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lunedì 24 maggio 2021

ETIMOLOGIA DI TARTINA E SUA ORIGINE GALLICA

La parola tartina deriva dal francese tartine, che è un diminutivo di tarte "torta salata; torta ripiena di crema o di confettura" (antico francese tarte). In altre parole, si tratta di un francesismo assimilato. I romanisti, nella loro ciclopica e supponente ignoranza, hanno pensato di ricondurre la parola francese tarte a una semplice variante di tourte "torta (dolce)", senza tenere in benché minimo conto l'impossibilità di una tale derivazione, già soltanto per motivi fonetici: non se ne riesce a  spiegare il vocalismo. L'idea che tarte sia la stessa identica cosa di tourte è molto diffusa, anche se non ha la benché minima speranza di essere vera. Quando mai in francese si è vista una vocale tonica posteriore come -ou- /u/ diventare -a- /a/? Se si domanda a chi sostiene questa implausibile mutazione quali ne sarebbero mai i motivi, non è in grado di rispondere. In effetti, in letteratura non si trova nulla di sensato su questo argomento. Errano certamente coloro che citano il francese car "perché?" come esito anomalo del latino cūr "perché?" (antico qūr, quūr, quōr), dato che questo car è il semplice e regolare prodotto del latino quārē (scritto anche quā rē) "come, perché", alla lettera "per la qual cosa". 
 
Un elemento di sostrato 

Per dare una spiegazione alla parola tarte è necessario comprendere che la sua derivazione è dal sostrato gallico. Non si tratta di un termine latino, essendo giunto dalla lingua celtica che fu parlata a lungo nelle Gallie, anche in seguito alla conquista ad opera di Roma. 
 
Protoforma celtica: *tartus "secchezza, siccità; sete".
Antico irlandese: tart "secchezza, siccità; sete" 
  Irlandese moderno: tart "secchezza, siccità; sete" 

A partire dai dati storici è ricostruibile anche un aggettivo derivato. 

Protoforma celtica: *tartu-māros "assetato, che fa venir sete"
Antico irlandese: tartṁar "assetato, che fa venir sete"
  Irlandese moderno: tartmhar "assetato, che fa venir sete" 

Nelle lingue discendenti dal britannico questa radice si è estinta: è scomparsa prima della comparsa dei più antichi documenti letterari. Si sono avuti prestiti evidenti dal latino siccus e siccitās, forse per motivi tabuistici. È perfettamente confermata la pronuncia del latino -c- come consonante occlusiva velare /k/ anche davanti a vocali anteriori per l'epoca in cui avvenne il prestito. 

Britannico: *sikkus "secco" < lat. siccus "secco"
   Gallese sych "secco" 
Britannico: *sikkitās "sete" < lat. siccitās "secchezza"
   Gallese syched "sete"

Nella lingua della Gallia Celtica dovette essersi conservata la stessa forma presente in antico irlandese. Possiamo in ogni caso ricostruire la situazione. 
 
Protoforma celtica: *tartus "secchezza, siccità; sete" 
Gallico: *tartus "secchezza, siccità; sete";  
   *tartos "secco, che fa venir sete; salato" 
       femminile: *tartā
       neutro: *tarton
   *tartā "cibo che fa venir sete; torta salata; torta molto dolce"  

Credo che questa mia ricostruzione sia ineccepibile dal punto di vista morfologio e formale. Senza dubbio può spiegare ogni cosa. Credo che sia qualcosa di originale, dato che non se ho trovato traccia alcuna nella letteratura scientifica. Dovrebbe quindi essere citata così: (Moretti, 2021). 
 
La radice protoceltica *tartus "secchezza, siccità; sete" proviene direttamente dal proto-indoeuropeo *tṛstus "secchezza, aridità", derivato dalla radice *ters- / *tors- / *tṛs- "secco, essere secco". Nelle lingue celtiche compare anche in altri derivati notevoli, con diverso vocalismo: 
 
Protoforma celtica: *tīros "terra arida" (< *tēros),
     genitivo *tīresos (< *tēresos)
Antico irlandese: tír "terra; paese, territorio, suolo" 
  Irlandese moderno: tír "terra; paese, territorio" 
  Gaelico di Scozia: tìr "terra; paese, territorio" 
  Manx: çheer "terra; paese, territorio"
Britannico: *tīros "terra" 
  Gallese: tir "terra" 
  Cornico: tir "terra" 
  Bretone: tir "terra"  
 
Protoforma celtica: *tīresmis "secco, arido"
Antico irlandese: tírimm, tirimm "secco" 
  Irlandese moderno: tirim "secco"

Protoforma celtica: *torrus "secco" (< *torsus)
Antico irlandese: tur "secco"
  Irlandese moderno: tur "secco" (detto di cibo)   
 
Protoforma celtica: *terkos "misero" (< *terskos)
Antico irlandese: terc "poco, scarso" 
  Irlandese moderno: tearc "poco, scarso"
Gallico: *terkos "miserabile" 
    Elementi di sostrato: 
    => Italiano: tirchio "miserabile, avaro" (antico terchio)  
    => Bearnese: terc "crudele" 
Celtiberico: *terkos "duro, rigido" 
   Elementi di sostrato:
    => Spagnolo: terco "testardo" 
    => Catalano: enterch "rigido"  
Ci occuperemo meglio di questi resti del sostrato in un successivo intervento.
    
In latino la radice indoeuropea in questione è stata ereditata da alcune importanti parole, subendo il passaggio regolare da -rs- a -rr- davanti a vocale e da -rst- a -st-
 
terra "terra" (< *tersa
terrestris "terrestre" (< *terestris; -rr- è per analogia) 
tesquum, tescum "deserto, terra desolata" (< *terskwom)
torrēre "seccare" 
   presente indicativo: torreo "io secco" (< *torsēio), 
       torrēs "tu secchi", torret "egli secca" 
   perfetto indicativo: torruī "io seccai" 
   participio presente: torrēns "che secca", 
       gen. torrentis 
   participio perfetto: tostus "seccato" (< *torstos)
   supino: tostum "per seccare" (< *torstum) (1) 
torridus "arido, seccato" 
torris "tizzone ardente" 
torrus "tizzone ardente" 
 
(1) Il supino deriva da un accusativo sclerotizzato di un tema in -u- (IV declinazione).
 
La stessa radice indoeuropea è stata ereditata dal protogermanico, essendo ben rappresentata in tutte le lingue discendenti. Ecco le principali protoforme ricostruibili:
  *þersanan "essiccare, rendere secco"
  *þurstiz "secchezza; sete" 
  *þurstuz "secchezza; sete"
  *þurzǣnan / *þurzōnan "essere secco" 
  *þurzijanan "essere secco; essere assetato" 
  *þurznanan "diventare secco; appassire"
  *þurzuz "secco" 
  *þurskaz "merluzzo" (lett. "pesce essiccato")
Queste sono le forme attestate in gotico: 
   afþaursjan /af'θɔrsjan/ "essere assetato" 
   gaþairsan /ga'θεrsan/ "seccarsi, essiccarsi" 
   gaþaursnan "diventare secco; appassire"
   þaursjan "assetare; essere assetato"
   þaursus /'θɔrsus/ "secco" 
Queste sono le forme attestate in norreno: 
   þerra "rendere secco, essiccare" 
   þorna "diventare secco, seccarsi" 
   þorskr "merluzzo" 
   þorsti "sete"  
   þurka "diventare secco, seccarsi"
   þurr "secco" 
   þyrstr "assetato, che ha sete" 

Si potrebbe andare avanti a lungo, ma credo che esuli dagli scopi di questo contributo.

La torta salata e la prostituta 
 
In inglese esiste tart "tipo di pasticcio contenente gelatina o conserva", "tipo di torta ripiena di frutta o crema" (medio inglese tart, tarte), un chiaro prestito dall'antico francese tarte. In Albione questo termine ha subìto uno slittamento semantico notevole, giungendo a significare "prostituta" - significato attestato per la prima volta nel 1887 (fonte: Etymonline.com). Esistono attestazioni di questa parola col senso di "donna attraente" dagli inizi del XIX secolo, anche nella forma jam-tart. Non è difficile passare da "torta appetitosa" a "donna attraente". Credo che Berlusconi capirebbe alla perfezione ciò che dico. La statua di Molly Malone a Dublino è soprannominata "the tart with a cart", ossia "la prostituta con un carretto". Questo perché la famosissima pescivendola dai capelli fulvi esercitava il mestiere più antico del mondo. Dopo aver passato il giorno a vendere pesce, di notte faceva uscire lo sperma ai clienti. 
Si segnala una falsa etimologia dell'inglese tart "prostituta" da una contrazione di sweetheart "tesoro" (termine di apprezzamento). Questa proposta grottesca dovrebbe essere vista con sospetto da tutti: presenta le tipiche caratteristiche di un'etimologia popolare. La parola sweetheart ha l'accento sulla prima sillaba, non sulla seconda: in Inghilterra è /ˈswiːtˌhɑːt/; negli States è /ˈswitˌhɑɹt/, realizzato come [ˈswiɾhɑɹt̠] o addirittura [ˈswiɾɑɹt̠], col tipico rotacismo. È verosimile che l'accento fosse sul primo elemento del composto anche in passato, cosa che rende il mutamento assai implausibile. Se tart fosse un'abbreviazione di sweetheart, permarrebbe con ogni probabilità qualche traccia del suo antico; vediamo invece che in nessun caso tart e sweetheart sono usati come sinonimi. Inoltre sweetheart può essere usato per rivolgersi anche a persone di sesso maschile (nel qual caso può anche significare "innamorato", "spasimante") e persino ad animali di affezione come cani e gatti. Anche lo slittamento semantico sarebbe quindi problematico.    
Non esiste connessione tra tart "prostituta" e l'omofono tart "aspro, acido", che deriva invece dall'antico inglese teart "doloroso, severo" (detto ad esempio di punizione; è dal proto-indoeuropeo *der- "spaccare"). Si tratta ovviamente di una somiglianza fortuita. 
 
Alcune note sull'etimologia di torta      
 
Esiste un singolare problema fonologico che si trascina da epoca antica e che riguarda la parola torta. Si suppone che il latino tardo ed ecclesiastico tōrta "torta, focaccia", la cui vocale lunga è ricostruibile dagli esiti romanzi, sia un derivato del verbo torquēre "torcere": avrebbe forse tratto il suo nome dalla forma originaria della preparazione gastronomica. Molto diffusa è l'idea che sia una semplice ellissi della locuzione torta pānis, tradotta con "pane attorcigliato" - dimenticando che in latino pānis "pane" è di genere maschile. La traduzione è erronea, dato che tōrta pānis può significare soltanto "torta di pane" (con pānis al genitivo), il che è di scarso aiuto. La prima attestazione della parola è nelle Tavolette di Vindolanda (I-II secolo d.C.), in cui compare come turta, cosa che complica non poco le cose. Riporto informazioni sulla coniugazione del verbo torquēre, da cui è derivato l'italiano torcere con cambio di coniugazione, semplificazione della labiovelare e palatalizzazione: 
 
torquēre "torcere" 
    presente indicativo: torqueo "io torco", 
        torquēs "tu torci", torquet "egli torce" 
    perfetto indicativo: torsī "io torsi"
    participio presente: torquēns "che torce", 
        gen. torquentis 
    participio perfetto: tortus "tòrto" (< *torktos
    supino: tortum "per torcere" (< *torktum
    participio futuro: tortūrus "che torcerà"
 
Derivati: 

torculāris "relativo al torchio"
torculum "torchio, frantoio, pressa"
torculus "usato per la torchiatura"
tormentum "fune, corda; tormento, supplizio"
tormina (pl. n.) "coliche, dolori intestinali" 
torminālis "anticolico, che serve a calmare le coliche"
torminōsus "sofferente di coliche" 
torquēs (gen. torquis) "collana, monile" 
torquis (gen. torquis) "collana, monile" 
torsiō (gen. torsiōnis) "spasmo, colica"
tortilis "ritorto, attorcigliato, ricurvo" 
tortiō (gen. tortiōnis) "l'atto di torcere"
tortīvus "ottenuto da torchiatura"  
tortāre "torturare, martirizzare, seviziare" 
   presente indicativo: torto "io torturo", 
        tortās "tu torturi", tortat "egli tortura"  
   participio presente: tortāns "che tortura"  
tortum "corda usata come strumento di tortura"
tortuōsus "tortuoso, sinuoso"
tortūra "tormento, supplizio; l'atto di torcere"
tortus "attorcigliato" 
tortus (gen. tortūs, IV decl.) "voluta; spira di serpente" 
 
In tutti questi casi i gruppi consonantici complessi del latino arcaico si sono semplificati senza provocare allungamento di compenso della vocale -o- precedente. La vocale -o- è sempre breve. Esempi: 
 
torculum "torchio" < *torklom 
tormentum "supplizio" < *torkmentom 
tormina "coliche" < *torkmena 
tortāns "che tortura" < *torktāients 
torto "io torturo" < *torktāio  
tortum "strumento di tortura" < *torktom
tortus "attorcigliato" < *torktos 
tortus "voluta" < *torktus   

Invece in tōrta "torta, focaccia" si è avuta invece la semplificazione del gruppo consonantico con l'allungamento di compenso della vocale -o- precedente: 

tōrta "torta, focaccia" < *torkta 

Perché questa diversità? Le spiegazioni possibili sono due: 

1) Il nome della torta è il prodotto di una tradizione diversa rispetto a tutte le altre forme derivate dal verbo torquēre
2) Il nome della torta non è un derivato del verbo torquēre: si tratta di un'etimologia popolare. 

Sono incline a credere che la spiegazione 2) sia quella giusta, ma ho ancora prove decisive. Si comprende alla luce di questi fatti che la questione non è affatto banale.
 
La situazione problematica la si vede in diverse lingue neolatine. In italiano il sostantivo torta ['torta] (con la vocale tonica chiusa) deriva regolarmente dal latino tōrta /'to:rta/ (con la vocale tonica lunga) e contrasta col participio passato del verbo torcere, che è tòrto ['tɔrto], femminile tòrta ['tɔrta] (con la vocale tonica aperta).  
In altre parole, esiste un'oppposizione fonetica minima:
 
torta /'torta/ (dolciume) - tòrta /'tɔrta/ (che ha subìto torsione)

Anche in francese l'esito regolare del latino tōrta /'to:rta/, che è tourte, riflette l'antico stato di cose. 
 
Richiamo l'attenzione dell'Accademia della Crusca su questi dettagli, anche se so in pratenza che il mio appello non sarà raccolto.

martedì 2 febbraio 2021

QUANDO SI SCONTRANO I DOPPIONI

Nella maggior parte delle lingue del globo terracqueo, salvo forse pochissime eccezioni dovute a un grande isolamento, sono presenti allotropi o doppioni. Si tratta di esiti diversi dello stesso vocabolo. Ho pubblicato un articolo sugli allotropi della lingua italiana, che forse sarà di una qualche utilità al lettore. Eccolo: 
 
https://perpendiculum.blogspot.com/2020/12/
i-doppioni-nella-lingua-italiana.html


Il bello degli allotropi è che i parlanti in genere non li riconoscono affatto come originati da una stessa protoforma più antica giunta tramite diverse trafile (es. una trafila dotta e una trafila volgare). Talvolta addirittura sono possibili esiti contraddittori. Posso fornire due esempi molto significativi:

1) sopportare significa "tollerare, farsi carico di qualcosa di molesto";
2) supportare significa "sostenere, essere un sostenitore di qualcuno o di qualcosa" (viene dall'inglese americano). 
 
Si può capire una cosa molto semplice: sopportare Berlusconi non significa supportare Berlusconi!
 
1) recuperare significa "ritrovare qualcosa; ritrovare la salute";
2) ricoverare significa "mettere qualcuno in ospedale, in un gerontocomio o in altro simile luogo di detenzione". 

In tempi di pandemia di COVID-19, molti hanno equivocato e tradotto male la parola inglese recovered "guarito", interpretandola come "ricoverato (in ospedale)". Così i pazienti guariti dall'infezione, che molti si ostinano assurdamente a ritenere fantomatica, si sono ritrovati per incanto intubati nei nosocomi. La vedete l'assurda contraddizione? 

Il calabrone e il gravalone
 
Racconterò ora un singolare aneddoto sull'allotropia nella lingua italiana e sulle sue interferenze con i dialetti galloitalici. Un cugino materno di Cuneo, G. (RIP), che era originario della Lomellina, aveva fatto leggere a me e a mia madre (RIP) alcuni suoi bizzarri componimenti giovanili. Mi era molto caro e lo chiamavo affettuosamente Zio Janni. I suoi testi erano scritti a mano su fogli gelosamente custoditi in un cassetto. Ormai sono di certo finiti al macero. Uno di questi componimenti riguardava la sua sfrenata passione per una milf, da lui chiamata la Brunetta: a suo dire l'affondamento dell'Andrea Doria sarebbe stato causato dal fatto che lui aveva messo il cappello sul letto della maliarda durante un convegno amoroso proprio in quella nave. All'epoca si credeva che mettere un cappello sul letto portasse disgrazia. Un altro componimento di G. parlava di alcune bellissime ragazze che ballavano lo shake coi capelloni. Si coglieva nelle parole una certa invidia. Ormai nessuno ne sa più qualcosa: lo shake era un tipo di ballo degli anni '60, sprofondato nell'Oblio da decenni. A quei tempi bastava che un uomo avesse i capelli un po' lunghi per destare scandalo: i cosiddetti "capelloni", che spesso avevano soltanto una frangia o un po' di zazzera, non erano ammessi nei ristoranti e nei mezzi pubblici. Un ultimo lavoro, che mia madre giudicò "informe" e "ancora in cantiere", riguardava gli insetti che infestavano un orto. Si parlava di mosche e di mosconi, di cimici, di bruchi schifosi e via discorrendo. Tra questa fauna brulicante figuravano anche un calabrone e un gravalone. Col suo fare aggressivo, mia madre disse giustamente che il calabrone e il gravalone altro non erano che lo stesso insetto. G. non si era accorto dell'allotropia. Ignorava il fatto che sia calabrone che il lombardo gravalone (in questo caso un prestito dal lomellino), altro non sono che discendenti del latino crābrone(m). Abbozzò un tentativo di difesa, affermando che il gravalone sarebbe un bombo peloso e brunastro, mentre chiamava correttamente calabrone la Vespa crabro. Mia madre considerò vane le parole di G., che nascose prontamente i fogli col componimento informe, quasi temendo di essere fulminato. Tutti quegli scritti saranno purtroppo finiti nella spazzatura: l'appartamento in cui G. viveva in affitto apparteneva a una famiglia di avvocati ed è stato subito reclamato non appena egli è morto a causa di una paralisi indotta da una forma particolarmente maligna di influenza. 

Il Bannato e il bandito
 
Un altro aneddoto sugli allotropi è molto più recente e proviene da Facebook. Un amico conosciuto in quel vastissimo social si fa chiamare con diversi pseudonimi, tra cui Bannato. Questo per il fatto che, proprio come me, è molto turbolento e viene spesso sottoposto a blocchi da parte dell'Idiozia Artificiale di Zuckerborg. Un blocco nei Social è chiamato tecnicamente ban, parola inglese derivante dall'anglosassone bannan "proclamare, comandare, convocare", che ha la stessa etimologia dell'italiano bando. Il latino medievale ha adottato questa parola come bandum e bannum. Il bando era eseguito tramite un proclama pubblico. Il corrispondente verbo italiano bandire, che risale ovviamente alle stesse nobilissime origini germaniche (gotico bandwa, bandwo "segno, segnale", bandwjan "dare il segnale", "indicare", "mostrare"), è l'origine della parola bandito. Così possiamo dire che bandito e bannato sono due doppioni, di cui il primo è ereditario, risalente all'Alto Medioevo, mentre il secondo è giunto tramite l'inglese in tempi molto più recenti. Quindi Bannato equivale in qualche modo a bandito, una coincidenza davvero bizzarra. L'allotropia in questione è dovuta all'immissione di un vocabolo inglese nel lessico della lingua italiana, ma la sostanza non cambia. 

Carta oleata e carta oliata
 
La carta oleata ha l'aspetto dell'olio, perché è lucidissima alla vista e liscia al tatto, mentre la carta oliata è semplicemente sporca di olio, da buttare, del tutto inutile. Se la carta oleata serve a qualcosa, la carta oliata è un rifiuto, destinato allo smaltimento. In ogni caso l'origine etimologica è identica: viene pur sempre dal latino oleum "olio". Mio cugino D. (RIP), che era un robusto milanesone, non comprendeva l'identica origine della carta oleata e della carta oliata. Per lui erano due cose completamente diverse, come se la prima fosse nativa della Terra e l'altra provenisse da Marte. Diversi anni dopo questo episodio, D. è invecchiato e la sua salute è improvvisamente decaduta. Azrael lo ha còlto, lo ha portato nell'Oltre mentre era ricoverato in un ospedale a causa di una carenza di ferro. Le sue spoglie mortali sono state cremate a Lambrate, dopo un lungo funerale a cui erano presenti gli ultimi parlanti della lingua meneghina. Ricordo bene un dettaglio di non poco conto: il prete che ha officiato la cerimonia ha pronunciato parole misteriose, affermando che i Morti sono come uccelli tra i rami degli alberi, sulla base di un passo evangelico che ora mi sfugge. 
 
Un altro esito contraddittorio  
 
La perdita della trasparenza etimologica delle parole adottate è un dramma terribile che affligge il genere umano. Fa smarrire per sempre la consapevolezza del linguaggio e del suo uso! Il problema non riguarda soltanto gli allotropi. Posso citare un esempio che non è affatto allotropico, avendo a che fare con termini di identica semantica ma di diversa origine. In italiano esistono due parole che potrebbero essere benissimo considerate sinonimi: salute e sanità. La trafila di entrambe è dotta e latina, ma non proviene da una singola radice. 

1) Il latino salūs (genitivo salūtis) deriva da salvus "incolume, intatto, integro" (da cui l'italiano salvo). 
2) Il latino sanitās (genitivo sanitātis) deriva da sānus "integro, intatto, in buona salute" (da cui l'italiano sano). 
 
I parlanti dei dialetti galloitalici dell'Italia Settentrionale interpretavano "salute" come "condizione di chi non ha malattie", mentre per "sanità" intendevano "mondo degli ospedali, della Sanità pubblica" e quindi "malattia". Un paradosso incredibile! Esisteva un proverbio grottesco, che mi è stato riferito da mia madre: "Soldi e sanità, metà della metà". Il suo significato era questo: "Non bisogna dire a nessuno quanti soldi si hanno, altrimenti si viene invidiati e linciati da torme di comunisti furiosi; non bisogna dire a nessuno di quali malattie si soffre, altrimenti si viene odiati dai bigotti che attribuirebbero tali problemi a una maledizione divina". Questo era uno dei pilastri portanti del contesto della Lomellina della seconda metà del XX secolo. Un altro era la segretezza del voto: nessuno doveva poter accusare qualcuno di aver cambiato idee politiche nel corso degli anni e di essere quindi considerato un voltagabbana. Erano tempi atroci. Ogni tanto mi viene in mente che i Varunna cantavano queste parole: "In un'Italia democristiana, con un solo paio di scarpe, con un proiettile in tasca a scuola, e negli occhi la rivolta! Negli occhi la rivolta!"   

mercoledì 20 gennaio 2021

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI DUNCE 'IDIOTA': UN CASO DI DISTORSIONE IDEOLOGICA

Il vocabolario della lingua di Albione è incredibilmente vasto e non è difficile riuscire a spulciare qualche gemma inattesa. Una delle più strane parole che ho trovato in una mia esplorazione è senza dubbio dunce "idiota". Quale sarà mai la sua origine? Questo è quanto riporta in proposito il famoso dizionario etimologico online della lingua inglese, Etymonline.com
 
 
dunce (n.)

"persona stupida, sempliciotto, ignorante", anni '70 del Cinqunecento, da un precedente Duns disciple, Duns man (anni '20 del Cinquecento) "seguace di Giovanni Duns Scoto" (circa 1265 - 1308), studioso scozzese di filosofia e teologia, che si pensa essere nato a Duns, nel Berwick. I suoi seguaci, gli Scotisti, avevano il controllo delle università fino alla Riforma. Negli anni '20 del Cinquecento, la reazione umanista contro la teologia medievale lo aveva individuato come il tipo dello scolastico pedante. È diventato un termine generale di rimprovero applicato agli oppositori filosofici ostinati o sofistici, quindi per gli anni '70 del Cinquecento fu esteso a tutti gli studenti ottusi. La locuzione Dunce's cap è attestata nel 1792 (confronta foolscap).(i) 
 
(i) foolscap "berretto del buffone"; il Dunce's cap è attualmente l'equivalente del nostro cappello di asino, in pratica un cono di carta piazzato sul fragile cranio dello studente somaro. (N.d.T)
 
Ho il fondato sospetto che in realtà Duns Scoto non c'entri proprio un bel nulla. Si tratta dell'ennesimo caso di falsa etimologia, le cui origini vanno rintraccate nell'ignoranza piuttosto che nel furore ideologico. Esiste una spiegazione lineare e cristallina, che rimanda alla parola dumb-ass (varianti: dumbass, dumb ass) "idiota". Ecco la sua scheda su Etymonline.com:    
 
 
dumb-ass (n.)

anche dumbass, "stupido, persona inconcludente", attestato entro il 1959, da dumb (agg.) "stupido" + ass (n. 2)(ii)
 
(ii) Secondo il dizionario etimologico online, il secondo membro del composto sarebbe ass /æs/ "culo", da un più antico e conservativo arse /a:s/. Sono convinto che si tratti invece dell'omofono ass /æs/ "asino", la cui etimologia è ovviamente del tutto diversa. (N.d.T.)
 
Della mia opinione sembrano essere anche i Wikipediani, per quanto ciò possa valere. Questa è la pagina del Wiktionary (dizionario di Wikipedia in inglese) relativa al vocabolo in questione: 
 

dumb +‎ ass. It is likely that ¹ass (= donkey), not ²ass (= buttocks), was the original sense within this compound noun (solid compound or open compound), but neither sense is precluded, and many people today may uncritically parse the term in the latter way, even if it is misapprehensive. Apparent analogy with forms such as hard-ass and big-ass would naturally lend support to the second parsing. 
 
Riporto la traduzione: 
 
dumb +‎ ass. È verosimile che sia ¹ass (= asino), non ²ass (= culo), il senso originale in questo nome composto (composto solido o composto aperto), ma nessuno dei due sensi è precluso, e molti oggi possono analizzare acriticamente il termine in quest'ultimo modo, anche se è inteso male. Un'apparente analogia con forme come hard-ass(iii) e big-ass(iv) darebbe naturalmente supporto alla seconda analisi.  
 
(iii) hard-ass "persona inflessibile, combattiva" (N.d.T.)
(iv) big-ass "immenso, colossale" (N.d.T.) 
 
La parola dumb "muto, senza parola", passata a significare "stupido" per ovvi motivi, è di chiarissima origine indoeuropea. Protogermanico *dumbaz "muto", donde antico inglese dumb, gotico dumbs "muto, silente". Bisogna sempre ricordarsi che la sua pronuncia in inglese moderno è /dʌm/: la consonante -b finale non si pronuncia più da secoli! Trovo deprecabile e schifosa l'usanza imperante nelle scuole italiche, che insegna una pronuncia semi-ortografica delle parole inglesi e che porta a risultati assolutamente grotteschi!  
 
Comunque sia, che il significato originario di dumbass sia asino stupido oppure ano stupido, le cose non cambiano poi granché. Molti anglosassoni che dicono ass "culo" anziché arse, credono seriamente che si tratti di un eufemismo e che le  parole per designare l'ano e l'asino abbiano la stessa origine. L'asino, animale smerdante e considerato stupido (anche se spesso a torto), è creduto un'immagine adatta per descrivere lo sfintere anale, parte del corpo purtroppo disprezzata da un gran numero di popolani ignoranti. 
 
In epoca non troppo remota si sono avuti questi passaggi di naturale usura fonetica, che hanno portato dumbass a diventare dunce
 
dumbass /'dʌmæs/ => /'dʌmǝs/ => /dʌms/ => dunce /dʌns/ 
 
L'intera storia degli studenti ottusi è stata ricostruita ad arte per cercare di spiegare qualcosa che non era più ovvio. Certo, dovettero senza dubbio esistere forme come Duns disciple, Duns man e dunce "accademico cavilloso" nel XVI secolo. Quello che metto in discussione nell'etimologia fornita da Etymonline.com è il passaggio semantico, niente affatto ovvio, che avrebbe portato in tempi rapidissimi da "accademico cavilloso" a "studente otttuso". In realtà il cappello dell'asino deve essere stato definito Dunce's cap soltanto dopo che si era completato il passaggio da dumbass a dunce. Se il Dunce's cap è documentato nel XVIII secolo, significa che qualcuno aveva pensato bene di pronunciare dumbass come dunce già in quegli anni. Un asino stupido o un culo stupido sono in ogni caso una spiegazione migliore del nome di un filosofo-teologo! È un vero peccato la totale negligenza del mondo accademico nell'indagine etimologica.     

lunedì 28 dicembre 2020

LINGUA VIVA, LINGUA MORTA, LINGUA STORICA: ALCUNE RIFLESSIONI

Tutti pensano di sapere cos'è una lingua viva e cos'è una lingua morta o estinta. Tutti pensano di poter dare una chiara e netta definizione di questi concetti, a prima vista elementari. In realtà si può dimostrare che una simile sicurezza classificatoria è fallace. Infine giungo a una conclusione ben triste: nonostante tutti i miei sforzi, non mi è affatto facile dare una definizione scientifica accettabile da tutti su cosa sia davvero una lingua viva, una lingua morta o una lingua estinta. Mi rendo conto che questa affermazione può risultare sconcertante, o addirittura al limite della follia. Posso soltanto analizzare le insidie che questi argomenti irrimediabilmente comportano, mettendo a fuoco le incoerenze delle opinioni comuni in merito alla natura stessa del linguaggio. In ognuna di queste opinioni c'è senza dubbio del vero, ma purtroppo sfugge sempre qualcosa di essenziale. La trattazione è di una complessità incredibile e i paradossi che ne nascono sono innumerevoli.
 
Mi sono sempre attenuto a questo concetto: una lingua si definisce viva se c'è una trasmissione diretta, ossia se è insegnata dai genitori di una comunità ai propri figli. A parer mio questa trasmissione diretta avviene soprattutto per linea materna. Si incappa in una prima difficoltà concettuale. Se non esiste una comunità di parlanti, e una lingua è trasmessa in una famiglia senza che nessun altro la parli al di fuori di tale contesto, sarà una lingua moribonda, un fossile in grave pericolo di estinzione, sempre a rischio di subire l'irreparabile interruzione della catena di trasmissione. Funzionalmente non è più una lingua viva, anche se è ancora parlata. Quindi cosa dovremmo dire? Che una lingua in queste condizioni è viva e morta nello stesso tempo come il famoso gatto di Schrödinger?
 
Molti saranno scettici su quanto da me affermato, ritenendo invece che una lingua sia senza dubbio viva se ha parlanti, fossero anche un paio soltanto, indipendentemente dal modo in cui l'hanno appresa e dal contesto sociale in cui la utilizzano. Stando a questa idea, è sufficiente che qualcuno pronunci spontaneamente frasi in una lingua appresa sui libri per dire che quella è una lingua viva, che non può essere definita una lingua morta finché qualcuno la utilizza per comunicare. Riporterò alcuni esempi in grado di illustrare le mie perplessità in merito.  
 
Il fantasma della lingua Ainu 
 
Secondo gli antropologi Alexander Akulov (ricercatore indipendente, San Pietroburgo, Russia) e Tresi Nonno (ricercatore indipendente, Chiba, Giappone), un parlante di una lingua è definito come una persona capace di utilizzarla per produrre pronunce spontanee. Akulov, che è uno studioso della lingua e della cultura degli Ainu, dopo un estenuante lavoro sul campo nell'isola di Hokkaidō è riuscito a trovare soltanto due parlanti fluenti dell'idioma ancestrale, che tra l'altro lo avevano appreso da adulti. Per il resto c'erano soprattutto persone che conoscevano a memoria poche parole o frasi, in modo stereotipato, senza alcuna comprensione della grammatica e del vocabolario. Al pari dei pappagalli. Sono rimasto colpito dall'aneddoto della ragazza che sentendo parlare in Ainu si scusò di non conoscere abbastanza l'inglese da capire cosa veniva detto. Questo ha portato l'antropologo russo a maturare le sue amare convinzioni su cos'è una lingua viva e su cosa non lo è. Consiglio la lettura di questi due lavori: 

Akulov, Nonno, Contemporary condition and perspectives of Ainu language (2015)

 
Akulov, Actual problems of Ainu language revitalization (2017)

 
Stando alle evidenze fornite, possiamo dire che la lingua degli Ainu è funzionalmente morta, anche se è insegnata nelle università. Il suo insegnamento è infatti stereotipato e non serve al recupero. Ci sono persino i manga in Ainu, ma risulta evidente che non sono di alcuna utilità. 
 
Pronunce spontanee e mnemotecnica 
 
Parto dagli esempi forniti dallo stesso Akulov, colorendoli un po' e forse estremizzandoli, allo scopo di rendere meglio l'idea. Se qualcuno conosce a memoria le opere di Shakespeare, come l'Amleto e il Macbeth, ma non è in grado di dire o di scrivere null'altro in inglese, non può considerarsi in alcun modo un parlante della lingua inglese. Per contro, un bengalese che entra trafelato in un negozio di alimentari a Londra e dice "I MILK TWO!", sarebbe da considerarsi un parlante genuino dell'inglese, a dispetto delle severe difficoltà grammaticali della frase elementare da lui proferita. L'idea di Akulov-Nonno presuppone che un esercente londinese capirebbe la frase dell'uomo del Bangladesh, che potrebbe quindi riuscire ad ottenere quanto desidera. Su questo sono molto scettico. Se il bengalese in questione sa dire soltanto "I MILK TWO!" e niente altro, non può certo paragonarsi a chi conosce a menadito testi complessi di Shakespeare. Nell'immenso repertorio memorizzato si potrebbe infatti trovare qualche frase utile, applicabile nella pratica quotidiana: mi stupirei del contrario. Il nostro amico bengalese dovrebbe almeno conoscere un certo assortimento di parole del lessico alimentare di base, come bread "pane", butter "burro", cheese "formaggio", eggs "uova", etc. Se decidesse, con molta saggezza, di accantonare ogni eventuale tabù religioso, potrebbe trovare utili anche parole come sausage "salsiccia", ham "prosciutto", beer "birra", wine "vino", etc. Dovrebbe anche saper contare e non basterebbero i numerali da uno a dieci. A che gli servirebbe entrare in un negozio se non sapesse distinguere six "sei" da sixteen "sedici" e da sixty "sessanta"? Ora, il bengalese sarà aiutato dai negozianti londinesi soltanto perché è ormai comune per un anglosassone defecarsi in mano per il terrore di essere ritenuto "razzista". Un uomo del Bangladesh, avendo un aspetto peculiare che lo distingue all'istante da un inglese autoctono, sarà certo considerato un soggetto da aiutare, anche se pronuncia MILK come MEELKAH. Posso garantire che per un italiano o per un greco nella stessa situazione non ci sarebbe pietà né misericordia: non essendo "abbronzati", possono essere trattati come mucchi di stronzi sulla via. Non capisci i discorsi nell'inglese supersonico con le parole "mangiate"? Sono cazzi tuoi. 
 
Lingua gotica e lingua neogotica
 
Adesso veniamo al caso di uno studioso che sa produrre pronunce spontanee nella lingua gotica di Wulfila. Ad esempio, questo è il mio caso. Posso pronunciare proposizioni come queste: 
 
ik im manna freis "io sono un uomo libero",
ik im sa frumabaur þiudanis Austragutþiudos "io sono il figlio primogenito del Re degli Ostrogoti",
ik wiljau itan mims bairins jah drigkan midu
"voglio mangiare carne d'orso e bere idromele", etc. 
 
Stando ad Akulov-Nonno, senza dubbio dovrei essere considerato un parlante della lingua gotica di Wulfila. Se giungesse il vescovo Wulfila redivivo, mi capirebbe e io lo capirei a mia volta. Eppure nessuno sosterrà che la lingua dei Goti sia una lingua viva solo perché la so parlare con qualche grado di competenza. Tale lingua non è stata parlata per secoli, non è stata trasmessa all'interno di nuclei familiari e da lungo tempo non è nemmeno stata utilizzata per fini culturali o identitari. Adesso ci sono diversi amici svedesi, spagnoli, tedeschi e inglesi che la hanno appresa e la conoscono abbastanza bene da poterla parlare, pur con le indubbie difficoltà del suo adattamento al contesto del XXI secolo. Esiste Wikipedia in gotico (scritto in caratteri wulfiliani) e persino un blog in gotico (scritto in caratteri latini): Himma Daga
 
 
Eppure questo non cambia le cose. Evidentemente non siamo di fronte a una lingua viva. Nulla potrà mai obliterare lo spaventoso iato temporale che intercorre tra l'estinzione della lingua dei Goti e la riscoperta dei testi di Wulfila. Quindi il gotico di chi ha scritto quei testi e quello di chi li ha riscoperti sono da considerarsi due lingue appartenenti a due diverse trafile evolutive. La prima di queste trafile parte dalla più lontana preistoria e giunge a un punto morto, con l'estinzione della lingua parlata. La seconda di queste trafile è artificiale e parte secoli dopo la fine della prima, proprio dal rinvenimento delle sue tracce e dalla loro rielaborazione. 
  
Alla luce di ciò che abbiamo esposto, dobbiamo giungere alla desolante conclusione che le tesi di Akulov-Nonno siano poco fondate. La produzione di pronunce spontanee in una data lingua non è sufficiente a far sì che questa sia in automatico etichettabile come lingua viva. Procediamo con l'analisi di altri casi di un certo interesse. 
 
Primo Levi in Polonia
 
Primo Levi, che fu internato ad Auschwitz e quindi a Monowitz (Auschwitz III), nel febbraio del 1945 intraprese un lunghissimo viaggio a piedi che lo portò a Torino, seguendo un percorso molto tortuoso attraverso l'Ucraina, la Bielorussia e la Romania. Ricordo bene di aver letto che appena il campo di Auschwitz-Monowitz fu abbandonato all'arrivo dell'Armata Rossa, lo scrittore torinese si trovò in un paese a lui sconosciuto, la Polonia, di cui ignorava del tutto la lingua. La gente era ostile e lui non trovava aiuto né sostegno. All'improvviso gli venne in mente di parlare in latino a un sacerdote, che lo capì, lo portò in un refettorio e gli fece dare da mangiare. Per questo si convinse che il latino potesse essere una lingua viva e vitale, anche se era ben consapevole dell'effetto surreale del suo utilizzo per conversare sulle cose dei tempi moderni. Con queste parole Primo Levi ci ha descritto la sua esperienza nel romanzo autobiografico La tregua (1963):
 
"La mensa dei poveri era dunque dietro alla cattedrale: restava da stabilire quale, fra le molte belle e chiese di Cracovia, fosse la cattedrale. A chi chiedere, e come? Passava un prete: avrei chiesto al prete. Ora quel prete, giovane e di aspetto benigno, non intendeva né il francese né il tedesco; di conseguenza, per la prima e unica volta nella mia carriera postscolastica, trassi frutto dagli anni di studi classici intavolando in latino la più stravagante ed arruffata delle conversazioni. Dalla iniziale richiesta di informazioni («Pater optime, ubi est mensa pauperorum?») venimmo a parlare di tutto, dell’essere io ebreo, del Lager («castra»? Meglio Lager, purtroppo inteso da chiunque), dell'Italia, della inopportunità di parlare tedesco in pubblico (che avrei compreso poco dopo, per esperienza diretta), e di innumerevoli altre cose, a cui l'inusitata veste della lingua dava un curioso sapore di trapassato remoto."  
 
A dover esser franco, credo che una parola molto idonea per tradurre Lager esista in latino: carcer. Non riesco a capire perché a Levi sia venuta in mente la traduzione castra "accampamento", quasi letterale, ma non il concetto di "prigione", ontologicamente più verosimile.
 
Un anziano latinista in Russia 

In Quora, pessimo social più inutile dei peti di un mulo, mi sono imbattuto anni fa in un attempato utente con la nobile passione per la lingua latina. Non menziono il suo nominativo per questioni di riservatezza, visto che non vorrei recargli fastidio: il mio scopo è solo di conoscenza. Riporto alcune sue interessanti opinioni. Eccone una: 

"Anni fa, prima di studiare il russo, mi successe in un treno in Russia di usare il latino come lingua franca con dei russi che non parlavano inglese. Con sommo imbarazzo mio e di mia moglie, lo conoscevano meglio di noi. NON è una lingua morta." 
 
E ancora: 
 
"Non dicevo che il latino non è una ligua morta perchè occasionalmente lo ho usato come lingua franca. Dicevo che non è una lingua morta perché il Russia ho trovato persone che lo conoscevano meglio di me. Cioè è parte della cultura universale che definisce il bsagaglio (sic) della civiltà umana, ed è vivo perché ancora studiato e praticato, come parte viva della cultura." 

Non ho tardato a rispondere: 

"Come avete imparato il latino tu e tua moglie? Dai libri, dalle grammatiche, dai dizionari. Come hanno imparato il latino i russi in questione? Proprio allo stesso modo. Nessuno l’ha imparato dalla propria madre quand’era bambino, come prima lingua. Quindi È una lingua morta. Immaginiamo che un uomo abbia appreso il sumerico, vada in Israele e trovi quattro professori con cui discorrere in quella lingua. Non si potrà dire che per questo il sumerico sia una lingua viva. Questa è la realtà dei fatti, se poi si vuole fantasticare, si è liberissimi." 
 
E ancora: 
 
"Tecnicamente parlando, il latino è una lingua morta per il fatto incontestabile che nessuna madre lo usa per crescere i propri figli. Tuttavia una lingua morta non è affatto un mucchietto di polvere: può benissimo essere parlata in alcuni ambienti e continuare a dare prestiti a numerose lingue viventi. Il latino ecclesiastico nel Medioevo è stato una lingua franca che permetteva di comunicare su scala europea. Tuttora è usato in Vaticano (ci sono persino sportelli del bancomat con istruzioni in latino). Il sumerico fu parlato per secoli dagli scribi e dai sacerdoti, anche dopo che aveva smesso di essere usato nelle famiglie. Non solo: continuò a dare un fiume di prestiti all’accadico." 
 
Non sembra che le mie osservazioni abbiano sortito qualche effetto: l'anziano quorano si è chiuso nel suo ostile silenzio, senza dubbio tenendosi le sue idee. 
 
Comunità latinofone online  

Sempre in Quora, mi sono imbattuto in qualcosa di veramente mirabile. Questo ha scritto l'utente Luke Ranieri:
 
Essendo una persona che parla il latino correntemente, e trovandomi nell’ambiente di altri parlanti, vi posso dire che ci sono infatti delle madri (e padri) che insegnano ai loro figli a parlare il latino, anche se questi individui sono pochissimi. Ammettiamo che non c’è nessun paese dove si parla il latino; purtroppo il Vaticano quasi non lo usa, preferendo l’italiano (che è a me tanto caro quanto il latino). Invece ci siamo noi entusiasti del parlare del latino, che ci troviamo in grandi conferenze dove la sola lingua è quella antica romana, e ci incontriamo in quasi tutte le città maggiori dell’occidente, chiacchierando nei caffè e fra noi sulle strade. Possiamo contare più di trecento amici e conoscenze con coi parlo solo in latino. Visto che il latino compone una parte importante della mia vita quotidiana, vi posso assicurare che è vivissima. Ecco un esempio, un vlog ho fatto a Napoli, dove vedrete qualche persona che chiacchiera in latino:  
 
Vlog #1 GrecoLatinoVivo; Naples (Tours in Latin) / Neapolis (Peregrinationes Latine)  



La pronuncia è perfetta, sembra proprio quella che avrebbero usato Cicerone e Cesare. Mi complimento per lo sforzo, che ha qualcosa di incredibile. Certo, ci sono alcuni neologismi problematici, che nulla tolgono alla grandezza dei risultati. 

Certo, sono venuti a sapere che c'è un piccolo numero (nemmeno piccolissimo) di persone che insegnano ai figli il latino classico con un'ottima pronuncia. Mentre perdevo tempo a guardare video pornografici e a scribacchiare in questo blog, qualcuno si dava da fare ed è riuscito a fondare una vera e propria comunità latinofona. Tuttavia non credo affatto che queste persone insegnino il latino ai loro figli come prima lingua. Lo insegneranno a bambini che hanno già appreso alla perfezione l'italiano. Anche perché se in questa nazione qualcuno insegnasse come prima lingua ai figli qualcosa di diverso dall'italiano, prima o poi si manifesterebbe un esserino non proprio simpatico, chiamato "assistente sociale". Arriverebbe una Signorina Spinosetti, con un potere spropositato, che potrebbe addirittura decidere di sottrarre i pargoli alla patria potestas.

Nessuno potrà negare che la lingua dei latinofoni in questione sia una lingua parlata. Allo stesso modo, nulla potrà mai obliterare lo spaventoso iato temporale che intercorre tra l'estinzione della lingua di Cicerone e i suoi diversi revival occorsi in tempi moderni. Quindi il latino dei testi classici e quello di chi ha deciso di usarlo nella vita quotidiana sono da considerarsi due lingue appartenenti a due diverse trafile evolutive. La prima di queste trafile parte dalla più lontana preistoria e giunge alla separazione tra il latino aulico (sermo nobilis) e quello del popolo (sermo vulgaris). La seconda di queste trafile è artificiale e parte secoli dopo l'esaurimento della prima, proprio dallo studio dei suoi monumenti storici e dalla loro rielaborazione. Nemmeno l'uso pratico e quotidiano di una lingua come il latino può far sì che questa sia confusa con una lingua viva.

Il caso di Montaigne 
 
Riporto un caso assai singolare, quello del filosofo, scrittore, aforista e politico francese Michel Eyquem de Montaigne (1533 - 1592), una delle figure di maggior spicco del Rinascimento francese. La famiglia era di origine mercantile e marrana, sia da parte di padre che da parte di madre. Fu cresciuto da un precettore tedesco di nome Hortanus, un medico, che ebbe l'ordine di parlargli unicamente in latino. Anche gli altri membri della famiglia del bambino che ebbero contatto con lui gli si rivolgevano allo stesso modo, evitando di farsi scappare anche soltanto una parola in francese. Accadde così che a tredici anni Michel sapeva parlare solo il latino, ignorando persino l'esistenza di altre lingue e credendo che tutti naturalmente si esprimessero in latino. Quando fu inviato dal padre al collegio Guyenne a Bordeaux, poté finalmente apprendere il francese e il greco antico. Si pone la questione della pronuncia usata da Hortanus e da Montaigne nelle loro conversazioni in latino. Hortanus doveva essere stato educato nella pronuncia ecclesiastica tedesca, molto diversa da quella in vigore in Francia. Cosa aveva fatto? Aveva imposto al suo pupillo la propria pronuncia o si era adattato a quella usata nella nazione in cui si trovava? Nel primo caso, il giovane avrebbe avuto qualche difficoltà di comunicazione una volta giunto al collegio Guyenne. Non si trova la benché minima traccia di queste problematiche nelle fonti. Il mio sospetto è che possa trattarsi di una leggenda interamente fabbricata.
 
Villaggi sanscritofoni in India 
 
In India, nello Stato federato di Karnataka, ci sono i due villaggi di Mattur e Hosahalli. Si trovano nel distretto di Shimoga (Shivamogga), lungo il corso del fiume Tunga. Sono venuto a conoscenza della loro esistenza per una fortunata circostanza, quasi per serendipità nel vasto Web. Questi centri abitati del meridione del subcontinente indiano hanno una peculiarità di non poco conto: in essi il sanscrito è una lingua viva e tramandata di generazione in generazione. L'antica lingua vi è talmente coltivata che gli abitanti si considerano i suoi custodi. Bizzarramente, il Karnataka è un territorio la cui lingua maggioritaria è dravidica, mentre le lingue indoarie sono parlate da minoranze. La lingua più comune, il Kannada, è parlato dai due terzi della popolazione. La sanscritizzazione ha avuto origine agli inizi del XVI secolo, quando la comunità brahminica dei Sankethi, originaria del Kerala, si stabilì nei pressi di Shivamogga e ricevette dall'Imperatore Krishnadevaraya l'incarico di far prosperare la lingua vedica attraverso la fondazione di centri di apprendimento. L'augusto compito è stato portato avanti in modo scrupoloso nel corso dei secoli, ma con fortune alterne. Va infatti detto che nel 1980 la lingua quotidiana parlata a Mattur era ormai il Kannada. A un certo punto un sacerdote, Pejawar Mutt, diede un forte impulso alla restaurazione dell'uso corrente del sanscrito. La gente riuscì a sanscritizzarsi, questo è narrato, parlando la lingua vedica soltanto due ore ogni giorno per dieci giorni consecutivi. Oggi a Mattur e a Hosahalli tutti parlano in sanscrito, anche i bambini. Ecco alcune semplici frasi che tuttora risuonano in quei luoghi:
 
katham asti? "dove sei?" 
aham gacchami "io vado" 
tvam kutra gacchati? "dove vai?" 
aham vidyalayam gacchami "vado a scuola"
shubham bhavatu "possa accadermi il bene" 
aham jalam pibami "bevo l'acqua" 

In questo caso siamo di fronte a una lingua il cui uso è addirittura vibrante, pur essendo stata ripristinata in modo artificiale. Se dovessimo tracciare la linea evolutiva del sanscrito, vedremmo subito che presenta discontinuità ineliminabili. Nulla potrà mai obliterare lo spaventoso iato temporale che intercorre tra il contesto in cui furono scritti i testi vedici e la i tardivi progetti di sanscritizzazione. Quindi il sanscrito di chi ha scritto i testi vedici e quello di chi li insegna a Mattur e a Hosahalli sono da considerarsi due lingue appartenenti a due diverse trafile evolutive. La prima di queste trafile parte dalla più lontana preistoria e giunge a un punto morto, con la formazione delle lingue pracrite. La seconda di queste trafile è artificiale e parte secoli dopo la fine della prima, proprio dall'accurato studio delle sue tracce e dalla loro rielaborazione.
 
Il Nahuatl dei narcos 
 
Sono venuto a sapere che la nobilissima lingua Nahuatl, che fu parlata dagli Aztechi, ha acquisito una terribile fama in California, in Nuovo Messico e altrove perché tra i narcos molti l'hanno appresa e la usano come gergo segreto per non farsi capire dalla polizia. A quanto pare, non c'è stato apprendimento di una delle varietà di Nahuatl moderno tuttora parlate in Messico (spesso mutuamente incomprensibili), bensì di qualcosa che si avvicina abbastanza alla lingua classica - seppur in forma molto semplificata. Manca la lunghezza vocalica fonemica, mancano le architetture grammaticali tipiche del linguaggio fiorito azteco (ad esempio i complicatissimi verbi onorifici, etc.), con l'eccezione di poche forme fossilizzate; si ravvisano molti calchi semantici e sintattici dall'inglese, dallo spagnolo e via discorrendo. 
 
"Tlen ajko ika inon siuatl?", tradotto in inglese con "What's up with this woman?" 
 
Dubito che il glorioso Imperatore Ahuitzotl avrebbe detto qualcosa del genere. Chiaramente tlen ajko (per tlen ahco) è una traduzione letterale dell'inglese what's up, quindi un calco. Si noterà che per molti macellai di questo tipo, la frase avrebbe funzionato benissimo se enunciata come "Tlen ajko ika inon pitsotl", essendo le parole siuatl "donna" e pitsotl "maiale" quasi intercambiabili. In particolare pitsotl ha anche il senso di "poliziotto, sbirro". Il plurale è pitsomej "poliziotti, sbirri". Il significato di siuatl, usato per rivolgersi un uomo, coincide poi con quello di kuiloni "omosessuale passivo". Nota: il Nahuatl non possiede genere grammaticale, neppure nei pronomi di terza persona, eppure la società azteca era tutt'altro che "tollerante", "aperta" e "inclusiva". Non era la famosa società sciolta di Baumann. Ecco un elenco di parole, in cui si possono notare diversi adattamenti ai tempi moderni: 
 
achautli "capo della gang"  
auilnema "copula"
ilui "giorni" 
kali "cella" (lett. "casa") 
kapuli "scuola" 
kimichimi "spia, informatore" (lett. "ratto") 
kuilonyotl "detenuto in schiavitù sessuale"
    (lett. "sodomia")
malinali "marihuana" (lett. "erba")
mixpatsinko "saluti"
momo "la tua mano" 
pili "signore"  
tlilipol "neri"
vei "grande"
vel "buono" 
yakatl "punta" (lett. "naso")
yuali "notte"  
 
Si nota che kimichimi "spia, informatore" è un calco dell'inglese rat, che ha lo stesso significato nel gergo carcerario statunitense (Nahuatl classico quimichin /ki'mitʃin/ "topo"). Invece vediamo che kuilonyotl è tradotto con "punk", che nel gergo carcerario statunitense significa "detenuto in schiavitù sessuale": in questo caso la parola Nahuatl è indipendente da quella inglese. Non essendo specificata l'accezione della glossa punk, si corre il rischio di fraintendere e di credere che kuilonyotl designi un tale con la pettinatura a cresta e gli orecchini nel naso! Si notano sviluppi fonetici peculiari, come la vocale posteriore -o da una più antica vocale centrale lunga finale di parla. Esempio: momo "la tua mano", da Nahuatl classico momā. Riporto un paio di link per approfondimenti:     



I parlanti di questo Nahuatl si definiscono Chicanos e non hanno necessariamente contatti con gli Indios, che sono i parlanti delle varietà moderne di Nahuatl giunte per naturale evoluzione ininterrotta dal Messico precolombiano, seppur soggette a forte inflenza dello spagnolo. Questo genera un paradosso sorprendente: la nascita di nuove comunità di utenti di una forma di Nahuatl, che non si considerano indigene e che potrebbero persino mantenere un atteggiamento di disprezzo nei confronti degli Indios. 

Il movimento Anahuac
e il partito Mexicayotl

Esistono in Messico movimenti ultranazionalisti che predicano la restaurazione della lingua Nahuatl imperiale e della religione azteca. Rodolfo Nieva fondò nel 1960 il Movimiento Confederado Restaurador de la Cultura del Anáhuac (Movimento Confederato Restauratore della Cultura dell'Anahuac), realizzando una serie di rituali e cerimonie civico-religiose in cui i sacerdoti rivendicavano il potere di comunicare con i propri Antenati. Qualche anno più tardi, nel 1965, sorse il partito Mexicayotl, anche noto come Partido de la Mexicanidad (Partito della Messicanità), che riprende le finalità principali del movimento di Nieva.  

Obiettivi del partito Mexicayotl:

1) Far rivivere la razza messicana, che consiste di: 
  a) messicani nativi puri,
  b) messicani di sangue misto 
  c) tutti coloro che vivono nel Paese.
2) Stabilire la filosofia messicana (come base di interpretazione del mondo). La sua principale funzione deve essere l'eliminazione della corruzione nel Paese. 
3) Ristrutturare la Nazione. 
  a) Tutti i messicani devono godere di sufficiente assistenza sociale.
  b) Solo la gente messicana deve controllare le funzioni del potere pubblico.  
4) In sintesi: il partito intende portare avanti la sua alta missione culturale assegnatagli dal Destino. 
 
Inoltre: 
 
I) Accettazione del Nahuatl come lingua nazionale 
II) Rivitalizzazione della filosofia Nahuatl come fondamento della vita nazionale 
III) Accettazione e messa in pratica del calpulli comunale come struttura economica del Paese.   
 
Nel 1993 fu fondato a Los Angeles il Mexica-Movement, anche noto come Mexica-Mexicaolin o CMMEC (Chicano Mexicano Mexica Empowerment Committee), che continua negli Stati Uniti gli obiettivi del Movimiento Confederado Restaurador de la Cultura del Anáhuac. I suoi membri studiano il Nahuatl, danno ai loro figli nomi Nahuatl e adottano cerimonie di origine preispanica. Il punto dolente è l'impossibilità di restaurare i sacrifici umani e la credenza che al sangue delle vittime si debba il moto del Sole. Per maggiori dettagli rimando a questo link: 
 

Il concetto di lingua storica 
 
A questo punto possiamo formulare una definizione di lingua storica
 
1) non è insegnata in famiglia dalle madri ai figli come prima lingua;  
2) non è la lingua ufficiale di nessuna nazione del nostro tempo; 
3) ha una grande importanza culturale e storica; 
4) è appresa tramite studio, ad esempio a scuola; 
5) ha una pronuncia convenzionale, che non è necessariamente autentica, la cui tradizione è scolastica;  
6) in alcune particolari circostanze può essere usata come mezzo di comunicazione.
 
Questi sono i corollari che ne discendono: 
 
I) una lingua storica è una lingua morta ma non dimenticata; 
II) una lingua storica, pur morta, può avere manifestazioni di lingua parlata, quindi vivente; 
III) una lingua storica ha di conseguenza una natura paradossale. 

Una lingua storica appartiene quindi a una categoria diversa e separata da quelle delle lingue vive e delle lingue morte o estinte.
Una lingua storica non è una lingua appartenente a una linea evolutiva naturale. Se tuttavia si riesce a fondare una comunità stabile e duratura di parlanti, dalla lingua storica rivitalizzata ha origine una nuova linea evolutiva naturale (ben distinta da quella vecchia).

Oltre alla comunità latinofona partenopea, possiamo considerare il caso della lingua neoebraica ufficiale in Israele, che è molto particolare: dalla lingua storica (ebraico biblico, ebraico mishnaico, etc.) è derivata una lingua fatta per essere parlata diffusamente e usata come lingua ufficiale. Possiamo dire quindi che il neoebraico di Israele, nato da una lingua storica, sia diventato a tutti gli effetti una lingua viva. Quello che mi preme di sottolineare, è che non si è trattato di una vera resurrezione linguistica, ma della costruzione di una lingua nuova.  

C'è infine un ultimo corollario, che a mio avviso è anche il più importante:
 
IV) Una lingua storica è sempre una costruzione ideologica.