tutto. Anche le carcasse dei loro stessi simili. Ogni fonte di proteine è per loro preziosa. Persino i frammenti di piume e la carne putrefatta. La necrofagia di queste creature è volentieri rimossa dal sapere comune delle genti, che non amano pensare a simili amenità - eppure è un dato di fatto. Ricordo mio zio E., che si divertiva a macinare le ossa del pollame cucinato per poi nutrire le galline, avidissime di questa manna loro concessa. Herzog fissa la sua attenzione su questa perversione cannibalica dei gallinacei, riuscendo a comunicare agli spettatori un'angoscia subliminale, un rumore di fondo che crea fastidio, un ronzio incessante, una nausea profonda e insopprimibile. Quando compaiono i polli, ecco che parte la musica canaria, lamento dei dannati che sale a straziare il Cielo! Nemmeno questi poveri animali riescono a sottrarsi alla furia dei Nani Maligni. I galli vengono istigati a combattere tra loro, il corpo di un pollo viene cosparso di nafta e incendiato, altri volatili vivi vengono gettati come proiettili di catapulta nella dimora assediata del Maestro per convincerlo a cedere. 


Una profezia della Fine del Cristianesimo 

Verso la fine del film compare il Crocefisso grottesco, blasfemo, con una scimmietta torturata e legata al legno del supplizio di Cristo. La futile dottrina del Sacrificio di Gesù e della Redenzione, cardine della teologia cattolica, viene mostrata per ciò che è: il Niente Assoluto. Il corpicino del primate, contorto in posizioni innaturali quanto dolorose, viene elevato in una processione per irridere Dio stesso, la sua ira, la baggianata grottesca del suo vano amore e la mostruosità del libero arbitrio, tutta questa immonda spazzatura teologica che la Chiesa Romana ha usato per secoli per rendere schiave le genti, per vivisezionarle, per spingerle a maledire la loro stessa esistenza istante dopo istante. Sono vane anche le estreme parole di Gesù che chiede perdono per i suoi carnefici. I NANI SANNO QUELLO CHE FANNO.  


Epilogo catastrofico

Il film si conclude con il supplizio di un povero dromedario che non riesce a sollevarsi, perché le sue zampe posteriori cedono di continuo: sono state spezzate dai Nani del Caos. Il camelide soffre in modo orrendo, osceno. Tutti i suoi sforzi sono come quelli di Sisifo, non producono assolutamente alcun risultato. Dietro all'animale condannato compare la figura esigua del senile Hombre, che sghignazza follemente. Un riso convulso, isterico, di una follia assoluta, che cessa soltanto per pochissimi istanti quando le ventate di gas intestinali del dromedario investono in pieno la faccia dell'essere minuscolo, per poi riprendere ancora più forte, oltre gli stessi limiti fisici dello sfinimento. 


Il Maestro e una curiosità lessicale

A causa di una delittuosa ignoranza della lingua di Mozart e di Bach, nella Wikipedia in italiano (2019) il termine Erzieher non viene tradotto, essendo trattato come se fosse un nome proprio non analizzabile. La stessa mancanza di traduzione del termine tedesco compare in altri siti nel Web, incluso IMDb.com. Questo è ciò che si legge nella lista degli interpreti e dei personaggi: 

Paul Glauer: Erzieher

Eppure non è poi tanto difficile: Erzieher significa "educatore". Il termine è un agentivo derivato dal verbo erziehen "educare", formato da ziehen "tirare", "spingere" (ha la stessa origine indoeuropea del latino dūcere "condurre", "trarre"). Ecco cosa dovrebbe comparire:   

Paul Glauer: L'educatore

Ora è fatta un po' di chiarezza, finalmente. Nei sottotitoli in italiano, l'epiteto Erzieher è invece reso con Maestro. Una figura senile, distorta, con tratti che sembrano orientali, addirittura nipponici (tra questi la plica mongolica) - caratteristica che ho notato in diverse persone, in Germania e altrove, e che con ogni probabilità si deve ad antenati Unni. Il Maestro, a dispetto del suo corpo lillipuziano, è un rappresentante delle istituzioni. Si tratta a tutti gli effetti di un Kapo. In apparenza così razionale, sul finire del film subisce il collasso delle proprie facoltà mentali, invaso dalla pazzia più cieca: scambia un albero secco per un emissario del presidente della colonia e un suo ramo per un dito accusatore, cosa che scatena in lui una grande ira. 

Un ricordo di gioventù

Una delle azioni nanesche più surreali e disturbanti è quella in cui viene avviato un furgone, destinato a procedere in circolo senza potersi fermare fino all'esaurimento del carburante, visto che nessuno nella colonia è in grado di guidarlo. Alla fine il veicolo ardente finisce inghiottito da una cavità senza fondo come l'Ade: una tipica formazione vulcanica canaria. Com'è venuta al regista la geniale idea del furgone che procede senza controllo? Semplice. Quando era giovane lavorava come maggiordomo all'Oktoberfest di Monaco di Baviera e gli capitò di assistere a un incidente automobilistico. Uno dei suoi compiti era assicurarsi che i partecipanti alla festa non si mettessero a guidare in stato di ebbrezza. Visto che un uomo con più etanolo che emoglobina nel sangue sosteneva di essere in grado di guidare, Herzog salì in macchina con lui e bloccò lo sterzo. Quindi scese. L'ubriaco mise in moto e l'auto si avviò continuando a procedere in circolo fermandosi solo quando non ebbe più carburante. 

Una possibile fonte d'ispirazione?

Molti si sono chiesti quale sia il rapporto tra l'opera di Herzog e un altro film per certi versi simile: Freaks, diretto da Tod Browning (1932). Sembrerebbe ovvio pensare che proprio la pellicola di Browing sia stata l'ispirazione di Auch die Zwerge haben klein angefangen. Purtroppo le cose non sono così lineari come si può credere. Infatti Herzog ha ammesso di aver visionato Freaks soltanto dopo la realizzazione del proprio film sulle gesta antinomiane dei Nani, vanificando così ogni speculazione teorica. Si potrebbe anche pensare che abbia nascosto la verità, tali sono le coincidenze; è certo che ormai le possibilità di appurarlo sembrano remote.  


Il Piccolo Re

Il microscopico Helmut Döring ha interpretato una parte secondaria ma interessante in un altro film di Herzog, L'enigma di Kaspar Hauser (Jeder für sich und Gott gegen alle, 1974). Avvolto in una pelliccia di ermellino e in un lungo mantello purpureo, il nano dalla figura triste non proferiva una parola. Un ciarlatano circense lo presentava al pubblico come il mitico Re di Punt, il leggendario paese dell'oro, narrando una stravagante leggenda: a suo dire i sovrani di Punt sarebbero state un tempo giganteschi, ma ogni figlio che procreavano era più piccolo del precedente, così la successione aveva portato nel corso dei secoli al nanismo. Orbene, Punt è un'errata pronuncia egittologica di un toponimo antico egiziano trascritto in caratteri latini come PWNT, che indicava una terra meridionale non meglio identificata, forse da identificarsi con il Corno d'Africa. La pronuncia /punt/ è di certo errata, visto che in copto il toponimo suona /epwe:nǝ/. Kaspar Hauser morì nel 1833 e Champollion nel 1832. Quando la Stele di Rosetta fu decifrata, l'enigmatico orfano tedesco era vivo e vegeto. Tuttavia è molto improbabile che un volgare circense potesse avere una qualsiasi nozione della lettura dei geroglifici.

mercoledì 5 giugno 2019



CONTAMINATION 

Regia: Carl Stevenson
Paese: Regno Unito
Anno: 2004
Categoria: Animazione
Genere: Horror, fantascienza
Sottogenere: Distopia, fantabiologia, fantagenetica 
Durata: 6,23 min
Formato: DVCam

Sinossi
Uno sguardo su un futuro sconvolgente, in cui la contaminazione trasversale di materiale genetico sfugge ad ogni controllo. Utilizzando una combinazione di animazione in 2D e in 3D il film crea un’atmosfera surreale e disturbante, in cui ci si muove alla scoperta di nuove, ibride forme di vita: gatti con la testa di piccione, piccioni con la testa umana e uomini con le ali sono il frutto di una visione, fantastica e inquietante, dei possibili sbocchi di una sperimentazione genetica portata ai limiti estremi.

Recensione: 
Un universo abissale di tenebra profonda, più oleosa della morchia, in cui non attecchisce nemmeno una singola scintilla. Vi regna un solo sovrano assoluto e implacabile: la Disperazione. Non sembra una semplice visione del futuro, per quanto distopico, direi che si tratta piuttosto di uno sguardo nei recessi più bui dell'Ade. Carl Stevenson ci mostra le Tenebre Esteriori, la Valle di Hinnom. Mentre le foglie spettrali cadono dagli scheletri di alberi in cui non alberga traccia di vita, sibilando, sembra di sentire in sé formarsi queste parole: "lasciate ogni speranza, voi ch'intrate". L'Essere non può sussistere in quelle orride vastità delle Ombre, viene degradato, si disperde urlando e gemendo, senza però trovare pace nell'annientamento. Penso che non ci sia nulla di più adatto a descrivere la condizione di Dannazione Eterna. 

Stevenson non poteva sapere niente del Connettivismo, visto che quando produsse il cortometraggio il movimento era ancora in uno stato embrionale. Possiamo però dire che la sua opera è di un estremo interesse e che può essere ritenuta connettivista per via della sua stessa intima natura. 

La Notte dell'Essere

Fu con questa consapevolezza che concepii e realizzai un blog assieme al mio fraterno amico P., il cui nick è Nodens, negli ormai lontani giorni della piattaforma Splinder. Era il 2004. Il portale aveva come titolo La Notte dell'Essere (l'indirizzo era darkmans.splinder.com). Lo utilizzammo per postare immagini tratte da fotogrammi di film che mostravano strani effetti quantistici a causa di un disturbo nella masterizzazione. Le figure umane si sparpagliavano, si ibridavano tra loro e con l'ambiente circostante. Osservare quelle sequenze comunicava sensazioni molto disturbanti. Purtroppo non siamo riusciti a continuare con questo progetto, che non ha comunque riscosso grande plauso nel Web. Il blog esiste ancora, è stato importato prima sulla piattaforma Iobloggo, poi abbandonata a causa della sua decadenza, e infine su Blogspot, dove è consultabile: 


In Cant, un gergo furbesco inglese, darkmans significa "notte".     

Ibridismi verbali  

Ricordo quando io e Nodens, ci ponemmo una domanda per gioco, per sdrammatizzare: cosa succederebbe se provassimo a ibridare un piccione con un filantropo? Ecco il risultato a dir poco mostruoso, purtroppo soltanto a livello di linguaggio scherzoso e non di corpi fisici: 

antropiccionofilo
antropofilopiccione
filopiccionantropo
filantropiccione
picciofilantropo
piccioantropofilo 

Questa operazione, forse un po' infantile, ebbe su di noi l'effetto di una boccata di gas esilarante e ci recò non poco sollievo.

sabato 1 giugno 2019


CON GLI OCCHI DI DOMANI

Anno: 2006
Regia: Mario Gazzola, Walter L'Assainato
Sceneggiatura:
Mario Gazzola, Walter L'Assainato 
Montaggio: Walter L'Assainato
Soggetto: Walter L'Assainato, liberamente ispirato al
      romanzo L'occhio del Purgatorio, di Jacques Spiltz
Fotografia: Walter L'Assainato
Interprete: Vito Longo
Durata: 15,19 min
Genere: Fantascienza, horror
Sottogenere: Distopia, cyberpunk 


Sinossi (da Posthuman.it):
"Con gli occhi di domani" (Regia di Mario Gazzola, Walter L'Assainato - prodotto da posthuman 2006 - 15 minuti) è una storia difficilmente classificabile. Si potrebbe definire un horror metafisico, ambientato in un futuro di tecnologie utopiche e ossessioni. Il protagonista di questa storia è un restauratore. Disperatamente in cerca di modi per verificare se il suo restauro durerà nel tempo. Il B45 è il libro che sta cercando di restaurare... ma qualcosa turba il suo lavoro...

Trama:
Il protagonista del cortometraggio, il dottor Spitz, ha un solo scopo nella propria esistenza: restaurare libri ed essere sicuro della durata del suo lavoro nel tempo. Il problema è che accusa gravi disturbi percettivi. Quando si prepara da mangiare, non vede il cibo. Agisce come per automatismo, portandosi alla bocca "bocconi di niente" e meravigliandosi che abbiano "sempre lo stesso sapore". Presto si capisce il perché. Egli vede ogni cosa come sarà nel futuro. Si è rivolto a uno scienziato offrendosi come cavia di una perigliosa sperimentazione. Così gli è stato praticato un innesto cerebrale in grado di influenzare la sia visione delle cose. Il punto è che i suoi nervi ottici non gli mandano all'encefalo soltanto le immagini dei suoi volumi in restaurazione. Egli vede i bambini come vecchi decrepiti e malati di morbo di Alzheimer, vede gli edifici come ruderi. Il sovraccarico cognitivo lo annienta, costringendolo ad abusare di tranquillanti, fino a giungere al limite estremo della sopportazione. Come Edipo, Spitz si acceca. Si squarcia i globi oculari servendosi di un coltello arrugginito, rendendo un cielo rosso e tiepido di sangue il suo stesso campo visivo, che una volta aveva abbracciato il mondo intero oltre l'orizzonte del presente. Oltre il punto di annichilimento che costituisce il presente.

Recensione:
A causa dell'innesto di un microchip nel cranio, l'infelice restauratore acquista un potere inaudito, quello di scrutare nel crepitante mare di entropia che chiamiamo "futuro", riuscendo a fissare negli occhi il collasso della funzione d'onda ontologica che lo farà diventare presente. Egli sposta la definizione della propria esistenza e del mondo che lo circonda, proiettandola come uno spettro nel reame di ciò che non esiste. Una lacerazione nel tessuto della realtà, una falla nella nostra esperienza presentacea, che lascia irrompere ciò che normalmente non possiamo vedere. Le conseguenze sono destabilizzanti. Il rumore, il ronzio, le variabili fisiche sfocate, prive di definizione. L'Orrore. La mole di informazioni che ne deriva e la loro natura annichilente portano l'uomo alla follia - o forse a una consapevolezza così estrema da essere incompatibile con la sopravvivenza. "Con gli occhi di domani"... ma potremmo benissimo dire "con gli occhi dei Demoni". Ogni cervello contiene un interruttore. Normalmente è spento. Se viene attivato - e in questo caso a farlo è la tecnologia cibernetica - si entra in un universo di una vastità inconcepibile, il cui potere distruttivo è tale da ridurre l'Essere a un pugno di mosche morenti. Questo corto è un capolavoro del Connettivismo!

martedì 28 maggio 2019


IL COMUNISTA

Autore: Guido Morselli
Anno di scrittura: 1964-65
Lingua: Italiano  
Prima edizione: 1976
Altre edizioni: 1981, 2014 
Editore: Adelphi
Collana: Narrativa contemporanea; Fabula 
Pagine: 359 pagg.

Genere: Romanzo
Sottogeneri: Narrativa psicologica, politica, fantapolitica
Codice EAN: 9788845908378


Trama: 
Walter Ferranini è un comunista di Reggio Emilia, deputato del PCI. Duro e puro, è talmente idealista da vivere in condizioni di grande austerità anche a Roma, città eterna di crapule, bagordi e depravazioni, capitale di ogni corruzione e decadenza, madre dei vizi. Egli ha un carattere spigoloso, tanto da sembrare "tagliato con l'accetta in un legno ruvido". Il dogma marxista gli impone di credere che la natura dell'essere umano sia buona, sebbene la sua personale esperienza gli suggerisca piuttosto il contrario. Inizia così, in modo silente e inavvertito, un dissidio ideologico. Dapprima strisciante, il dubbio si insinua nel suo intelletto, per diventare poi sempre più manifesto. Se da una parte il PCI è per Ferranini una Chiesa, una specie di conventicola religiosa in cui egli stesso ricopre la carica di Vescovo, dall'altra gli eventi lo portano a simpatizzare per il torinese Roberto Mazzola, un dissidente che con le sue idee eterodosse si è attirato la censura degli inquisitori comunisti. Eppure l'eretico Mazzola è un comunista vero in tutto e per tutto, uno stalinista genuino che ha resistito alla destalinizzazione divenuta all'improvviso il nuovo Pensiero Unico del Partito, dopo anni di stalinismo professato come unica possibilità ideologica. L'uomo di Reggio, pur portando avanti la propria esistenza in condizioni apparentemente coerenti, ha tuttavia un punto debole di non poco conto: la sua relazione adulterina con Anna "Nuccia" Corsi, moglie del cornuto Cesare Lonati. Questa sensuale vulnerabilità gli attira presto le attenzioni degli organi inquisitoriali del PCI, con conseguenze tutt'altro che piacevoli. A complicare la situazione è l'amore struggente che Ferranini continua a provare per la sua ex moglie americana, Nancy Demarr, da cui il Destino l'ha separato anni prima. Farà di tutto per ricongiungersi a lei, anche a costo di camminare nella neve, in mezzo alla tormenta, venendo quindi ricoverato in ospedale. Non avrà fortuna, come in nessuna sua impresa dalla sua infanzia in poi: non riuscirà a rimettersi insieme all'adorata Nancy, perderà Nuccia, sarà trattato con gelo dalla dirigenza del Partito e da quelli che considerava amici. In buona sostanza, la sua vita sarà come un albero ridotto a segatura di rodilegno. 

Recensione:
Un libro eccellente che ho amato fin da subito. Ho sempre considerato i vincenti come nemici da odiare e sono invece incline a solidarizzare coi perdenti, genere a cui io stesso appartengo. Non ho vergogna ad ammetterlo. In fondo, come diceva Michael Ende, le storie dei vincenti sono tutte uguali e quindi oltremodo noiose, mentre ogni perdente è un caso a sé. Non c'è una sola storia di uno sconfitto che sia assimilabile a un'altra, per questo vale la pena di immergersi nella loro lettura.


N.B. 
I grassetti nei brani morselliani citati nel seguito sono miei, allo scopo di evidenziare parole degne della massima attenzione. 

Il formaggio invernengo 

Una parola che non conoscevo: invernengo (variante vernengo). Dicesi del parmigiano reggiano ottenuto dal latte raccolto da ottobre ad aprile; in Lombardia si chiamava invernengo il grana padano con simili caratteristiche. Più in generale, secondo i vocabolari della lingua italiana, l'aggettivo indica prodotti agricoli a maturazione tardiva, inclusi i cereali. La radice della parola è chiaramente inverno, stagione in cui questo genere di alimenti pregiati veniva prodotto, con l'aggiunta del ben noto suffisso germanico -ing che forma i patronimici e numerosi aggettivi, importato dalla lingua longobarda. Si può considerare lo stravagante vocabolo come un interessante ibrido romanzo-germanico. Un aggettivo ormai desueto, formato in modo simile, è maggengo "del mese di maggio". Riporto il brano in cui si menziona il formaggio invernengo, perché è una preziosa testimonianza di un tempo ormai scomparso e una miniera per noi antropologi. 

- Abbiamo preso il caffè, - fece Amos con la buona volontà di distrarlo - e ci siamo scordati il formaggio. Che reggiani siamo?
Avanzava il cameriere per sparecchiare, gli ordinarono di portarne. Ripresero a mangiare in silenzio, e solo Bignami Vittorio trovò modo di ammirare le 'ciccette' di due forestiere floreali e fuori stagione (tedesche, inglesi? bisogna venire a Roma per vederne), che si mettevano a desco in quel momento a due passi da loro. Amos commentava il formaggio reggiano, a bocca piena: - Questo è nostro autentico,
invernengo. Latte di due mungiture. Una volta ce n'era tanto poco in mercato che non arrivava, non dico a Roma, nemmeno a Bologna. Dopo la guerra, sono state le bacine di ferro al posto dei secchioni di legno, sono state le stufe elettriche nelle casere a fare crescere il rendimento, e tu sai, Ferranini, che per questo ci sono voluti i consorzi dei lavoratori come la CAP, e le cooperative, ci sono voluti i Collina, i Maccaferri e (diciamolo!) i Bignami. Del lavoro ne abbiamo fatto, tu che ci sgridi. Sono miliardi che non vanno più in tasca ai padroni, se li spartiscono i lavoratori.

Per maggiori informazioni e approfondimenti rimando a una fonte autorevole: 


Non smetterò mai di lamentarmi dell'Oblio che inghiotte ogni cosa, facendo scomparire anche dettagli di cose quotidiane a cui tutti siamo abituati, particolari a cui nessuno sembra più interessarsi.

Un sorprendente neologismo 

Morselli ci lascia intravedere qualcosa della vita intima del deputato Ferranini e della sua amante. Ovviamente, data l'epoca, non possiamo aspettarci i pompini: anche in contesti adulterini la sessualità era gravata da fin troppi tabù. Possiamo però gustarci un vocabolo morboso, il verbo "nucciare"

- La vita privata piace anche a te, chi è che dice: nucciare? Ho voglia di nucciare? Su sgelati, da bravo, chi l'ha inventata quella parola?
Ferranini non era forse un ossessivo ma era sfornito di senso umoristico, questo di sicuro. E abituato a prendere le cose sempre sul serio ne faceva merito alla sua origine: noi emiliani siamo tutti così.
- Non c'entra. La colpa è tua che me l'hai fatta trovare.
 


La formazione è unica nel suo genere. Almeno questa è la conclusione a cui mi porta la mia limitata e infelice esperienza col gentil sesso. Questo è un verbo derivato da un nome proprio: nucciare viene da Nuccia, che è un ipocoristico di Anna (deriva da una semplice abbreviazione di Annuccia). Resto sempre stupefatto davanti a queste bizzarre formazioni che oscurano il nome d'origine. Il record lo batte forse il piemontese Notto per Giuseppe (da Pinotto, a sua volta diminutivo di Pino, che è da Giuseppino). Sarebbe interessante cercare di capire cosa abbia spinto Morselli a inventare il verbo nucciare, se la cosa abbia una radice nel suo oscurissimo passato.     

La Rivoluzione nelle ferrovie 

Nessuno al giorno d'oggi ha la benché minima nozione del Piano Keller. Deve essere una di quelle note a piè di pagina in libri storici altamente specialistici. Morselli ci illustra per sommi capi questa realtà obliata. Keller fu un collaboratore di Lenin che riorganizzò le ferrovie russe. Le ferrovie italiane, in mano a militanti comunisti, erano state predisposte per la Rivoluzione. Il compagno Panciroli ce ne parla: 

"... secondo il nostro piano le linee Piacenza - Arezzo e Ferrara - Ancona sono divise in tanti trochi, ognuno affidato a un gruppo, suddiviso in varie squadre per i diversi compiti. Perché sono previsti due tipi d'intervento: l'operazione E (esercizio), e l'operazione 5 (sabotaggio e interruzione del traffico). Ho una squadra al deposito di locomotive, una che si occupa della linea, un'altra della rete aerea, una quarta degli scambi e segnali eccetera." 

All'organizzazione rivoluzionaria descritta da Morselli è subentrata un'entropia diffusa: assenza di manutenzione, malfunzionamenti, disservizi continui, neghittosità cronica, occasionali incidenti e via discorrendo.

Le opinioni di Ferranini sul dialetto 

Ferranini ritiene un bene la decadenza del dialetto emiliano. Il dogma comunista afferma "Proletari di tutto il mondo unitevi". Il punto è che per unirsi bisogna intendersi, fa notare il ruvido deputato. La necessità impellente è a suo avviso "raggiungere almeno il livello nazionale e lasciar perdere il reggiano, il modenese o il piemontese". L'uso della lingua locale è visto come "retorica borghese, magari mascherata da sinistrismo", il cui scopo è mettere in satira il mondo dei lavoratori. L'ideologia comunista fu ostile ai dialetti almeno quanto quella fascista. Eppure lo stesso Ferranini si lascia scappare una parola emiliana italianizzata: sgurare, da sgurèr "pulire, dirozzare". L'etimologia è dal latino secūris "scure": *secūrāre "passare la scure".    

Cooperative che impiantano camorra 

Sono rimasto particolarmente colpito da un brano in cui si parla di una gestione un po' disinvolta dei lavoratori, un malcostume che in Italia non è certo una novità. I responsabili, mirabile dictu, non erano capitalisti borghesi, bensì marxisti che almeno a parole condannavano ogni sfruttamento:   

Erano arrivati verso mezzogiorno nella Bassa, e visitarono il Mobilificio Operaio di Fratta Po, che l'Ancillotti presentava come una roccaforte del partito e un esemplare di organizzazione aziendale. Ferranini, critico, si provò a fare qualche domanda e venne in chiaro questo: il mobilificio non era per niente in regola coi contributi, e non ne teneva nessuna contabilità; e su trentaquattro uomini ben quattro, meridionali immigrati, non avevano neppure il libretto di lavoro.
Il ragioniere Bolognesi, il dirigente, messo alle strette tirò fuori che "si era in famiglia" e che la gente stava meglio così, senza tante trattenute e formalità. Ferranini gli fece notare che nel più vecchio dei tre laboratori le seghe circolari mancavano di dispositivi di sicurezza, prescritti da una legge che pure è assai poco esigente in materia di prevenzione degli infortuni. Gli disse, tranquillo: - Io porterò i fatti a conoscenza degli organi competenti. Le tue ragioni le farai valere in quella sede. Se hai in testa di metterti in regola, bene, se no mi impegno personalmente a farti sospendere il lavoro. - Siccome il ragionier Bolognesi brontolava, bella solidarietà, e lasciava capire che in Federazione c'era chi lo avrebbe difeso (vedi Viscardi), Ferranini aggiunse: - Ti posso garantire che la tua tessera 59 è in pericolo. Essere comunisti significa essere pronti a sacrificarsi,
non a impiantare camorra. Mi capisci? Te lo dice il compagno Ferranini, uno che anche oggi sta pagando di persona. - Fubini lo guardò. 

Ogni ideologia, per quanto utopista possa sembrare, è lesta ad accomodarsi con i poteri del mondo. 

Le genti di Kiev e la proprietà privata 

Tale era la fama dell'Ucraina tra i comunisti, che Reggio Emilia era soprannominata "la Kiev d'Italia". Il reggiano era "l'Ucraina d'Italia"

- Cari miei, c'è poco da ridere. Siamo individualisti, cioè antisocialisti, pensiamo alla terra come alle ciccette delle ragazze. Abbiamo la concupiscenza della proprietà, però usiamo il linguaggio collettivistico.

E ancora:  

- In Russia potranno essere meno avanti di noi come tecnica, mettiamo macchine e sementi, fertilizzanti e insetticidi, silos e caseifici, imballaggi e lascia pur dire, ma quella mentalità, la concupiscenza, loro l'hanno superata. La differenza è tutta qui, e mettetevela in testa, altrimenti avrò sempre predicato per niente.

L'esperienza mi ha dimostrato che le genti di Kiev hanno superato il concetto di proprietà privata... degli altri! 

Contro l'ottimismo cornucopiano 

Il lavoro è una maledizione, una condizione afflittiva. Ferranini è molto turbato dalla consapevolezza di questa realtà e si chiede se le cose potranno mai cambiare. Si chiede se la dannazione lavorativa un giorno avrà fine, se la Rivoluzione libererà l'essere umano da ogni incombenza e dalla fatica a cui il presente opprimente lo condanna. Alla fine, dopo un lungo elucubrare, e deducne che la risposta a questa angosciante domanda è negativa. Non è possibile vagheggiare una società in cui il lavoro - con tutte le sofferenze che comporta - potrà essere superato. Proprio questo è il motivo del dissidio ideologico, del conflitto che mette l'ottimo Ferranini contro l'ortodossia della sua Chiesa, il Partito. Le sue conclusioni sono quelle degli antichi Gnostici e dei Manichei: la Natura è intrinsecamente maligna, il mondo materiale si oppone agli esseri viventi e li tortura senza sosta. Il Cosmo non è la casa del genere umano, è piuttosto la sua prigione, il girone di Malebolge in cui avviene la sua degradazione, in cui ogni sua speranza viene distrutta.      

Materiale profetico in Morselli 

Sono consapevole del fatto che saperlo desterà grande stupore, ma è così: Il comunista contiene forse la prima menzione documentabile del concetto di Padania, solo in seguito articolato in una labile costruzione politica da Umberto Bossi e dal partito da lui fondato.

Passare il suo Po, familiare e selvatico, nascosto dai pioppi. Il suo Po malinconico. (C'era il comitato interprovinciale da riunire. Il Po, gente mia, non ha ponti. Il nostro fiume serve solo per le inondazioni. Noi che siamo padani, non emiliani o lombardi e nemmeno italiani...).  

Ferranini intravede con nitidezza la falla che porterà il Partito Comunista Italiano alla rovina.  Si tratta di un'antinomia che è sfuggita a tutti, sia alla base degli iscritti che alla classe dirigente. Se si favorisce il culto della personalità e si incoraggiano gli elementi più dotati, questi si inorgogliscono e perseguono soltanto i propri fini egoistici. Così si va contro il collettivismo. Se non si favorisce il culto della personalità, se si ostacolano gli elementi più dotati, il Partito finirà con l'essere guidato dai mediocri, che non saranno in grado di gestire nulla. Anche così si va contro il collettivismo. Un bel paradosso, vero?  
E infatti oggi c'è il Partito Democratico. Il Piddì. 

P.S.  
Se la memoria non mi fallisce, l'ultimo ad aver fatto cenno al concetto stesso di collettivismo fu un certo Fausto Bertinotti, che in un'occasione disse di sognare ancora l'abolizione della proprietà privata. Indossava una giacca di cachemire.

La Casta

Morselli preconizzò la crisi ontologica della Sinistra. Non si limitò ad anticipare il gergo della Lega Lombarda di Bossi: nel suo romanzo troviamo anche un'anticipazione di un altro linguaggio, quello del Grillismo. Non soltanto: vengono denunciati anche i radical chic. Dietro le parole evocate dallo scrittore nichilista scrutando il futuro come un aruspice etrusco, si cela una verità tragica. Ecco due passi che dovrebbero far meditare chiunque: 

Ci sono dunque i Pisani e i Magrò, i comunisti in cui il comunismo è raffinatezza di cultura escludente. Una casta. 

E ancora: 

E si voltò a guardare l'orologio. Era un professore che ha fretta di mettere fine all'esame. Come il compagno Pisani a Torino: professori infastiditi dagli esaminandi sciocchi, preti impazienti di richiudere il tabernacolo. La casta degli illuminati di fronte a profani presuntuosi come lui, come Mazzola. 

Il linguaggio simbolico, che distingue Homo sapiens dagli altri animali, diventa una peste, troppo spesso si trasforma nelle sbarre di un carcere da cui non si può evadere!  

Una pugnalata da Italo Calvino! 

Sì, ne sono convinto e professo un'opinione che ai lettori apparirà come minimo controversa. In poche parole, Italo Calvino fu responsabile del suicidio di Guido Morselli. Lo spinse alla morte. Ciò che gli inflisse si può chiamare in un solo modo: un colpo di pugnale nella schiena. Ein Dolchstoß in den Rücken - per usare l'augusta lingua di Hegel e di Nietzsche. Sono della stessa idea dell'Ispettore Derrick: assassino non è soltanto chi preme il grilletto. La mia idea non è poi così peregrina. C'è chi parla esplicitamente di "delitto editoriale" - e ben a ragione. Riporto in questa sede, a pubblica edificazione, le invereconde parole scritte da Italo Calvino al Morselli: 

    Torino, 5 ottobre 1965 

    Caro Morselli,
    finalmente ho letto il Suo romanzo. So d’aver tardato oltremisura e che non c’è nulla che spazientisca un autore quanto queste lunghe attese: ma la lettura dei manoscritti è un lavoro supplettivo per cui devo rubare del tempo al lavoro e alle altre letture che riempiono – ahimè senza margine – le mie giornate feriali e festive, inverno ed estate. Ed è anche un lavoro – devo dirglielo subito – che, quando si tratta di romanzi politici, faccio senza nessuna speranza. La politica continua a interessarmi, e così la letteratura (con tutto ciò che questo nome implica) ma dal romanzo politico non mi aspetto nulla, né in un campo d’interessi né nell’altro. Credo cioè che si può fare opera di letteratura creativa con tutto, politica compresa, ma bisogna trovare forme di discorso più duttili, più vere, meno organicamente false di quello che è il romanzo oggi. Trattando i problemi che stanno a cuore si possono scrivere saggi che siano opere letterarie di gran valore, valore poetico dico, con non solo idee e notizie, ma figure e paesi e sentimenti. Delle cose serie bisogna imparare a scrivere così, e in nessun altro modo.


E ancora: 

…] direi che ci vorrebbe più consapevolezza dell’operazione linguistica che sta facendo; dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all’interno del partito comunista; lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo “inventare”. Qui è la grande delusione a cui necessariamente va incontro il “genere” che Lei ha scelto, il romanzo di rappresentazione quasi fotografica d’ambienti diversi, il romanzo storico-privato.

Questa è la chiusura della lettera desolante: 

    […] Come vede il libro ho cercato di leggerlo in tutte le sue dimensioni, e mi sono accanito a smontarlo e rimontarlo: insomma ci ho preso gusto e mi ci sono arrabbiato, non rimpiango il tempo (un viaggio a Milano in treno, andata e ritorno) che ho impiegato a leggerlo, posso dire che mi ha mosso pensieri e ci ho imparato.
    Spero che Lei non s’arrabbi per il mio giudizio. Si scrive per questo e solo per questo: non per piacere, o stupire, o “aver successo”.
    Un cordiale saluto
    Suo Italo Calvino


Così apprendiamo che l'autore de Il barone rampante avrebbe letto il ponderoso romanzo di Morselli in un viaggio in treno a Milano... da Alfa Centauri! Già questa è una dichiarazione di disonestà intellettuale. A meno che non sia dotato di poteri mentalistici prodigiosi, non penso che un essere umano possa leggere in poche ore un libro di circa 35o pagine. Non rientra nelle possibilità della specie Homo sapiens. Punto. Questo è un dato di fatto. Lo uso spesso e volentieri per smascherare gli impostori che si fregiano del titolo di "lettori bulimici", quelli che affermano di leggere un migliaio di libri in un anno (ossia più di un libro ogni santo giorno!). Chiunque affermi di leggere un libro come Il comunista in un giorno è soltanto un buffone: probabilmente il manoscritto di Morselli è stato cestinato dopo un'occhiata superficiale. Francamente preferisco quell'altro Calvino, il Riformatore di Ginevra, quello che odiava i bambini e li definiva "piccoli fetenti"

Queste sono parole, di tutt'altro tenore, tratte dal risvolto del romanzo, pubblicato da Adelphi: 

Il comunista racconta un caso di dissenso ideologico, ma non è un romanzo ideologico. Anche se è impressionante l’anticipo con cui questo romanzo, scritto nel 1964-65, tocca problemi e prospettive degli anni successivi, bisogna dire che qui a Morselli preme soprattutto ricomporre uno strato di realtà, un agglomerato di psicologie, di modi di vita, di affinità e di conflitti all’ombra di via delle Botteghe Oscure. Come ogni vero romanziere, Morselli non si preoccupa di giudicare, ma di dare vita e forma. Così, il quadro che ci mostra abbraccia insieme gli elementi più grandiosi e affascinanti come quelli più duri e meschini della vita interna del P.C.I., senza che mai quei caratteri siano usati per una dimostrazione. 

E ancora:

Come già nei suoi romanzi precedenti, anche questa volta Morselli sa calarsi con prodigioso mimetismo in una nuova realtà, il P.C.I., presenza imponente nella vita italiana, forse troppo imponente se finora i romanzieri italiani sembrano essersi del tutto bloccati davanti a essa. È perciò quasi un’altra ironia della sorte, fra le molte legate al suo nome, che a cimentarsi in questa difficile impresa, e a riuscire nella prova, sia stato un outsider in ogni senso come Morselli, aiutato soltanto dalla sua rara capacità di aprire le porte di mondi sigillati e da una chiaroveggente attrazione per il concreto. 

Purtroppo capita che ci voglia un suicidio perché sia resa giustizia all'opera di un grande!