lunedì 28 dicembre 2020

LINGUA VIVA, LINGUA MORTA, LINGUA STORICA: ALCUNE RIFLESSIONI

Tutti pensano di sapere cos'è una lingua viva e cos'è una lingua morta o estinta. Tutti pensano di poter dare una chiara e netta definizione di questi concetti, a prima vista elementari. In realtà si può dimostrare che una simile sicurezza classificatoria è fallace. Infine giungo a una conclusione ben triste: nonostante tutti i miei sforzi, non mi è affatto facile dare una definizione scientifica accettabile da tutti su cosa sia davvero una lingua viva, una lingua morta o una lingua estinta. Mi rendo conto che questa affermazione può risultare sconcertante, o addirittura al limite della follia. Posso soltanto analizzare le insidie che questi argomenti irrimediabilmente comportano, mettendo a fuoco le incoerenze delle opinioni comuni in merito alla natura stessa del linguaggio. In ognuna di queste opinioni c'è senza dubbio del vero, ma purtroppo sfugge sempre qualcosa di essenziale. La trattazione è di una complessità incredibile e i paradossi che ne nascono sono innumerevoli.
 
Mi sono sempre attenuto a questo concetto: una lingua si definisce viva se c'è una trasmissione diretta, ossia se è insegnata dai genitori di una comunità ai propri figli. A parer mio questa trasmissione diretta avviene soprattutto per linea materna. Si incappa in una prima difficoltà concettuale. Se non esiste una comunità di parlanti, e una lingua è trasmessa in una famiglia senza che nessun altro la parli al di fuori di tale contesto, sarà una lingua moribonda, un fossile in grave pericolo di estinzione, sempre a rischio di subire l'irreparabile interruzione della catena di trasmissione. Funzionalmente non è più una lingua viva, anche se è ancora parlata. Quindi cosa dovremmo dire? Che una lingua in queste condizioni è viva e morta nello stesso tempo come il famoso gatto di Schrödinger?
 
Molti saranno scettici su quanto da me affermato, ritenendo invece che una lingua sia senza dubbio viva se ha parlanti, fossero anche un paio soltanto, indipendentemente dal modo in cui l'hanno appresa e dal contesto sociale in cui la utilizzano. Stando a questa idea, è sufficiente che qualcuno pronunci spontaneamente frasi in una lingua appresa sui libri per dire che quella è una lingua viva, che non può essere definita una lingua morta finché qualcuno la utilizza per comunicare. Riporterò alcuni esempi in grado di illustrare le mie perplessità in merito.  
 
Il fantasma della lingua Ainu 
 
Secondo gli antropologi Alexander Akulov (ricercatore indipendente, San Pietroburgo, Russia) e Tresi Nonno (ricercatore indipendente, Chiba, Giappone), un parlante di una lingua è definito come una persona capace di utilizzarla per produrre pronunce spontanee. Akulov, che è uno studioso della lingua e della cultura degli Ainu, dopo un estenuante lavoro sul campo nell'isola di Hokkaidō è riuscito a trovare soltanto due parlanti fluenti dell'idioma ancestrale, che tra l'altro lo avevano appreso da adulti. Per il resto c'erano soprattutto persone che conoscevano a memoria poche parole o frasi, in modo stereotipato, senza alcuna comprensione della grammatica e del vocabolario. Al pari dei pappagalli. Sono rimasto colpito dall'aneddoto della ragazza che sentendo parlare in Ainu si scusò di non conoscere abbastanza l'inglese da capire cosa veniva detto. Questo ha portato l'antropologo russo a maturare le sue amare convinzioni su cos'è una lingua viva e su cosa non lo è. Consiglio la lettura di questi due lavori: 

Akulov, Nonno, Contemporary condition and perspectives of Ainu language (2015)

 
Akulov, Actual problems of Ainu language revitalization (2017)

 
Stando alle evidenze fornite, possiamo dire che la lingua degli Ainu è funzionalmente morta, anche se è insegnata nelle università. Il suo insegnamento è infatti stereotipato e non serve al recupero. Ci sono persino i manga in Ainu, ma risulta evidente che non sono di alcuna utilità. 
 
Pronunce spontanee e mnemotecnica 
 
Parto dagli esempi forniti dallo stesso Akulov, colorendoli un po' e forse estremizzandoli, allo scopo di rendere meglio l'idea. Se qualcuno conosce a memoria le opere di Shakespeare, come l'Amleto e il Macbeth, ma non è in grado di dire o di scrivere null'altro in inglese, non può considerarsi in alcun modo un parlante della lingua inglese. Per contro, un bengalese che entra trafelato in un negozio di alimentari a Londra e dice "I MILK TWO!", sarebbe da considerarsi un parlante genuino dell'inglese, a dispetto delle severe difficoltà grammaticali della frase elementare da lui proferita. L'idea di Akulov-Nonno presuppone che un esercente londinese capirebbe la frase dell'uomo del Bangladesh, che potrebbe quindi riuscire ad ottenere quanto desidera. Su questo sono molto scettico. Se il bengalese in questione sa dire soltanto "I MILK TWO!" e niente altro, non può certo paragonarsi a chi conosce a menadito testi complessi di Shakespeare. Nell'immenso repertorio memorizzato si potrebbe infatti trovare qualche frase utile, applicabile nella pratica quotidiana: mi stupirei del contrario. Il nostro amico bengalese dovrebbe almeno conoscere un certo assortimento di parole del lessico alimentare di base, come bread "pane", butter "burro", cheese "formaggio", eggs "uova", etc. Se decidesse, con molta saggezza, di accantonare ogni eventuale tabù religioso, potrebbe trovare utili anche parole come sausage "salsiccia", ham "prosciutto", beer "birra", wine "vino", etc. Dovrebbe anche saper contare e non basterebbero i numerali da uno a dieci. A che gli servirebbe entrare in un negozio se non sapesse distinguere six "sei" da sixteen "sedici" e da sixty "sessanta"? Ora, il bengalese sarà aiutato dai negozianti londinesi soltanto perché è ormai comune per un anglosassone defecarsi in mano per il terrore di essere ritenuto "razzista". Un uomo del Bangladesh, avendo un aspetto peculiare che lo distingue all'istante da un inglese autoctono, sarà certo considerato un soggetto da aiutare, anche se pronuncia MILK come MEELKAH. Posso garantire che per un italiano o per un greco nella stessa situazione non ci sarebbe pietà né misericordia: non essendo "abbronzati", possono essere trattati come mucchi di stronzi sulla via. Non capisci i discorsi nell'inglese supersonico con le parole "mangiate"? Sono cazzi tuoi. 
 
Lingua gotica e lingua neogotica
 
Adesso veniamo al caso di uno studioso che sa produrre pronunce spontanee nella lingua gotica di Wulfila. Ad esempio, questo è il mio caso. Posso pronunciare proposizioni come queste: 
 
ik im manna freis "io sono un uomo libero",
ik im sa frumabaur þiudanis Austragutþiudos "io sono il figlio primogenito del Re degli Ostrogoti",
ik wiljau itan mims bairins jah drigkan midu
"voglio mangiare carne d'orso e bere idromele", etc. 
 
Stando ad Akulov-Nonno, senza dubbio dovrei essere considerato un parlante della lingua gotica di Wulfila. Se giungesse il vescovo Wulfila redivivo, mi capirebbe e io lo capirei a mia volta. Eppure nessuno sosterrà che la lingua dei Goti sia una lingua viva solo perché la so parlare con qualche grado di competenza. Tale lingua non è stata parlata per secoli, non è stata trasmessa all'interno di nuclei familiari e da lungo tempo non è nemmeno stata utilizzata per fini culturali o identitari. Adesso ci sono diversi amici svedesi, spagnoli, tedeschi e inglesi che la hanno appresa e la conoscono abbastanza bene da poterla parlare, pur con le indubbie difficoltà del suo adattamento al contesto del XXI secolo. Esiste Wikipedia in gotico (scritto in caratteri wulfiliani) e persino un blog in gotico (scritto in caratteri latini): Himma Daga
 
 
Eppure questo non cambia le cose. Evidentemente non siamo di fronte a una lingua viva. Nulla potrà mai obliterare lo spaventoso iato temporale che intercorre tra l'estinzione della lingua dei Goti e la riscoperta dei testi di Wulfila. Quindi il gotico di chi ha scritto quei testi e quello di chi li ha riscoperti sono da considerarsi due lingue appartenenti a due diverse trafile evolutive. La prima di queste trafile parte dalla più lontana preistoria e giunge a un punto morto, con l'estinzione della lingua parlata. La seconda di queste trafile è artificiale e parte secoli dopo la fine della prima, proprio dal rinvenimento delle sue tracce e dalla loro rielaborazione. 
  
Alla luce di ciò che abbiamo esposto, dobbiamo giungere alla desolante conclusione che le tesi di Akulov-Nonno siano poco fondate. La produzione di pronunce spontanee in una data lingua non è sufficiente a far sì che questa sia in automatico etichettabile come lingua viva. Procediamo con l'analisi di altri casi di un certo interesse. 
 
Primo Levi in Polonia
 
Primo Levi, che fu internato ad Auschwitz e quindi a Monowitz (Auschwitz III), nel febbraio del 1945 intraprese un lunghissimo viaggio a piedi che lo portò a Torino, seguendo un percorso molto tortuoso attraverso l'Ucraina, la Bielorussia e la Romania. Ricordo bene di aver letto che appena il campo di Auschwitz-Monowitz fu abbandonato all'arrivo dell'Armata Rossa, lo scrittore torinese si trovò in un paese a lui sconosciuto, la Polonia, di cui ignorava del tutto la lingua. La gente era ostile e lui non trovava aiuto né sostegno. All'improvviso gli venne in mente di parlare in latino a un sacerdote, che lo capì, lo portò in un refettorio e gli fece dare da mangiare. Per questo si convinse che il latino potesse essere una lingua viva e vitale, anche se era ben consapevole dell'effetto surreale del suo utilizzo per conversare sulle cose dei tempi moderni. Con queste parole Primo Levi ci ha descritto la sua esperienza nel romanzo autobiografico La tregua (1963):
 
"La mensa dei poveri era dunque dietro alla cattedrale: restava da stabilire quale, fra le molte belle e chiese di Cracovia, fosse la cattedrale. A chi chiedere, e come? Passava un prete: avrei chiesto al prete. Ora quel prete, giovane e di aspetto benigno, non intendeva né il francese né il tedesco; di conseguenza, per la prima e unica volta nella mia carriera postscolastica, trassi frutto dagli anni di studi classici intavolando in latino la più stravagante ed arruffata delle conversazioni. Dalla iniziale richiesta di informazioni («Pater optime, ubi est mensa pauperorum?») venimmo a parlare di tutto, dell’essere io ebreo, del Lager («castra»? Meglio Lager, purtroppo inteso da chiunque), dell'Italia, della inopportunità di parlare tedesco in pubblico (che avrei compreso poco dopo, per esperienza diretta), e di innumerevoli altre cose, a cui l'inusitata veste della lingua dava un curioso sapore di trapassato remoto."  
 
A dover esser franco, credo che una parola molto idonea per tradurre Lager esista in latino: carcer. Non riesco a capire perché a Levi sia venuta in mente la traduzione castra "accampamento", quasi letterale, ma non il concetto di "prigione", ontologicamente più verosimile.
 
Un anziano latinista in Russia 

In Quora, pessimo social più inutile dei peti di un mulo, mi sono imbattuto anni fa in un attempato utente con la nobile passione per la lingua latina. Non menziono il suo nominativo per questioni di riservatezza, visto che non vorrei recargli fastidio: il mio scopo è solo di conoscenza. Riporto alcune sue interessanti opinioni. Eccone una: 

"Anni fa, prima di studiare il russo, mi successe in un treno in Russia di usare il latino come lingua franca con dei russi che non parlavano inglese. Con sommo imbarazzo mio e di mia moglie, lo conoscevano meglio di noi. NON è una lingua morta." 
 
E ancora: 
 
"Non dicevo che il latino non è una ligua morta perchè occasionalmente lo ho usato come lingua franca. Dicevo che non è una lingua morta perché il Russia ho trovato persone che lo conoscevano meglio di me. Cioè è parte della cultura universale che definisce il bsagaglio (sic) della civiltà umana, ed è vivo perché ancora studiato e praticato, come parte viva della cultura." 

Non ho tardato a rispondere: 

"Come avete imparato il latino tu e tua moglie? Dai libri, dalle grammatiche, dai dizionari. Come hanno imparato il latino i russi in questione? Proprio allo stesso modo. Nessuno l’ha imparato dalla propria madre quand’era bambino, come prima lingua. Quindi È una lingua morta. Immaginiamo che un uomo abbia appreso il sumerico, vada in Israele e trovi quattro professori con cui discorrere in quella lingua. Non si potrà dire che per questo il sumerico sia una lingua viva. Questa è la realtà dei fatti, se poi si vuole fantasticare, si è liberissimi." 
 
E ancora: 
 
"Tecnicamente parlando, il latino è una lingua morta per il fatto incontestabile che nessuna madre lo usa per crescere i propri figli. Tuttavia una lingua morta non è affatto un mucchietto di polvere: può benissimo essere parlata in alcuni ambienti e continuare a dare prestiti a numerose lingue viventi. Il latino ecclesiastico nel Medioevo è stato una lingua franca che permetteva di comunicare su scala europea. Tuttora è usato in Vaticano (ci sono persino sportelli del bancomat con istruzioni in latino). Il sumerico fu parlato per secoli dagli scribi e dai sacerdoti, anche dopo che aveva smesso di essere usato nelle famiglie. Non solo: continuò a dare un fiume di prestiti all’accadico." 
 
Non sembra che le mie osservazioni abbiano sortito qualche effetto: l'anziano quorano si è chiuso nel suo ostile silenzio, senza dubbio tenendosi le sue idee. 
 
Comunità latinofone online  

Sempre in Quora, mi sono imbattuto in qualcosa di veramente mirabile. Questo ha scritto l'utente Luke Ranieri:
 
Essendo una persona che parla il latino correntemente, e trovandomi nell’ambiente di altri parlanti, vi posso dire che ci sono infatti delle madri (e padri) che insegnano ai loro figli a parlare il latino, anche se questi individui sono pochissimi. Ammettiamo che non c’è nessun paese dove si parla il latino; purtroppo il Vaticano quasi non lo usa, preferendo l’italiano (che è a me tanto caro quanto il latino). Invece ci siamo noi entusiasti del parlare del latino, che ci troviamo in grandi conferenze dove la sola lingua è quella antica romana, e ci incontriamo in quasi tutte le città maggiori dell’occidente, chiacchierando nei caffè e fra noi sulle strade. Possiamo contare più di trecento amici e conoscenze con coi parlo solo in latino. Visto che il latino compone una parte importante della mia vita quotidiana, vi posso assicurare che è vivissima. Ecco un esempio, un vlog ho fatto a Napoli, dove vedrete qualche persona che chiacchiera in latino:  
 
Vlog #1 GrecoLatinoVivo; Naples (Tours in Latin) / Neapolis (Peregrinationes Latine)  



La pronuncia è perfetta, sembra proprio quella che avrebbero usato Cicerone e Cesare. Mi complimento per lo sforzo, che ha qualcosa di incredibile. Certo, ci sono alcuni neologismi problematici, che nulla tolgono alla grandezza dei risultati. 

Certo, sono venuti a sapere che c'è un piccolo numero (nemmeno piccolissimo) di persone che insegnano ai figli il latino classico con un'ottima pronuncia. Mentre perdevo tempo a guardare video pornografici e a scribacchiare in questo blog, qualcuno si dava da fare ed è riuscito a fondare una vera e propria comunità latinofona. Tuttavia non credo affatto che queste persone insegnino il latino ai loro figli come prima lingua. Lo insegneranno a bambini che hanno già appreso alla perfezione l'italiano. Anche perché se in questa nazione qualcuno insegnasse come prima lingua ai figli qualcosa di diverso dall'italiano, prima o poi si manifesterebbe un esserino non proprio simpatico, chiamato "assistente sociale". Arriverebbe una Signorina Spinosetti, con un potere spropositato, che potrebbe addirittura decidere di sottrarre i pargoli alla patria potestas.

Nessuno potrà negare che la lingua dei latinofoni in questione sia una lingua parlata. Allo stesso modo, nulla potrà mai obliterare lo spaventoso iato temporale che intercorre tra l'estinzione della lingua di Cicerone e i suoi diversi revival occorsi in tempi moderni. Quindi il latino dei testi classici e quello di chi ha deciso di usarlo nella vita quotidiana sono da considerarsi due lingue appartenenti a due diverse trafile evolutive. La prima di queste trafile parte dalla più lontana preistoria e giunge alla separazione tra il latino aulico (sermo nobilis) e quello del popolo (sermo vulgaris). La seconda di queste trafile è artificiale e parte secoli dopo l'esaurimento della prima, proprio dallo studio dei suoi monumenti storici e dalla loro rielaborazione. Nemmeno l'uso pratico e quotidiano di una lingua come il latino può far sì che questa sia confusa con una lingua viva.

Il caso di Montaigne 
 
Riporto un caso assai singolare, quello del filosofo, scrittore, aforista e politico francese Michel Eyquem de Montaigne (1533 - 1592), una delle figure di maggior spicco del Rinascimento francese. La famiglia era di origine mercantile e marrana, sia da parte di padre che da parte di madre. Fu cresciuto da un precettore tedesco di nome Hortanus, un medico, che ebbe l'ordine di parlargli unicamente in latino. Anche gli altri membri della famiglia del bambino che ebbero contatto con lui gli si rivolgevano allo stesso modo, evitando di farsi scappare anche soltanto una parola in francese. Accadde così che a tredici anni Michel sapeva parlare solo il latino, ignorando persino l'esistenza di altre lingue e credendo che tutti naturalmente si esprimessero in latino. Quando fu inviato dal padre al collegio Guyenne a Bordeaux, poté finalmente apprendere il francese e il greco antico. Si pone la questione della pronuncia usata da Hortanus e da Montaigne nelle loro conversazioni in latino. Hortanus doveva essere stato educato nella pronuncia ecclesiastica tedesca, molto diversa da quella in vigore in Francia. Cosa aveva fatto? Aveva imposto al suo pupillo la propria pronuncia o si era adattato a quella usata nella nazione in cui si trovava? Nel primo caso, il giovane avrebbe avuto qualche difficoltà di comunicazione una volta giunto al collegio Guyenne. Non si trova la benché minima traccia di queste problematiche nelle fonti. Il mio sospetto è che possa trattarsi di una leggenda interamente fabbricata.
 
Villaggi sanscritofoni in India 
 
In India, nello Stato federato di Karnataka, ci sono i due villaggi di Mattur e Hosahalli. Si trovano nel distretto di Shimoga (Shivamogga), lungo il corso del fiume Tunga. Sono venuto a conoscenza della loro esistenza per una fortunata circostanza, quasi per serendipità nel vasto Web. Questi centri abitati del meridione del subcontinente indiano hanno una peculiarità di non poco conto: in essi il sanscrito è una lingua viva e tramandata di generazione in generazione. L'antica lingua vi è talmente coltivata che gli abitanti si considerano i suoi custodi. Bizzarramente, il Karnataka è un territorio la cui lingua maggioritaria è dravidica, mentre le lingue indoarie sono parlate da minoranze. La lingua più comune, il Kannada, è parlato dai due terzi della popolazione. La sanscritizzazione ha avuto origine agli inizi del XVI secolo, quando la comunità brahminica dei Sankethi, originaria del Kerala, si stabilì nei pressi di Shivamogga e ricevette dall'Imperatore Krishnadevaraya l'incarico di far prosperare la lingua vedica attraverso la fondazione di centri di apprendimento. L'augusto compito è stato portato avanti in modo scrupoloso nel corso dei secoli, ma con fortune alterne. Va infatti detto che nel 1980 la lingua quotidiana parlata a Mattur era ormai il Kannada. A un certo punto un sacerdote, Pejawar Mutt, diede un forte impulso alla restaurazione dell'uso corrente del sanscrito. La gente riuscì a sanscritizzarsi, questo è narrato, parlando la lingua vedica soltanto due ore ogni giorno per dieci giorni consecutivi. Oggi a Mattur e a Hosahalli tutti parlano in sanscrito, anche i bambini. Ecco alcune semplici frasi che tuttora risuonano in quei luoghi:
 
katham asti? "dove sei?" 
aham gacchami "io vado" 
tvam kutra gacchati? "dove vai?" 
aham vidyalayam gacchami "vado a scuola"
shubham bhavatu "possa accadermi il bene" 
aham jalam pibami "bevo l'acqua" 

In questo caso siamo di fronte a una lingua il cui uso è addirittura vibrante, pur essendo stata ripristinata in modo artificiale. Se dovessimo tracciare la linea evolutiva del sanscrito, vedremmo subito che presenta discontinuità ineliminabili. Nulla potrà mai obliterare lo spaventoso iato temporale che intercorre tra il contesto in cui furono scritti i testi vedici e la i tardivi progetti di sanscritizzazione. Quindi il sanscrito di chi ha scritto i testi vedici e quello di chi li insegna a Mattur e a Hosahalli sono da considerarsi due lingue appartenenti a due diverse trafile evolutive. La prima di queste trafile parte dalla più lontana preistoria e giunge a un punto morto, con la formazione delle lingue pracrite. La seconda di queste trafile è artificiale e parte secoli dopo la fine della prima, proprio dall'accurato studio delle sue tracce e dalla loro rielaborazione.
 
Il Nahuatl dei narcos 
 
Sono venuto a sapere che la nobilissima lingua Nahuatl, che fu parlata dagli Aztechi, ha acquisito una terribile fama in California, in Nuovo Messico e altrove perché tra i narcos molti l'hanno appresa e la usano come gergo segreto per non farsi capire dalla polizia. A quanto pare, non c'è stato apprendimento di una delle varietà di Nahuatl moderno tuttora parlate in Messico (spesso mutuamente incomprensibili), bensì di qualcosa che si avvicina abbastanza alla lingua classica - seppur in forma molto semplificata. Manca la lunghezza vocalica fonemica, mancano le architetture grammaticali tipiche del linguaggio fiorito azteco (ad esempio i complicatissimi verbi onorifici, etc.), con l'eccezione di poche forme fossilizzate; si ravvisano molti calchi semantici e sintattici dall'inglese, dallo spagnolo e via discorrendo. 
 
"Tlen ajko ika inon siuatl?", tradotto in inglese con "What's up with this woman?" 
 
Dubito che il glorioso Imperatore Ahuitzotl avrebbe detto qualcosa del genere. Chiaramente tlen ajko (per tlen ahco) è una traduzione letterale dell'inglese what's up, quindi un calco. Si noterà che per molti macellai di questo tipo, la frase avrebbe funzionato benissimo se enunciata come "Tlen ajko ika inon pitsotl", essendo le parole siuatl "donna" e pitsotl "maiale" quasi intercambiabili. In particolare pitsotl ha anche il senso di "poliziotto, sbirro". Il plurale è pitsomej "poliziotti, sbirri". Il significato di siuatl, usato per rivolgersi un uomo, coincide poi con quello di kuiloni "omosessuale passivo". Nota: il Nahuatl non possiede genere grammaticale, neppure nei pronomi di terza persona, eppure la società azteca era tutt'altro che "tollerante", "aperta" e "inclusiva". Non era la famosa società sciolta di Baumann. Ecco un elenco di parole, in cui si possono notare diversi adattamenti ai tempi moderni: 
 
achautli "capo della gang"  
auilnema "copula"
ilui "giorni" 
kali "cella" (lett. "casa") 
kapuli "scuola" 
kimichimi "spia, informatore" (lett. "ratto") 
kuilonyotl "detenuto in schiavitù sessuale"
    (lett. "sodomia")
malinali "marihuana" (lett. "erba")
mixpatsinko "saluti"
momo "la tua mano" 
pili "signore"  
tlilipol "neri"
vei "grande"
vel "buono" 
yakatl "punta" (lett. "naso")
yuali "notte"  
 
Si nota che kimichimi "spia, informatore" è un calco dell'inglese rat, che ha lo stesso significato nel gergo carcerario statunitense (Nahuatl classico quimichin /ki'mitʃin/ "topo"). Invece vediamo che kuilonyotl è tradotto con "punk", che nel gergo carcerario statunitense significa "detenuto in schiavitù sessuale": in questo caso la parola Nahuatl è indipendente da quella inglese. Non essendo specificata l'accezione della glossa punk, si corre il rischio di fraintendere e di credere che kuilonyotl designi un tale con la pettinatura a cresta e gli orecchini nel naso! Si notano sviluppi fonetici peculiari, come la vocale posteriore -o da una più antica vocale centrale lunga finale di parla. Esempio: momo "la tua mano", da Nahuatl classico momā. Riporto un paio di link per approfondimenti:     



I parlanti di questo Nahuatl si definiscono Chicanos e non hanno necessariamente contatti con gli Indios, che sono i parlanti delle varietà moderne di Nahuatl giunte per naturale evoluzione ininterrotta dal Messico precolombiano, seppur soggette a forte inflenza dello spagnolo. Questo genera un paradosso sorprendente: la nascita di nuove comunità di utenti di una forma di Nahuatl, che non si considerano indigene e che potrebbero persino mantenere un atteggiamento di disprezzo nei confronti degli Indios. 

Il movimento Anahuac
e il partito Mexicayotl

Esistono in Messico movimenti ultranazionalisti che predicano la restaurazione della lingua Nahuatl imperiale e della religione azteca. Rodolfo Nieva fondò nel 1960 il Movimiento Confederado Restaurador de la Cultura del Anáhuac (Movimento Confederato Restauratore della Cultura dell'Anahuac), realizzando una serie di rituali e cerimonie civico-religiose in cui i sacerdoti rivendicavano il potere di comunicare con i propri Antenati. Qualche anno più tardi, nel 1965, sorse il partito Mexicayotl, anche noto come Partido de la Mexicanidad (Partito della Messicanità), che riprende le finalità principali del movimento di Nieva.  

Obiettivi del partito Mexicayotl:

1) Far rivivere la razza messicana, che consiste di: 
  a) messicani nativi puri,
  b) messicani di sangue misto 
  c) tutti coloro che vivono nel Paese.
2) Stabilire la filosofia messicana (come base di interpretazione del mondo). La sua principale funzione deve essere l'eliminazione della corruzione nel Paese. 
3) Ristrutturare la Nazione. 
  a) Tutti i messicani devono godere di sufficiente assistenza sociale.
  b) Solo la gente messicana deve controllare le funzioni del potere pubblico.  
4) In sintesi: il partito intende portare avanti la sua alta missione culturale assegnatagli dal Destino. 
 
Inoltre: 
 
I) Accettazione del Nahuatl come lingua nazionale 
II) Rivitalizzazione della filosofia Nahuatl come fondamento della vita nazionale 
III) Accettazione e messa in pratica del calpulli comunale come struttura economica del Paese.   
 
Nel 1993 fu fondato a Los Angeles il Mexica-Movement, anche noto come Mexica-Mexicaolin o CMMEC (Chicano Mexicano Mexica Empowerment Committee), che continua negli Stati Uniti gli obiettivi del Movimiento Confederado Restaurador de la Cultura del Anáhuac. I suoi membri studiano il Nahuatl, danno ai loro figli nomi Nahuatl e adottano cerimonie di origine preispanica. Il punto dolente è l'impossibilità di restaurare i sacrifici umani e la credenza che al sangue delle vittime si debba il moto del Sole. Per maggiori dettagli rimando a questo link: 
 

Il concetto di lingua storica 
 
A questo punto possiamo formulare una definizione di lingua storica
 
1) non è insegnata in famiglia dalle madri ai figli come prima lingua;  
2) non è la lingua ufficiale di nessuna nazione del nostro tempo; 
3) ha una grande importanza culturale e storica; 
4) è appresa tramite studio, ad esempio a scuola; 
5) ha una pronuncia convenzionale, che non è necessariamente autentica, la cui tradizione è scolastica;  
6) in alcune particolari circostanze può essere usata come mezzo di comunicazione.
 
Questi sono i corollari che ne discendono: 
 
I) una lingua storica è una lingua morta ma non dimenticata; 
II) una lingua storica, pur morta, può avere manifestazioni di lingua parlata, quindi vivente; 
III) una lingua storica ha di conseguenza una natura paradossale. 

Una lingua storica appartiene quindi a una categoria diversa e separata da quelle delle lingue vive e delle lingue morte o estinte.
Una lingua storica non è una lingua appartenente a una linea evolutiva naturale. Se tuttavia si riesce a fondare una comunità stabile e duratura di parlanti, dalla lingua storica rivitalizzata ha origine una nuova linea evolutiva naturale (ben distinta da quella vecchia).

Oltre alla comunità latinofona partenopea, possiamo considerare il caso della lingua neoebraica ufficiale in Israele, che è molto particolare: dalla lingua storica (ebraico biblico, ebraico mishnaico, etc.) è derivata una lingua fatta per essere parlata diffusamente e usata come lingua ufficiale. Possiamo dire quindi che il neoebraico di Israele, nato da una lingua storica, sia diventato a tutti gli effetti una lingua viva. Quello che mi preme di sottolineare, è che non si è trattato di una vera resurrezione linguistica, ma della costruzione di una lingua nuova.  

C'è infine un ultimo corollario, che a mio avviso è anche il più importante:
 
IV) Una lingua storica è sempre una costruzione ideologica.

venerdì 25 dicembre 2020

NEOLOGISMI E LESSICO DOTTO DI GABRIELE D'ANNUNZIO

 
La figura enigmatica di Gabriele D'Annunzio (Pescara, 1863 - Gardone Riviera, 1938) desta tuttora in molte persone sentimenti forti e contrastanti. Alcuni provano nei suoi confronti un'antipatia viscerale. Altri invece nutrono per lui una vera e propria adorazione. Tutto questo a babbo morto dal 1938. Se ci pensiamo, è un caso abbastanza inconsueto, addirittura più unico che raro. A parte gli aspetti problematici di questo personaggio istrionico, bisogna riconoscere come dato di fatto innegabile il suo ruolo nel plasmare la lingua italiana. Pochi ne sono consapevoli, ma utilizziamo ancora non poche sue invenzioni lessicali, che hanno cambiato per sempre la lingua italiana. A volte capita di imbattersi in qualche articolo che cita a titolo di esempio una decina di creazioni del Vate. Le più conosciute e riportate ciclicamente nei media sono senz'altro le seguenti: 
 
1) Il sostantivo automobile di genere femminile
D'Annunzio ritenne che un'automobile fosse come una bella donna, sinuosa e ammaliante. Queste sono le sue parole: "L’automobile è femminile: questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità di una seduttrice e delle donne, ha la disinvolta levità nel superare ogni scabrezza." Ai suoi tempi l'uso generale imponeva che il sostantivo automobile fosse di genere maschile e che si dovesse usare l'articolo indeterminativo congruente. Si scriveva quindi un automobile, senza apostrofo. Questo uso fu cambiato. Oggi nessuno direbbe mai "questo automobile è molto bello".

2) L'idronimo Piave di genere maschile
In precedenza si diceva la Piave, non il Piave. D'Annunzio pensò che il fiume veneto dovesse trasmettere un'idea di forza, eroismo e virilità, tutte caratteristiche intrinsecamente connesse al genere maschile. Quindi il Fiume Sacro della Patria fu "promosso maschio per merito di guerra". A dire il vero già nel 1892 Carducci aveva usato la forma maschile nella sua ode Cadore, ma era stato severamente censurato dalla critica. Del resto era ben noto per il suo scollamento dalla realtà fisica geografica, lui che aveva fatto tramontare il sole dietro al Resegone. Ciò che non riuscì a Carducci, riuscì invece a D'Annunzio. L'antico idronimo Plavis è di origine venetica e deriva dalla radice indoeuropea *plew- / *plow- / *plu- "fluire", che ha dato anche il verbo latino pluere "piovere". Oggi nessuno ricorda più l'esistenza del femminile la Piave, a parte pochissimi anziani dialettofoni ormai prossimi a raggiungere i lidi plutioniani. È tuttavia ancora chiamato Piave Vecchia un ramo del fiume che accoglie parte della foce del Sile.
 
3) L'antroponimo femminile Ornella
Si chiama Ornella un personaggio della tragedia in tre atti La figlia di Iorio (1903). L'etimologia è considerata incerta e in genere ricondotta al fitonimo orno, ornello, nome popolare del frassino da manna (Fraxinus ornus). In toscano questo albero è detto avòrnio, in abruzzese è detto urnielle; si distingue per la forma sinuosa e il profumo dei suoi fiori. Nonostante l'avversione del Vate nei confronti dell'anglofonia, per me non si può escludere la possibilità che il nome Ornella sia invece derivato dall'inglese horny "sessualmente eccitata, arrapata". Questo significato, comune per entrambi i sessi, è attestato con certezza a partire dal 1889: non sarebbe un anacronismo. La cosa non mi stupisce: è ben risaputo che nella mente di D'Annunzio il sesso ricopriva un'importanza determinante. Avrebbe quindi mascherato un termine inglese, nascondendone l'origine. Comunque sia, si ha una misteriosa attestazione anagrafica: da documenti anagrafici risulta che a una bambina nata nel 1900 è stato attribuito il nome Ornella (Fonte: Dizionario Storico del Nomi Italiani, Utet). Molto raro il maschile Ornello, passaporto per un destino di soprusi ad opera dei bulli.

4) L'antroponimo femminile Cabiria 
Deriva dal punico kbr /ka'bi:r/ "grande" (cfr. ebraico כַּבִּיר kabbīr "enorme, immenso", arabo kabīr "grande, potente", akbār "grande"). La formazione con un suffisso -ia atono non è però tipica delle lingue semitiche, mentre è la norma in quelle indoeuropee. Il nome fu inventato da D'Annunzio per l'eroina protagonista dell'omonimo film muto del 1914 (Cabiria, di Giovanni Pastrone), di cui firmò anche la sceneggiatura. La pellicola, il cui sottotitolo è Visione storica del terzo secolo a.C., è ambientata nel contesto della Seconda Guerra Punica, a Cartagine. Ai nostri giorni il nome Cabiria è molto raro e si trova soprattutto a Roma e a Latina. Esiste anche la variante Gabiria. Si trova persino un maschile Cabirio, per fortuna ancora più raro.

5) L'antroponimo femminile Liala 
Nacque come pseudonimo della scrittrice Amalia Liana Negretti Odescalchi (1897 - 1995). Si dice che D'Annunzio volesse donarle un nome che contenesse ortograficamente un'ala. Così Amalia Liana divenne Liala. Si direbbe piuttosto una naturale evoluzione fonetica da /a'malja li'a:na/ a /li'a:la/, aiutata dall'assimilazione di -n- in -l-. 

6) L'arzente 
Proviene dallo spagnolo agua ardiente, che fu adattato in italiano come acqua arzente o acque arzenti (il plurale era più comune) e fu usato per indicare l'alcol prodotto dalla distillazione. Il passaggio da ardiente /ar'djente/ ad arzente /ar'dzente/ è una semplice e naturale assibilazione. Si è così creata l'allotropia arzente - ardente. In sardo l'assibilazione non si produsse e la locuzione spagnola agua ardiente dette origine per calco parziale alle forme eardenti (gallurese), abbardente (logudorese, nuorese) o acuardenti (campidanese). D'Annunzio, dovendo sostituire il francesismo cognac, estrasse l'aggettivo dalla locuzione acque arzenti, sostantivandolo. Produsse così un neologismo, arzente "cognac", che ormai è caduto in disuso. Credo che nessuno più lo ricordi. Nonostante sia creduto da molti, l'arzente non deriva dall'aggettivo arzillo: si tratta di un'etimologia popolare. 
 
7) Il tramezzino 
La creazione lessicale dannunziana dovrebbe risalire al 1926 (secondo alcuni all'anno precedente) e aver avuto luogo a Torino, al Caffè Mulassano di Piazza Castello. Pare quasi un calco del catalano entrepà "sandwich", ossia "in mezzo al pane". Non mancano leggende bizzarre: ad esempio si dice che i sandwich ricordavano al Vate i tramezzi (elementi architettonici) della sua casa di campagna. Il neologismo non sarà più di uso comunissimo, ma non si trova nessuno che non lo intenda. Qualche tempo fa ho scritto un trattatello sull'argomento, a cui rimando per maggiori informazioni: 

 
8) Il velivolo 
Nel corso di una conferenza sul Dominio dei cieli, tenutasi nel 1910, l'Imaginifico ebbe a dire: “La parola è leggera, fluida, rapida; non imbroglia la lingua e non allega i denti; di facile pronunzia, avendo una certa somiglianza fònica col comune veicolo, può essere adottata dai colti e dagli incolti”. Il vocabolo compare nel romanzo Forse che sì forse che no (1910). L'origine è dall'aggettivo latino vēlivolus, il cui significato è duplice: 
i) che naviga veloce con le vele (detto di nave);
ii) solcato da navi veloci (detto di mare).
Il neologismo non sarà di uso comunissimo, ma non si trova nessuno che non lo intenda.


9) La fusoliera 
Questo lemma tecnico del linguaggio dell'aviazione indica la parte dell'aereo allungata nel senso del moto. Nel romanzo Forse che sì forse che no (1910), l'Imaginifico scrisse: “… immaginò di ritrovarsi nella lunga fusoliera che formava il corpo del suo congegno dedàleo tra i due vasti trapezii costrutti di frassino di acciaio e di tela, a, dietro il ventaglio tremendo dei cilindri irti d’alette, di là dai quali girava una forza indicibile come l’aria: l’elica dalle curvature divine”. Deriva dal veneziano fisolera "barca di forma stretta e allungata", italianizzato in modo tale da somigliare a fuso (strumento per filare). Il neologismo non sarà di uso comunissimo, ma non si trova nessuno che non lo intenda.

10) Lo scudetto
Il simbolo della vittoria del campionato di calcio fu un'invenzione dannunziana, che scelse per designarlo una parola già in uso nel linguaggio dell'araldica. La prima squadra a giocare con lo scudetto cucito sul petto dei calciatori fu il Genoa, nel 1925. La locuzione è tuttora in uso vibrante. 

11) La Rinascente 
È una sorprendente creazione pubblicitaria. Nel 1917 andò a fuoco un grande magazzino milanese, che era stato fondato nel 1865 dai fratelli Luigi e Ferdinando Bocconi nell'angolo di via Santa Radegonda. Era il primo negozio italiano di abiti preconfezionati. Nello stesso anno dell'incendio, l'imprenditore Senatore Giuseppe Cesare Borletti rilevò l'attività, a cui D'Annunzio diede prontamente un nuovo nome che alludeva al mito dell'Araba Fenice. La catena di negozi La Rinascente è tuttora presente in 12 città italiane.
 
12) I Vigili del Fuoco 
La locuzione è tuttora in uso vibrante. Trae origine dalle Cohortes vigilum che nell'antica Roma si occupavano di proteggere la città dagli incendi. Nel 1935 D'Annunzio denominò Vigili del Fuoco i membri del Corpo Nazionale con funzioni antincendio e di protezione civile, sostituendo il termine di origine francese Pompieri. Anche se l'Autarchia culturale è finita da un pezzo e la parola pompiere è stata nel frattempo reintrodotta in italiano, resta comunque vitale anche la creazione dannunziana. Si noti che il nome ufficiale è tuttora Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco.       

13) Il Milite Ignoto 
Il Milite Ignoto è un caduto al fronte durante la Prima Guerra Mondiale, sepolto a Roma sotto la statua della dea Roma all'Altare della Patria al Vittoriano; è senza nome conosciuto, dato che il corpo fu scelto tra quelli privi di elementi che potessero permettere il riconoscimento. Tramite questo neologismo tratto dal latino (mīles ignōtus "soldato sconosciuto"), D'Annunzio intendeva sottrarre all'Oblio tutti i caduti italiani che sono morti senza poter essere identificati, rendendo loro pieno onore. La locuzione è tuttora in uso ufficiale. Ogni anno il Presidente della Repubblica depone fiori sulla tomba del Milite Ignoto.

14) Il marchio Saiwa 
È una sorprendente creazione pubblicitaria. Si tratta di un acronimo formato dal nome della Società Accomandita Industria Wafer e Affini. D'Annunzio aveva licenza di derogare dalle direttive che scoraggiavano l'uso di lettere considerate "straniere", come appunto la w. Tale lettera era pronunciata come una fricativa labiodentale /v/, proprio come in tedesco. Saiwa si pronunciava e si pronuncia anche ai nostri giorni /'saiva/, così come wafer è ancora pronunciato /'vafer/, pur venendo dall'inglese. Il marchio in questione esiste tuttora. Famosi sono gli Oro Saiwa, forse i più austeri tra tutti i biscotti, che però apparvero sul mercato negli anni '50. 
 
Un tentativo di classificazione
 
Il punto è che i neologismi sopra riportati e discussi sono soltanto una frazione piccolissima di ciò che D'Annunzio produsse come "operaio della parola". Egli si vantava di aver usato nelle sue opere ben 40.000 parole, di cui molte da lui inventate di sana pianta o in ogni caso mai viste prima in letteratura. Sarebbe di grande utilità pratica classificare le innovazioni linguistiche dannunziane secondo un criterio approssimativo. 
 
1) parole o locuzioni create di sana pianta;
2) parole italiane già esistenti, cadute in disuso e reintrodotte, anche con semantica differente da quella originale;
3) parole latine reintrodotte (latinismi solenni);
4) parole greche reintrodotte (grecismi solenni);
5) parole prese da altre lingue, romanze (inclusi i dialetti) e non romanze; 
6) motti e creazioni politiche 
 
Procediamo quindi ad analizzare alcuni esempi salienti per ciascuna di queste tipologie, senza la benché minima pretesa di essere esaustivi. Riporto il link a un interesante articolo apparso su Treccani.it, D'Annunzio, lessico e nuvole (Stefania Stefanelli, 2018), che tratta questi argomenti: 
 

Approfondisco per sommi capi quanto descritto, aggiungendovi altro materiale.

Parole o locuzioni create di sana pianta

1) Locuzioni (inclusi marchi pubblicitari)  

Oltre al Milite Ignoto e ai Vigili del Fuoco, abbiano le seguenti innovazioni poetiche:
 
Sangue Morlacco "cherry brandy"  
Nel 1919, in occasione dell'Impresa di Fiume, D'Annunzio battezzò così il liquore prodotto dalla distilleria Luxardo. Il colore rosso scuro della bevanda alcolica richiamava alla sua mente quello del sangue, mentre l'aggettivo fa riferimento ai Morlacchi, una popolazione di origine valacca stanziata nell'entroterra della Dalmazia e in altre aree balcaniche. L'etnonimo è giunto in italiano tramite il  greco bizantino Μαυρόβλαχοι (Mauroblákhoi), ossia Valacchi Neri. Il Vate scrisse queste parole: "il liquore cupo che alla mensa di Fiume chiamavo “Sangue Morlacco”." Certo che si trattavano bene!

Spirito d'avena "whisky" 
Durante l'Autarchia, il whisky non poteva essere chiamato col suo nome originale, che risale al gaelico. Essendo prodotto in Italia con malto di avena, fu chiamato per l'appunto spirito d'avena. Non ci sono dubbi: questo nome del whisky autarchico è una chiara creazione dannunziana. Caduto Mussolini, lo spirito d'avena scomparve dal sapere comune. 
 
Liquore delle virtudi "Amaro Montenegro" 
Una delle più riuscite trovate pubblicitarie dell'Imaginifico, la cui firma si trova ancora nel retro dell'etichetta. L'Amaro Montenegro nacque a Bologna nel 1885. Il suo artefice, il distillatore ed erborista Stanislao Colabianchi, lo dedicò alla Principessa Elena di Montenegro, che sarebbe poi stata Regina d'Italia. Ottenuto da 40 erbe aromatiche, la ricetta dell'elisir è tuttora segreta. In tempi più recenti, lo stramaledetto moralismo americano ha obbligato a scrivere ovunque che "si raccomanda un uso moderato". La mia risposta è questa: Me ne frego! 

Nepente di Oliena "tipo di vino sardo"
E un Cannonau di Sardegna, che fu così chiamato da D'Annunzio perché ritenuto degno della tavole degli Dei e capace di far obliare ogni affanno. Il nepente è infatti una bevanda che a detta dei Greci antichi era in grado di lenire il dolore e di farlo dimenticare. La pronuncia corretta di Oliena è Olìena, con l'accento sulla -i- (sardo Ulìana). Il toponimo, preromano e preindoeuropeo, è nuragico.
 
adunata oceanica "adunata immensa"  
folla oceanica "folla immensa" 
clamore oceanico "clamore immenso" 
Sono tipiche iperboli, in cui l'aggettivo oceanico sta per "immenso, enorme, grandioso" e allude a una vastità smisurata come quella degli oceani. D'Annunzio sapeva utilizzare freddi aggettivi scientifici (oceanico "relativo all'oceano) per farne uso poetico. La stampa fascista fece grande uso di queste iperboli. La locuzione folla oceanica è tuttora di uso comune. Ricorre in Untitled, una canzone dei Varunna, robusta band che suona musica Neofolk militarista: 
"Nei ranghi serrati, tra folle oceaniche, così ricordo la nostra giovinezza. Poi fuggono gli anni, e onore e bellezza fanno luce come fossero le nostre baionette!" 
Stupisce che simili parole di pura poesia siano state ferocemente censurate nel Web, come se avessero il potere magico di resuscitare un passato oscuro. 

2) Sostantivi (inclusi marchi pubblicitari) 
 
Oltre al tramezzino e al marchio Saiwa, abbiamo alcune significative innovazioni che in genere sono trascurate dai siti del vasto Web:   
 
Aurum "un liquore tipico di Pescara"
Fu proprio D'Annunzio a suggerire ad Angelo Pomillo il nome di un liquore a base di brandy e infuso di arance, che l'imprenditore produceva nella sua fabbrica a Pescara. Alla base di questa denominazione sta un gioco di parole tra il latino aurum "oro" e il latino moderno aurantium "arancio" (frutto), aurantius "arancione". L'origine di aurantium è dall'arabo نَارَنْج‎ nāranj, a sua volta dal persiano نارنگ‎ nārang, in ultima analisi dal sanscrito nagarañja "frutto prediletto dagli elefanti". L'aspetto fonetico è stato alterato a causa di un'associazione paretimologica con aurum "oro". 

parrozzo "tipo di dolce al cioccolato" 
La pronuncia corretta è /par'roddzo/, con -o- tonica chiusa e -zz- sonora ("dolce" secondo la denominazione della Crusca). Questo perché deriva dall'assimilazione di un originario pan rozzo. Si tratta di un dolce ricoperto di cioccolato, tipico dell'Abruzzo e prodotto dal 1920 dall'industriale Angelo D'Amico. Mi rendo conto che la cosa potrà sembrare scandalosa, eppure è così. L'ispirazione è venuta al Vate pensando ai monticoli di feci che Eleonora Duse gli deponeva sensualmente sul torace. Erano escrementi grassi e pastosi, abbondantissimi, che lui gustava con avidità ed associava nell'immaginazione al cioccolato. Era un genuino coprofago! La spiegazione ultima della creazione lessicale è questa: il pane rozzo è il cibo passato attraverso l'intestino di una amante ed espulso dal suo ano. In un'occasione il Vate ebbe addirittura a definirsi parrozziano: aveva coniato un aggettivo a dir poco bizzarro! Possiamo usare parrozziano come sinonimo eufemisitico di "coprofilo" e "dedito alla coprofagia in contesti erotici". 

Parole italiane reintrodotte  

Sono davvero numerose le parole ricercate e desuete riportate a nuova vita letteraria, seppur effimera. Nella massima parte dei casi non sono riconoscibili e comprensibili dai parlanti moderni. Se le si usasse in un discorso rivolto a una compagnia di escort e di fiutatori di bamba nella notte della Milano da bere, si sarebbe guardati come extraterrestri. I branchi di bulli che infestano le scuole riterrebbero di avere a che fare con parole giapponesi! 

abbertescare "rinforzare; difendere" 
In realtà il significato centrale è "difendersi, stare sulla difensiva". Alla lettera sta per "dotare o dotarsi di bertesca". La bertesca è un riparo di guerra, un'opera difensiva di fortificazione, in legno o in muratura, che serviva a combattere contro gli assedianti restando al coperto.
Varianti: bertresca, beltresca  
Altre attestazioni: baltresca "ingombro" (Pascoli)
Milanese: baltresca "altana" (ancora usato in Brianza nel senso 
     idiomatico di "uomo di dubbia moralità") 
Latino medievale: brittisca 
I romanisti credono che il termine in questione derivi da Brittus "bretone" e che significhi "torre costruita alla maniera dei Bretoni" In realtà si capisce subito che l'origine è germanica: tedesco Brett "tavola; bacheca". A mio avviso è possibilissimo che il latino medievale brittisca sia un longobardismo.
 
arrubinato "riempito di vino" 
Letteralmente significa "reso rosso come il rubino". Si tratta di un verbo ricercato, usato da Boccaccio. Caduto da lungo tempo in disuso, questo vocabolo fu recuperato e reintrodotto con scarsa fortuna. Oggi è completamente dimenticato.  
 
caleffadore "burlone"
Questo vocabolo fu usato da Boccaccio. Deriva dal verbo caleffare "farsi beffe degli altri, burlare" (coniugazione: io calèffo, etc.), esito del latino calefacere "riscaldare", che dovette essere usato a un certo punto in senso traslato.
Varianti: caleffatore
Ai nostri tempi il verbo caleffare e i suoi derivati non hanno alcuna speranza di essere usati o anche soltanto compresi dalla gente comune quanto dai dotti.

croio "rustico, zotico"
Vocabolo dantesco il cui significato attestato è quello di "duro, crudele, malvagio". La vocale tonica è aperta: cròio. La parola è di chiara origine cetica (gallica). Il gallico *croudios "duro, crudele" è passato in latino volgare come *crōdius, dando origine a cròio. Si noti che la trafila è poco compatibile con gli sviluppi romanzi (ci saremmmo aspettato *crozzo, con l'affricata -zz- sonora di mezzo). Per contro, in tardo gallico, il gruppo /dj/ si semplificava naturalmente in /j/: basti pensare a Milano da Mediolānum rispetto agli esiti romanzi di medius. Si noterà anche che in gallico il dittongo /ou/ era chiuso e in latino era spesso trascritto con -o- o addirittura con -u-. L'esito romanzo cròio con una vocale aperta è abbastanza oscuro. 
Peccato che questa bella parola celtica sia caduta nell'Oblio.
 
fortuna "tempesta (di mare)" 
Sinonimo di burrasca e simile a fortunale, questo vocabolo fu usato da Dante (Ond'el piegò come nave in fortuna) e si trova ancora in Manzoni (Quando ingrossa ruggendo la fortuna). Oggi intendiamo fortuna come una parola adatta a indicare soprattutto una coincidenza positiva, ma un tempo il significato era più esteso, potendo anche designare un disastro.
 
guidalesco "piaga" 
È voce longobarda, ricostruita come *widarrist "garrese" (regione del tronco dei quadrupedi corrispondente alle prime vertebre dorsali e ai muscoli che le ricoprono.), la cui pronuncia doveva essere *GUIDARRIST. E un composto di *widar-, *wider- "contro" e di *rist "giuntura". La liquida -l- si è prodotta da dissimilazione. In tedesco moderno sopravvive il vocabolo Widerrist "garrese", che in pratica è identico alla forma longobarda. Come si è prodotto lo slittamento semantico da "garrese" a "piaga"? Semplice: prima la parola guidalesco è passata a indicare una piaga che si produce sul garrese degli equini, poi la piaga stessa in senso lato, anche quella che a volte si forma sul piede di un povero mortale come me.
 
malfusso "maledetto"  
Nonostante l'apparenza, questa parola non ha nulla a che vedere con male, maledetto, etc.: si tratta invece di un prestito dall'arabo مَرْفُوض‎ marfūḍ. "rinnegato" (in origine "respinto, disprezzato", dal verbo رَفَضَ rafaḍa "lasciare, abbandonare; rifiutare, negare", da cui anche rāfiḍ "eretico", rāfiḍī "rinnegato"), giunto in italiano tramite lo spagnolo marfuz "rinnegato, traditore, ingannatore". 
 
muda "muta delle penne"
mudare "mutare le penne" 
Questi termini sono giunti in italiano antico dal provenzale mudar "mutare le penne", verbo tipico del lessico dei falconieri. Esempio: "Ma fa come sparvier in selvatica muda." (Pulci). Si vede subito che sono definite le coppie allotrope †muda - muta e †mudare - mutare. Ai nostri giorni nessuno ha la benché minima consapevolezza dell'esistenza delle parole in questione
 
rancura "affanno"
Vocabolo usato da Dante, da Guinizzelli e da Boccaccio, è una variante di rancore, con il suffisso -ura che sostituisce -ore, come in calura rispetto a calore. Priva di fondamento è l'opinione di coloro che reputano rancura una parola macedonia formata da rancore e da cura. I romanisti pensano di risolvere i problemi parlando di "incroci" anziché di "parole macedonia", ma si tratta di una strategia futile.
 
saccomanno "saccheggio" 
In origine questa parola significava piuttosto "saccheggiatore" e aveva come sinonimo saccardo. Deriva dal medio alto tedesco sackman, composto di sack "sacco" (tedesco moderno Sack) e di man "uomo" (tedesco moderno Mann). Questo vocabolo bellico è attestato a partire dalla seconda metà del XIV secolo. In origine indicava il servitore del cavaliere in battaglia, ma nel corso dei secoli ha acquisito il significato negativo di "brigante, predone". Interessante lo slittamento semantico da "uomo che compie il saccheggio" a "saccheggio, sacco".

sghignapappole "ridanciano" 
Dal verbo sghignare, derivato da ghignare, oggi sostituito da sghignazzare. La formazione è senza dubbio espressiva. Per la seconda parte del composto, confronta la locuzione cachinno spappolato. Verosimilmente si tratta di derivati di pappa (voce infantile) con un suffisso iterativo -olare e prefisso s-: spappolare, ossia "rendere informe, ridurre a pappa". 

squarquoio "lurido" 
La semantica è abbastanza vasta: oltre a "sudicio, schifoso", era usato nel significato di "vecchissimo, decrepito" e, per estensione, anche "rammollito, rimbambito". L'etimologia è sconosciuta. Non mi pare che i romanisti, tanto abili nel fabbricare costruzioni fantomatiche, siano riusciti a produrre qualche idea decente a questo proposito. Il vetusto vocabolario di Francesco Bonomi suggerisce una derivazione da squacquerare "avere il corpo sciolto", derivato da squacquera, squacchera "diarrea", oppure da contrazioni di improbabili composti mai attestati come *squarcia-cuoio o *squallido-cuoio. Cercando di spiegare Omero con Omero si giunge ad esiti folli, questo è il peccato originale dei romanisti. Non mi stupirei affatto se un giorno si riuscirà a dimostrare che sia squarquoio che squacquera provengono da parole del sostrato etrusco in toscano.

trambasciare "essere angosciato" 
Il verbo è un chiaro derivato di ambascia "grave difficoltà di respiro; oppressione dell'anima". L'origine di ambascia è chiaramente celtica (gallica): è derivata per aplologia da *ambi-baskiā "carico, equipaggiamento", dove ambi- è preposizione di origine indoeuropea che significa "intorno", ben attestata nell'onomastica gallica (cfr. latino ambi-, greco amphi-), mentre la radice *bask- significa "legare". Nel medioevo è avvenuta lo slittamento semantico che ha portato ambascia a significare "incubo, terrore notturno" e quindi "angoscia". Sorprende che gli accademici della Treccani si limitino a riportare "etimologia incerta", senza neppure abbozzare una discussione.
 
Latinismi solenni  
 
Numerosissime parole estremamente ricercate sono state tratte a viva forza dal latino aulico. In molti casi l'esperimento lessicale non era mai stato tentato prima nell'intera storia della letteratura italiana. Non stupisce che queste scelte siano apparse troppo stravaganti e che non abbiano avuto successo. Talvoltra D'Annunzio intese restaurare un'ortografia vicina a quella del latino, scrivendo ad esempio imagine anziché immagine
 
àvio "impervio, remoto".
In latino āvius ha un duplice significato: 
1) "impraticabile, inaccessibile, fuori della strada", 
2) "sviato, traviato, deviato, smarrito". 
Si tratta di una formazione dotta a partire da via "via" con l'aggiunta del prefisso ab- "da", che subisce assimilazione: *abvius > āvius. Questo latinismo solenne non si è imposto nell'uso corrente ed oggi è completamente dimenticato. 
 
caupona "osteria".  
In latino caupōna ha un duplice significato: 
1) "osteria, taverna", 
2) "ostessa". 
L'oste è chiamato caupō (genitivo caupōnis). In ultima analisi è un vocabolo di provenienza etrusca. D'Annunzio ha pensato di far rivivere la parola con il significato 1); non è tuttavia riuscito nel suo intento. Questo latinismo solenne non si è imposto nell'uso corrente ed oggi è completamente dimenticato. Secondo Giuseppe Lando Passerini,  questa voce non era mai stata usata prima nell'intera letteratura italiana.
 
clamoso "strepitante".  
In latino clāmōsus ha i seguenti significati: 
1) "urlante, schiamazzante" (detto di persone), 
2) "forte, risonante, fragoroso" (detto di voci), 
3) "affollato, rumoroso" (detto di luoghi), 
4) "brontolone".  
D'Annunzio ha pensato di far rivivere la parola con il significato 1); non è tuttavia riuscito nel suo intento. Questo latinismo solenne non si è imposto nell'uso corrente ed oggi è completamente dimenticato. 
 
cucurbita "zucca". 
In latino cucurbita ha i seguenti significati: 
1) "zucca", 
2) "zuccone, sciocco", 
3) "coppetta, ventosa, strumento per estrarre il sangue dalla testa". 
In italiano è un termine scientifico provienente dal linguaggio dei botanici. Questo latinismo solenne non si è imposto nell'uso corrente ed oggi è completamente dimenticato, salvo che nel linguaggio tassonomico.
 
illune "senza luna". 
Secondo Giuseppe Lando Passerini, la voce illune non era mai stata usata prima nell'intera letteratura italiana. Aggiungerò che non sembrano esistere esiti dotti o volgari del latino illūnis (variante rara illūnius) nell'intera Romània: il neologismo dannunziano è unico. Si noterà che la locuzione notte illune è tuttora in uso vibrante. Ben pochi sospetterebbero che la si debba proprio a D'Annunzio. Un latinismo in italiano non è necessariamente sempre antico. 
 
Sono presenti diverse parole la cui origine ultima è greca, che tratto in questa sezione perché sono state certamente mediate dalla lingua di Roma: 
 
camelopardo "giraffa"
Dal latino camēlopardus, a sua volta dal greco antico καμηλοπάρδαλις (kamēlopardalis). Per quanto sia diffuso il suo uso col significato di "giraffa", alla lettera "cammello screziato come un leopardo", non è affatto sicuro che si trattasse dello stesso animale. Il significato moderno si deve a Linneo. 
 
demònico "demone, demonio" 
Dal latino daemonicus, variante di daemoniacus, che ha dato il più comune demoniaco. D'Annunzio ha sostantivato questo aggettivo, che spesso usava per designare un genio benefico ben diverso dal Maligno della tradizione cristiana. L'origine delle parole daemōn "demone" e daemonium "demonio" è greca, da δαίμων (daímōn) e δαιμόνιον (daimónion) "divinità, potere divino" rispettivamente, ma si è avuta una trasformazione semantica profonda ad opera del linguaggio ecclesiastico. Va però notato che già lo stoico Crisippo (280 a.C. - 205 a.C.) aveva usato daimonion nel senso di "spirito maligno" 
"E mi comunicò infine la sua fede nel demònico; il quale non era se non la potenza misteriosamente significativa dello Stile non violabile da alcuno e neppur da lui medesimo nella sua persona mai."
(Le vergini delle rocce, 1895)
 
eremitico "di eremita, che si appartiene al romita o alla vita solitaria e devota" (cfr. Passerini) 
Un aggettivo dottissimo, che però ancor oggi gode di sostenitori, tra cui il sottoscritto. Deriva dal latino tardo erēmīticus, che a sua volta è stato formato dal greco ἐρημίτης (erēmitēs) "del deserto".
"Tutti i romori della vita d’una suburra infima salivano, in certe ore, a quella altezza e facevano tremare d’orrore le povere spose di Gesù, chine in umiltà su i tegami d'argilla pieni dell'eremitica innocenza dei legumi e delle verdure."
(Il libro delle vergini, 1884)
 
Nel Libro segreto, ultima opera del Vate, ricorrono parole inventate, che sono state formate sul modello di parole latine a partire da radici latine. Questo è un esempio:
 
ignispicio "divinazione fatta per mezzo del fuoco"  
Dal latino ignis "fuoco", con l'aggiunta di un derivato della verbo specere "guardare" . Il composto è formato in modo ineccepibile.  
 
Grecismi solenni 
 
In questa categoria di parole rientrano anche non pochi termini del linguaggio medico e più in generale scientifico, introdotti nel linguaggio letterario dannunziano. Troppo dotte, in genere queste parole non sono riuscite a diventare popolari, con alcune notevoli eccezioni. 
 
afasia "incapacità di parlare" 
Termine del lingaggio medico, dal greco antico φασία (aphasíā), da ἀ- (a-) "senza" e da φάσις (phasis) "voce". 
"Due disturbi cerebrali più terribili per un uomo di lettere, per un artefice della parola, per uno stilista: l'afasía e l'agrafía."
(L'innocente, 1892)

criselefantino "fatto d'oro e di avorio" 
Dal greco antico χρυσελεφάντινος (khryselephántinos), aggettivo composto formato a partire da χρυσός (khrysós "oro") e da ἐλεφάντινος (elephántinos "di avorio"). La pronuncia in italiano è criselefantìno, con l'accento sulla penultima sillaba, anche se stando al greco antico e al suo adattamento in latino, chrȳselephantinus, si dovrebbe dire invece criselefàntino, con l'accento sulla terzultima sillaba. Questo suffisso -inus ha infatti la vocale -i- breve e non è lo stesso che si trova in aggettivi latini nativi come lupīnus, canīnus, ursīnus, porcīnus, dove la vocale è una -ī- lunga. In ogni caso, questo grecismo solenne non è riuscito a imporsi nell'uso corrente e oggi è del tutto dimenticato. 
 
dipsomane "tormentato dalla sete" 
Retroformato da dipsomania, dal greco antico δίψα (dípsa) "sete" e μανία (maníā) "mania"
"Avevamo, come i dipsomani, due vite alterne : una tranquilla... l'altra agitata, febrile, torbida, incerta."
(L'innocente, 1892)

epopto "sorvegliante" 
Dal greco antico ἐπόπτης (epóptēs) "iniziato ai misteri; osservatore, ispettore", composto di ἐπί "sopra" e della radiec verbale ὀπ- "vedere". 
"L'ombra d'una nube curvata
era sul Callicoro, come
l'ombra del mietitore
indicibile che innanzi
agli epopti mieteva
la spiga di grano in silenzio."

(Laudi, 1903-1912)


ninfomane "donna d'insaziabili appetiti sessuali"  
Dal greco antico νύμφη (nýmphē) "ninfa, sposa" e μανία (manía) "mania". La parola ninfomania è stata coniata nel 1771 dal medico francese Jean Baptiste Louis de Thesacq de Bienville. D'Annunzio la trasse dall'ellenizzante linguaggio scientifico e la introdusse nell'uso quotidiano. Ancora oggi è ben nota a tutti Se il genere umano non si estinguerà presto, la fortuna di questo vocabolo durerà più dei monumenti dei Faraoni!
"Il matrimonio della sorella aveva avuto per auspice una ninfomane."
(Trionfo della morte, 1894). 

panoplia "armatura completa" 
Dal greco antico πανοπλία (panoplíā) "armatura degli opliti", composto di παν- (pan-) "tutto" e ὅπλον (hóplon) "arma". Attualmente la parola è usata con un significato del tutto diverso: ricordo che all'università chiamavano "panoplia" una specie di bacheca.
"Staccò da una panoplia due lunghe pistole d'arcione e le esaminò attentamente." 
(Le novelle della Pescara, 1884-1886)
 
pròtome "busto scultoreo"  
Dal greco antico προτομή (protomḗ) "parte anteriore; busto". Il sostantivo è un derivato del verbo προτέμνω (protémno) "taglio davanti". Come termine della nomenclatura artistica, la protome fu introdotta già nel XIX secolo per indicare un elemento decorativo antico costituito da una testa umana o animale, con o senza una parte del busto. Fu D'Annunzio a farne un termine lettario, con scarsa fortuna, a quanto pare. 

priapèa "discorso o canto in onore di Priapo" 
Dal greco antico Πριάπειος  (Priápeios) "di Priapo", il cui neutro plurale è Πριάπεια  (Priápeia), lett. "le cose di Priapo". Questo aggettivo è stato adottato dal latino aulico. I Carmina Priapēa sono una raccolta anonima di 95 carmi latini databili al I secolo d.C. e dedicati all'itifallico Priapo, divinità della fertilità. L'opera contiene attacchi violentissimi contro le donne vecchie e ancora libidinose: dubito che piacerebbe a certe porno-nonne che imperversano su Facebook!
"Le priapèe, le fantasie scatologiche, le monacologie, gli elogi burleschi."
(Il Piacere, 1889) 

teurgo "mago, stregone, facitore di miracoli" 
Dal greco antico ϑεουργός (theurgós), composto di ϑεός (theós) "dio» e ἔργον (érgon) "opera, attività". Il latino tardo ha theurgus.
"I pampini stillanti.... sembravano l'ultimo frammento visibile d'un mondo allegorico ideato da un teurgo, presso a scomparire."
(Trionfo della morte, 1894)
 
Nel Libro segreto, ultima opera del Vate, ricorrono parole inventate, che sono state formate sul modello di parole greche a partire da radici greche. Questo è un esempio:
 
myrionyma "che ha innumerevoli nomi"  
Dal greco antico μυρίος (myríos) "innumerevole, infinito" e ὄνυμα (ónyma) "nome", genitivo ὀνύματος (onýmatos). A mio avviso il composto è formato male, anche se è bellissimo. 

Si noterà l'uso della lettera y, ritenuto problematico dal Regime. Al contempo, il Libro segreto continene vocaboli scatologici come pisciare e smerdare, oltre al poco poetico coglione!
 
Parole da altre lingue e dialetti 
 
Alcuni interessanti contributi alla lingua italiana sono stati presi da D'Annunzio da svariate realtà locali. Altri sono stati importati da lingue diverse. 

ammammolarsi "avere gli occhi inumiditi dalla commozione" 
Parola toscana colloquiale che derivata da màmmolo "bambino, fanciullo". Non è riuscita a imporsi nell'italiano standard e la consideriamo dialettale.
 
falbalà "larga striscia di stoffa ornamentale" 
(variante: falpalà)
Dal francese falbala, che a sua volta è ritenuto un prestito male assimilato dal franco-provenzale farbella "frangia, merletto"". Questa parola è imparentata col francese antico felpe, feupe "tessuto vellutato", che ha dato l'italiano felpa. Si risale al latino medievale faluppa "paglia o rami minuti, scarti vegetali", parola di sostrato di origine non celtica e non indoeuropea che ha dato initaliano faloppa "bozzolo del baco da seta la cui crisalide è morta e putrefatta". Attualmente la parola falbalà è nota in Italia solo perché si chiama cosi l'amichetta di Asterix.

fraglia "fratellanza" 
Parola veneta, attestata anche come fragia, frala e frataglia deriva da un latino medievale fratalia, fratalea "fratellanza". Il vocabolo, attestato nel Veneto medievale e della prima età moderna, indicava sia le corporazioni di arti e mestieri che le confraternite religiose. Alcuni credono erroneamente che sia una parola macedonia: 
fratellanza + famiglia = fraglia
Questo accade quando si ignorano dati storici essenziali e si cerca di fabbricare un'etimologia a partire da evidenze insufficienti. Un'insidia sempre in agguato!
Oggi la parola fraglia sopravvive come tecnicismo per indicare un'associazione velistica. Esistono la Fraglia Vela Riva, la Fraglia Vela Desenzano, e naturalmente la Fraglia Vela D'Annunzio.   
 
galgo "levriero" 
Dallo spagnolo galgo "tipo di cane usato per la caccia alla lepre". Questa parola, che si trova anche in portoghese, secondo l'Accademia Reale di Spagna deriverebbe dal latino (canis) gallicus, ossia "cane gallico", perché si crede che in origine sia stato importato dalle Gallie. È possibile che l'etimologia  genuina sia invece celtica. Potremmo ricostruire una protoforma *gaslo-kū, dove il primo membro del composto ha dato origine al gaelico di Scozia galla "cagna" (< *gas-lijā) e al gallese gast "cagna" (< *gas-lijā), mentre il secondo membro è il nome celtico del cane, di chiara origine indoeuropea, che ha dato irlandese e gallese ci. Il galgo è un animale magrissimo, microcefalo e di ossatura assai gracile, spesso sottoposto dai suoi proprietari a trattamenti raccapriccianti. D'Annunzio ne aveva un'immagine un po' troppo idealizzata: se lo raffigurava come una bestia imponente! Così scriveva ne Il Fuoco (1900): 
"V'era il galgo spagnuolo, migrato co' Mori, quello magnifico che il nano pomposo regge a guinzaglio nella tela di Diego Velasquez." 
 
orbace "tipo di panno di lana grezza"
Dal sardo orbaci "tessuto artigianale di lana grezza", a sua volta dall'arabo البَزّ al-bazz "tela, stoffa, abito". In italiano esisteva la parola albagio "specie di grossolano panno di lana", che è però caduta in disuso. Il neologismo dannunziano è passato a indicare l'uniforme dei gerarchi fascisti, che era appunto fatta di orbace nero. 

stampita "composizone musicale ritmica" 
Molti ritengono che sia dallo spagnolo estampida "fuga disordinata" (passato in inglese come stampede), ma in realtà proviene dal provenzale estampida "componimento musicale ritmato dal battito dei piedi", che ha dato anche il francese estampie. In ultima analisi sia la forma spagnola che quella occitana derivano dal verbo gotico stampjan "calpestare", da cui anche l'italiano stampare, stampa.
 
Si notano due prestiti presi dall'ebraico e italianizzati nella morfologia:
 
bato "un'unità di misura" 
Dall'ebraico בַּת bat "recipiente e misura di capacità equivalente a circa 32,5 litri". In greco antico si hanno le forme adattate βάτος (bátos) e βάδος (bádos).
Isidoro di Siviglia dà questa spiegazione: "batus vocatur hebraica lingua ab olearia mola, quae beth apud eos vel bata nominatur, capiens quinquaginta sextaria." 
Si noterà che la forma latinizzata usata da Isidoro è batus, mentre beth trascrive la parola ebraica d'origine.
 
coro "un'unità di misura" 
Dall'ebraico כּוֹר kōr "recipiente e misura di capacità equivaente a circa 325 litri", tramite il greco κόρος (kóros) e il latino tardo corus. Dieci bati fanno un coro: il bato è la decima parte di un coro. 
 
Entrambe le unità di misura degli antichi Ebrei sono menzionate nella Parabola del figliuol prodigo riscritta da D'Annunzio:
"Venivano i debitori del padre portando bati d'olio, cori di frumento in gran numero, e il giovane Carmi, assiso su la più alta loggia, dopo aver considerato quella dovizia che adunavasi nei granai vasti e nelle cisterne profonde, mirava la potenza del fiume che spandevasi per la valle distribuendo la copia delle aque alle terre felici."  

Si trova almeno una voce araba: 

dirhem "una moneta d'argento" 
È dall'arabo دِرْهَم dirham "dracma", (pl. دَرَاهِم darāhim), in ultima analisi un prestito dal greco antico δραχμή (drakhmḗ). 
"Recavi a galla, nel pugno alzato fuor d’acqua, la medusa crinita color d’ametista nella coppa imperiale; e, quando la porgevi al soldano di Lucera, pensavi dentro te, nel rimirarlo così calvo losco rossigno, che al mercato degli schiavi non n’avresti dato dugento dirhem."
(Il secondo amante di Lucrezia Buti, 1907)

Persino il giapponese è stato una fonte d'ispirazione:

daimio "signore feudale giapponese" 
Dal giapponese 大名 daimyō "signore terriero", composto di dai ("largo") e myō "nome", che sta per myōden "terra del nome", ossia "terra privata". In ultima analisi questo titolo ha la sua origine nel medio cinese 大名 dàj-mjieng "eccellente, di grande fama" (in cinese mandarino moderno è dàming).
"Egli pareva un daimio cavato fuori da una di quelle armature di ferro e di lacca che somiglian gusci di crostacei mostruosi e poi ficcato ne' panni d'un tavoleggiante occidentale."
(Il Piacere, 1889) 

guesha "geisha" 
Dal giapponese 芸者 geisha "intrattenitrice", composto di 芸 (gei "arte, tecnica") e‎ 者 (sha "persona"), di origine medio cinese. D'Annunzio ha introdotto questo nipponismo usando una strana grafia spagnoleggiante, che avrà certamente generato pronunce ortografiche.

samouraï "samurai"
Dal giapponese 侍 samurai (anticamente anche saburai), dal verbo nativo samurau (anticamente anche saburau) "essere in servizio, servire". Nonostante le opinioni dei sedicenti esperti di Quora, il samurai è ben distinto dal ぶし bushi "guerriero", anche se per un occidentale non è facile afferrare questi concetti tanto sottili. 
Si noterà l'ortografia francesizzante usata da D'Annunzio. Sorprendente, ma sappiamo che all'epoca esistevano numerosissime eccezioni alle regole dell'autarchia linguistica.

Parole come geisha e samurai sono per noi scontate, tanto da apparirci banali, ma agli inizi del XX secolo erano estremamente ricercate: non erano conosciute al grande pubblico e non erano nemmeno usate dai media. 

Motti e creazioni politiche 
 
Molto feconda fu l'attività del Poeta nel coniare motti, di cui alcuni sono diventati capisaldi del Partito Nazionale Fascista e sono tuttora ben ricordati. 

A noi! 
Reso celebre da D'Annunzio a Fiume (festa di San Sebastiano, 1920), questo motto fu in realtà coniato un paio di anni prima da Luigi Freguglia, comandante del XXVII Reparto Arditi. Equivale a "hip hip hurrà!" ed è un'abbreviazione di "A chi la vittoria? A noi!"
 
Eia! Eia! Eia! Alalà! 
(variante più comune: Eia! Eia! Alalà
Il motto è nato dall'unione dell'urlo di guerra degli Ateniesi, Alalà!, con l'esclamazione Eia!, usata dal macedone Alessandro il Grande per incitare il suo cavallo Bufecalo. È un'innovazione: nessuno tra gli Elleni dell'antichità pronunciò mai Eia! accanto ad Alalà.

Me ne frego 
(variante: Me ne strafotto)
Il Maggiore Freguglia diede al Capitano Zaninelli un incarico suicida: attaccare il caposaldo austriaco di Casa Bianca. Zaninelli replicò: "Signor comandante io me ne frego, si fa ciò che si ha da fare per il Re e per la Patria". Andò incontro alla morte, con fierezza leggendaria. Quanto diversa è la semantica del motto da quella del moderno menefreghismo!

Memento Audere Semper 
"ricorda di osare sempre" 
È stato creato utilizzando le lettere dell'acronimo MAS (Motoscafo armato silurante). Tale imbarcazione militare fu usata nella celebre Beffa di Buccari, nella notte tra il 10 e l'11 febbraio 1918. Il motto è tuttora usato in alcuni ambienti. Ricordo una bottiglia di vino rosso la cui etichetta lo riportava, scritto Memento Audére Semper con tanto di accento per evitare pronunce errate. 

Il numero dei motti dannunziani è grande: difficile tenerli tutti a mente. Per ragioni di spazio, ci limitiamo a riportarne qualche altro senza commento. 
 
Bis Pereo 
"muoio due volte" 
 
E sul monte e nello stagno son qual fui falcon grifagno
 
Gravis dum suavis 
"grave benché soave" 
 
Nec recisa recedit 
"nenache spezzata retrocede"
 
O giungere o spezzare

Semper Adamas 
"sempre adamantino", "sempre duro come il diamante" 
 
Senza cozzar dirocco

Sufficit Animus 
"basta il coraggio"

Alcuni motti sono stati presi dalla letteratura antica e riadattati al contesto. Questi sono alcuni esempi:  

Habere non haberi 
"possedere, non essere posseduto" (Aristippo, trad. latina)

Hic manebimus optime 
"qui staremo benissimo" (Tito Livio)

Immotus nec Iners 
"fermo ma non inerte" (Orazio)
 
Quis contra nos?
"chi è contro di noi?" (San Paolo)  

Un motto è di ispirazione dantesca: 

Cosa fatta capo ha
 
Si segnalano poi alcuni aggettivi stravaganti, usati nella propaganda politica: 
 
gionittiano "di Giolitti e di Nitti"
È una parola macedonia formata dall'unione dei cognomi dei due politici.   

incaporettato "coinvolto nella vergogna di Caporetto" 
Di certo non è casuale l'assonanza tra incaporettato e incaprettato.

Labbrone "soprannome di Giolitti" 
È un epiteto di scherno che oggi sarebbe considerato razzista, dal momento che allude a caratteri somatici negroidi. 
 
Approfondimenti  
 
1) Lessico tecnico automobilistico e aeronautico 

Oltre al velivolo e alla fusoliera, di cui abbiamo già trattato, si deve a D'Annunzio l'introduzione dei molte altre voci nel lessico tecnico automobilistico e aeronautico. Questa è una lista senza dubbio incompleta:
 
accensione 
carlinga 
multiplano 
panna, panne  
radiatore 
rullìo 
sterzo 
trabiccolo 
traino
triplano
virata
volante 
volano 
 
Alcune erano già usate in altro contesto, ad esempio accensione e sterzo (in origine "manico dell'aratro", di origine longobarda). Forse anche monoplano e biplano, termini che compaiono in italiano per la prima volta nel 1909, devono la loro importazione a D'Annunzio, ma non ne sono sicuro. Derivano rispettivamente dal francese monoplan "che ha un solo piano alare" e biplan "che ha due piani alari". Esisteva persino il sesquiplano, che può essere definito come un biplano in cui l'ala superiore era lunga una volta e mezzo quella inferiore (latino sēsqui- "una volta e mezzo").
 
Questi tecnicismi sono nella maggior parte dei casi ancor oggi ben conosciuti da tutti. Anche i più convinti detrattori di D'Annunzio, non soltanto usano l'automobile (di genere femminile), ma sanno bene cos'è il volante, cos'è il radiatore, cosa vuol dire finire in panne. Nessuno si sognerebbe mai di abolire questi vocaboli e di proporne di nuovi. In concreto, cosa si potrebbe mai produrre di questi tempi? All'epoca c'era la poesia, mentre oggi entrano nell'uso quotidiano neologismi orripilanti che percolano senza sosta dai tentacoli dell'Idra del politically correct.
 
2) Il cromatismo dannunziano  

Particolarmente numerosi sono i vocabili ricercati usati per indicare colori e loro sfumature o combinazioni. Eccone alcuni:
 
biavo "azzurro chiaro"
moscavoliere "grigio mosca"
nerazzurro "nero con riflessi azzurrognoli"
nerobianco "nero e bianco; tra il nero e il bianco" 
olivigno "che ha carnagione olivastra" 
oltramarato "del colore di oltremare"
verdebiondo "verde oro"
verdecilestro "verde azzurro" 
 
L'aggettivo biavo è un chiaro germanismo (cfr. tedesco Blau, inglese blue), passato in italiano tramite il provenzale blau (femminile blava). Deve essere giunto in provenzale dalla lingua dei Franchi: dal vocalismo si può escludere con certezza che possa esservi giunto dalla lingua dei Burgundi o da quella dei Visigoti.
 
Il moscavoliere (o mosca voliere) in origine era un tipo di panno di colore scuro, importato dalla Normandia. Esisteva anche la variante mostavoliere. L'innovazione dannunziana consiste nell'aver trasformato un sostantivo in un aggettivo cromatico. Oggi è in completo disuso. 

Il termine nerazzurro è oggi usato per indicare i tifosi di squadre di calcio che hanno il nero e l'azzurro o il blu nei colori delle loro maglie. La più nota di queste squadre è senza dubbio l'Inter (FC Internazionale Milano), ma sono nerazzurri anche i tifosi dell'Atalanta (noti per essere temibilissimi hooligan) e del Pisa (stando al Vernacoliere si fanno schifo da soli). 

Leggendaria era l'abilità del Vate nel recuperare forme arcaiche ed obsolete: per plasmare verdecilestro ha utilizzato cilestro anziché celeste. L'allotropia †cilestro - celeste è molto interessante. Tuttavia verdecilestro, troppo ricercato e stravagante, non è mai divenuto popolare e oggi nessuno lo userebbe. 

Il lessico cromatico di D'Annunzio abbonda di formazioni in -iccio, -astro, -ognolo per indicare colori insaturi, malati. Così quando ho soprannominato "ceceno biondiccio" il feroce Kadyrov, ho applicato senza neanche rendermene conto una denominazione dannunziana. Prima che queste formazioni si diffondessero nell'italiano corrente, se ne usavano altre che sono state del tutto rimpiazzate. Così il dannunziano brunastro ha sostituito il precedente brunazzo, che oggi farebbe ridere. 
 
3) Transumanesimo dannunziano!  

Ecco un neologismo notevole: 
 
transumano "che trascende i limiti della condizione umana"; 
    "spirituale"
Si deve a D'Annunzio la creazione di questo cruciale vocabolo, che ha assunto una particolare importanza con la comparsa del Transumanesimo (o Transumanismo, abbr. H-plus, H+, >H), movimento volto ad affermare l'uso della tecnologia per ottenere il superamento della condizione umana, eliminandone gli aspetti indesiderabili come vecchiaia, malattia e morte. Pochi transumanisti immaginano che la loro stessa denominazione abbia le sue radici nell'opera di un bizzarro abruzzese. Già Dante aveva usato il verbo transumanare "elevarsi oltrre i limiti della natura umana per attingere la natura divina", ripreso poi da Carducci. 
"I vólti transumani raggianti dalle tavole di Giotto o dell'Angelico." 
(Terra vergine)
 
4) Appunti per una grammatica dannunziana 
 
Spesso non ci rendiamo conto di avere a che fare con un'innovazione dannunziana. Una caratteristica portante è la grande estensione dell'uso dei suffissi per formare aggettivi e nuovi sostantivi, e dei prefissi per formare nuovi verbi.  La stessa parola scultoreo proviene da questo calderone creativo ed è entrata presto nell'uso. La si ritrova ad esempio in un'opera di Mario Pratesi. Il linguaggio dannunziano era ricchissimo di formazioni di questo tipo: da aggettivi come scultoreo e marmoreo derivavano poi sostantivi astratti come scultoreità e marmoreità. Dal verbo saettare derivava il sostantivo saettìo. Molte di queste formazioni sono tuttora comuni o comunque non sono avvertite come bizzarre qualora qualcuno le usasse. Altre derivazioni, meno fortunate, sono scomparse, come l'aggettivo cuioioso "di consistenza analoga al cuioio", derivato da cuoio e a mio avviso formato male. 
 
Coprofagia e igienismo 

Coloro che negano l'esistenza della coprofagia di D'Annunzio, spesso adducono come motivazione il fatto che egli fu un igienista esasperato, cosa che sembrerebbe incompatibile con il contatto con materia fecale. Invece non è così. In Germania vivono moltissimi coprofagi che maneggiano e mangiano le feci dei partner come forma di gioco erotico. Ebbene, hanno tutti al contempo una vera e propria mania per l'igiene. Fanno filmati in cui infilano la lingua nelle emorroidi e si fanno defecare o urinare in bocca, eppure quando hanno finito le loro sessioni si lavano accuratamente. Pochi capiscono la vera natura della coprofagia. Non è amore per la merda in quanto tale: è una complessa forma di adorazione estrema del partner e di masochismo. Un escremento freddo e deposto da sconosciuti fa schifo ai coprofagi come a chiunque altro.

I massaggi dannunziani 

Con mia grande sorpresa, ho appreso che nel repertorio di alcune escort ci sono i cosiddetti massaggi dannunziani. A quanto pare le cose si svolgono nel modo seguente: la escort fa stendere il cliente nudo, gli defeca addosso e lo spalma con tale pasta brunastra fino a farlo sembrare un pupazzo coperto di nutella... o un grosso parrozzo! Sono rimasto ancor più esterrefatto quando ho saputo che anche persone abbastanza schifiltose si sentono attratte da questa pratica.