domenica 18 ottobre 2020

HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT ARABISTA: ETIMOLOGIA DI AL AZIF

H. P. Lovecraft affermò che il titolo originale del Necronomicon è Al Azif. Una variante Kitab al-Azif (in arabo kitāb significa "libro") è comparsa soltanto negli anni '70 del XX secolo. La spiegazione del nome Al Azif, considerato di origine araba, è la seguente: "quel suono notturno (fatto dagli insetti) che si suppone sia l'ululato dei demoni" (originale in inglese: "that nocturnal sound (made by insects) supposed to be the howling of demons"). Così nel Web è data per assodata la glossa Al Azif "suono delle voci dei demoni". Al contempo sono in molti a ritenere che non si tratti realmente di un lemma arabo. Accade spesso che alcuni curiosi facciano qualche tentativo di ricerca per poi affermare che la lingua araba non è affatto in grado di tradurre questo termine tecnico della demonologia lovecraftiana. Come portare chiarezza dove regna tanta confusione? Al Azif è arabo o non lo è? Se non lo è, qual è dunque la sua origine? Com'è arrivato il Solitario di Providence a concepirlo? 
 
Questa è la Vulgata di Wikipedia, che circola ampiamente nel Web: 

“In 1927, Lovecraft wrote a brief pseudo-history of the Necronomicon that was published in 1938, after his death, as "History of the Necronomicon". According to this account, the book was originally called Al Azif, an Arabic word that Lovecraft defined as "that nocturnal sound (made by insects) supposed to be the howling of demons", drawing on a footnote by Samuel Henley in Henley's translation of "Vathek". Henley, commenting upon a passage which he translated as "those nocturnal insects which presage evil", alluded to the diabolic legend of Beelzebub, "Lord of the Flies" and to Psalm 91:5, which in some 16th Century English Bibles (such as Myles Coverdale's 1535 translation) describes "bugges by night" where later translations render "terror by night". One Arabic/English dictionary translates `Azīf (عزيف) as "whistling (of the wind); weird sound or noise". Gabriel Oussani defined it as "the eerie sound of the jinn in the wilderness". The tradition of `azif al jinn (عزيف الجن) is linked to the phenomenon of "singing sand".” 

Traduzione per i non anglofoni:

“Nel 1927, Lovecraft scrisse una breve pseudostoria del Necronomicon che fu pubblicata nel 1938, dopo la sua morte, come "Storia del Necronomicon". Secondo questo resoconto, il libro in origine era chiamato Al Azif, una parola araba che Lovecraft definì come "quel suono notturno (fatto dagli insetti) che si suppone sia l'ululato dei demoni", traendolo da una nota a piè di pagina di Samuel Henley nella sua traduzione di "Vathek". Henley, commentanndo un passaggio che tradusse come "quegli insetti notturni che annunciano il male", alludeva alla diabolica leggenda di Belzebù, "Signore delle Mosche" e al Salmo 91:5, che in alcune bibbie inglesi del XVI secolo (come la traduzione di Myles Coverdale del 1535) descrivono gli "spettri di notte" dove le traduzioni successive traducono "terrore di notte". Un dizionario arabo-inglese traduce `Azīf (عزيف) come "sibilo (del vento); suono bizzarro o rumore". Gabriel Oussani lo definisce come "il suono inquietante del the jinn nel deserto". La tradizione del `azif al jinn (عزيف الجن) è legata al fenomeno della "sabbia che canta".”

Nonostante l'arabo non sia una lingua perduta e sconosciuta, molti sono convinti che nel suo lessico non esista affatto la parola Azif. Mi è capitato più volte di imbattermi in questa opinione nel corso della mie ricerche sui testi fittizi del Necronomicon. Invece indagando con un po' di pazienza si scopre che il fatidico vocabolo esiste eccome, che è una parola con le carte in regola: ʽazīf (عزيف) è un derivato del verbo ʻazafa "ululare" ed è riportato nel dizionario di Hans Wehr e Milton Cowan, A Dictionary of Modern Written Arabic (1979). Tale opera, ci tengo a precisarlo, non è un'invenzione di Venustiano Carranza o di qualche altro decerebrato fabbricatore di stronzate. Riporto il link allo screenshot che ho catturato su Google Books: 
 
 
Questo è il testo esteso la nota di Samuel Henley: 

"It is observable that, in the fifth verse of the Ninety-first Psalm, "the terror by night," is rendered, in the old English version, "the bugge by night." In the first settled parts of North America, every nocturnal fly of a noxious quality is still generically named a bug; whence the term bugbear signifies one that carries terror wherever he goes. Beelzebub, or the Lord of Flies, was an Eastern appellative given to the Devil; and the nocturnal sound called by the Arabians azif was believed to be the howling of demons. Analogous to this is a passage in Comus as it stood in the original copy:--
    But for that damn'd magician, let him be girt
    With all the grisly legions that troop
    Under the sooty flag of Acheron,
    Harpies and Hydras, or all the monstrous buggs
    'Twixt Africa and Inde, I'll find him out."

Traduzione: 

"Si può osservare che, nel quinto versetto del Salmo novantunesimo, "the terror of night" ("il terrore della notte"), è reso, nella vecchia versione inglese, con "the bugge of night". Nelle parti colonizzate per prime in Nordametrica, ogni mosca notturna di specie nociva è ancora chiamata genericamente "bug", ossia "insetto", da cui il termine "bugbear" che significa "colui che porta terrore ovunque vada". Belzebù, o Signore delle mosche, era un appellativo orientale dato al Diavolo, e il suono notturno chiamato "azif" degli Arabi era creduto essere l'ululato dei demoni. Analogo a questo è un passaggio di Comus così com'era nella copia originale:--
    Ma per quel dannato mago, lascia che sia cinto
    Con tutte le orribili legioni che si schierano
    Sotto la fuligginosa bandiera di Acheronte,
    Arpie e Idre, o tutti i mostruosi insetti
    Tra Africa e India, lo scoprirò."

Non sono finora riuscito a reperire la locuzione ʽazīf al jinn (عزيف الجن), citata da Oussani, ma sono convinto che la troverò a breve. Ovviamente se si cercano nel Web queste chiavi di ricerca, si trovano sorprendenti risultati connessi con il Necronomicon. Questi sono alcuni esempi tratti da Reverso (le traslitterazioni sono state ottenute cliccando l'iconcina del microfono sotto le scritte in alfabeto arabo): 

و أنت أيضاً تعرف أننى كرست حياتى لدراسة"العزيف"
"wa anta ayḍan tuʿrifu annaniā karastu ḥayātiā lidurāsati" ālʿazīfi
Then you also know I've dedicated my life to studying the Necronomicon 
 
وقف عن ملاحقاتى أنا لن أعطيك "العزيف" أبداً 
tawaqqafa an mulāḥiqātiā anā lan uʿṭiyaka "ālʿazīfa" abadan
Stop following me. I'll never give you the Necronomicon.

لقد اعتقد بأنه امتلك. كتاب يُدعى العزيف
laqad āʿtaqada biʾannahu āmtalaka. kitābu yudʿā ālʿazīfa
it was thought that he had gained possession... of a book called the necronomicon. 
 
Però, con mia grande sorpresa, troviamo anche qualcosa di molto interessante:  
 
على عزيف الرياح غرقت في الظلام
alā ʿazīfi alrriyāḥi ḡariqat fī alẓẓalāmi 
As the wind howled, I sank into darkness. 

In questo esempio, una radice ʽzf traduce il concetto di ululare, e nella traduzione inglese è usato proprio il verbo con cui Lovecraft descrive i versi dei demoni. Non mi è chiaro perché la traslitterazione di Reverso abbia in modo sistematico ālʿazīfa (acc.), con l'articolo dotato di vocale lunga. Forse è il frutto di qualche contrazione? Forse è un banale errore, anche se recidivante. Sarei felice se qualche esperto arabista si facesse vivo e mi desse una spiegazione.   
 
 
Questa poi, con Necronomicon tradotto come "Libro dei Morti", è spettacolare: 
 
أَنَا (رُوبِي) وَأَنَا الْمُظْلَمَةُ وَأَنَا مَنْ كَتَبَ كِتَابُ الْمُوْتَى
anā (rūbī) waʾanā almuẓlamatu waʾanā man kataba kitābu almuwtā
I'm Ruby, I'm The Dark One. I wrote The Necronomicon.
(Ecco come mai Ruby ha portato tanti guai a Berlusconi!!!) 
 
L'uso non è infrequente: 

قَالَ أَنَّ كِتَابَ الْمَوْتَى كَانَ مَكْتُوبًا بِوَاسِطَةِ "الْمُظْلِمِينَ"
qāla anna kitāba almawtā kāna maktūban biwāsiṭati "al-muẓlimīna"
The Necronomicon was written by The Dark Ones. 

آخَرُ بَعْثَةٌ إسْتِكْشَافِيَّةٌ لِي وَجَدَتْ كِتَابُ الْمُوتَى
ākharu baʿṯatun istikshāfiyyatun lī wajadat kitābu almūtā
On my last expedition, I found the Necronomicon.
 
In altri esempi ancora, il Necronomicon è citato soltanto come "Il Libro". Ho poi appreso che Lovecraft ha moltissimi fans in Arabia Saudita! 
 
عِنْدَمَا أَخَذْتُ الْكِتَابَ مِنْ الْمَقْبَرَةِ هَلْ قُلْت الْكَلِمَةُ ؟
indamā akhathtu ālkitāba min almaqbarati hal qult alkalimatu ?
When you removed the Necronomicon from the cradle... did you speak the words? 
 
الْكِتَابُ - حَقِيقَةً هُوَ الشَّخْصُ الْمَوْعُودُ -
ālkitābu - ḥaqīqatan huwa alshakhṣu almawʿūdu -
The Necronomicon! - Truly he is The Promised One! 

 
Sul pestilenziale social Quora un certo Therion Tiberius Ware domanda quanto segue: 

Why doesn't Al Azif translate as Arabic? Is it possible H.P. Lovecraft meant Altajdif (The Blasphemy) or Alnazif (The Bleeding)?  
 
No. Non è proprio possibile. In una lingua semitica come l'arabo le consonanti hanno un'importanza capitale, non le su può cambiare come se nulla fosse! Direi che non è un caso se il greco Therion traduce il latino Bestia.  

Alla luce dei fatti sopra esposti, direi che non ha sostanza quanto sostenuto da Dan Clore, che sostiene quanto segue: 
 
"In any case, however, the word is not a real term from Arabic. The source of Henley's note is unknown. There is, however, an Arabic word aziz, which translates as "buzzing, rumbling (as of thunder)" and other buzzing or rumbling sounds in general."
 
Ossia: 
 
"In ogni caso, tuttavia, la parola non è un reale termine preso dall'arabo. La fonte della nota di Henley non è nota. C'è comunque una parola araba aziz, che si traduce come "ronzio, brontolio (come di tuono)" e di altri suoni ronzanti o rombanti in generale." 
 
No, non può nemmeno essere che azif e aziz possano scambiarsi. Anche perché "azif" è in realtà 'azīf, mentre "aziz" è in realtà ḥāzīz. Anche le consonanti iniziali delle due parole sono completamente diverse, per quanto deboli possano essere nel parlato odierno.  
 
 
Conclusioni 
 
Saremmo portati a ritenere ragionevole che Lovecraft abbia avuto una conoscenza seppur elementare della lingua araba, ma di certo non sufficiente a scavare nei suoi misteri. Lo dimostra il fatto che ha preso Al Azif da un romanzo del viaggiatore e scrittore inglese William Beckford (1760 - 1844). L'opera, denominata Vathek, An Arabian Tale o The History of Caliph Vathek, fu scritta in francese nel 1785 e pubblicata per la prima volta a Losanna due anni più tardi, nel 1787. Cosa sorprendente è che Vathek è un romanzo erotico, concepito su ispirazione dell'opera del Divino Marchese, Donatien-Alphonse-François de Sade. La cosa deve stupire il lettore, visto che Lovecraft è comunemente ritenuto sessuofobo: non ci si aspetterebbe che leggesse simili testi pruriginosi. In ogni caso non si è inventato nulla. Detto questo, trovo assurde le affermazioni farneticanti di una fanatica utente di Reddit, che definiva "razzista" il Solitario di Providence, deducendo da questa sua assunzione che non poteva aver usato l'arabo come fonte di ispirazione. Razziste saranno semmai le femministe radicali e convulsionarie! Possa Cthulhu sorgere, masticarle e trasformarle tutte in sterco!  

Un riferimento bizzarro 

Nell'opera di Ibn Wāḍiḥ al-Yaʽqūbī (IX secolo) troviamo proprio la parola al-ʽazīf! A quanto pare, non comprendendo il suo senso, gli studiosi si sono sentiti in difficoltà. Martin Theodoor Houtsma ha proposto addirittura di emendarla in al-ʽarīf "il perfetto, il maestro". E se fosse invece una genuina menzione del Necronomicon?

venerdì 16 ottobre 2020

HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT GRECISTA: ETIMOLOGIA DI NECRONOMICON

Il Necronomicon è universalmente noto come uno dei più famosi pseudobiblia, libri che sono considerati reali anche se non sono stati mai scritti. Si crede che questo testo di magia nera e di evocazioni di Demoni sia stato inventato di sana pianta da Howard Phillips Lovecraft per conferire maggior verosimiglianza alle proprie opere. Va detto che l'idea che si tratti di un'opera reale e non di uno pseudobiblion non è mai davvero morta.
 
Questa è la citazione corrente, diffusa dalla Vulgata wikipediana:  

«Lovecraft wrote that the title, as translated from the Greek language, meant "an image of the law of the dead", compounded respectively from νεκρός nekros "dead", νόμος nomos "law", and εἰκών eikon "image".» 
 
Non ho mai avuto dubbi sul fatto che la lettera in questione sia davvero esistita, anche se non è stato facile reperirne il testo. Sono riuscito a venirne a capo in un sito della Chiesa di Satana di Anton Szandor LaVey, in cui è riportato il riferimento: 
 
"The name Necronomicon (nekros, corpse; nomos, law; eikon, image = An Image [or Picture] of the Law of the Dead) occurred to me in the course of a  dream, although the etymology is perfectly sound."
(Selected Letters, Volume V, pag. 418)
 
 
Una pagina di Oocities (resto del defunto Geocities di Yahoo) mi ha permesso di risalire a un testo più esteso: 

"The name Necronomicon (νεκρος [nekros], corpse; νομος [nomos], law; εικων [eikôn], image = An Image [or Picture] of the Law of the Dead) occurred to me in the course of a dream, although the etymology is perfectly sound. In assigning an Arabic author to a Greek-named book I was whimsically reversing the condition whereby the monumental astronomical work of the Greek Ptolemy (Μεγαλη Συνταξις Της 'Αστρονομιας  [Megalê Syntaxis Tês `Astronomias]) is commonly known by the Arabic name Almagest (or more truly, Tabrir al Magesthi), which was evolved from a corruption of the original title when the Arabs made their translation (μεγιστη [megistê] is the superlative of μεγαλη [megalê], & the Arabs probably found it in common use to distinguish the work from another of Ptolemy's)" 

 
Le parole tra parentesi quadre sono essere aggiunte, tranne [or Picture], che compare già nell'originale testo lovecraftiano. Si noti che mancano del tutto gli accenti e i diacritici tipici dell'ortografia greca. 
 
Traduzione: 
 
"Il nome Necronomicon (νεκρος [nekros], cadavere; νομος [nomos], legge; εικων [eikôn], immagine = un'Immagine [o Figura] della Legge dei Morti) mi capitò durante un sogno, anche se l'etimologia è perfettamente valida. Nell'assegnare un autore arabo a un libro dal titolo greco stavo capricciosamente invertendo la condizione per cui il monumentale lavoro astronomico del greco Tolomeo (Μεγαλη Συνταξις Της 'Αστρονομιας  [Megalê Syntaxis Tês `Astronomias]) è comunemente conosciuto col nome arabo di Almagesto (o più correttamente, Tabrir al Magesthi), che si è evoluto dalla corruzione del titolo originale quando gli Arabi fecero la loro traduzione (μεγιστη [megistê] è il superlativo di μεγαλη [megalê], e gli Arabi probabilmente l'acquisirono nell'uso comune per distinguere l'opera da un altra di Tolemeo)"

La lettera in questione fu scritta nel 1937, anno della morte dell'Autore. La raccolta Selected letters V fu pubblicata da Arkham House molti anni dopo, nel 1976. 

In realtà l'etimologia non è "perfettamente valida", come sostenuto dal Solitario di Providence. Il nome del Libro è formato in modo perfetto, ad essere erronea è l'analisi che ne ha fatto colui che l'ha sognato e portato nel nostro mondo. 
 
Vediamo che le cose sono in realtà molto semplici. Non c'è alcun bisogno di evocare il sostantivo "immagine" εἰκών (da cui deriva "icona"), come fatto da Lovecraft nella sua razionalizzazione. L'aggettivo νομικός (nomikós) significa "relativo alla legge", formato da νόμος (nómos) "legge, uso, costume" mediante il comunissimo suffisso -ικός, di chiara origine indoeuropea. Così vediamo che il titolo greco deve essere stato Βιβλίον Νεκρονομικόν (Biblíon Nekronomikón) "Libro relativo alla Legge dei Morti", con l'aggettivo al genere neutro per concordare col sostantivo. In seguito l'aggettivo stesso sarebbe stato sufficiente a designare il volume esoterico. Ciò dimostra che a volte il mondo onirico ha in sé un'immensa Conoscenza, ma fa molta fatica a farla passare attraverso il filtro dello stato di veglia. Lovecraft fu un grecista inesperto e non poté comprendere una formazione elementare tipica della lingua degli Elleni: messo in difficoltà, si inventò una formazione grottesca, scambiando un mero suffisso per un sostantivo indipendente. 
 
Ambiguità e insidie 
 
In greco esiste una parola che è quasi omofona di νόμος (nómos) "legge, uso, costume", ma con un diverso accento: è νομός (nomós) "regione, provincia, divisione politica; pascolo". Così accade che tuttora vi sia chi interpreta Necronomicon come "Libro delle Regioni dei Morti", quasi fosse una mappa dell'Oltretomba, oppure come "Libro dei Pascoli dei Morti". Queste traduzioni sono in contrasto con quanto dichiarato da Lovecraft nella sua lettera. La fragilità estrema di una simile etimologia sta nel fatto che da νομóς non deriva affatto un aggettivo νομικóς col significato di "relativo alla regione" o "relativo al pascolo". In ultima analisi, la radice di origine di entrambe le parole è il verbo νέμειν (nemein), che significa "dispensare, distribuire; gestire, detenere, possedere; godere, mietere il raccolto; pascolare". Anche Nemesi deriva da qui il suo nome, che è di origine indoeuropea.   
 
Abbiamo visto che da νόμος deriva l'aggettivo νομικός "relativo alla legge". Tale aggettivo può anche comparire in forma sostantivata col significato di "avvocato". Stando a questa insidiosa interpretazione, il Necronomicon sarebbe addirittura il "Libro degli Avvocati dei Morti"! Questa formazione è tuttavia grammaticalmente ardua, a meno che non si ammetta un genitivo plurale νομικών (nomikṓn) "degli avvocati". Inutile dire che così facendo si devia in modo considerevole dagli intenti e dall'immaginazione dell'Autore. 
 
Alcuni rozzi americani hanno estratto l'elemento -nomy da parole come astronomy "astronomia", economy "economia" e via discorrendo, interpretandolo come "scienza, conoscenza". Così hanno dedotto che Necronomicon dovesse significare "Libro della Conoscenza dei Morti". Naturalmente queste parole in -nomy sono di chiara origine greca e sono formate proprio a partire dalla radice di νόμος "legge", quindi "regola, ordine". Va in ogni caso menzionata l'opera di Manilio (I secolo d.C.), gli Astronomica, poema didascalico in latino sui corpo celesti, che è anche noto come Astronomicon. Scritto in esametri dattilici e suddiviso in cinque libri, l'Astronomicon è di datazione incerta, potendo risalire all'epoca di Augusto o a quella di Tiberio. Si potrebbe credere che Necronomicon sia una formazione fatta proprio a partire da Astronomicon.   

Un comune fraintendimento 

Moltissimi credono che Necronomicon significi "Libro dei Nomi dei Morti". Se la derivazione fosse dal greco ὄνομα, ὄνυμα (ónoma, ónyma) "nome", il fatidico libro non si chiamerebbe Necronomicon, bensì *Necronomaticon o *Necronomasticon. Così non è. Infatti da ὄνομα, genitivo ὀνόματος (onómatos), derivano gli aggettivi ὀνοματικός (onomatikós) e ὀνομαστικός (onomastikós). Se la lingua greca non fosse un tabù o un libro chiuso, si eviterebbe la diffusione di molte falsità e informazioni distorte.

L'errore di Frate Guglielmo da Baskerville 

Non credo che possano esistere persone tanto rozze e incolte da pensare che Necronomicon possa derivare dal latino nōmen "nome" (genitivo nōminis). Eppure anche grandi intelletti, in mancanza di mezzi filologici opportuni, possono essere tratti in inganno. Questo ha scritto Umberto Eco nel suo romanzo Il nome della rosa (1980): 
 
"Dio condusse all'uomo tutti gli animali per vedere come li avrebbe chiamati, e in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ciascun essere vivente, quello doveva essere il suo nome. E benché certamente il primo uomo fosse stato così accorto da chiamare, nella sua lingua edenica, ogni cosa e animale secondo la sua natura, ciò non toglie che egli non esercitasse una sorta di diritto sovrano nell'immaginare il nome che a suo giudizio meglio corrispondesse a quella natura. Perché infatti è ormai noto che diversi sono i nomi che gli uomini impongono per designare i concetti, e uguali per tutti sono solo i concetti, segni delle cose. Così che certamente viene la parola "nomen" da "nomos", ovvero legge, dato che appunto i "nomina" vengono dati dagli uomini "ad placitum", e cioè per libera e collettiva convenzione." 
(Guglielmo: Quinto giorno, Terza) 

Il fratacchione inglese è caduto nella trappola delle assonanze. Non è riuscito a comprendere che il latino nomen "nome" è parente del greco ónoma "nome", non del greco nómos "legge". Non credo che Eco fosse ignaro di tutto ciò: avrà voluto illustrare il grottesco di quel metodo pseudoetimologico che in epoca medievale era imperante.

mercoledì 14 ottobre 2020

ETIMOLOGIA DI NODENS

Nodens è un dio celtico associato al mare, ai cani, alla caccia e alle guarigioni. Il suo nome è documentato con le varianti Nudens e Nodons. Nell'interpretatio romana è associato a Marte, a Nettuno e a Silvano. Il suo culto era diffuso in Britannia, dove ne abbiamo testimonianze nel complesso di templi di Lydney Park (Gloucestershire, Inghilterra), collocato nei pressi dell'estuario del fiume Severn. Nel 1920 il sito fu scavato dall'archeologo Sir Mortimer Wheeler, che ritrovò numerose iscrizioni in latino con dediche a Nodens. 
 
Questo è il testo di una maledizione inciso su una tavoletta di piombo, ritrovato nel complesso di Lydney:  
 
DEVO NODENTI SILVIANVS ANILVM PERDEDIT DEMEDIAM PARTEM DONAVIT NODENTI INTER QVIBVS NOMEN SENICIANI NOLLIS PETMITTAS SANITATEM DONEC PERFERA(T) VSQVE TEMPLVM (NO)DENTIS 
 
Traduzione: 
"Per il dio Nodens. Silviano ha perso un anello e ha donato metà [del suo valore] a Nodens. Tra coloro che sono chiamati Seniciano non permettere alcuna guarigione finché non sarà restituito al tempio di Nodens."

Le lettere tra parentesi si trovavano sul bordo eroso della lamina, così non sono leggibili, anche se le si può reintegrare con sicurezza. 
 

A fare la defissione deve essere stato un romano, Silviano, il cui anello era stato rubato da un certo Seniciano. Un britanno avrebbe scritto il testo in lingua celtica, che coesisteva col latino nello stesso ambiente. Non era raro per un cittadino romano ricorrere a divinità dei popoli presso cui risiedeva. Il fatto curioso è che l'anello di Silviano fu poi ritrovato nel 1785 in un luogo distante, a Silchester, nello Hampshire. Il prezioso reca un'iscrizione: SENECIANE VIVAS IIN DE<O> (la preposizione IN è scritta con due I e manca la vocale finale di DEO). Il ladro era cristiano! 
 
Una piastra di bronzo, sempre da Lydney, riporta questa iscrizione: 
 
D(EO) M(ARTI) NODONTI FLAVIVS BLANDINVS ARMATVRA V(OTUM) S(OLVIT) L(IBENS) M(ERITO) 
 
Traduzione:
Al dio Marte Nodons, Flavio Blandino l'istruttore d'arme adempie volentieri e meritatamente al suo voto. 
 

Su un'altra piastra di bronzo, assieme all'immagine di un cane compare la seguente iscrizione:  
 
PECTILLVS VOTVM QVOD PROMISSIT DEO NVDENTE M(ARTI) DEDIT 
 
Traduzione:
Pettillo dedica questa offerta votiva che aveva promesso al dio Nudens Marte. 


La ricostruzione delle forme celtiche britanniche è molto agevole. Sono le seguenti:

nom. *Noudons, *Noudens 
gen. *Noudontos, *Noudentos
dat. *Noudontī, *Noudentī 
acc. *Noudontan, *Noudentan 
voc. *Noudons, *Noudens

Il dittongo celtico /ou/ aveva un suono chiuso ed era spesso reso nelle trascrizioni latine con /o:/ (scritto -o-) o con /u:/ (scritto -u-), sia in Britannia che nelle Gallie. 
 
La forma accusativa è in -*an. La protolingua vocalizzava le antiche sonanti /ṃ/ e /ṇ/ dell'indoeuropeo con una vocale centrale.
 
L'adattamento di queste forme alla III declinazione in latino è immediata, data la somiglianza tra le due lingue, dovuta alla comune origine indoeuropea: 
 
nom. NODONS, NODENS, NVDENS 
gen. NODONTIS, NODENTIS, NVDENTIS 
dat. NODONTI, NODENTI, NVDENTI 
acc. *NODONTEM, *NODENTEM, *NVDENTEM
voc. *NODONS, NODENS, *NVDENS 
abl. *NODONTE, *NODENTE, *NVDENTE 

Troviamo un'occorrenza di NVDENTE come dativo, in luogo di NVDENTI. Potrei non disporre della totalità delle iscrizioni in cui il teonimo è presente, tuttavia è verosimile che i testi non contengano le forme accusative, vocative e ablative. 

Nodens in Irlanda 
 
Fu J. R. R. Tolkien il primo autore ad accorgersi dell'identità tra le forme britanniche attestate nelle iscrizioni in latino e il teonimo irlandese Nuadha (antico irlandese Nuaḋu, Nuaḋo, Nuaḋa, attualmente scritto Nuadu, Nuada), che designava il primo sovrano del popolo divino dei Túatha Dé Dánann.  

Questa è la declinazione del teonimo:

nom. Nuaḋu, Nuaḋo 
gen. Nuaḋat 
dat. Nuaḋait 
acc. Nuaḋat n-
voc. Nuaḋu, Nuaḋo
 
Queste sono le protoforme da cui sono derivate le forme iberniche riportate: 
 
nom. *Noudons 
gen. *Noudontos 
dat. *Noudontī
acc. *Noudonten
voc. *Noudons 
 
Il dittongo /ou/ (dai dittonghi protoceltici /ou/ e /eu/) si è evoluto naturalmente in /ua/, in cui l'accento cade sulla prima vocale. La consonante /d/ si è lenita in /ð/ (la pronuncia è come nell'inglese the ed è scritta ). In irlandese moderno questa consonante è sparita, così Nuadha si pronuncia /nuə/
 
La forma accusativa è in -*en, che in antico irlandese sparisce lasciando una pronuncia palatale della consonante precedente. La protolingua vocalizzava le antiche sonanti /ṃ/ e /ṇ/ dell'indoeuropeo con una vocale anteriore. 
 
Un chiaro esito moderno dell'antroponimo Nuadha è il cognome gaelico irlandese Ó Nuadhain (anglicizzato in Noon o Noone). Si trova soprattutto nelle Contee di Galway, Mayo e Roscommon.
 
Epiteti del Re Nuadu 
 
Il Re Nuadu dei Túatha Dé Danann era chiamato Airgetláṁ, ossia "Mano d'Argento" o "Braccio d'Argento". La protoforma ricostruibile è *Argentolāmos (da *argenton "argento" e *lāmā "mano; braccio"). Aveva tuttavia anche un altro notevolissimo nome: Nechtan. Questa denominazione lo qualifica come divinità delle acque ed ha la stessa origine del latino Neptūnus. In protoceltico l'antico gruppo consonantico /-pt-/ è diventato /-χt/, con un suono fortemente aspirato come -ch nel tedesco nach. Così Nechtan deriva da un precedente *Neχtonos, a sua volta da *Neptonos. Questo prova che Nuadu era una divinità molto venerata dai Picti, con il nome di Nechtan, dato che questo compare come antroponimo. Nelle iscrizioni ogamiche in lingua pictica (non indoeuropea ma con notevoli prestiti celtici) ne abbiamo varie attestazioni:  
 
NEHHTONS (iscrizione di Lunnasting),  
NAHHTO... (iscrizione di Latheron),  
NEHHT(VROBBACCENNEVV) (iscrizione di Aboyne), 
NAHHTVVDDAḌḌS (iscrizione di Bressay). 
 
Beda il Venerabile ci tramanda questo nome come Naiton. In antico irlandese, oltre a Nechtan, è attestata anche la denominazione Nuadu Necht, che potremmo tradurre con "Nuadu delle Acque", da *Noudons Neχton, a riprova del fatto che nel linguaggio druidico doveva esistere il vocabolo necht "acqua", da *neχton "acqua" (genitivo plurale *neχton "delle acque"). Simili arcaismi sono preziosi, eppure non mi risulta che siano molto studiati dal mondo accademico. 
 
Un altro epiteto del Re Nuadu Braccio d'Argento, che dimostra la sua natura ambigua, era Elcṁar (in irlandese attuale Ealcmhar), che significa "Funesto". La protoforma ricostruibile è *Elcomāros. L'aggettivo -māros "grande" era usato come intensivo e si trova ampiamente nell'antroponimia celtica, ad esempio nelle Gallie. Solo per fare un esempio, il nome del capo degli Insubri Viridomarus (adattamento di *Viridomāros) significa "Molto Virile". 
 
Il Re Braccio d'Argento nel Galles 
 
Il Re Nuadu Airgetlám nella letteratura gallese medievale è l'eroe Ludd Llaw Ereint, il cui nome era in origine Nudd Llaw Ereint. L'epiteto Llaw Ereint significa "Mano d'Argento" o "Braccio d'Argento". Vediamo subito che llaw "mano; braccio" viene dal britannico *lāmā, a sua volta da *plāmā (cfr. latino palma), mentre ereint viene dal britannico *argantijā "d'argento", aggettivo femm. derivato da *arganton "argento". Nudd è proprio l'evoluzione regolare di *Noudons, *Noudens. La sua successiva trasformazione in Lludd si può spiegare con una sorta di tabù, una plausibile reazione cristiana a contenuti pagani di cui permaneva qualche consapevolezza - oppure la sequenza Nudd Llaw Ereint sarebbe stata mutata in Llud Llaw Ereint per semplice assimilazione attillterante.   
 
Un possibile parallelo in Renania 
 
Un dio NOADATUS (o più probabilmente NOADAS) è stato identificato in un'iscrizone trovata a Magonza, incisa su blocco di arenaria. L'enigmatica divinità è identificata con Marte. Questo è il testo: 

DEO MAR(TI) / NOADAT(O?) / [F]L(AVIVS?) MVCATR/ALIS VET(ERANVS) LEG(IONI) / XXII EX VOT[O] / [POSV]IT 

La lettura NOADAT(O) potrebbe non essere corretta. Ritengo molto probabile che si debba invece leggere NOADAT(I). Se ciò fosse confermato, avremmo il dativo di un tema in consonante (sia in latino che in celtico terminava in -i). Il teonimo si spiegherebbe come una derivazione da un precedente *Noudons seguendo una trasformazione simile a quella che si è verificata in irlandese. La cosa sorprende non poco, dato che l'altare risale ai primi decenni del III secolo d.C. (datazione probabile: 200 - 230 d.C.). Si potrebbe pensare a una comunità alloctona, deportata dai Romani da una regione lontana, probabilmente l'Ibernia o la Caledonia. Questa comunità trapiantata non deve essere stata effimera. Si noterà che nella terminologia legale dei Merovingi restano tracce di una lingua celtica con caratteri simili a quelli dell'antico irlandese.  
 
Il significato della radice indoeuropea *neud- 
 
Le protoforme ricostruibili con sicurezza dai dati a disposizione (iscrizioni in latino, esiti nelle lingue celtiche medievali) puntano a una radice *noud-, *neud-, di cui il teonimo Nodens è un participio presente attivo. Cosa significa questa radice? Qual è la sua provenienza? Per rispondere a questa domanda è necessario fare riferimento ad altre lingue indoeuropee. Pokorny ha ricostruito una forma protoindoeuropea *neu-d- "acquisire, far uso di qualcosa". Pokorny ha ipotizzato *neu-d- "acquisire, utilizzare; pescare". In tempi più recenti, Starostin ricostruisce *neud- "godere di qualcosa, utilizzare". Il principale parallelo del teonimo celtico è il protogermanico *neutanan "utilizzare". In gotico abbiamo niutan "utilizzare", unnuts "stupido; inutile" (un- è il prefisso negativo), ma soprattutto nuta "pescatore" (la locuzione evangelica "pescatori di uomini" è resa da Wulfila con nutans manne). A parer mio il significato originario era "afferrare; catturare", da cui "cacciare; pescare", con naturale slittamento semantico. Esistono anche corrispondenti in baltico e in slavo. Si tratta quindi di una radice tipica dell'indoeuropeo occidentale, che potrebbe essere a sua volta un prestito antichissimo da una lingua di origine sconosciuta. Tutto questo è tuttavia di somma utilità: ci permette di capire che Nodens è proprio la fonte da cui è derivato il mito del Re Pescatore. Il Ciclo di Artù è derivato da un'assimilazione cristiana di materiale celtico. 
 
Nodens e il sassone Saxnot 
 
La divinità nazionale dei Sassoni era il guerriero Saxnōt, che è attestato in antico inglese come Seaxnēat. Si tratta di un teonimo formato a partire dal nome della spada corta, una sorta di gladio: antico sassone sax, antico inglese seax. Proprio come il nome stesso dei Sassoni. Possiamo facilmente comprendere che è un antico parente del latino saxum "sasso"; l'etimologia dall'indoeuropeo *sek- "tagliare" (da cui il latino secāre) è fallace e non spiega il vocalismo. Il vocabolo in questione rimanda all'epoca neolitica in cui le armi erano fatte di ossidiana. Così Saxnōt significa "Che usa il gladio", "Che afferra il gladio". La seconda parte del composto punta a una protoforma *naut-, che è proprio dal verbo *neutanan di cui abbiamo parlato in precedenza. 
 
Nodens e H. P. Lovecraft 
 
Molti conoscono Nodens soltanto per via delle sue menzioni nell'opera del Solitario di Providence. Nodens è chiamato "Il Cacciatore" e "Il Signore del Grande Abisso" (Lord of the Great Abyss). Considerato una divinità del Ciclo dei Sogni, è annoverato tra i Grandi Antichi. I suoi servitori sono i Magri Notturni (Nights Gaunts, Nightgaunts) In qualche modo è dipinto come benevolo, se non altro perché si oppone a Nyarlathotep, il Caos Strisciante. Compare nel romanzo fantastico La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath (The Dream-Quest of Unknown Kadath), scritto nel 1926-1927 e pubblicato postumo nel 1943. Si trova anche nel racconto horror La casa misteriosa lassù nella nebbia (The Strange High House in the Mist), scritto nel 1926 e pubblicato nel 1931 su Weird Tales:  
 
"And upon dolphin’s backs was balanced a vast crenelate shell wherein rode the grey and awful form of primal Nodens. Lord of the Great Abyss…. Then hoary Nodens reached forth a wizened hand and helped Olney and his host into the vast shell" 
 
Il suo aspetto è quello di un uomo canuto con la barba grigia, anziano ma robusto e vitale. Viaggia su una specie di carro costituito da una grande conchiglia marina e trainato da un cetaceo. Sembra quasi rassicurante, in confronto all'insondabile orrore alieno di Cthulhu e di Yog-Sothoth. Per il resto, sono sconosciuti i suoi poteri, così come le sue reali intenzioni.  

Nodens e J. R. R. Tolkien 

Sembra evidente che lo scrittore sudafricano sia rimasto molto colpito dalla scoperta delle iscrizioni di Lydney e dall'allusione all'anello di Silviano rubato dal perfido Seneciano. Da questi fatti deve aver sviluppato una vera e propria ossessione per gli anelli! Una cosa è certa: senza Nodens non avremmo Il Signore degli Anelli. Si è tanto insistito sull'adesione di Tolkien alla religione della Chiesa di Roma, eppure non si menziona quasi mai la pervasività dell'influenza delle antichità pagane nella sua formazione e nella sua opera.

sabato 10 ottobre 2020

ETIMOLOGIA DI MELQART

Melqart (fenicio Mlqrt /mil'qart/) è il nome della divinità tutelare della città fenicia di Tiro. Si hanno anche le trascrizioni Melkart, Melkarth e Melgart, meno precise; la forma accadica è Milqartu. L'etimologia del teonimo è trasparente. Melqart significa "Re della Città": deriva da mlk /milk/ "re" e da qrt /qart/ "città". La cosa più degna di nota a questo riguardo è il risultato dello scontro tra il fonema /k/ di /milk/ e il fonema /q/ (occlusiva uvulare) di /qart/: il primo scompare, assorbito dal secondo, in modo tale da evitare ogni cacofonia. Il fenicio mlk "re" corrisponde all'ebraico מֶלֶךְ melekh "re", mentre qrt "città" corrisponde all'ebraico קִרְיָה qiryāh "città; accampamento" (stato costrutto קִרְיַת־ qiryath-; plurale קְרָיוֹת qərāyōth). Il corrispondente vocabolo arabo è قَرْيَة qarya "città". 
 
Melqart aveva l'epiteto Bʽl Ṣr /baˁal 'tsˀu:r/ "Signore di Tiro". I Greci lo hanno identificato con Eracle. Per i Romani egli era Ercole di Tiro. L'interpretatio graeca e l'interpretatio romana avevano il loro fondamento nelle caratteristiche salienti della divinità in questione, di cui ogni anno si festeggiava il risveglio, chiamato in greco ἔγερσις (égersis), in corrispondenza del mese di febbraio - e non del solstizio d'inverno. Il ciclo vita-morte-resurrezione era il significato profondo di questa festa, in occasione della quale i marinai di Tiro si abbandonavano a danze vorticose e a sfrenatezze.   
 
Alcune citazioni interessanti 
 
Così scrisse Erodoto (Storie, libro 2, 44): 
 
[1] καὶ θέλων δὲ τούτων πέρι σαφές τι εἰδέναι ἐξ ὧν οἷόν τε ἦν, ἔπλευσα καὶ ἐς Τύρον τῆς Φοινίκης, πυνθανόμενος αὐτόθι εἶναι ἱρὸν Ἡρακλέος ἅγιον. [2] καὶ εἶδον πλουσίως κατεσκευασμένον ἄλλοισί τε πολλοῖσι ἀναθήμασι, καὶ ἐν αὐτῷ ἦσαν στῆλαι δύο, ἣ μὲν χρυσοῦ ἀπέφθου, ἣ δὲ σμαράγδου λίθου λάμποντος τὰς νύκτας μέγαθος. ἐς λόγους δὲ ἐλθὼν τοῖσι ἱρεῦσι τοῦ θεοῦ εἰρόμην ὁκόσος χρόνος εἴη ἐξ οὗ σφι τὸ ἱρὸν ἵδρυται. [3] εὗρον δὲ οὐδὲ τούτους τοῖσι Ἕλλησι συμφερομένους: ἔφασαν γὰρ ἅμα Τύρῳ οἰκιζομένῃ καὶ τὸ ἱρὸν τοῦ θεοῦ ἱδρυθῆναι, εἶναι δὲ ἔτεα ἀπ᾽ οὗ Τύρον οἰκέουσι τριηκόσια καὶ δισχίλια. εἶδον δὲ ἐν τῇ Τύρῳ καὶ ἄλλο ἱρὸν Ἡρακλέος ἐπωνυμίην ἔχοντος Θασίου εἶναι: [4] ἀπικόμην δὲ καὶ ἐς Θάσον, ἐν τῇ εὗρον ἱρὸν Ἡρακλέος ὑπὸ Φοινίκων ἱδρυμένον, οἳ κατ᾽ Εὐρώπης ζήτησιν ἐκπλώσαντες Θάσον ἔκτισαν: καὶ ταῦτα καὶ πέντε γενεῇσι ἀνδρῶν πρότερα ἐστὶ ἢ τὸν Ἀμφιτρύωνος Ἡρακλέα ἐν τῇ Ἑλλάδι γενέσθαι. [5] τὰ μέν νυν ἱστορημένα δηλοῖ σαφέως παλαιὸν θεὸν Ἡρακλέα ἐόντα, καὶ δοκέουσι δέ μοι οὗτοι ὀρθότατα Ἑλλήνων ποιέειν, οἳ διξὰ Ἡράκλεια ἱδρυσάμενοι ἔκτηνται, καὶ τῷ μὲν ὡς ἀθανάτῳ Ὀλυμπίῳ δὲ ἐπωνυμίην θύουσι, τῷ δὲ ἑτέρῳ ὡς ἥρωι ἐναγίζουσι.
 
"Volendo io su questi fatti sapere qualche cosa di preciso da coloro che potevano esserne informati, feci vela anche per Tiro di Fenicia, essendo a conoscenza che colà c'era un venerato santuario di Eracle. E vidi il tempio riccamente adorno di molti doni votivi, tra l'altro c'erano due stele, una d'oro puro, l'altra di smeraldo, che nella notte emanava intensi bagliori. Venuto a colloquio con i sacerdoti del dio, chiesi loro da quanto tempo era stato innalzato il santuario. Ma trovai che neppure quelli s'accordavano con i Greci poiché assicuravano che la costruzione del tempio era stata contemporanea alla fondazione di Tiro e Tiro era abitata già da 2300 anni. Siccome, poi, a Tiro avevo visto un altro tempio di Eracle, detto Tasio, mi recai anche a Taso e vi trovai il santuario di Eracle fondato dai Fenici, i quali, messisi in mare per ricercare Europa, avevano colonizzato Taso: e ciò era avvenuto ben cinque generazioni umane prima che, in Grecia, venisse alla luce Eracle, figlio di Anfitrione. Le mie ricerche, dunque, dimostrano all'evidenza l'antichità del dio Eracle. E a mio parere, fanno molto bene quei Greci che hanno santuari eretti a due Eracli: a uno, che chiamano Olimpio, offrono sacrifici come a un dio; all'altro onori funebri come a un eroe." 
 
Flavio Giuseppe scrisse quanto segue su Hiram I, Re di Tiro (circa 965 a.C. - 935 a.C.), citando come fonte Menandro, che tradusse testi dal fenicio al greco (Antichità giudaiche, libro VIII, 144-146): 
 
[144] Μέμνηται τούτων τῶν δύο βασιλέων καὶ Μένανδρος ὁ μεταφράσας ἀπὸ τῆς Φοινίκων διαλέκτου τὰ Τυρίων ἀρχεῖα εἰς τὴν Ἑλληνικὴν φωνὴν λέγων οὕτως· ‘τελευτήσαντος δὲ Ἀβιβάλου διεδέξατο τὴν βασιλείαν παρ᾽ αὐτοῦ υἱὸς Εἴρωμος, ὃς βιώσας ἔτη πεντηκοντατρία ἐβασίλευσε τριάκοντα καὶ τέσσαρα. [145] οὗτος ἔχωσε τὸ Εὐρύχωρον τόν τε χρυσοῦν κίονα τὸν ἐν τοῖς τοῦ Διὸς ἀνέθηκεν· ἔτι τε ὕλην ξύλων ἀπελθὼν ἔκοψεν ἀπὸ τοῦ ὄρους τοῦ λεγομένου Λιβάνου εἰς τὰς τῶν ἱερῶν στέγας· [146] καθελών τε τὰ ἀρχαῖα ἱερὰ καὶ ναὸν ᾠκοδόμησε τοῦ Ἡρακλέους καὶ τῆς Ἀστάρτης, πρῶτός τε τοῦ Ἡρακλέους ἔγερσιν ἐποιήσατο ἐν τῷ Περιτίῳ μηνί· τοῖς τε Ἰτυκαίοις ἐπεστρατεύσατο μὴ ἀποδιδοῦσι τοὺς φόρους καὶ ὑποτάξας πάλιν αὑτῷ ἀνέστρεψεν. ἐπὶ τούτου ἦν Ἀβδήμονος παῖς νεώτερος, ὃς ἀεὶ ἐνίκα τὰ προβλήματα, ἃ ἐπέτασσε Σολόμων ὁ Ἱεροσολύμων βασιλεύς.’
 
"144 Di questi due re fa menzione anche Menandro che tradusse le memorie dei Tirii dalla lingua fenicia alla parlata greca, con queste parole: «Morto Abibalo, gli succedette nel regno suo figlio Eirom, il quale visse cinquantatre anni e ne regnò trentaquattro;
145 questi realizzò l'Euruchoron e innalzò una colonna d'oro nel tempio di Zeus; viaggiò e tagliò gran copia di legname dal monte chiamato Libano per i tetti dei templi,
146 abbatté antichi templi e ne eresse di nuovi ad Eracle e ad Astarte; e fu il primo che celebrò la risurrezione di Eracle nel mese di Peritio; fece una spedizione contro gli Itikai, che non pagavano i tributi e, quando li ebbe assoggettati, se ne tornò indietro. Durante il suo regno, il giovanotto Abdemone aveva sempre successo nella soluzione dei problemi che gli erano sottoposti da Salomone, re di Gerusalemme.»" 
(Edizione UTET, a cura di Luigi Moraldi) 

Il mese macedone di Peritios corrispondeva al nostro febbraio.

Le Colonne d'Ercole nell'antichità omerica erano immaginate a Oriente, all'ingresso del Mar Nero. In seguito, con l'ampliarsi degli orizzonti della civiltà ellenica e con l'espansone del dominio di Roma, anche il mito cambiò per influsso fenicio. Proprio due colonne di bronzo ornate da iscrizioni si trovavano in un famoso tempio di Melqart fondato dalle genti di Tiro, nel luogo di Gades (attuale Cadice). Strabone descrisse il tempio, ma si mostrò scettico a proposito dell'identificazione  delle famose Colonne d'Ercole con i manufatti citati. Queste cose scrisse nella Geografia, volume 2, libro 3, capitolo 5: 
 
περὶ δὲ τῆς κτίσεως τῶν Γαδείρων τοιαῦτα λέγοντες μέμνηνται Γαδιτανοὶ χρησμοῦ τινος, ὃν γενέσθαι φασὶ Τυρίοις κελεύοντα ἐπὶ τὰς Ἡρακλέους στήλας ἀποικίαν πέμψαι: τοὺς δὲ πεμφθέντας κατασκοπῆς χάριν, ἐπειδὴ κατὰ τὸν πορθμὸν ἐγένοντο τὸν κατὰ τὴν Κάλπην, νομίσαντας τέρμονας εἶναι τῆς οἰκουμένης καὶ τῆς Ἡρακλέους στρατείας τὰ ἄκρα ποιοῦντα τὸν πορθμόν, ταῦτα δ᾽ αὐτὰ καὶ στήλας ὀνομάζειν τὸ λόγιον, κατασχεῖν εἴς τι χωρίον ἐντὸς τῶν στενῶν, ἐν ᾧ νῦν ἔστιν ἡ τῶν Ἐξιτανῶν πόλις: ἐνταῦθα δὲ θύσαντας μὴ γενομένων καλῶν τῶν ἱερείων ἀνακάμψαι πάλιν. χρόνῳ δ᾽ ὕστερον τοὺς πεμφθέντας προελθεῖν ἔξω τοῦ πορθμοῦ περὶ χιλίους καὶ πεντακοσίους σταδίους εἰς νῆσον Ἡρακλέους ἱερὰν κειμένην κατὰ πόλιν Ὀνόβαν τῆς Ἰβηρίας, καὶ νομίσαντας ἐνταῦθα εἶναι τὰς στήλας θῦσαι τῷ θεῷ, μὴ γενομένων δὲ πάλιν καλῶν τῶν ἱερείων ἐπανελθεῖν οἴκαδε. τῷ δὲ τρίτῳ στόλῳ τοὺς ἀφικομένους Γάδειρα κτίσαι καὶ ἱδρύσασθαι τὸ ἱερὸν ἐπὶ τοῖς ἑῴοις τῆς νήσου, τὴν δὲ πόλιν ἐπὶ τοῖς ἑσπερίοις. διὰ δὲ τοῦτο τοὺς μὲν δοκεῖν τὰ ἄκρα τοῦ πορθμοῦ τὰς στήλας εἶναι, τοὺς δὲ τὰ Γάδειρα, τοὺς δ᾽ ἔτι πορρώτερον τῶν Γαδείρων ἔξω προκεῖσθαι. ἔνιοι δὲ στήλας ὑπέλαβον τὴν Κάλπην καὶ τὴν Ἀβίλυκα, τὸ ἀντικείμενον ὄρος ἐκ τῆς Λιβύης, ὅ φησιν Ἐρατοσθένης ἐν τῷ Μεταγωνίῳ νομαδικῷ ἔθνει ἱδρῦσθαι: οἱ δὲ τὰς πλησίον ἑκατέρου νησῖδας, ὧν τὴν ἑτέραν Ἥρας νῆσον ὀνομάζουσιν. Ἀρτεμίδωρος δὲ τὴν μὲν τῆς Ἥρας νῆσον καὶ ἱερὸν λέγει αὐτῆς, ἄλλην δέ φησιν εἶναί τινα, οὐδ᾽ Ἀβίλυκα ὄρος οὐδὲ Μεταγώνιον ἔθνος. καὶ τὰς Πλαγκτὰς δὲ καὶ τὰς Συμπληγάδας ἐνθάδε μεταφέρουσί τινες, ταύτας εἶναι νομίζοντες στήλας, ἃς Πίνδαρος καλεῖ πύλας Γαδειρίδας, εἰς ταύτας ὑστάτας ἀφῖχθαι φάσκων τὸν Ἡρακλέα. καὶ Δικαίαρχος δὲ καὶ Ἐρατοσθένης καὶ Πολύβιος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν Ἑλλήνων περὶ τὸν πορθμὸν ἀποφαίνουσι τὰς στήλας. οἱ δὲ Ἴβηρες καὶ Λίβυες ἐν Γαδείροις εἶναι φασίν: οὐδὲν γὰρ ἐοικέναι στήλαις τὰ περὶ τὸν πορθμόν. οἱ δὲ τὰς ἐν τῷ Ἡρακλείῳ τῷ ἐν Γαδείροις χαλκᾶς ὀκταπήχεις, ἐν αἷς ἀναγέγραπται τὸ ἀνάλωμα τῆς κατασκευῆς τοῦ ἱεροῦ, ταύτας λέγεσθαί φασιν: ἐφ᾽ ἃς ἐρχόμενοι οἱ τελέσαντες τὸν πλοῦν καὶ θύοντες τῷ Ἡρακλεῖ διαβοηθῆναι παρεσκεύασαν, ὡς τοῦτ᾽ εἶναι καὶ γῆς καὶ θαλάττης τὸ πέρας. τοῦτον δ᾽ εἶναι πιθανώτατον καὶ Ποσειδώνιος ἡγεῖται τὸν λόγον, τὸν δὲ χρησμὸν καὶ τοὺς πολλοὺς ἀποστόλους ψεῦσμα Φοινικικόν.  

"Intorno poi alla fondazione di Gadi quegli abitanti ricordano un certo oracolo, dal quale dicono che fu già tempo comandato ai Tirii d’inviare una colonia alle Colonne d’Ercole: che le persone spedite ad esplorare il luogo, essendo pervenute allo stretto vicino a Calpe, credendo che que’ promontorii dai quali esso è formato fossero i termini della terra abitata e della spedizione di Ercole (e che per questo l’oracolo le avesse denominate Colonne), approdarono al di qua dello stretto medesimo in quel luogo nel quale ora si trova la città degli Assitani; ma che avendo poi quivi sagrificato e vedendo che gli augurii non riuscivauo favorevoli se ne tornarono al proprio paese. Di lì a qualche tempo (soggiungono) furono spediti alcuni altri, i quali si spinsero fino al di là dallo stretto lo spazio di circa mille e cinquecento stadii, e trovarono un’isola consacrata ad Ercole, posta rimpetto ad Onoba città dell’Iberia. E pensando che quelle fossero le Colonne, sagrificarono al Dio. Ma tornando contrarii gli indizii rimpatriarono anch’essi. Se non che essendo inviata una terza missione fondarono Gadi, fabbricando il tempio di Ercole nelle parti orientali dell’isola, e la città nelle parti occidentali. Di qui poi è venuto che sotto il nome di Colonne alcuni intendono i promontorii dello stretto, altri intendono Gadi; ed altri un luogo ancor più lontano. V’ha chi stima che le Colonne siano Calpe ed Abila, che è un monte di Libia opposto a Calpe, e situato secondo Eratostene fra’ Metagoni, schiatta di nomadi. Altri le crede invece quelle due isolette cbe stanno presso ai monti già mentovati, ed una delle quali è chiamata isola di Giunone. Anche Artemidoro parla dell’isola di Giunone e del suo tempio, ma nega che ne sussista alcun’altra, nè il monte Abila nè la gente dei Metagoni. Alcuni poi riferiscono a que’ luoghi le Plancte e le Simplegadi, e tengono che queste siano le Colonne da Pindaro denominate Porte Gaditane, affermando che furon l’ultimo punto a cui Ercole giunse. Del resto Dicearco, Eratostene, Polibio e la maggior parte degli scrittori greci sogliono collocar le Colonne vicino allo stretto; ma gli abitanti d’Iberia e di Libia affermano che sotto quel nome debba intendersi Gadi; perchè i luoghi intorno allo stretto non rendono punto immagine di colonne. V’ha eziandio chi vuol cbe s’intendano le colonne di bronzo di otto cubiti che sono nel tempio d’Ercole in Gadi, su le quali sta inscritto quanto fu speso nella fondazione del tempio stesso. Queste (dicono essi) son quelle colonne alle quali pervenivano i navigatori come ad ultimo punto dei loro viaggi, ed avendo in costume di far quivi sagrifizii ad Ercole, s’adoperarono a diffondere questa opinione che le dice l’estremo confine e della terra e del mare. Anche Posidonio stima che questa opinione sia più credibile di tutte, e che l’oracolo e le molte spedizioni ricordate poc’anzi siano una menzogna fenicia."
(traduzione di Francesco Ambrosoli, 1832) 

Nell'Antico Testamento si trova un riferimento a Melqart, che pure nn viene esplicitamente nominato: è però ben riconoscibile dai suoi attributi. Questo è il testo (1 Re 18, 27): 
 
וַיְהִ֨י בַֽצָּהֳרַ֜יִם וַיְהַתֵּ֧ל בָּהֶ֣ם אֵלִיָּ֗הוּ וַיֹּ֙אמֶר֙ קִרְא֤וּ בְקֹול־גָּדֹול֙ כִּֽי־אֱלֹהִ֣ים ה֔וּא כִּ֣י שִׂ֧יחַ וְכִֽי־שִׂ֛יג לֹ֖ו וְכִֽי־דֶ֣רֶךְ לֹ֑ו אוּלַ֛י יָשֵׁ֥ן ה֖וּא וְיִקָֽץ׃
 
"Essendo già mezzogiorno, Elia cominciò a beffarsi di loro dicendo: «Gridate con voce più alta, perché egli è un dio! Forse è soprappensiero oppure indaffarato o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà»." 

Questo è un riferimento satirico abbastanza caustico alle fatiche di Melqart, ai suoi viaggi e al suo risveglio.
 
Il Signore di Tiro e l'Ade 
 
Le connessioni di Melqart con l'Oltretomba non mancano. È stato ipotizzato che nel teonimo la città faccia riferimento non soltanto a Tiro, ma soprattutto al Regno dei Morti. Sappiamo che questa idea dell'Ade come città nacque tra i Sumeri. URUGAL "Grande Città" è uno dei nomi sumerici dell'ultima destinazione di tutti i viventi. Variante: ERIGAL. L'aggettivo in sumerico segue sempre il nome: GAL significa "grande", mentre URU significa "città" (variante: IRI). In accadico questo toponimo arcano è stato preso a prestito come IRKALLA o ERKALLU. Del resto anche l'Eracle greco è strettamente connesso con l'Oltretomba. In origine era infatti un eroe mortale, elevato poi al rango di divinità per le sue portentose imprese. Nell'Odissea (libro XI) si menziona l'incontro tra Ulisse e l'ombra di Eracle, subito specificando che si tratta di un mero simulacro, dato che l'eroe siede alla mensa degli Dei dell'Olimpo. 
 
τὸν δὲ μέτ’ εἰσενόησα βίην Ἡρακληείην,
εἴδωλον· αὐτὸς δὲ μετ’ ἀθανάτοισι θεοῖσι
τέρπεται ἐν θαλίῃς καὶ ἔχει καλλίσφυρον Ἥβην. 

«Subito dopo intravidi il vigore di Eracle, |
la sua immagine; ma lui invece con gli dèi immortali |
gode a banchetto e sua è Ebe dalle belle caviglie»
 
Ovviamente si tratta di un'aggiunta posticcia, di un artifizio che serviva a evitare la contraddizione con la tradizione più antica, anteriore all'importazione del mito cananeo della resurrezione dell'eroe divinizzato. 
 
Melqart a Cartagine 
 
Cartagine mantenne a lungo un legame particolare con Tiro, tanto che fino all'epoca ellenistica versava un notevole tributo alla città madre, pari alla decima parte degli introiti annui del tesoro. Non sorprende dunque sapere che l'Eracle di Tiro vi era molto venerato. La pronuncia punica di Melqart era /mil'kar/, dati gli sviluppi che la lingua subì a Cartagine nel corso dei secoli. L'antica consonante /k/ era divenuta una fricativa /χ/, mentre la consonante /q/ era divenuta /k/. La desinenza tipica del femminile /-t/, che in genere divenne /-θ/, qui cadde del tutto, forse per evitare l'incongruenza semantica, dato che il teonimo è maschile. 
 
La pronuncia del punico era molto sincopata: possiamo dire che i Cartaginesi "mangiavano le parole". Analizziamo alcuni importanti antroponimi formati a partire dal nome di Melqart. 
i) Il punico ʽbdmlqrt /amil'kar/, da un più antico /ˁabdmil'qart/, significa "Servo di Melqart". In latino il nome fu preso a prestito con l'accento sulla penultima sillaba: Hamilcar, Amilcar /(h)a'milkar/
ii) Il punico ḥmlqrt /imil'kar/, da un più antico /ħi:mil'qart/, significa "Fratello di Melqart". Si può immaginare che si sia in parte confuso col precedente /amil'kar/ per via del suono molto simile nelle fasi tarde della lingua.   
ii) Il punico bdmlqrt /bomil'kar/, da un più antico /bo:dmil'qart/, significa "Nella mano di Melqart". Il prefisso b- "in" aggiunto a yd /jo:d/ ha dato bd /bo:d/ "nella mano". In latino il nome fu preso a prestito con l'accento sulla penultima sillaba: Bomilcar /bo'milkar/; la quantità della prima sillaba è incerta.  
 
Melqart in Sicilia 
 
Sono state trovate monete d'argento con l'immagine di una testa d'uomo provvisto di orecchini, simile dalle raffigurazioni greche di Eracle, e la scritta RŠ MLQRT, ossia "Promontorio di Melqart" (alla lettera "Testa di Melqart", pronuncia fenicia /ru:ʃ mil'qart/, punico /rusmil'kar/; trascrizioni comuni e inesatte sono Ras Melqart e Rash Melqart). Queste monete sono tetradrammi, coniati a partire dalla metà del IV secolo a. C. L'identificazione del toponimo non è sicura. Molti hanno creduto che la monetazione indicasse Cefalù, ma questa ipotesi è infine stata smentita (cfr. Kōkalos: Studi pubblicati dall'Istituto di Storia Antica dell'Università di Palermo, volume 20, pag. 121). Nonostante ciò, questa errata identificazione è tuttora presente in modo pervasivo nel Web, trovandosi nella stessa Wikipedia come data per assodata. Regna una grande confusione: c'è chi propone l'identificazione con Eraclea Minoa, con Lilibeo (attuale Marsala) e addirittura con Selinunte. Eraclea Minoa non era uno stanziamento punico, ma aveva avuto una notevole influenza fenicia, traeva il suo nome da Eracle e aveva un nome non greco, Makara, che potrebbe ben essere derivato da Melqart. Secondo Leuven (1989), RŠ MLQRT non indicherebbe un toponimo, bensì un'istituzione dell'amministrazione cartaginese in Sicilia. Un'idea molto simile è sostenuta da Bonnet e Manfredi (1995): significherebbe "capi" o "eletti", nonostante non sia presente alcun suffisso per marcare il plurale. Ciò è tuttavia smentito con sicurezza da due iscrizioni trovate a Cartagine, che contengono la locuzione ʻM RŠ MLQRT "assemblea del popolo del Promontorio di Melqart"). 
 
Melqart in Sardegna 
 
Tra i Sardi il nome di Melqart è stato adattato in un modo davvero singolare: Makeris. Questo pone una serie di problemi a livello fonetico, al punto che Edward Lipiński si è opposto a questa identificazione (Dieux et Déesses de l'univers phénicien et punique, 1995). Con ogni probabilità Makeris è il prodotto di una metatesi da un più chiaro *Mekari-, derivato direttamente dal punico /mil'kar/. In italiano è spesso reso con Maceride.
 
Pausania riporta questo nella Periegesi della Grecia, volume IV (libro 10, capitolo 17, 1-2): 
 
[1] βαρβάρων δὲ τῶν πρὸς τῇ ἑσπέρᾳ οἱ ἔχοντες Σαρδώ, εἰκόνα οὗτοι χαλκῆν τοῦ ἐπωνύμου σφίσιν ἀπέστειλαν. ἡ δὲ Σαρδὼ μέγεθος μὲν καὶ εὐδαιμονίαν ἐστὶν ὁμοία ταῖς μάλιστα ἐπαινουμέναις: ὄνομα δὲ αὐτῇ τὸ ἀρχαῖον ὅ τι μὲν ὑπὸ τῶν ἐπιχωρίων ἐγένετο οὐκ οἶδα, Ἑλλήνων δὲ οἱ κατ᾽ ἐμπορίαν ἐσπλέοντες Ἰχνοῦσσαν ἐκάλεσαν, ὅτι τὸ σχῆμα τῇ νήσῳ κατ᾽ ἴχνος μάλιστά ἐστιν ἀνθρώπου. μῆκος δὲ ἀπ᾽ αὐτῆς εἴκοσι στάδιοι καὶ ἑκατόν εἰσι καὶ χίλιοι, εὖρος δὲ ἐς εἴκοσί τε καὶ τετρακοσίους προήκει.
[2] πρῶτοι δὲ διαβῆναι λέγονται ναυσὶν ἐς τὴν νῆσον Λίβυες: ἡγεμὼν δὲ τοῖς Λίβυσιν ἦν Σάρδος ὁ Μακήριδος, Ἡρακλέους δὲ ἐπονομασθέντος ὑπὸ Αἰγυπτίων τε καὶ Λιβύων. Μακήριδι μὲν δὴ αὐτῷ τὰ ἐπιφανέστατα ὁδὸς ἐγένετο ἡ ἐς Δελφούς: Σάρδῳ δὲ ἡγεμονία τε ὑπῆρξε τῶν Λιβύων ἡ ἐς τὴν Ἰχνοῦσσαν καὶ τὸ ὄνομα ἀπὸ τοῦ Σάρδου τούτου μετέβαλεν ἡ νῆσος. οὐ μέντοι τούς γε αὐτόχθονας ἐξέβαλεν ὁ τῶν Λιβύων στόλος, σύνοικοι δὲ ὑπ᾽ αὐτῶν οἱ ἐπελθόντες ἀνάγκῃ μᾶλλον ἢ ὑπὸ εὐνοίας ἐδέχθησαν. καὶ πόλεις μὲν οὔτε οἱ Λίβυες οὔτε τὸ γένος τὸ ἐγχώριον ἠπίσταντο ποιήσασθαι: σποράδες δὲ ἐν καλύβαις τε καὶ σπηλαίοις, ὡς ἕκαστοι τύχοιεν, ᾤκησαν.
 
Questa è la traduzione fatta da Antonio Nibby (1817), che per gli standard moderni sarebbe considerata deprecabile: 

"1. De’ barbari occidentali quelli, che occupano la Sardegna mandarono un ritratto di bronzo di quello, che loro diede il nome.
2. La Sardegna per grandezza, ed abbondanza non la cede alle isole più lodate: quale fosse l’antico nome, che dai nazionali avea, nol so; que’ Greci però, che navigarono per commercio la chiamarono Icnusa, perchè la figura della isola è molto simile alla impronta del piede umano. La sua lunghezza è di mille, e centoventi stadj; di quattrocento settanta la sua larghezza. Si dice, che i primi a passare con navi nella isola furono Affricani, e loro condottiere fu Sardo di Maceride, di Ercole, al quale si dà il soprannome di Egizio, e di Affricano. Molto celebre fu il viaggio di Maceride a Delfo. Sardo poi portò gli Affricani in Icnusa, e perciò l’isola cangiò il nome nel suo. La flotta degli Affricani non discacciò gl’indigeni; ma questi li accolsero più per forza, che per benevolenza. Nè gli Affricani, nè i naturali sapevano edificare città; ma abitavano dispersi in capanne, e spelonche come potevano."
 
Melqart in Britannia 
 
Riporto alcune interessantissime informazioni tratte dal lavoro di Corinne Bonnet, Melqart in Occidente. Percorsi di appropriazione e di acculturazione (in  P.  Bernardini  –  R.  Zucca, Il Mediterraneo di Herakles, Roma, 2005): 
 
"Persino nella lontanissima Corstopitum (Corbridge), lungo il vallo di Adriano, due altari gemelli associano in una dedica greca l'Eracle di Tiro (con interpretatio  graeca)  ad Astarte (senza interpretatio!), come se non ci fosse Melqart senza Astarte."