domenica 10 novembre 2019

NOTE SUL LAVORO DI KAGAMI

Akikatsu Kagami (Aichi Gakuin University, Nagoya, Giappone) è l'autore dello studio Changes and Traces of Ainu Place Names in Contact with Japanese, ossia Cambiamenti e tracce dei nomi di luogo Ainu in contatto col giapponese, pubblicato nel 2009. Mi rendo conto che l'antroponimo nipponico in italiano fa un po' ridere, proprio come il famoso Urina Suimuri che compariva nelle barzellette sui Giapponesi, spesso assieme a Kagapoko Kifapokomoto. Immagino che i troll si faranno grasse risate, come se il nominativo dell'accademico di Nagoya fosse una trasposizione ironica di una frase italiana, "chi cazzo mi caga?" o qualcosa del genere. Ne sono consapevole e mi dispiace, ma non posso farci niente. Non l'ho inventato io, esiste davvero. Riporto la pagina con le opere dell'autore nel sito dell'editore De Gruyter:


Il lavoro di Kagami sui toponimi di origine Ainu è consultabile nel Web tramite questi link, che spero si manterranno a lungo funzionanti:



Questo è l'abstract, da me tradotto:

"Alla diciassettesima conferenza ICOS a Helsinki, ho rilasciato un articolo intitolato “Ainu Substratum in the Distribution of Japanese Microtoponyms” (Sostrato Ainu nella distribuzione dei microtoponimi giapponesi) e ora vorrei presentare i miei continui studi su questo argomento. A Tōhoku (Distretto del Giappone nordorientale), restano molti nomi di luogo che hanno la stessa struttura dei nomi di Hokkaidō, dove ancora sussistono aborigeni Ainu. Ma questi nomi di Tōhoku sono mutati attraverso il contatto con la lingua giapponese, ed è necessario interpretarli come se fossero cambiati dall'Ainu a parole nipponizzate."

Per chi non lo sapesse, gli Ainu sono una popolazione antichissima del Giappone, che vive nell'isola di Hokkaidō e nelle isole Curili (queste ultime appartenenti alla Federazione Russa). Sono molto diversi dai Giapponesi e caratterizzati da un somatismo più simile a quello europeo (manca la plica mongolica); gli uomini hanno folta barba e pelosità abbondante. La lingua tradizionale degli Ainu, ormai moribonda, non ha parentele note con alcun'altra lingua del mondo. 

Queste sono le radici di sostrato indagate da Kagami nel suo articolo:

1) PI-NAY "fiume dei ciottoli"
     Compare a Tōhoku come HI-NAI.
   Metanalisi: Questo elemento è stato interpretato erroneamente a partire dall'antico giapponese hi "cipresso giapponese", con la variante hinoki. Si noterà che questi toponimi si trovano nella maggior parte dei casi oltre l'estremo limite settentrionale della crescita spontanea del cipresso giapponese (Chamecyparis obtusa), cosa che dimostra in modo semplice e diretto la falsità di questa etimologia popolare.


2) KOTAN "villaggio"
     Compare a Tōhoku come KOTANI e KOTATE / KODATE.
     Metanalisi: L'elemento kotani è stato interpretato in giapponese come "piccola valle" o come "vecchia valle" (ko "vecchio"), a partire da tani "valle". Tuttavia in Tohoku la parola giapponese usata per indicare la valle è ya, non tani. Le forme kotate e kodate sono state interpretate a partire da tate "scudo"; con sostituzione criptica di ko "vecchio" con furu, altra pronuncia dello stesso ideogramma, si sono ottenute le forme furutate e furudate, ancor più fuorvianti.


3) PENKE "superiore, alto"
     Compare a Tōhoku come BENKE, BENKEI.
     Metanalisi: Questo elemento non è stato sottoposto a metanalisi, dato che la sua peculiare struttura non ha permesso l'accostamento a parole nipponiche. Nella maggior parte dei casi è stato quindi sostituito dal giapponese kami "superiore, in alto". La forma Ainu originale Penke compare nella toponomastica di Hokkaidō, ad esempio in Penke-to "Lago Superiore".


4) PANKE "inferiore, basso"
     Compare a Tōhoku come BANGE.
     Metanalisi: Questo elemento non è stato
sottoposto a metanalisi, dato che la sua peculiare struttura non ha permesso l'accostamento a parole nipponiche. Nella maggior parte dei casi è stato quindi sistituito dal giapponese shimo "inferiore, in basso". La forma Ainu originale Panke compare nella toponomastica di Hokkaidō, ad esempio in Panke-to "Lago Inferiore".

5) NUPRI "montagna"
    Compare a Tōhoku come -NO-MORI 
   Metanalisi: In questo elemento -no è stato interpretato come particella giapponese del genitivo, mentre -mori è stato interpretato come una parola giapponese antica che significa "montagna" (e anche "foresta"). Si noti che nei toponimi giapponesi di origine non Ainu il suffissoide -mori non compare preceduto dalla particella genitivale -no (es. Aomori "Foresta Blu"). La forma Ainu originale -nupuri compare molto frequentemente nella toponomastica di Hokkaidō per designare montagne: Atusa-nupuri, Nisey-ko-an-nupuri, etc.

A questo punto, dopo aver discusso gli elementi toponomastici sopra riportati (per ognuno è inclusa una mappa che ne illustra la distribuzione), Kagami si auspica che l'applicazione del suo ineccepibile metodo possa portare a scoprire un maggior numero di toponimi Ainu mascherati. Segue una ricca bibliografia di suoi lavori precedenti, che purtroppo non sono riuscito a recuperare nel Web. 

Gli Emishi 

Nel Nordest dell'isola di Honshū, proprio in quella che oggi è conosciuta come regione di Tōhoku, viveva un popolo molto bellicoso i cui uomini erano caratterizzati da una pelosità abbondante. Sono conosciuti con il nome di Emishi (蝦夷, nell'epoca Nara 毛人) e hanno resistito a lungo all'espansione dell'Impero. I primi contatti con i Giapponesi si ebbero nel 658 d.C., quando una spedizione navale raggiunse Akita (all'epoca chiamata Aguta, ho sentito che qualche anno fa vi avvenivano apparizioni mariane, è come se fosse la Medjugorje giapponese). Ebbe inizio una lunga serie di guerre: alcune tribù erano alleate con i Giapponesi, altre erano ostili. Gli ultimi focolai di resistenza furono domati nell'811 d.C.; da allora gli Emishi furono incorporati nella società feudale e dominati da una casta di meticci, finché si perse ogni loro caratteristica distintiva. Si suppone con ottime basi che parlassero una lingua imparentata con quella degli Ainu di Hokkaidō. Una prova molto convincente sono gli idronimi in -betsu, derivati dall'Ainu pet "fiume" tramite adattamento naturale alla fonetica giapponese. Molto più a meridione della grande isola di Honshū, questa radice pet è stata adattata nella forma abbreviata -be, ad esempio in Kurobe e Oyabe, nomi di fiumi della Prefettura di Toyama. Chiaramente il suffissoide -be "fiume" era tipico di un popolo che parlava una lingua imparentata con quella degli Emishi, seppur non identica. Per secoli si sono tentate etimologie dell'etnonimo Emishi utilizzando parole giapponesi, ottenendo così i risultati grotteschi e inverosimili tipici del più crasso paleocomparativismo, fenomeno tristemente noto nella nostra Penisola. In realtà è tutto semplicissimo: nella lingua degli Ainu la parola emchiu significa "uomo, persona" (scritto anche enju, enzyu). 

Sopravvivenze di elementi di sostrato 

Esiste a Tōhoku, nella parte settentrionale dell'isola di Honshū (prefetture di Akita, Aomori, Iwate ed altre), una società di cacciatori d'orsi, chiamati Matagi. Questi usano tra loro, esclusivamente durante la caccia, un gergo chiamato Yama-kotoba, ossia "Parole della Montagna" (in giapponese yama "montagna", kotoba "parole") o Matagi-kotoba. Accanto ad alcuni termini giapponesi usati in senso traslato (es. ossama "orso", alla lettera "uomo anziano"), vi sono numerose parole Ainu adattate alla fonetica nipponica. Questi sono alcuni esempi: 

sanpe "cuore" 
    (Ainu sanpe)

setta "cane"
    (Ainu sita)

hakke "testa"
    (Ainu pake)
hono "bambino piccolo"
     (Ainu ponpe)
horo "grande"
    (Ainu poro)
kappo "cuoio"
    (Ainu kapkapuhu)

wakka
"acqua"
    (Ainu wakka)

Per ulteriori informazioni si rimanda al lavoro di Catherine Knight:


Mentre si continua ad affermare nel Web che gli studiosi non sono riusciti a ricostruire la lingua degli Emishi, a dispetto della presenza di ricco materiale non soltanto toponomastico nella regione che hanno abitato, nessuno sembra collegare proprio agli Emishi il lessico di origine Ainu presente nello Yama-kotoba. In effetti si trova ben poco sullo Yama-kotoba e non ho avuto modo di approfondire l'affascinante argomento quanto avrei voluto. Oltre alle parole fornite dalla Knight, se ne possono riportare poche altre, riportate in un blog di Tumblr (dunque non esistono soltanto i porno-Tumblr!):


ege "fuoco"
kodataki "gatto"
nasashi "sake"
surube "fucile, pistola"
takase "cavallo"

Per questi vocabili non sono riuscito a trovare corrispondenze in Ainu; in particolare il termine ege "fuoco" mi pare enigmatico (ho trovato che in Ainu si ha invece ape, abe "fuoco", mentre il verbo corrispondente è ruy "bruciare"). Faccio notare al mondo accademico che il termine kodataki "gatto" non ha nulla a che vedere col giapponese neko "gatto": somiglia molto di più alla parola preistorica che ha dato il nostro vocabolo "gatto" (dal latino cattus, comune al celtico e al germanico). Potrebbe trattarsi di una falsa etimologia e potrei peccare fortemente di ingenuità, ne sono consapevole. Tuttavia potremmo anche essere di fronte a qualcosa di importante. Mi piacerebbe che il professor Guido Borghi si occupasse della questione. Che spiegazione dare a questi dati bizzarri? Faccio notare che le cronache giapponesi menzionano un popolo diverso dagli Emishi, che competeva con loro per il possesso di Tōhoku. Queste genti, la cui origine ignoriamo, sono note col nome di Mishihase. Non è chiaro se parlassero una lingua del ceppo Ainu. Posso soltanto notare che l'etnonimo contiene l'elemento mishi-, che potrebbe avere la stessa etimologia del nome degli Emishi. Forse invece l'origine è del tutto diverso e si trattava di un popolo anteriore agli stessi Ainu, un relitto di una preistoria ormai sprofondata nell'Oblio. La mia ipotesi, forse non del tutto peregrina, è che il gergo dei Matagi comprenda sia elementi lessicali della lingua degli Emishi che di quella dei Mishihase. Così ege "fuoco" sarebbe una parola del perduto idioma di questi ultimi! La ricostruzione che posso tentare è abbastanza verosimile: gli Emishi non assimilati, oppressi duramente dai meticci giapponesizzati, si sono ritirati in zone remotissime, dove vivevano anche i discendenti dei loro ancestrali nemici, i Mishihase. Sarebbero dunque avvenute unioni tra i due gruppi considerati reietti. 

Perché nessuno si occupa di tutto ciò? Perché non si trovano studi accessibili? Vorrei sbagliarmi, eppure ho il sospetto che la scienza ideologica non sia una peculiarità del solo Occidente. Evidentemente se ne trovano manifestazioni anche nel paese del Sol Levante. Non dimentichiamoci che gli stessi Ainu di Hokkaidō sono stati sottoposti a spaventose persecuzioni e a discriminazioni di ogni genere. Se nominassi poi gli intoccabili dell'Arcipelago, gli Eta, quale sarebbe la reazione degli accademici? 

venerdì 8 novembre 2019

NOTE SUL LAVORO DI WITZEL

Michael Witzel (Harvard University, Department of Sanskrit and Indian Studies) è l'autore del lavoro Substrate Languages in Old Indo-Aryan (Ṛgvedic, Middle and Late Vedic), ossia Lingue di sostrato nell'antico indoario (ṛgvedico, medio e tardo vedico), pubblicato nel 1999 sull'Electronic Journal of Vedic Studies (EJVS) e attualmente consultabile in svariati siti del Web, ad esempio su Researchgate.net:


Anche il sito del professor Witzel contiene la risorsa in analisi, assieme a molte altre assai utili: invito i navigatori a consultare una biblioteca tanto ricca e mirabile.


Trovo che Substrate Languages in Old Indo-Aryan sia un'esaustiva e interessantissima trattazione delle lingue di sostrato del subcontinente indiano. Il saggio è ancor più meritorio se si considera che l'argomento è ignoto al grande pubblico. Anche moltissime persone che si sono avvicinate allo studio del sanscrito, credono tuttora in modo incrollabile al dogma dei Neogrammatici. Così attribuiscono all'intero lessico della lingua dell'India classica un'origine indoeuropea, senza sapere che moltissime parole sono state prese da lingue parlate alla popolazione stanziata sul territorio prima che vi arrivassero gli Indo-Arii. Basterebbe anche poco a capirlo. Ci si potrebbe arrivare già soltanto dando un'occhiata alla fonetica di un gran numero di parole, unita all'impossibilità di trovare paralleli credibili in altre lingue indoeuropee.

Questo è l'indice dell'opera:

§ 0. Definitions ... 2

§ 1. Greater Panjab ... 6
§ 1.1. Ṛgveda substrate words  ... 6
§ 1.2. Para-Munda loan words in the Ṛgveda ... 6
§ 1.3. Para-Munda and the Indus language ofthe Panjab ... 10
§ 1.4. Munda and Para-Munda names ... 11
§ 1.5. Other Panjab substrates ... 13
§ 1.6. Dravidian in the Middle and Late Ṛgveda ... 14
§ 1.7. Greater Sindh ... 21
§ 1.8. The languages of Sindh ... 22
§ 1.9. The Southern Indus language: Meluhhan ... 24
§ 1.10. Further dialect differences ... 30
§ 1.11. Dravidian immigration ... 32

§ 2. Eastern Panjab and Upper Gangetic Plains ... 33
§ 2.1. The Kuru realm ... 33
§ 2.2. The substrates of Kuru-Pañcāla Vedic ... 35
§ 2.3. The Para-Munda substrate ... 36
§ 2.4. Substrates ofthe Lower Gangetic Plains and “Language X” 
    ... 40
§ 2.5. Tibeto-Burmese ... 43
§ 2.6. Other Himalayan Languages ... 46

§ 3. Central and South India ... 49

§ 4. The Northwest ... 51

§ 5. Indo-Iranian substrates from Central Asia and Iran ... 54

§ 6. Conclusions ... 56

Gli stessi argomenti sono trattati e approfonditi in un'altra opera dello stesso autore: Early Sources for South Asian Substrate Languages, ossia Antiche fonti per le lingue di sostrato dell'Asia meridionale, pubblicato sempre nel lontano 1999, attualmente consultabile su Academia.edu e scaricabile a questo url:


Anche questo studio è eccellente: The Languages of Harappa, sempre dello stesso autore, pubblicato nel 2000:


I Veda furono composti oralmente in un periodo compreso all'incirca tra il 1700 a.C. e il 500 a.C., in ogni caso dopo il collasso della civiltà della valle dell'Indo (intorno al 1900 a.C.), in zone di quelle terre che oggi sono chiamate Afghanistan, Pakistan e India Settentrionale (Grande Panjab). I testi del gveda, una delle quattro suddivisioni canoniche dei Veda, sono stati classificati in funzione dell'età di composizione, stabilita sulla base di criteri interni di arrangiamento testuale:  

I - Periodo ṛgvedico antico (1700-1500 a.C.)
II - Periodo ṛgvedico medio (1500-1350 a.C.)
III - Periodo ṛgvedico tardo (1350-1200 a.C.)

Si tratta di materiale dell'Età del Bronzo indiana, anteriore all'introduzione dell'uso del ferro. Il geva è seguito da una varietà di altri testi vedici: Samaveda, Yajurveda, Atharvaveda (più antichi del 1100 a.C.), Brāhmana (1100-800 a.C.), Āraṇyaka (1100-800 a.C.) e Upaniṣad (800-500 a.C.). Ṛgveda, Sāmaveda, Yajurveda e Atharvaveda sono noti come le quattro Saṃhitā. Esistono poi testi ancora più recenti, composti dopo il 500 a.C.: i Sūtra e i Vedāṅga. Non va taciuto che la datazione dei testi più antichi è controversa; in India gli studi sono fortemente condizionati dalla religione e dall'ideologia politica, tanto che lo stesso Witzel ha dovuto lottare strenuamente contro un gran numero di fanatici.

L'idea più semplice che può venire in mente a chi affronta per la prima volta il problema delle parole di sostrato nei testi vedici, è quella di attribuire ogni termine non indoeuropeo trovato al dravidico. Questo perché le lingue dravidiche, tuttora fiorenti e dominanti nell'India meridionale, sono il più noto esempio di lingue preindoeuropee del subcontinente. Si potrebbe quindi pensare che un tempo il proto-dravidico fosse parlato in tutta l'India e fosse proprio la sorgente delle enigmatiche parole del sostrato. In realtà le cose non sono affatto così semplici. Oltre alle lingue dravidiche, esistono in India anche le lingue Munda, di origine austroasiatica. Non solo: dovettero esistere altre lingue del tutto diverse, ormai perdute e di classificazione assai difficile (per non dire impossibile). Riporto a questo punto un sintetico quadro cronologico del sostrati presenti nei testi ṛgvedici: 

1) Ṛgveda arcaico 
Si trova soltanto materiale di sostrato di origine centroasiatica, presente nel proto-indoario e portato in India dall'esterno.
2) Ṛgveda I 
Non si trovano tracce di parole dravidiche; si ha invece abbondante presenza di termini presi a prestito da una lingua ricca di prefissi, che è stata chiamata para-Munda o para-austroasiatica. Si trovano anche prestiti correlati all'agricoltura, da una lingua sconosciuta e diversa, soprannominata lingua X di Masica (dal nome del suo primo indagatore).  
3) Ṛgveda II e III 
Cominciano a comparire prestiti dravidici.
4) post-Ṛgveda 
Continua l'influenza lessicale dello stesso tipo di lingue non indoeuropee nel linguaggio vedico educato dei Brahmini. Si trova materiale onomastico proto-Munda nelle regioni del Nordest indiano.

Esistono poi altri sostrati in India, come il proto-Burushaski nel Nordovest, il tibeto-birmano nella regione himalayana e nel Kosala, oltre agli antenati di alcune lingue antiche ora residuali, parlate in sacche isolate nel subcontinente (Kusunda nel Nepal centrale, Nihali nell'India centrale e resti lessicali di lingue perdute, come quella originaria dei Tharu, dei Nilgiri e dei Vedda). Mi emerge un ricordo d'infanzia. Durante una trasmissione condotta da Mike Bongiorno, a un concorrente specializzato in cultura indiana, fu chiesto qual è la lingua parlata in quel paese, che non somiglia a nessun'altra lingua del mondo. Se la memoria non m'inganna, il concorrente rispose col nome della lingua Nihali (Nahali). In realtà il lessico del Nihali ha subìto imponenti influenze da parte dei vicini Munda e Dravida, eppure resistono importanti strati lessicali privi di parentele ovvie.

Il termine para-Munda è usato per indicare una lingua le cui uniche attestazioni sono le tracce lasciate nel lessico vedico e post-vedico. Deve il suo nome al fatto che le parole mostrano una notevole somiglianza tipologica con quelle delle lingue Munda, soprattutto nell'uso dei prefissi. Siccome moltissime parole iniziano con la stessa sillaba (ka-, ki-, ku-, etc.), si è potuto ipotizzare la natura originariamente morfologica di questo elemento. In alcuni casi abbiamo alternanze tra una parola con un simile elemento iniziale e una variante che ne è priva. Quando passiamo all'analisi delle radici, una volta che abbiamo separato i prefissi, non abbiamo tuttavia altrettanta fortuna: solo in alcuni casi l'etimologia concreta di questa parole è stata trovata. Proprio per questo si parla di sostrato para-Munda (ossia che ha caratteri simili al Munda) e non di sostrato proto-Munda o semplicemente sostrato Munda. Passiamo ora ad elencare un certo numero di parole di questo genere. 

Materiale di sostrato para-Munda in sanscrito (ṛgvedico e post-ṛgvedico):

1) Prefisso ka- 

kakardu "bacchetta di legno"
kapardin "con nodi nei capelli"
kabandhin, kavandha "barile"
kamaṇḍalu "vaso d'acqua" (cfr. maṇḍala "cerchio")
kapaṭu "fungo"
kapāla "teschio"
kapiñjala "pernice"
kapola "guancia"
kaphauḍa, kaphoḍa "clavicola; gomito"
kasarṇīla "tipo di serpente"
kastūpa "ciuffo di capelli" (cfr. stupa "ciuffo di capelli; cima")
kākambīra "un tipo di albero"

Con palatalizzazione:

śakuna "(grande) uccello"
śakuni "uccello augurale"
śakunta
, śakuntaka, śakunti, śakuntikā "uccello"
Śakuntalā, nome di una ninfa

2) Prefisso ki-

kimīdin "un demone"; nome di una classe di demoni
kiyāmbu "una pianta acquatica"
kilāsa "maculato; lebbroso"
kīkaṭa, nome di una tribù
kīkasā "vertebra; costola"
kīja "strumento"
kīnārā "due aratori"
kīnaśa "aratore"
kīlāla "colostro; una bevanda dolce"
kīsta "lodatore; poeta"

Con ulteriore prefisso su-:

sukiṃśuka, nome di un albero (Butea frondosa)

Con palatalizzazione:

śimida, śimidā "demone femminile" (cfr. kimīdin)
śiṃśumāra
"delfino gangetico"
śiśūla "delfino"

3) Prefisso ku-

kumāra "ragazzo, giovane uomo"
kurīra "acconciatura femminile di capelli"
kuruṅga, nome di un capitano dei Turvaśa
kuliśa "ascia"

4) Doppio prefisso *Cǝr- (con o senza palatalizzazione)

i) Prefisso kal- / kar- 

kalmalīkin "splendente"
kalmāṣa "variegato, maculato"
karañja, nome di un demone
karambha "farinata"
karbara "maculato"
kardama "sporcizia; fango"
karkandhu "tipo di albero" (Zizyphus Jujuba)
karkari "liuto"
karkaṭa "granchio"
karkoṭaka "demone serpente, Nāga"
kārotara "setaccio, filtro"
kārṣmarya "tipo di albero" (Gmelia arborea)

Variante gar-

garmut, gārmuta "fagioli selvatici"

ii) Prefisso kil- / kir-  

kilbiṣa "azione malvagia"
kirmira "variegato"


iii) Prefisso khar-

khargalā "gufo"
kharjūra "palma da datteri"
akharva "mutilato"


iv) Prefisso kṛ-

kṛpīṭa "cespuglio"
kṛśana "perla" 


v) Prefisso palatalizzato jar- 

jartila "sesamo selvatico" (cfr. tila "sesamo", tilvila "fertile",
     tilpiñja "sesamo infertile")


vi) Prefisso palatalizzato śal- / śar-  

śarkara "ciottolo, sassolino; sabbia"
śarkoṭa "demone serpente, Nāga" (cfr. karkoṭaka)
śarvarī "notte"
śalmali, nome di un albero (Salmalia malabarica)

v) Prefisso assibilato sar- / sṛ-

sardigṛdi "parte dell'organo sessuale femminile"
sṛbinda, nome di un demone
sṛdara "serpente"
sṛdāku "lucertola"

5) Doppio prefisso Cən- / Cəm- (con o senza palatalizzazione) 

kambala "coperta di lana; abiti"
kambūka "pula"
Kamboja, nome di un popolo dell'Afghanistan
kandhara "collo"
kaṅkūṣa "parte della testa"
kāmpila "tipo di abito, gonna"

Forme palatalizzate:

jāmbila "saliva"
śambūka "pula" (cfr. kambūka)

6) Altri prefissi (ba-, bal-, mar-, pa-, pal-, pra-, vi-, etc.)

balāsa "una malattia" (cfr. kilāsa "lebbroso")
balbaja, nome di un'erba (Eleusine indica) 
balkasa "sedimento, residuo"
barbara "dai capelli crespi"
barhiṇa "pavone"

markaṭa "scimmia"
markaṭaka "un tipo di grano"

palala "sesamo macinato"
palālī "paglia"
palāva "pula"
palāṇḍu
"cipolla"
palpūlana "liscivia, risciacquatura"
pālāgala "messaggero, corridore"

Pramaganda, nome di un capitano dei Kīkaṭa
Praskaṇva, nome di un re; nome di un saggio

Quando si riesce a individuare l'etimologia di una radice risaltente a questo sostrato, le deduzioni sono molto feconde. Facciamo un esempio. Il proto-Munda *ga(n)d- "fiume" permette di spiegare idronimi e altri nomi risalenti al sostrato para-Munda. Così abbiamo il fiume Gandhāra, che è anche il nome del famoso paese che attraversa, oltre al popolo Gandhāri. Con il suffisso pluralizzatore -ki (ben noto al Munda) abbiamo l'idronimo Gaṇḍakī, alla lettera "Fiumi". Con altro suffisso in velare abbiamo Gaṅgā, il famosissimo nome del Gange, che potrebbe ben significare "Grande Fiume". Un'antica popolazione stanziata sull'alto corso del Gange ha il nome Gandhina. L'antroponimo Pramaganda, nonostante il suo aspetto fonetico indoeuropeo, risulta impenetrabile finché si utilizzano gli strumenti dei Neogrammatici. Se confrontiamo la parola con le lingue Munda, apprendiamo subito che il prefisso pra- significa "figlio", che ma- è un prefisso possessivo, mentre -ganda risale alla radice sopra vista che significa "fiume". Così Pramaganda significa "Figlio del Fiume". Una formazione molto simile si trova in Magadha, nome di un antico regno gangetico, che significa "Appartenente al Fiume". Nelle parole indoeuropee ereditate non si hanno simili alternanze tra -d- e -dh-, solo per fare un esempio, ma nelle parole prese a prestito questo è frequente. Come spesso accade quando masse di parole di sostrato penetrano nella lingua dei nuovi dominatori, si hanno notevoli incertezze nel consonantismo. Tutti gli indizi stanno a dimostrare che il para-Munda è stata una lingua viva e vitale per tutto il periodo vedico. Non era un idioma morto e sclerotizzato, bensì una fonte attiva di prestiti ancora in epoca abbastanza tarda, post-vedica.

A partire dai più antichi materiali del Ṛgveda si riscontrano parole che non possono essere classificate come para-Munda, avendo esse una fonotattica incompatibile e mancando dei caratteristici prefissi. Non sono nemmeno parole dravidiche: devono essere i resti di una lingua parlata nelle pianure gangetiche e appartenuta a una civiltà molto avanzata. Colin P. Masica, che ha studiato l'argomento, ha pubblicato nel 1979 l'articolo Aryan and non-Aryan elements in North Indian Agriculture, purtroppo irreperibile nel Web. Witzel parla troppo poco di questa lingua perduta e ne riporta poche parole, facendo notare che vi abbondano le consonanti geminate (forse dovute ad antiche assimilazioni, ma senza dubbio anomale). Questi sono senza dubbio prestiti notevoli:

bhallūka "orso" (cfr. Nihali bologo "orso")
guggulu
"bdellio, gommoresina vegetale" (variante: gulgulu)
kakkaṭa "un tipo di uccello" (variante: katkaṭa)*
kapittha "un tipo di albero" (Feronia elephantum)
karella, karavella "un tipo di zucca" (Momordica charantia)
khalla "cuoio"
pippala "fico" (varianti: piṣpala, supiṣpala)** 
roṭika
"pane"

*Si noterà che in Pali kakkaṭa indica invece un grosso cervo, probabilmente l'origine della denominazione sta nel comune colore di questi animali.
**Questa parola è di notevole importanza e ben integrata nella lingua sanscrita, tanto da formare il derivato pippalāda "dedito ai piaceri sensuali" (alla lettera "mangiatore di fichi"), un composto formato con la ben nota radice indoeuropea *ed- "mangiare". Una dimostrazione che nell'India degli asceti è sempre esistito anche chi opponeva resistenza alle dottrine correnti.

Nella lingua Hindi è tuttora in uso una peculiare terminologia agricola, caratterizzata da un 30% di parole non indoeuropee, non dravidiche e non Munda. In alcuni casi è possibile ricostruire una protoforma che si trova nel lessico vedico, mentre in altri non si ha alcuna corrispondenza con alcunché di noto. Si tratta di materiale residuale proveniente proprio dalla lingua X delle pianure gangetiche. Così abbiamo in Hindi kaith "Feronia elephantum" come diretta derivazione di kapittha. Riconosciamo subito l'Hindi piplī, pīplā "albero di fico" come un diretto discendente del sanscrito pippala "fico" (vedi sopra). Ecco alcune protoforme ricostruite a partire dal materiale lessicale moderno:

*alla "un tipo di pianta" (Morinda citrifolia)
*balilla "bue"
*bājjara
"miglio" (cereale)
*carassa "cuoio non conciato"
*chācchi "fior di latte"
*maṭṭara "pisello"
*suppāra "noce di areca"
*sūjji / *sōjji "farina bianca grezza"
*uḍidda "un legume"

Praticamente ogni protoforma contiene una consonante geminata, cosa senza dubbio notevole, anche se il significato più profondo ci sfugge e forse ci sfuggirà sempre. Non si conserva alcun dettaglio grammaticale, nessun termine del lessico di base che possa aiutarci a capire che lingua potesse essere. Sono necessari studi molto più accurati.

Si noterà che in Nihali le geminate abbondano in termini senza etimologia nota:

aḍḍo "albero"
beṭṭo
"morire"
bijjok "aspettare in attesa della preda"
biṭṭhāwi "unione; orizzonte" (cfr. biḍum, biḍi "uno")
bokko "mano"
buddi "tramontare"
coggom "maiale"
cuṭṭi "battere, martellare"
joppo "acqua"
kaggo "bocca"
kāllen "uovo"
maikko "ape"
oṭṭi "estrarre; bruciare"
poyye "uccello"
unni "prendere"

Witzel parla delle poche parole dravidiche trovate nei testi rgvedici medi e tardi, elencandole e discutendole senza indagare troppo i dettagli. Questo è l'elenco dei lemmi trattati (in cui tra l'altro non mancano problemi e controversie):

bala "forza"
bila "buco; caverna"
daṇḍa "bastoncino"
kaṭu(ka) "acre, pungente"
kāṇa "guercio, monocolo"
kulpha "caviglia"
kuṇāru "impedito nel braccio" 
kuṇḍa "vaso"
kūṭa "martello"
mayūra "pavone
naḷa "canna"
piṇḍa "palla, gnocco"
phala "frutto"
phāla "vomere"
ulūkhala "mortaio"
vriś "dito (della mano)"

Esiste la possibilità che alcune di queste parole siano a loro volta prestiti dal proto-Munda, come è stato appurato per mayūra "pavone". Queste sono le forme corrispondenti nelle principali lingue dravidiche: 

Tamil: mayil
Irula: muyiru
Tulu: mairu
Konda: mrīlu, miril 
etc.

La sorgente ultima è il Munda mara' "pavone".

Il Burushaski è una lingua isolata parlata da circa 50.000 / 60.000 persone nelle impervie montagne del Pakistan settentrionale, nelle valli dell'Hunza, di Nagir, Yasin e Gilgit. Si tratta di quel bizzarro popolo oggetto di una stravagante fake news. Avete presente quella favola dei mitici Hunza tutti ultracentenari a causa della loro dieta a base di albicocche essiccate? Ebbene, sono proprio loro. L'etnonimo corretto è Burusho (antico *Mrūžo, attestato già in vedico come Mūjavant). La lingua Burushaski è ha caratteristiche uniche e stupisce la sua mancanza di parentele chiare. L'ipotesi più probabile è quella di una connessione con la lingua Ket dello Yenissei, oltre che con le lingue del Nord Caucaso e con il basco (vedi Bengston, Starostin et al.), sebbene non si sia ancora giunti a una ricostruzione universalmente accettata. Si trovano interessanti corrispondenze con elementi del sostrato più antico presenti in sanscrito, quello formatosi in Asia Centrale prima della migrazione in India e per questo comune con le lingue iraniche. 

Burushaski baluqa "pietra" (in giochi infantili); báltaṣ "pietra
   lanciata a qualcuno" : Sanscrito paraśu "ascia di pietra"
   (cfr. greco pélekus "scure")
Burushaski baṅ "resina di alberi" : Sanscrito bhaṅga "canapa"
Burushaski bras "riso" : Sanscrito vrīhi "riso"
Burushaski bus "covone" :
Sanscrito busa, bṛsī "pula"
Burushaski gur "frumento" :
Sanscrito godhūma "tipo di grano"
    (Triticum aestivum)
Burushaski γupas "cotone": Sanscrito karpāsa "cotone"
Burushaski ku(h)á "luna nuova": Sanscrito kuhū "deità della luna
    nuova"
Burushaski mēṣ "otre di pelle" :
Sanscrito meṣa "ariete"

Esistono anche alcune corrispondenze sorprendenti con il materiale lessicale para-Munda, con ogni probabilità dovute a prestiti remoti. 

Burushaski γarqas "lucertola" : Sanscrito karkoṭaka "demone
    serpente"
Burushaski γoro "pietre" : Sanscrito śarkara "ciottolo, sassolino;
    sabbia" (śar- è un prefisso para-Munda)
Burushaski kilāy "bevanda dolce" : Sanscrito kīlāla "colostro;
    bevanda dolce"

In un caso abbiamo addirittura una corrispondenza con un vocabolo sanscrito attribuito al dravidico:

Burushaski śon "cieco" : Sanscrito kāṇa "guercio, monocolo"

L'etimologia dravidica della parola sanscrita per "monocolo" non è delle più convincenti, a causa di difficoltà semantiche (è confrontata con il Tamil kaṇ "occhio", kāṇ "vedere"), cosicché potremmo in realtà essere di fronte a un altro termine para-Munda, passato in Burushaski come prestito in epoca assai remota.

Quanto esposto è soltanto un riassunto sintetico della questione dei sostrati nel sanscrito vedico e post-vedico. Ci sono molti argomenti che non possiamo trattare in questa sede per mancanza di spazio e la cui trattazione siamo costretti a rimandare. Una cosa è certa: orientarsi in un simile ginepraio è tutto fuorché facile. 

martedì 5 novembre 2019

SONIA TREMOLO

Scoprii di avere un morto in cantina mentre stavo effettuando lavori di sgombero a lungo rimandati. I tessuti erano prosciugati e rinsecchiti a tal punto che li si sarebbe detti di cartone. Emanava un puzzo tutto sommato contenuto, una via di mezzo tra la pelle di salame e la crosta di formaggio ammuffita. Telefonai subito a Danilo per chiedergli consiglio.
“Ti mando una mia conoscente. Sistema tutto lei.”
“E chi sarebbe?”
“Meno sai meglio stai. Le do il tuo numero, ciao.”
Attesi per un’ora circa, in preda a una discreta agitazione, sino a che squillò il cellulare.
“Via Dei Pini 174?”, chiese una voce femminile.
“Sì, esatto.”
“Sarò lì tra mezz’ora.”
“Quando è vicina mi faccia uno squillo, così scendo e le apro il cancello col telecomando.”
Mezz’ora dopo una station wagon faceva retromarcia nel garage sotterraneo del palazzo, posizionandosi vicino all’ingresso della mia cantina. Ne scese una quarantenne dai capelli neri con indosso un impermeabile scuro.
Il viso, benché attraente, aveva tratti duri e lo sguardo trasmetteva una certa inquietudine.
Aprì il portellone del bagagliaio e mi si parò di fronte.
“Beh? Dov’è il reperto?”
“Mi segua.”
La sconosciuta indossò una mascherina e guanti da chirurgo.
Entrati, le mostrai il cadavere, appoggiato in un angolo tra la parete e un vecchio armadio tarlato.
 “Bella mummia. Sicuro di volersene privare?”
“Non saprei che farmene.”
“Com’è che si è accorto solo ora della sua presenza?”
“Prima c’era un bordello incredibile. Abito qui da pochi mesi, i precedenti inquilini hanno lasciato una montagna di cianfrusaglie.”
 “E un cadavere. Lo avvolga ben bene in un tappeto e me lo carichi in macchina. Stia attento nel muoverlo.”
Dopo aver steso un vecchio tappeto sul pavimento della cantina, vi adagiai la mummia, la avvolsi e la collocai nel bagagliaio. 
“Quanto le devo per il suo disturbo?”
“Niente.”
“Come niente?”
“Se dico niente è niente.”
“Mi permetta almeno di pagarle le spese della benzina.”
“Un favore si ricambia con un favore. La aspetto domani a casa mia.”
“Va bene.”
Mi porse un biglietto da visita.

Sonia Tremolo
Tassidermista
Via Allan Kardec, 40

“Alle 23 esatte.”
“Ci sarò”, dissi.
“Arrivederci. Chiuda il portellone .”
Salì in macchina e partì.
Inviai un messaggio a Danilo per avvertirlo che la questione era risolta.

L’indomani mattina mi recai a far colazione al Caffè del Moro. Seduto da solo a un tavolino, vidi il mio insegnante di religione delle superiori. Gli rivolsi un cenno di saluto.
“Buongiorno don.”
“Carissimo, quanto tempo.”
“Come sta?”
“Diciamo bene, compatibilmente con l’età. E tu? Ti interessi ancora di spiritismo?”
“Non più.”
“Bravo, sta’ lontano da quelle cose. Te la ricordi quella medium, come si chiamava… Vanessa Ley.”
“Sì, me la ricordo.”
“E’ deceduta, lo sapevi?”
“No, non ne avevo idea.”
“L’hanno trovata morta in casa, a Ivrea. Viveva sola, con una torma di gatti. Quando l’hanno ritrovata, le avevano completamente scarnificato la faccia.”
“Accipicchia.”
“Avevano fame, povere bestiole.”
Rientrando a casa mi soffermai nei pressi dell’edicola. La locandina del quotidiano locale titolava: “Orrore in Oltrepò: uccide la moglie e ne divora i resti”. Era, credo, il primo caso di un delitto in famiglia sfociato in atti di cannibalismo.  Incuriosito, acquistai una copia del giornale e mi sedetti a leggerlo su una panchina poco distante.
Il cannibale era un pensionato, residente in una sperduta frazione collinare dalle parti di Broni. Dopo aver accoppato la moglie l’aveva macellata riponendo poi le “porzioni” nel congelatore. Si era tradito allorché, a una domanda dei vicini in merito allo stato di salute della moglie, aveva risposto “L’avevo sempre giudicata una donna acida ma devo ammettere che, con una spruzzatina di vino bianco, le sue costolette sono deliziose”.
Benché fosse una giornata di sole, l’aria era frizzante. Mi alzai e mi diressi verso casa. Sul marciapiede dinanzi all’ingresso del mio condominio giaceva una colossale torta di escrementi. I casi erano due: o l’aveva deposta un alano portato a spasso da un padrone sconsiderato, oppure un teppista si era divertito a defecare proprio lì, vicino al cancello.
Risuonò un grido: “Ha visto che schifo? E’ una vergogna. Stavolta i vigili mi sentono!”.
Era la signora Santina che sbraitava dalla finestra.
Schivai il cumulo di feci ed entrai. Sulla soglia di casa mi squillò il cellulare.
“Può venire ora?”
Era lei, Sonia.
“Come, adesso?”
“Sì, stasera non posso. Un imprevisto.”
“Va bene, mi dia una mezzoretta.”
“A dopo.”
Salii pensieroso le scale.
“Che vorrà da me? Ormai non posso più tirarmi indietro.”

Via Allan Kardec è una strada periferica alberata su cui si affacciano villette signorili, alcune di recente costruzione. Quella al numero 40 aveva un aspetto incredibilmente decadente: una dimora da film horror. Il giardino, invece, appariva ben curato. Scesi dalla bicicletta e suonai il campanello. Mi fu subito aperto. Percorsi i pochi metri che separavano il cancello dalla veranda bussai alla porta una, due, tre volte. Nessuno rispose. Chiamai la signora al cellulare.
“Arrivo subito.”
Nell’attesa, mi sedetti sulla panchina in veranda. Mentre me ne stavo lì ad osservare le aiuole fiorite, un bel gattone dal mantello screziato sbucò da dietro l’angolo e venne a strusciarsi sulle mie gambe.
La padrona di casa giunse finalmente ad aprire. Indossava una vestaglia in raso, nera, chiusa da una cintura.
“Grazie per essere venuto. Entri.”
Io e il gatto la seguimmo dentro casa.
Fatti pochi metri in un corridoio dalle pareti color malva, entrammo in una sala elegantemente arredata.
“Si sieda. Posso offrirle una bella tisana? E’ un infuso di mia preparazione, a base di ribes e rosa canina. Le piacerà.”
“Va bene, grazie.”
Presi posto su una poltrona e il gatto mi si accoccolò in grembo.
La sua padrona tornò reggendo un vassoio con due tazze e dei pasticcini.
“Si serva pure. Le piacciono i dolci alle mandorle?”
“Molto.”

“Immagino vorrà sapere perché l’ho convocata.”
“Effettivamente.”
“Prenda l’album sul tavolino di fronte a lei. Lo sfogli.”
L’album conteneva una serie di fotografie.
Alcune ritraevano Sonia in compagnia di un tipo dall’aria spavalda.
“Quello è mio marito”, disse, “O per meglio dire lo era.”
“E’ morto?”
“Sì. Conservo il suo cadavere nel mio laboratorio, da basso. Vuole che glielo mostri?”
“No no, non si disturbi. Magari un’altra volta.”
“Lo ha osservato bene in viso? Saprebbe riconoscerlo?”
“Sì, certo.”
“Guardi le foto successive.”
Dopo svariati ritratti fotografici del marito, apparvero alcuni scatti che mostravano una donna coi capelli rossi a caschetto.
“La mia ex migliore amica e assistente, Grazia Ferretti. Lei dovrà introdursi in casa sua e restituirmi ciò che quell’ingrata mi ha sottratto.”
“Sarebbe a dire?”
“La testa di mio marito Alberto.”
Trasecolai.
“La testa? Ma se mi ha detto poco fa che ne ha conservato il cadavere!”
“Dopo la morte l’ho decapitato. Volevo dedicare alla sua testa una cura particolare, capisce? Aveva una gran bella testa, mio marito.”
“Di cosa è morto, esattamente?”
“Overdose.”
“Si drogava?”
“Ma quale droga! Overdose di allopurinolo, un farmaco contro la gotta.”
“E io come faccio a entrare in casa della sua amica?”
“Ex amica. Semplice: deve rimediare un invito.”
“Ma se non la conosco nemmeno!”
“La conosca. Cominci col chiederle l’amicizia su Facebook.  Grazia è appassionata d’arte contemporanea e la settimana prossima ci sarà un vernissage di Sarfatti, il famoso pittore. Lo conosce?”
“No.”
“A questo si può rimediare. In ogni caso, le suggerisco di cogliere al balzo l’occasione della mostra per incontrarla.”
“Ammettiamo, in via del tutto ipotetica, che mi inviti a casa sua: se non so dove tiene la testa come faccio a prenderla?”
“Vive in un appartamento, mica nella reggia di Versailles.”
“Ha un garage?”
“Sì.”
“E se l’avesse nascosta lì?”
“Lo escludo nel modo più categorico. Sono sicura che la tiene in casa. Erano amanti, vorrà averla vicino a sé.”
“Scusi ma la testa dove sta, materialmente?”
“In un contenitore di vetro, immersa in una soluzione acquosa di formaldeide. ”
“E dove la infilo, in un trolley?”
“Bravo, finalmente una buona idea.”
“E secondo lei quella non si insospettisce a vedermi arrivare con un trolley?”
“Che motivo avrebbe d’insospettirsi? Lei dica che dovrà poi recarsi in stazione.”
“Non riuscirò mai a impadronirmi della testa senza che mi scopra.”
“Se la porti a letto.”
“La testa?”
“No, Grazia! E quando si è addormentata…”
Sonia si alzò, aprì il mobile alle sue spalle e ne tirò fuori una scatola.
“Sostituirà la testa di mio marito con questa copia in cera.”
La scatola conteneva una perfetta riproduzione della testa del defunto.
“Dunque, mi faccia capire: tolgo la testa di Alberto dalla boccia di vetro e la ripongo in quest’altra, prendo la testa finta e la metto al posto di quella vera.”
“Stia attento a non fare confusione però!”
“Beh ma non saranno mica del tutto uguali.”
“Certo che no ma sa com’è, l’emozione può giocare brutti scherzi.”
“La sta facendo troppo facile. Grazia viene a letto con me e poi cade in un sonno tanto profondo da non accorgersi che sto trafficando in salotto con la testa del suo ex amante?”
“Non è necessario che venga a letto con lei: è sufficiente che lei la narcotizzi.”
“In che modo?”
 “Le darò tutto l’occorrente, non si preoccupi. Basterà che  versi nel suo bicchiere qualche goccia del mio elisir e la stronza si addormenterà come un angioletto.”
“Ragioniamo: quella si sveglia intontita a distanza di ore e secondo lei non s’insospettisce?”
“Sospetti ciò che vuole.”
“Eh no! Ci devo entrare io, in quella casa, non voglio guai.”
“Si faccia trovare in casa al suo risveglio e non sospetterà nulla.”
“Se dorme dodici ore di fila?”
“Non accadrà: cinque gocce del mio preparato la faranno assopire. Dopo un pisolino di un’oretta o due, si sveglierà. Lei avrà tutto il tempo di sistemare la faccenda della testa senza che Grazia si accorga di nulla.”
“Non sarà così immediato rimediare un invito.”
“Sono certa che ci riuscirà.”

Non essendo un esperto di arte contemporanea, appena tornato a casa mi documentai su Sarfatti tramite Internet. Sbirciai la pagina Facebook della tizia: stranamente, non vi trovai selfie ammiccanti. Era tutto un susseguirsi di dipinti astratti, foto in bianco e nero di impianti industriali dismessi. Una bella donna che non amava apparire: cosa alquanto insolita. Le inviai una richiesta d’amicizia e seguitai a curiosare sulla sua bacheca.
Stavo per staccarmi dal pc quando vidi lampeggiare una notifica. Aveva accettato. Le inviai un messaggio tramite Messenger:
“Grazie e buona giornata.”
La risposta non tardò ad arrivare.
“Se mi mandi una foto del tuo cazzo ti cancello all’istante. Sono stufa di ricevere cazzi.”
Mi misi a ridere a crepapelle.
La signora pareva non prestare troppa attenzione al significato delle proprie affermazioni.
“Le assicuro che non è mia intenzione. Ho visto la sua pagina, mi sono piaciute le immagini che ha pubblicato. Tutto qui.”
“Ah, bene. Possiamo anche darci del tu, non ho mica ottant’anni. Ti interessi di arte? Dalla tua pagina non sembrerebbe. Vedo più che altro link musicali.”
“Amo la musica ma anche la pittura e la fotografia.”
“Chi ama troppe cose non ne ama seriamente nessuna.”
“Mica vero: a me ad esempio piace il risotto con i funghi. Amo seriamente il riso e i funghi.”
Un emoji sorridente comparve ad indicare un’attenuazione del gelo.
“Ti piacciono i gruppi prog italiani anni Settanta?”
“Sì.”
“Piacciono anche a me.”
“Davvero?”
“Sì. E’ per questo che ho accettato la tua richiesta.”
“Allora abbiamo qualcosa in comune.”
“Quello e il risotto ai funghi.”
La temperatura di scioglimento dei ghiacci poteva dirsi raggiunta.
La salutai augurandole buon pranzo.

“Dio Gianni!”, l’imprecazione del portiere risuonò come un tuono nell’androne del palazzo, “Chi è il bastardo che viene a cagare sempre davanti al cancello? Se lo becco giuro che lo inculo col manico del badile!”
“Sandro, ci risiamo?”
“Sì, e come se non bastasse la merda che mi tocca raschiare dal marciapiede, devo sorbirmi pure le menate della sciura Santina che mi lisa i coglioni, come se fossi stato io a cagare qua davanti!”
“Senza una telecamera ‘sta storia non finisce più.”
“Non serve la telecamera: ci penso io, vedrà! Prima o  poi lo becco e lo sdereno!”
Notai con sgomento che, nel pronunciare queste parole, il portiere era in preda a una vistosa erezione. Mi allontanai in fretta.

“Faccio saltuariamente uso di eroina. La cosa ti disturba?”
Gli occhi verdi di Grazia mi fissavano con un’intensità difficile da sostenere.
“Per niente”, risposi.
“Meglio così.”
Sedevo nella saletta del suo appartamento da neanche un quarto d’ora ed eravamo già a questo punto. Avevo spuntato un invito a casa sua senza passare per l’inaugurazione, cosa di cui ero felicissimo, visto che di Sarfatti non mi importava un accidente.
“Tu fai uso di sostanze?”
“No.”
“Bevi?”
“Non granché. Soffro di bruciori di stomaco e devo moderarmi.”
“Un perfettino, insomma.”
“Non direi proprio.”
“E dov’è che vai di bello in treno?”
“A Bordighera.”
“A far che?”
“Mi ha invitato un amico.”
“Quindi sei omosessuale.”
La guardai sbigottito.
“Veramente no. Ma poi perché, scusa?”
“Riassumiamo: hai cinquant’anni, sei scapolo e non ti sei mai sposato, vai al mare a casa di un amico, quindi sei gay.”
“Ma è una conclusione del tutto arbitraria!”
“Mica tanto, mi sono limitata a constatare i fatti.”
“Non sono gay.”
“Va bene, come preferisci. Senti, io vado a fare una doccia, tu mettiti pure comodo, fa’ come se fossi a casa tua, basta che non ti masturbi sul divano.”
Stavo per mandarla a cagare ma mi trattenni: avevo una missione da compiere e questa storia della doccia cadeva a puntino.
Non appena si tolse di torno mi misi a perlustrare l’appartamento: con mia sorpresa la testa stava in un’anta dell’armadio in saletta! Sono sempre stato un imbranato totale, eppure in quell’occasione riuscii a stupire me stesso: effettuai la sostituzione con precisione e sveltezza.
Grazia riapparve dopo una decina di minuti, indossando un accappatoio verde.
“Scusa ma mi sono ricordata che ho un impegno alle cinque.”
“Nessun problema. Tanti saluti.”
Le rivolsi un sorriso che avrebbe destato invidia in Giuda Iscariota, strinsi saldamente le maniglie del trolley e mi tolsi di torno. Una volta per strada mi misi a fischiettare.
Fermai un taxi: dieci minuti dopo ero a casa.
La chiamata di Sonia non si fece attendere.
“Allora?”
“Sistemato.”
“Davvero?”
“Certo.”
“Grande. Ti posso raggiungere?”
“Ok.”

Quando scese dall’automobile, credetti di vedere l’assassina del film Profondo rosso: stesso abbigliamento, stesso taglio di capelli. Solo più giovane di Clara Calamai.
“Come ci sei riuscito?”
“E’ stato più semplice del previsto. Davvero non credevo che me la sarei cavata così in fretta e così facilmente.”
“E lei che impressione ti ha fatto?”
“Lasciamo perdere che è meglio. Solo mi domando: e se si accorge della sostituzione?”
“Lo escludo: ho fatto un lavoro sopraffino. Piuttosto, sa dove abiti?”
“No.”
“L’hai cancellata dai tuoi contatti?”
“Sì sì, bloccata su Facebook, Messenger, Whatsapp. Non mi becca più.”
“Sono in debito con te. D’ora in avanti, se tu dovessi avere problemi – che so io, un cadavere da occultare o roba del genere – non esitare a chiamarmi.”
“Spero di non trovare altre mummie in cantina!”
“Non mi riferivo a quello. Intendevo dire: se tu avessi necessità di smaltire un cadavere a seguito di un diverbio…”
“Ahhh… No, non penso, comunque grazie.”
“Non si può mai dire, credimi. Ad esempio, tu sei una persona pacata, un uomo tranquillo, eppure ti sei introdotto nella casa di una sconosciuta e le hai sottratto un ‘oggetto’. Non si può escludere che, un domani, tu commetta un omicidio.”
“Ma non penso proprio!”
“Nel caso, sappi che io posso fornirti il nécessaire.”
“Tipo?”
“Veleno, armi…”
“Addirittura?”
“Certo. Ma soprattutto, ti ripeto, io so come far sparire un cadavere."
“Ti ringrazio, spero comunque di non aver mai bisogno.”
“Senti, io mi riprendo la testa di mio marito e me ne torno a casa. Allora, ricordati: in caso di necessità, non esitare.”
“Va bene.”
Dopo che se ne fu andata, mi versai un bicchiere di whisky e mi misi a riflettere sulla sua proposta. In effetti, qualcuno c’era che avrei fatto fuori volentieri. All’occorrenza.

Pietro Ferrari, novembre 2019

venerdì 1 novembre 2019

“RIPULITE LA ZONA”

Quante volte avevo ricevuto quell’ordine? Non c’era alcun bisogno di chiedere ulteriori istruzioni, ripulire la zona significava una cosa soltanto: liquidare chiunque vi avessimo incontrato.
Personalmente lo trovavo disgustoso ma sapevo che la mia presenza sarebbe valsa ad evitare inutili eccessi. Altre unità si erano abbandonate a gesti indegni di uomini in divisa: anziani invalidi gettati vivi nei fienili in fiamme, adolescenti stuprate, neonati scagliati in aria e usati come bersagli per il tiro al piattello. Nulla di tutto ciò poteva e doveva essere attribuito al mio reparto. Le atrocità si verificano laddove alla guida dei soldati vi sia un ufficiale debole, privo di polso, oppure un degenerato, un sadico. Non era questo il mio caso. Presenziavo alle esecuzioni ed esigevo che, nel dare la morte, non si trascendessero mai i limiti imposti dalla più ferrea disciplina militare. Quel giorno avremmo dovuto rastrellare un’area piuttosto estesa, “eliminando tutte le presenze ostili e i loro fiancheggiatori”. In sintesi: l’ennesima missione di sterminio.
Avevo imparato un poco di italiano e a volte me ne servivo, più che altro con le donne. La cosa peggiore era incrociare gli sguardi delle madri coi figli accanto. Molte imploravano pietà e io non potevo far altro che dir loro: “Finirà presto, signora, non si preoccupi”. Un’incombenza estremamente penosa. Mi capitava di rivedere in sogno quei volti disperati e di udire, di nuovo, i pianti dei bambini.
Non permettevo a nessuno dei miei uomini di ubriacarsi, prima e durante le azioni. So però che molti al campo bevevano sino a stordirsi, al ritorno dalle operazioni.
Non mi facevo illusioni sulle sorti del conflitto: le stavamo buscando su tutti i fronti, una batosta dietro l’altra. La guerra era perduta, tuttavia il giuramento di fedeltà al Führer ci costringeva all’obbedienza.
Così, quel giorno, ci disponemmo a compiere il nostro ingrato dovere di assassini.
Avanzammo nell’erba alta, lungo le pendici della collina, alle prime luci dell’alba. Il paesaggio era immerso in un silenzio irreale. Ci addentrammo in un bosco di castagni. Dopo un quarto d’ora di marcia intravidi un pennacchio di fumo in lontananza.
Il sergente mi rivolse un’occhiata interrogativa.
Scorgemmo un cascinale in fiamme.
Qualcuno doveva averci preceduti, ma chi?
Ci avvicinammo guardinghi all’edificio. Sull’aia giacevano distesi dei cadaveri: corpi carbonizzati, irriconoscibili.
Qualcosa non quadrava.
Trasmisi la notizia via radio al comando e ricevetti la conferma di quanto già sapevo: eravamo la prima unità a metter piede da quelle parti.
“Sono stati i partigiani?” chiese il sergente.
“Lo escludo.”
“Un attacco aereo?”
“Ha visto incrociare aerei da queste parti nelle ultime ore? Io no.”
 “E allora se non sono stati i nostri, né i partigiani né gli alleati… chi ha fatto questo?”
“Credo che lo scopriremo presto.”
Proseguimmo nella ricognizione, il dito sul grilletto, pronti a ingaggiare battaglia.
Superato il crinale ci apparve uno spettacolo sconvolgente: le pendici e la vallata limitrofa erano interamente ricoperte da una distesa di cenere finissima. Non una pianta, neppure il moncone di un tronco, né un muro di mattoni sbrecciato, nulla: solo e soltanto cenere grigia, a perdita d’occhio.
Eppure nessun bombardamento incendiario aveva avuto luogo nella zona.
Cercai di avvertire il comando ma la radio improvvisamente non volle saperne di funzionare.
“Ritiriamoci”, dissi ai miei uomini, “Proseguire non avrebbe senso: non è rimasto niente e inoltre saremmo facili bersagli per gli Jabos su un simile terreno.”
Facemmo dietrofront e passammo, di nuovo, accanto alla cascina ridotta ormai a un cumulo di macerie annerite.
Prima di inoltrarci nel bosco ordinai agli uomini di muoversi con la massima cautela. Procedemmo con le armi spianate, trattenendo quasi il respiro.
A un tratto si udì un boato, e gli uomini in testa alla colonna furono avvolti da un’enorme fiammata scaturita dal suolo. Ci gettammo a terra, le armi crepitarono rovesciando nugoli di proiettili fra gli alberi.
Poi il terreno prese a sussultarci sotto i piedi.
Ci mettemmo a correre. Una seconda scossa sismica, più violenta della prima, ci fece cadere come birilli. Udii urla di terrore alle mie spalle, mi voltai e vidi che un’intera sezione del bosco si stava sollevando. Si era aperta nel suolo un’ampia fenditura, lunga centinaia di metri, e parecchi dei miei uomini ne furono inghiottiti.
I superstiti si diedero a correre a gambe levate verso valle. Li seguii insieme al sergente.
Rientrammo trafelati alla base. Dalle colline, avvolte da una spessa cappa di fumo color ocra, giungeva un cupo brontolio.
Fatto l’appello,  constatai che gli effettivi del reparto si erano ridotti della metà.
Non so come, riuscii a mettermi in contatto radio col comando della divisione.
Il generale in persona mi investì con una richiesta perentoria.
“Mi vuol dire cosa diavolo è successo, Kruger?”
“La zona ha ripulito noi.”

Pietro Ferrari, ottobre 2019