lunedì 28 dicembre 2020

LINGUA VIVA, LINGUA MORTA, LINGUA STORICA: ALCUNE RIFLESSIONI

Tutti pensano di sapere cos'è una lingua viva e cos'è una lingua morta o estinta. Tutti pensano di poter dare una chiara e netta definizione di questi concetti, a prima vista elementari. In realtà si può dimostrare che una simile sicurezza classificatoria è fallace. Infine giungo a una conclusione ben triste: nonostante tutti i miei sforzi, non mi è affatto facile dare una definizione scientifica accettabile da tutti su cosa sia davvero una lingua viva, una lingua morta o una lingua estinta. Mi rendo conto che questa affermazione può risultare sconcertante, o addirittura al limite della follia. Posso soltanto analizzare le insidie che questi argomenti irrimediabilmente comportano, mettendo a fuoco le incoerenze delle opinioni comuni in merito alla natura stessa del linguaggio. In ognuna di queste opinioni c'è senza dubbio del vero, ma purtroppo sfugge sempre qualcosa di essenziale. La trattazione è di una complessità incredibile e i paradossi che ne nascono sono innumerevoli.
 
Mi sono sempre attenuto a questo concetto: una lingua si definisce viva se c'è una trasmissione diretta, ossia se è insegnata dai genitori di una comunità ai propri figli. A parer mio questa trasmissione diretta avviene soprattutto per linea materna. Si incappa in una prima difficoltà concettuale. Se non esiste una comunità di parlanti, e una lingua è trasmessa in una famiglia senza che nessun altro la parli al di fuori di tale contesto, sarà una lingua moribonda, un fossile in grave pericolo di estinzione, sempre a rischio di subire l'irreparabile interruzione della catena di trasmissione. Funzionalmente non è più una lingua viva, anche se è ancora parlata. Quindi cosa dovremmo dire? Che una lingua in queste condizioni è viva e morta nello stesso tempo come il famoso gatto di Schrödinger?
 
Molti saranno scettici su quanto da me affermato, ritenendo invece che una lingua sia senza dubbio viva se ha parlanti, fossero anche un paio soltanto, indipendentemente dal modo in cui l'hanno appresa e dal contesto sociale in cui la utilizzano. Stando a questa idea, è sufficiente che qualcuno pronunci spontaneamente frasi in una lingua appresa sui libri per dire che quella è una lingua viva, che non può essere definita una lingua morta finché qualcuno la utilizza per comunicare. Riporterò alcuni esempi in grado di illustrare le mie perplessità in merito.  
 
Il fantasma della lingua Ainu 
 
Secondo gli antropologi Alexander Akulov (ricercatore indipendente, San Pietroburgo, Russia) e Tresi Nonno (ricercatore indipendente, Chiba, Giappone), un parlante di una lingua è definito come una persona capace di utilizzarla per produrre pronunce spontanee. Akulov, che è uno studioso della lingua e della cultura degli Ainu, dopo un estenuante lavoro sul campo nell'isola di Hokkaidō è riuscito a trovare soltanto due parlanti fluenti dell'idioma ancestrale, che tra l'altro lo avevano appreso da adulti. Per il resto c'erano soprattutto persone che conoscevano a memoria poche parole o frasi, in modo stereotipato, senza alcuna comprensione della grammatica e del vocabolario. Al pari dei pappagalli. Sono rimasto colpito dall'aneddoto della ragazza che sentendo parlare in Ainu si scusò di non conoscere abbastanza l'inglese da capire cosa veniva detto. Questo ha portato l'antropologo russo a maturare le sue amare convinzioni su cos'è una lingua viva e su cosa non lo è. Consiglio la lettura di questi due lavori: 

Akulov, Nonno, Contemporary condition and perspectives of Ainu language (2015)

 
Akulov, Actual problems of Ainu language revitalization (2017)

 
Stando alle evidenze fornite, possiamo dire che la lingua degli Ainu è funzionalmente morta, anche se è insegnata nelle università. Il suo insegnamento è infatti stereotipato e non serve al recupero. Ci sono persino i manga in Ainu, ma risulta evidente che non sono di alcuna utilità. 
 
Pronunce spontanee e mnemotecnica 
 
Parto dagli esempi forniti dallo stesso Akulov, colorendoli un po' e forse estremizzandoli, allo scopo di rendere meglio l'idea. Se qualcuno conosce a memoria le opere di Shakespeare, come l'Amleto e il Macbeth, ma non è in grado di dire o di scrivere null'altro in inglese, non può considerarsi in alcun modo un parlante della lingua inglese. Per contro, un bengalese che entra trafelato in un negozio di alimentari a Londra e dice "I MILK TWO!", sarebbe da considerarsi un parlante genuino dell'inglese, a dispetto delle severe difficoltà grammaticali della frase elementare da lui proferita. L'idea di Akulov-Nonno presuppone che un esercente londinese capirebbe la frase dell'uomo del Bangladesh, che potrebbe quindi riuscire ad ottenere quanto desidera. Su questo sono molto scettico. Se il bengalese in questione sa dire soltanto "I MILK TWO!" e niente altro, non può certo paragonarsi a chi conosce a menadito testi complessi di Shakespeare. Nell'immenso repertorio memorizzato si potrebbe infatti trovare qualche frase utile, applicabile nella pratica quotidiana: mi stupirei del contrario. Il nostro amico bengalese dovrebbe almeno conoscere un certo assortimento di parole del lessico alimentare di base, come bread "pane", butter "burro", cheese "formaggio", eggs "uova", etc. Se decidesse, con molta saggezza, di accantonare ogni eventuale tabù religioso, potrebbe trovare utili anche parole come sausage "salsiccia", ham "prosciutto", beer "birra", wine "vino", etc. Dovrebbe anche saper contare e non basterebbero i numerali da uno a dieci. A che gli servirebbe entrare in un negozio se non sapesse distinguere six "sei" da sixteen "sedici" e da sixty "sessanta"? Ora, il bengalese sarà aiutato dai negozianti londinesi soltanto perché è ormai comune per un anglosassone defecarsi in mano per il terrore di essere ritenuto "razzista". Un uomo del Bangladesh, avendo un aspetto peculiare che lo distingue all'istante da un inglese autoctono, sarà certo considerato un soggetto da aiutare, anche se pronuncia MILK come MEELKAH. Posso garantire che per un italiano o per un greco nella stessa situazione non ci sarebbe pietà né misericordia: non essendo "abbronzati", possono essere trattati come mucchi di stronzi sulla via. Non capisci i discorsi nell'inglese supersonico con le parole "mangiate"? Sono cazzi tuoi. 
 
Lingua gotica e lingua neogotica
 
Adesso veniamo al caso di uno studioso che sa produrre pronunce spontanee nella lingua gotica di Wulfila. Ad esempio, questo è il mio caso. Posso pronunciare proposizioni come queste: 
 
ik im manna freis "io sono un uomo libero",
ik im sa frumabaur þiudanis Austragutþiudos "io sono il figlio primogenito del Re degli Ostrogoti",
ik wiljau itan mims bairins jah drigkan midu
"voglio mangiare carne d'orso e bere idromele", etc. 
 
Stando ad Akulov-Nonno, senza dubbio dovrei essere considerato un parlante della lingua gotica di Wulfila. Se giungesse il vescovo Wulfila redivivo, mi capirebbe e io lo capirei a mia volta. Eppure nessuno sosterrà che la lingua dei Goti sia una lingua viva solo perché la so parlare con qualche grado di competenza. Tale lingua non è stata parlata per secoli, non è stata trasmessa all'interno di nuclei familiari e da lungo tempo non è nemmeno stata utilizzata per fini culturali o identitari. Adesso ci sono diversi amici svedesi, spagnoli, tedeschi e inglesi che la hanno appresa e la conoscono abbastanza bene da poterla parlare, pur con le indubbie difficoltà del suo adattamento al contesto del XXI secolo. Esiste Wikipedia in gotico (scritto in caratteri wulfiliani) e persino un blog in gotico (scritto in caratteri latini): Himma Daga
 
 
Eppure questo non cambia le cose. Evidentemente non siamo di fronte a una lingua viva. Nulla potrà mai obliterare lo spaventoso iato temporale che intercorre tra l'estinzione della lingua dei Goti e la riscoperta dei testi di Wulfila. Quindi il gotico di chi ha scritto quei testi e quello di chi li ha riscoperti sono da considerarsi due lingue appartenenti a due diverse trafile evolutive. La prima di queste trafile parte dalla più lontana preistoria e giunge a un punto morto, con l'estinzione della lingua parlata. La seconda di queste trafile è artificiale e parte secoli dopo la fine della prima, proprio dal rinvenimento delle sue tracce e dalla loro rielaborazione. 
  
Alla luce di ciò che abbiamo esposto, dobbiamo giungere alla desolante conclusione che le tesi di Akulov-Nonno siano poco fondate. La produzione di pronunce spontanee in una data lingua non è sufficiente a far sì che questa sia in automatico etichettabile come lingua viva. Procediamo con l'analisi di altri casi di un certo interesse. 
 
Primo Levi in Polonia
 
Primo Levi, che fu internato ad Auschwitz e quindi a Monowitz (Auschwitz III), nel febbraio del 1945 intraprese un lunghissimo viaggio a piedi che lo portò a Torino, seguendo un percorso molto tortuoso attraverso l'Ucraina, la Bielorussia e la Romania. Ricordo bene di aver letto che appena il campo di Auschwitz-Monowitz fu abbandonato all'arrivo dell'Armata Rossa, lo scrittore torinese si trovò in un paese a lui sconosciuto, la Polonia, di cui ignorava del tutto la lingua. La gente era ostile e lui non trovava aiuto né sostegno. All'improvviso gli venne in mente di parlare in latino a un sacerdote, che lo capì, lo portò in un refettorio e gli fece dare da mangiare. Per questo si convinse che il latino potesse essere una lingua viva e vitale, anche se era ben consapevole dell'effetto surreale del suo utilizzo per conversare sulle cose dei tempi moderni. Con queste parole Primo Levi ci ha descritto la sua esperienza nel romanzo autobiografico La tregua (1963):
 
"La mensa dei poveri era dunque dietro alla cattedrale: restava da stabilire quale, fra le molte belle e chiese di Cracovia, fosse la cattedrale. A chi chiedere, e come? Passava un prete: avrei chiesto al prete. Ora quel prete, giovane e di aspetto benigno, non intendeva né il francese né il tedesco; di conseguenza, per la prima e unica volta nella mia carriera postscolastica, trassi frutto dagli anni di studi classici intavolando in latino la più stravagante ed arruffata delle conversazioni. Dalla iniziale richiesta di informazioni («Pater optime, ubi est mensa pauperorum?») venimmo a parlare di tutto, dell’essere io ebreo, del Lager («castra»? Meglio Lager, purtroppo inteso da chiunque), dell'Italia, della inopportunità di parlare tedesco in pubblico (che avrei compreso poco dopo, per esperienza diretta), e di innumerevoli altre cose, a cui l'inusitata veste della lingua dava un curioso sapore di trapassato remoto."  
 
A dover esser franco, credo che una parola molto idonea per tradurre Lager esista in latino: carcer. Non riesco a capire perché a Levi sia venuta in mente la traduzione castra "accampamento", quasi letterale, ma non il concetto di "prigione", ontologicamente più verosimile.
 
Un anziano latinista in Russia 

In Quora, pessimo social più inutile dei peti di un mulo, mi sono imbattuto anni fa in un attempato utente con la nobile passione per la lingua latina. Non menziono il suo nominativo per questioni di riservatezza, visto che non vorrei recargli fastidio: il mio scopo è solo di conoscenza. Riporto alcune sue interessanti opinioni. Eccone una: 

"Anni fa, prima di studiare il russo, mi successe in un treno in Russia di usare il latino come lingua franca con dei russi che non parlavano inglese. Con sommo imbarazzo mio e di mia moglie, lo conoscevano meglio di noi. NON è una lingua morta." 
 
E ancora: 
 
"Non dicevo che il latino non è una ligua morta perchè occasionalmente lo ho usato come lingua franca. Dicevo che non è una lingua morta perché il Russia ho trovato persone che lo conoscevano meglio di me. Cioè è parte della cultura universale che definisce il bsagaglio (sic) della civiltà umana, ed è vivo perché ancora studiato e praticato, come parte viva della cultura." 

Non ho tardato a rispondere: 

"Come avete imparato il latino tu e tua moglie? Dai libri, dalle grammatiche, dai dizionari. Come hanno imparato il latino i russi in questione? Proprio allo stesso modo. Nessuno l’ha imparato dalla propria madre quand’era bambino, come prima lingua. Quindi È una lingua morta. Immaginiamo che un uomo abbia appreso il sumerico, vada in Israele e trovi quattro professori con cui discorrere in quella lingua. Non si potrà dire che per questo il sumerico sia una lingua viva. Questa è la realtà dei fatti, se poi si vuole fantasticare, si è liberissimi." 
 
E ancora: 
 
"Tecnicamente parlando, il latino è una lingua morta per il fatto incontestabile che nessuna madre lo usa per crescere i propri figli. Tuttavia una lingua morta non è affatto un mucchietto di polvere: può benissimo essere parlata in alcuni ambienti e continuare a dare prestiti a numerose lingue viventi. Il latino ecclesiastico nel Medioevo è stato una lingua franca che permetteva di comunicare su scala europea. Tuttora è usato in Vaticano (ci sono persino sportelli del bancomat con istruzioni in latino). Il sumerico fu parlato per secoli dagli scribi e dai sacerdoti, anche dopo che aveva smesso di essere usato nelle famiglie. Non solo: continuò a dare un fiume di prestiti all’accadico." 
 
Non sembra che le mie osservazioni abbiano sortito qualche effetto: l'anziano quorano si è chiuso nel suo ostile silenzio, senza dubbio tenendosi le sue idee. 
 
Comunità latinofone online  

Sempre in Quora, mi sono imbattuto in qualcosa di veramente mirabile. Questo ha scritto l'utente Luke Ranieri:
 
Essendo una persona che parla il latino correntemente, e trovandomi nell’ambiente di altri parlanti, vi posso dire che ci sono infatti delle madri (e padri) che insegnano ai loro figli a parlare il latino, anche se questi individui sono pochissimi. Ammettiamo che non c’è nessun paese dove si parla il latino; purtroppo il Vaticano quasi non lo usa, preferendo l’italiano (che è a me tanto caro quanto il latino). Invece ci siamo noi entusiasti del parlare del latino, che ci troviamo in grandi conferenze dove la sola lingua è quella antica romana, e ci incontriamo in quasi tutte le città maggiori dell’occidente, chiacchierando nei caffè e fra noi sulle strade. Possiamo contare più di trecento amici e conoscenze con coi parlo solo in latino. Visto che il latino compone una parte importante della mia vita quotidiana, vi posso assicurare che è vivissima. Ecco un esempio, un vlog ho fatto a Napoli, dove vedrete qualche persona che chiacchiera in latino:  
 
Vlog #1 GrecoLatinoVivo; Naples (Tours in Latin) / Neapolis (Peregrinationes Latine)  



La pronuncia è perfetta, sembra proprio quella che avrebbero usato Cicerone e Cesare. Mi complimento per lo sforzo, che ha qualcosa di incredibile. Certo, ci sono alcuni neologismi problematici, che nulla tolgono alla grandezza dei risultati. 

Certo, sono venuti a sapere che c'è un piccolo numero (nemmeno piccolissimo) di persone che insegnano ai figli il latino classico con un'ottima pronuncia. Mentre perdevo tempo a guardare video pornografici e a scribacchiare in questo blog, qualcuno si dava da fare ed è riuscito a fondare una vera e propria comunità latinofona. Tuttavia non credo affatto che queste persone insegnino il latino ai loro figli come prima lingua. Lo insegneranno a bambini che hanno già appreso alla perfezione l'italiano. Anche perché se in questa nazione qualcuno insegnasse come prima lingua ai figli qualcosa di diverso dall'italiano, prima o poi si manifesterebbe un esserino non proprio simpatico, chiamato "assistente sociale". Arriverebbe una Signorina Spinosetti, con un potere spropositato, che potrebbe addirittura decidere di sottrarre i pargoli alla patria potestas.

Nessuno potrà negare che la lingua dei latinofoni in questione sia una lingua parlata. Allo stesso modo, nulla potrà mai obliterare lo spaventoso iato temporale che intercorre tra l'estinzione della lingua di Cicerone e i suoi diversi revival occorsi in tempi moderni. Quindi il latino dei testi classici e quello di chi ha deciso di usarlo nella vita quotidiana sono da considerarsi due lingue appartenenti a due diverse trafile evolutive. La prima di queste trafile parte dalla più lontana preistoria e giunge alla separazione tra il latino aulico (sermo nobilis) e quello del popolo (sermo vulgaris). La seconda di queste trafile è artificiale e parte secoli dopo l'esaurimento della prima, proprio dallo studio dei suoi monumenti storici e dalla loro rielaborazione. Nemmeno l'uso pratico e quotidiano di una lingua come il latino può far sì che questa sia confusa con una lingua viva.

Il caso di Montaigne 
 
Riporto un caso assai singolare, quello del filosofo, scrittore, aforista e politico francese Michel Eyquem de Montaigne (1533 - 1592), una delle figure di maggior spicco del Rinascimento francese. La famiglia era di origine mercantile e marrana, sia da parte di padre che da parte di madre. Fu cresciuto da un precettore tedesco di nome Hortanus, un medico, che ebbe l'ordine di parlargli unicamente in latino. Anche gli altri membri della famiglia del bambino che ebbero contatto con lui gli si rivolgevano allo stesso modo, evitando di farsi scappare anche soltanto una parola in francese. Accadde così che a tredici anni Michel sapeva parlare solo il latino, ignorando persino l'esistenza di altre lingue e credendo che tutti naturalmente si esprimessero in latino. Quando fu inviato dal padre al collegio Guyenne a Bordeaux, poté finalmente apprendere il francese e il greco antico. Si pone la questione della pronuncia usata da Hortanus e da Montaigne nelle loro conversazioni in latino. Hortanus doveva essere stato educato nella pronuncia ecclesiastica tedesca, molto diversa da quella in vigore in Francia. Cosa aveva fatto? Aveva imposto al suo pupillo la propria pronuncia o si era adattato a quella usata nella nazione in cui si trovava? Nel primo caso, il giovane avrebbe avuto qualche difficoltà di comunicazione una volta giunto al collegio Guyenne. Non si trova la benché minima traccia di queste problematiche nelle fonti. Il mio sospetto è che possa trattarsi di una leggenda interamente fabbricata.
 
Villaggi sanscritofoni in India 
 
In India, nello Stato federato di Karnataka, ci sono i due villaggi di Mattur e Hosahalli. Si trovano nel distretto di Shimoga (Shivamogga), lungo il corso del fiume Tunga. Sono venuto a conoscenza della loro esistenza per una fortunata circostanza, quasi per serendipità nel vasto Web. Questi centri abitati del meridione del subcontinente indiano hanno una peculiarità di non poco conto: in essi il sanscrito è una lingua viva e tramandata di generazione in generazione. L'antica lingua vi è talmente coltivata che gli abitanti si considerano i suoi custodi. Bizzarramente, il Karnataka è un territorio la cui lingua maggioritaria è dravidica, mentre le lingue indoarie sono parlate da minoranze. La lingua più comune, il Kannada, è parlato dai due terzi della popolazione. La sanscritizzazione ha avuto origine agli inizi del XVI secolo, quando la comunità brahminica dei Sankethi, originaria del Kerala, si stabilì nei pressi di Shivamogga e ricevette dall'Imperatore Krishnadevaraya l'incarico di far prosperare la lingua vedica attraverso la fondazione di centri di apprendimento. L'augusto compito è stato portato avanti in modo scrupoloso nel corso dei secoli, ma con fortune alterne. Va infatti detto che nel 1980 la lingua quotidiana parlata a Mattur era ormai il Kannada. A un certo punto un sacerdote, Pejawar Mutt, diede un forte impulso alla restaurazione dell'uso corrente del sanscrito. La gente riuscì a sanscritizzarsi, questo è narrato, parlando la lingua vedica soltanto due ore ogni giorno per dieci giorni consecutivi. Oggi a Mattur e a Hosahalli tutti parlano in sanscrito, anche i bambini. Ecco alcune semplici frasi che tuttora risuonano in quei luoghi:
 
katham asti? "dove sei?" 
aham gacchami "io vado" 
tvam kutra gacchati? "dove vai?" 
aham vidyalayam gacchami "vado a scuola"
shubham bhavatu "possa accadermi il bene" 
aham jalam pibami "bevo l'acqua" 

In questo caso siamo di fronte a una lingua il cui uso è addirittura vibrante, pur essendo stata ripristinata in modo artificiale. Se dovessimo tracciare la linea evolutiva del sanscrito, vedremmo subito che presenta discontinuità ineliminabili. Nulla potrà mai obliterare lo spaventoso iato temporale che intercorre tra il contesto in cui furono scritti i testi vedici e la i tardivi progetti di sanscritizzazione. Quindi il sanscrito di chi ha scritto i testi vedici e quello di chi li insegna a Mattur e a Hosahalli sono da considerarsi due lingue appartenenti a due diverse trafile evolutive. La prima di queste trafile parte dalla più lontana preistoria e giunge a un punto morto, con la formazione delle lingue pracrite. La seconda di queste trafile è artificiale e parte secoli dopo la fine della prima, proprio dall'accurato studio delle sue tracce e dalla loro rielaborazione.
 
Il Nahuatl dei narcos 
 
Sono venuto a sapere che la nobilissima lingua Nahuatl, che fu parlata dagli Aztechi, ha acquisito una terribile fama in California, in Nuovo Messico e altrove perché tra i narcos molti l'hanno appresa e la usano come gergo segreto per non farsi capire dalla polizia. A quanto pare, non c'è stato apprendimento di una delle varietà di Nahuatl moderno tuttora parlate in Messico (spesso mutuamente incomprensibili), bensì di qualcosa che si avvicina abbastanza alla lingua classica - seppur in forma molto semplificata. Manca la lunghezza vocalica fonemica, mancano le architetture grammaticali tipiche del linguaggio fiorito azteco (ad esempio i complicatissimi verbi onorifici, etc.), con l'eccezione di poche forme fossilizzate; si ravvisano molti calchi semantici e sintattici dall'inglese, dallo spagnolo e via discorrendo. 
 
"Tlen ajko ika inon siuatl?", tradotto in inglese con "What's up with this woman?" 
 
Dubito che il glorioso Imperatore Ahuitzotl avrebbe detto qualcosa del genere. Chiaramente tlen ajko (per tlen ahco) è una traduzione letterale dell'inglese what's up, quindi un calco. Si noterà che per molti macellai di questo tipo, la frase avrebbe funzionato benissimo se enunciata come "Tlen ajko ika inon pitsotl", essendo le parole siuatl "donna" e pitsotl "maiale" quasi intercambiabili. In particolare pitsotl ha anche il senso di "poliziotto, sbirro". Il plurale è pitsomej "poliziotti, sbirri". Il significato di siuatl, usato per rivolgersi un uomo, coincide poi con quello di kuiloni "omosessuale passivo". Nota: il Nahuatl non possiede genere grammaticale, neppure nei pronomi di terza persona, eppure la società azteca era tutt'altro che "tollerante", "aperta" e "inclusiva". Non era la famosa società sciolta di Baumann. Ecco un elenco di parole, in cui si possono notare diversi adattamenti ai tempi moderni: 
 
achautli "capo della gang"  
auilnema "copula"
ilui "giorni" 
kali "cella" (lett. "casa") 
kapuli "scuola" 
kimichimi "spia, informatore" (lett. "ratto") 
kuilonyotl "detenuto in schiavitù sessuale"
    (lett. "sodomia")
malinali "marihuana" (lett. "erba")
mixpatsinko "saluti"
momo "la tua mano" 
pili "signore"  
tlilipol "neri"
vei "grande"
vel "buono" 
yakatl "punta" (lett. "naso")
yuali "notte"  
 
Si nota che kimichimi "spia, informatore" è un calco dell'inglese rat, che ha lo stesso significato nel gergo carcerario statunitense (Nahuatl classico quimichin /ki'mitʃin/ "topo"). Invece vediamo che kuilonyotl è tradotto con "punk", che nel gergo carcerario statunitense significa "detenuto in schiavitù sessuale": in questo caso la parola Nahuatl è indipendente da quella inglese. Non essendo specificata l'accezione della glossa punk, si corre il rischio di fraintendere e di credere che kuilonyotl designi un tale con la pettinatura a cresta e gli orecchini nel naso! Si notano sviluppi fonetici peculiari, come la vocale posteriore -o da una più antica vocale centrale lunga finale di parla. Esempio: momo "la tua mano", da Nahuatl classico momā. Riporto un paio di link per approfondimenti:     



I parlanti di questo Nahuatl si definiscono Chicanos e non hanno necessariamente contatti con gli Indios, che sono i parlanti delle varietà moderne di Nahuatl giunte per naturale evoluzione ininterrotta dal Messico precolombiano, seppur soggette a forte inflenza dello spagnolo. Questo genera un paradosso sorprendente: la nascita di nuove comunità di utenti di una forma di Nahuatl, che non si considerano indigene e che potrebbero persino mantenere un atteggiamento di disprezzo nei confronti degli Indios. 

Il movimento Anahuac
e il partito Mexicayotl

Esistono in Messico movimenti ultranazionalisti che predicano la restaurazione della lingua Nahuatl imperiale e della religione azteca. Rodolfo Nieva fondò nel 1960 il Movimiento Confederado Restaurador de la Cultura del Anáhuac (Movimento Confederato Restauratore della Cultura dell'Anahuac), realizzando una serie di rituali e cerimonie civico-religiose in cui i sacerdoti rivendicavano il potere di comunicare con i propri Antenati. Qualche anno più tardi, nel 1965, sorse il partito Mexicayotl, anche noto come Partido de la Mexicanidad (Partito della Messicanità), che riprende le finalità principali del movimento di Nieva.  

Obiettivi del partito Mexicayotl:

1) Far rivivere la razza messicana, che consiste di: 
  a) messicani nativi puri,
  b) messicani di sangue misto 
  c) tutti coloro che vivono nel Paese.
2) Stabilire la filosofia messicana (come base di interpretazione del mondo). La sua principale funzione deve essere l'eliminazione della corruzione nel Paese. 
3) Ristrutturare la Nazione. 
  a) Tutti i messicani devono godere di sufficiente assistenza sociale.
  b) Solo la gente messicana deve controllare le funzioni del potere pubblico.  
4) In sintesi: il partito intende portare avanti la sua alta missione culturale assegnatagli dal Destino. 
 
Inoltre: 
 
I) Accettazione del Nahuatl come lingua nazionale 
II) Rivitalizzazione della filosofia Nahuatl come fondamento della vita nazionale 
III) Accettazione e messa in pratica del calpulli comunale come struttura economica del Paese.   
 
Nel 1993 fu fondato a Los Angeles il Mexica-Movement, anche noto come Mexica-Mexicaolin o CMMEC (Chicano Mexicano Mexica Empowerment Committee), che continua negli Stati Uniti gli obiettivi del Movimiento Confederado Restaurador de la Cultura del Anáhuac. I suoi membri studiano il Nahuatl, danno ai loro figli nomi Nahuatl e adottano cerimonie di origine preispanica. Il punto dolente è l'impossibilità di restaurare i sacrifici umani e la credenza che al sangue delle vittime si debba il moto del Sole. Per maggiori dettagli rimando a questo link: 
 

Il concetto di lingua storica 
 
A questo punto possiamo formulare una definizione di lingua storica
 
1) non è insegnata in famiglia dalle madri ai figli come prima lingua;  
2) non è la lingua ufficiale di nessuna nazione del nostro tempo; 
3) ha una grande importanza culturale e storica; 
4) è appresa tramite studio, ad esempio a scuola; 
5) ha una pronuncia convenzionale, che non è necessariamente autentica, la cui tradizione è scolastica;  
6) in alcune particolari circostanze può essere usata come mezzo di comunicazione.
 
Questi sono i corollari che ne discendono: 
 
I) una lingua storica è una lingua morta ma non dimenticata; 
II) una lingua storica, pur morta, può avere manifestazioni di lingua parlata, quindi vivente; 
III) una lingua storica ha di conseguenza una natura paradossale. 

Una lingua storica appartiene quindi a una categoria diversa e separata da quelle delle lingue vive e delle lingue morte o estinte.
Una lingua storica non è una lingua appartenente a una linea evolutiva naturale. Se tuttavia si riesce a fondare una comunità stabile e duratura di parlanti, dalla lingua storica rivitalizzata ha origine una nuova linea evolutiva naturale (ben distinta da quella vecchia).

Oltre alla comunità latinofona partenopea, possiamo considerare il caso della lingua neoebraica ufficiale in Israele, che è molto particolare: dalla lingua storica (ebraico biblico, ebraico mishnaico, etc.) è derivata una lingua fatta per essere parlata diffusamente e usata come lingua ufficiale. Possiamo dire quindi che il neoebraico di Israele, nato da una lingua storica, sia diventato a tutti gli effetti una lingua viva. Quello che mi preme di sottolineare, è che non si è trattato di una vera resurrezione linguistica, ma della costruzione di una lingua nuova.  

C'è infine un ultimo corollario, che a mio avviso è anche il più importante:
 
IV) Una lingua storica è sempre una costruzione ideologica.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Dopo il matrimonio la mia vita è stata così difficile, mio ​​marito ha iniziato a inseguire altre donne perché non gli ho dato un figlio dopo aver aspettato per diversi anni. Potevo vedere il mio matrimonio scomparire. Ho fatto tutto il possibile per cambiare la situazione, ma niente ha funzionato finché non ho incontrato il dottor Ediomo, un guaritore spirituale. Il dottor Ediomo ha salvato la mia vita e il mio matrimonio. ora ho 3 figli. Sono grato al dottor Ediomo ed è per questo che lascio le mie testimonianze a chiunque soffra di problemi coniugali e di fertilità. E-mail di contatto: drediomo77@gmail.com WhatsApp: +2349132180420

Antares666 ha detto...

Non sono sposato, non intendo avere figli e non credo nei guaritori. Non mi piace nemmeno lo spam. Trovo però interessante il nome di questo personaggio. Ediomo è un nome nigeriano. Nella lingua Ibibio significa "Patto (di Dio)" e traduce l'inglese "Covenant".