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sabato 25 settembre 2021

UN RELITTO ETRUSCO IN TOSCANO: COTA 'TIPO DI CAMOMILLA'

Una glossa etrusca tramandata da Dioscoride è καυτάμ (kautám), che designa una pianta conosciuta in latino come Solis oculi, ossia "occhio del sole" (TLE 823). Il fitonimo è un "evidente richiamo al fuoco e alla sfera solare" (Sannibale, 2007). Appare manifesta la sua identità con il teonimo etrusco Cautha (Cauθa, Cavθa-, Cavaθa-, Kavθa, Caθa, Caθ), che designa una divinità solare femminile, le cui caratteristiche sono poco chiare. Marziano Capella (IV-V sec.) la chiama Celeritas e la definisce Solis filia "Figlia del Sole" (Lib. I, § 50). Così ha scritto: "Vos quoque Iovis filii, Pales et Favor, cum Celeritate, Solis filia, ex sexta poscimini; nam Mars Quirinus et Genius superius postulati", ossia "Anche voi Figli di Giove, Pale e Favore, con Celerità, Figlia del Sole, dalla Sesta (Regione) siete richiesti; dunque Marte Quirino e il Genio più sopra sono stati richiesti". La terminazione del fitonimo indica che con ogni probabilità il vocabolo καυτάμ è stato preso da un testo in latino, in cui figurava al caso accusativo. La consonante -τ- in luogo dell'attesa aspirata -θ- si spiega pure con il fatto che Dioscoride deve aver tratto il vocabolo da un documento in latino, anziché dalla viva voce di un informatore. 

Riporto un interessantissimo brano del medico e botanico Dioscoride (circa 40 d.C. - circa 90 d.C.). Consiste in una lista di denominazioni greche di piante; quindi sono riportate due denominazioni latine di una pianta, seguite dalla traduzione in etrusco, punico, gallico e dacico. 
 

[138]    RV: ἀμάρακον· οἱ δὲ ἀνθεμίς, οἱ δὲ λευκάνθεμον, οἱ δὲ παρθένιον, οἱ δὲ χαμαίμηλον, οἱ δὲ χρυσοκαλλίας, οἱ δὲ μαλάβαθρον, οἱ δὲ ἄνθος πεδινόν, Ῥωμαῖοι σῶλις ὄκουλουμ, οἱ δὲ μιλλεφόλιουμ, Θοῦσκοι καυτάμ, Ἄφροι θαμάκθ, Γάλλοι οὐίγνητα, Δάκοι δουώδηλα. 
 
Le denominazioni greche di piante sono in tutto otto: 
 
1) ἀμάρακον (amárakon
2) ἀνθεμίς (anthemís
3) λευκάνθεμον (leukánthemon
4) παρθένιον (parthénion
5) χαμαίμηλον (chamáimēlon
6) χρυσοκαλλίας (chrysokallías
7) μαλάβαθρον (malábathron
8) ἄνθος πεδινόν (ánthos pedinón)

La prima denominazione, amárakon, indica la maggiorana (Origanum majorana). Diverse delle altre indicano specie tra loro simili o sono addirittura sinonimi: così leukánthemon indica la margherita (Leucanthemum vulgare) mentre ánthos pedinón è un sinonimo di anthemís e di chamáimēlon, che indica la camomilla (Matricaria chamomilla), notoriamente somigliante a una margherita. Il parthénion è anch'esso una pianta il cui aspetto è affine a quello di una margherita: è ancor oggi conosciuto come partenio (Tanacetum parthenium) e detto popolarmente amarella, amareggiola, maresina, erba amara, erba 'mara, erba magra. Invece il malábathron è il cinnamomo o tejpat (Cinnamomum verum), il cui aspetto è del tutto diverso.  
Il termine latino millefolium, trascritto come μιλλεφόλιουμ, dovrebbe indicare l'achillea (Achillea millefolium); tuttavia è indicato come suo sinonimo sōlis oculum "occhio del sole", trascritto come σῶλις ὄκουλουμ. Esiste la possibilità che il fitonimo indicasse diverse specie. In ogni caso, queste sono le sue traduzioni: 
 
Etrusco: καυτάμ (kautám)
Punico: θαμάκθ (thamákth
Gallico: οὐίγνητα (vignēta
Dacico: δουώδηλα (duōdēla)  
 
Tutto ciò è estremamente utile: stupisce che queste conoscenze antiche non abbiano avuto l'utilizzo che meritavano. Si noterà l'accuratezza della trascrizione del vocabolo punico, in cui θ trascrive un'aspirata /th/, mentre in etrusco lo stesso suono non è stato reso allo stesso modo come avrebbe dovuto. Dei vocaboli della lingua punica, gallica e dacica, tratteremo in altra sede. Credo che sia necessario compiere indagini più approfondite.   

Dato l'estremo interesse dell'informazione, la riporto senza esitare, avendola estratta dal Web non senza fatica e avvalendomi del diritto di citazione. La fonte è il Grande dizionario della lingua italiana, dell'Accademia della Crusca. Questo è il link al visualizzatore: 

 
Còta1, sf. bot. ant. e dial. antemide, varietà della camomilla. 
   Anonimo guelfo, v-330-10: colte ne sono le rose e le viuole, / ed évi nata cota e coregiuola: / cierto bene credo vi paia pecato. / maraviglia mi fo, se non vi duole / di quelli che vivono d'imbolio di suola / ed ànno fatto ciascuno di sé casato. Tommaseo [s. v.]: 'Cota', nome volgare di due specie d'antemide: Anthemis cotula e Anthemis altissima di Linneo. 
Tramater [s. v.]: 'Cota', specie di pianta del genere Anthemis, che appartiene alla singenesia superflua, famiglia delle corimbifere. si distingue per le foglie due volte pennate, e le pagliette del ricettacolo terminate da una punta pungente più lunga de' fioretti. trovasi tra le biade, ed è raccolta con le altre erbe per pastura de' bestiami. 
   = Voce d’area toscana, di etimo incerto, che si congettura d’origine etnisca,  da una forma *cauta, che sarebbe derivata da Cautha, con cui gli Etruschi denominavano la * divinità del Sole ’ : per la forma circolare e il colore giallo del fiore (l’antemide fu detta dagli antichi 'occhio del sole ’).
Cfr. anche COTULA. 
 
Questa è la sacrosanta verità: il fitonimo còta è di origine etrusca: è derivato dal teonimo Cautha, il condizionale è del tutto inutile. Anche Pittau aveva sostenuto questa etimologia. 
 
Un fitonimo còtula, oggi usato per indicare la camomilla fetida (Anthemis cotula) e altre piante simili, è un evidente diminutivo di còta. Tuttavia i romanisti hanno pensato di forgiare un'etimologia fittizia dal greco  κοτύλη (kotýle), che significa "ciotola, coppa, tazzina". L'idea malsana è che la parola greca indichi gli organi concavi, a forma di coppa, di questo genere di fiori. Contro gli autori di queste invereconde manipolazioni dovrebbero essere scagliate maledizioni nell'arcana lingua di Hyperborea, tratte dal Libro di Eibon!    

Mi si accuserà di essere un complottista, ma nel nostro mondo alcuni complotti esistono realmente, non sempre sono fantasie distorte di paranoici terminali o di gente scema come le feci dei bradipi. Nascondere qualcosa di capitale importanza, trattarlo come polvere sotto un tappeto, questa è una strategia abbastanza frequente nel mondo accademico. Queste evidenze possono soltanto mostrare una cosa: la conoscenza della lingua degli Etruschi è possibile ma in qualche modo interdetta. Per quanto difficile a ottenersi, non viene resa pubblica, si tende a nasconderla, viene ostacolata con ogni mezzo. Alcuni romanisti hanno trovato la verità su un'etimologia e l'hanno esposta in un articoletto dell'Accademia della Crusca, non l'hanno potuta negare, però l'hanno messa in qualche cantuccio recondito, come se fosse una bazzecola, una bagatella.  

Possibile etimologia di Cautha

In greco esistono parole derivate da una radice *kau- "ardere, bruciare", che non ha convincenti corrispondenze indoeuropee. Con ogni probabilità questa radice è un antichissimo relitto pre-ellenico che sopravviveva anche in etrusco. Ecco alcuni dati interessanti: 

καίω (káiō) "io brucio" 
 
Semantica: 
  1) accendere, mettere sul fuoco 
  2) bruciare, ardere 
  3) bruciare per il gelo (es. per la brina)
  4) ardere di passione (voce passiva)
  5) fare un fuoco per sé (voce media)
  6) cauterizzare 

Alcune parole derivate: 

καυστός (kaustós) "bruciato" 
   variante (nelle iscrizioni): καυτός (kautós
καῦμα (kâuma) "calore del sole", "ardore", "febbre", "marchio 
   a fuoco" 
καυαλέος (kaualéos) "calore ardente" (eolico) 
καημένος (kaēménos) "povero" 
κᾶλον (kâlon) "legna secca" 
καῦσις (kâusis) = καῦμα
καύσων (káusōn) "calore ardente", "scirocco"  
κηώδης (kēṓdēs) "fragrante, odoroso" (omerico) 
κήλεος (kḗleos) "ardente, sfolgorante"  
πυρκαϊά (pyrkaïá) "pira funebre", "rovine bruciate" 

A partire dai dati riportati sopra, è stata ricostruita una radice indoeuropea *k(')eh2w- "ardere" (notazione laringale), di cui però non esistono paralleli sicuri al di fuori del greco. Pokorny ha la seguente ricostruzione: *k̂ēu- / *k̂ǝu- / *k̂ū- "anzünden, verbrennen", ossia "accendere, bruciare", apponendovi un punto interrogativo e mostrando una certa dose di scetticismo. Timidamente lo studioso ha proposto un esile riscontro in baltico: lituano kūlėti "brandig werden, vom Getreide", ossia "divenire cancrenoso (detto del grano)"; kūlė̃ "Getreidebrand", ossia "cancrena del grano" (fungo o muffa che colpisce i cereali). Possiamo aggiungere la parola lettone kūla, che dovrebbe corrispondere al lituano kūlė̃. Si tratta del carbone dei cereali, una malattia delle piante caratterizzata dalla formazione di una massa nera, dovuta ai funghi Ustilaginali parassiti. Attacca i cereali (frumento, avena ecc.) e altre piante (aglio, cipolla, scorzonera) con danni talvolta molto gravi; con "carbone" si denominano anche i diversi funghi. Si segnala la grande difficoltà di trovare informazioni su queste parole in Google. Detto questo, secondo Pokorny, la massa muffosa nera doveva trarre la propria denominazione da un'antica radice indicante la combustione: 
"cosa bruciata" => "carbone" => "carbone dei cereali"
Non sono sicuro di questa etimologia: le parole baltiche citate potrebbero anche essere resti di un sostrato pre-indoeuropeo (cosa plausibile, essendo termini agricoli): non è nemmeno detto che si possa dividere kūl- in kū-l-.  

Perché gli indoeuropeisti tendono a ricostruire una consonante palatale k'- in questa radice, quando né i dati del greco né quelli molto dubbi del baltico ne offrono una giustificazione? Credo che sia per questo: si pensava di trovare esiti di *k'eh2w- nelle lingue iraniche. Anche se Pokorny non menziona esiti iranici, ricostruisce una radice *k̂euk- "leuchten, hell, weiß sein, glühen", ossia "risplendere, chiaro, essere bianco, splendere". Ne riporta quindi questi esiti: 
 
Avestico: saočint- "brennend" ("ardente")
Avestico: saočayeiti "inflammat = incitat"
Persiano moderno: sōxtan "anzünden, verbrennen" 
       ("accendere, bruciare")
Avestico: upa-suxta- "angezündet" ("incendiato") 
Avestico: ātrǝ-saoka- (m.) "Feuerbrand" ("tizzone")
Persiano moderno: sōg "Trauer, Kummer" ("dolore"); 
     Armeno: sug "dolore" (è un prestito iranico) 
Avestico: suxra- "leuchtend (vom Feuer)", "splendente 
    dal fuoco")
Persiano moderno: surx "rot" ("rosso") 

Come si vede, è una giungla di possibilità confuse.
 
Checché se ne dica, la radice *kau- "bruciare" presente in greco è di origine ultima tutt'altro che chiara e non può essere affatto garantita la sua origine nelle Steppe. Ovviamente ci sono alcuni moderni eredi dei Neogrammatici, pronti a strepitare e a giurare il contrario, per giunta accusandomi di essere "dogmatico". Fanno così perché prendono ordini da Dugin. 
 
Intanto ricostruisco questa radice: 
 
Proto-tirrenico: *kawa- "bruciare", "splendere"  
    Etrusco: Kav(a)θa "La Splendente"      
 
Il suffisso -θa è un marcatore del genere femminile, che troviamo nella parola lautniθa "liberta", derivata da lautni "liberto", a sua volta da lautn "gente, famiglia". Notevole è l'antroponimo femminile Pevθa, la cui radice è quella di peva- "miele", attestata nel Liber Linteus: pevaχ vinum "vino mielato", "mulsum". Evidentemente Pevθa significa "Ape femmina" ed è simile nella formazione al greco μέλισσα (mélissa) "ape", derivato da μέλι (méli) "miele". Si noti che il genitivo di Cauθa è sigmatico: Cauθas, Cauθaś, Kavθaś "di Cautha".   

Cautes e Cautopates 
 
Il culto di Mithra, molto diffuso durante l'Impero, era di chiara origine persiana, pur acquisendo nel contesto romano caratteristiche proprie. L'iconografia di questa religione mostra che Mithra aveva due assistenti, i cui nomi erano Cautes e Cautopates. Erano due tedofori. Cautes aveva una torcia puntata verso l'alto, mentre Cautopates aveva una torcia puntata verso il basso. Indossavano pantaloni frigi e berretto frigio. Assistevano alla Tauroctonia, così come alla nascita di Mithra; dal loro vestiario nacque l'equivoco di chi li ha confusi con pastori. Ecco perché circolano nel Web vignette memetiche in cui si dice che alla nascita del Dio hanno assistito i pastori, come quelli che hanno assistito alla nascita di Gesù a Betlemme. Cautes e Cautopates hanno una connessione con il sorgere del sole e con il suo tramonto: le loro torce sembrano alludere alla grande luminaria celeste. In diverse tradizioni si trovano figure simili. È stato fatto un paragone con gli Ashvin indiani e con i Dioscuri. Si deve però tener conto che tutti i culti solari hanno per necessità qualcosa di simile, traendo il loro fondamento da un fenomeno fisico percepibile dall'intero genere umano. 
I due teonimi mithraici non hanno tuttora una spiegazione convincente. Non sono state proposte etimologie, a quanto ne sappia. Questo è molto sorprendente. Non è detto che Cautes e Cautopates siano nomi di origine persiana, visto che nelle lingue iraniche non si è riusciti a trovare alcun parallelismo. Sostengo che potrebbe trattarsi invece di elementi etruschi integrati nella religione di Mithra, per come era praticata nell'Impero Romano.  

martedì 21 settembre 2021

UN RELITTO ETRUSCO IN TOSCANO: SERQUA 'DOZZINA'

Tempo fa mi sono imbattuto in un vocabolo toscano quasi sconosciuto al grande pubblico e dotato di un aspetto fonetico assai inconsueto, peculiarissimo: serqua "dozzina", che ha anche il significato colloquiale di "gran quantità". Talvolta la serqua è una gang, una banda, un gruppo di malfattori, di lestofanti o altra canaglia. Per quanto riguarda la pronuncia, a quanto pare la vocale tonica è chiusa: sérqua (fonte: Vocabolario Treccani). Tuttavia si deve riportare che una variante attestata è sarqua.

Ecco cinque esempi dell'uso della parola, tratti dal Vocabolario Treccani: 
 

i) una serqua d'uova = una dozzina di uova 
ii) un libricciolo Di mezza serqua di sonetti (Giuseppe Giusti)*
iii) gli ha dato una serqua di botte 
iv) Teresa rispondeva con una serqua d'ingiurie e di parolacce (Carlo Levi) 
v) siamo in mano di una serqua di sagrestani (Luigi Capuana)  

* Ecco un estratto più completo e significativo:

Mi segue un contadin di Fattoria
Che mi discorre d’olio e di bestiame,
E mi domanda quando piglio moglie;
Sfruconandomi dietro il palafreno
E ansimando su su per la salita
Con un sacco in spalla, ove son chiusi
Dante, Virgilio, Giovenale, un rotolo
Di fogli rabescati, un libricciolo
Di mezza serqua di sonetti, dono
D’un manescalco del cavallo alato.

I romanisti hanno ricondotto serqua al latino siliqua "baccello", giunta ai tempi odierni tramite la genuina usura del volgo. Ricordo ancora la Parabola del Figliol Prodigo, in cui l'esule si trovava costretto, dopo aver dilapidato con le prostitute la sua parte di eredità, a cibarsi delle silique che venivano date ai porci. 
 
Ecco quanto riporta su questo termine Wikipedia in latino: 
 
 
Nomen substantivum

sĭlĭqu|a, -ae fem.  
 
1. Capsula plantae leguminariae.
2. plur. | Legumina.
3. Species plantae, taxonomice
Ceratonia siliqua; idem quod siliqua Graeca. 
4. → foenum Graecum
5. Pondus minus; etiam, nummus qui ⅟₂₄ solidi valuit.  

Traduzione in italiano:

1. Capsula della pianta leguminosa 
2. plur. | Legumi 
3. Specie di pianta, tassomomicamente Ceratonia siliqua; la stessa cosa di siliqua greca
4. → Fieno greco 
5. Misura di peso minore; anche, moneta che valeva ⅟₂₄ del solido.
 
L'etimologia fornita dalla Wikipedia si deve a Julius Pokorny:  

Per *sciliqua, dalla radice proto-indoeuropea *skel- (Pokorny, 1959, pp. 923-927). 

In altre parole, si suppone che si sia avuta una dissimilanzione del gruppo consonantico iniziale sc- /sk/ ad opera della consonante labiovelare -qu- /kw/

*/'skelikwa/ => */'skilikwa/ => /'silikwa/ 

La radice proto-indoeuropea ricostruita dal Pokorny come *(s)kel-, in notazione laringale è *(s)kelH- e significa "tagliare; dividere, separare": 


Una simile dissimilazione è presupposta dal Pokorny anche per un'altra parola latina foneticamente simile e ricondotta alla stessa radice indoeuropea *(s)kel-: silex "pietra, roccia", "rupe", "selce".

*/'skeliks/ => */'skileks/ => /'sileks/ 

In tutta franchezza, non trovo molto convincenti queste etimologie, anche se Pokorny riporta una possibile connessione con l'antico irlandese sce(i)llec "roccia, masso" (glossa tedesca: Fels). Proprio la necessità di trovare un'etimologia sensata al toscanismo serqua mi spinge a formulare nuove teoria, che certamente non piaceranno al mondo accademico. 
 
Lo studio di Pittau 
 
Notiamo innanzitutto che dello studio di serqua si sono occupati in pochi. Tra questi possiamo sicuramente menzionare il professor Massimo Pittau (RIP). Nel vasto Web sono riuscito a trovare questa pagina, opera di Paolo Campidori: 
 
 
Lo stesso Campidori ha fatto un'intervista a Pittau, menzionata nell'articolo, in cui il professore sardo riconduce serqua al vocabolo etrusco śerϕue, attestato nel Liber Linteus. Si tratta di una voce enigmatica, finora lasciata senza spiegazione. Pittau la riconduce al numerale śar "dieci", anche se al momento non mi è nota una sua variante apofonica *śer-. Parimenti, non mi risulta chiaro il suffisso -ϕue; in ogni caso non credo che possa significare "due". Sarebbe più logico individuare in śerϕue il locativo in -e di *śerϕua, a sua volta plurale inanimato in -ua di *śerϕa, esso stesso molto oscuro - e siamo al punto di partenza. Secondo Pittau, il significato di śerϕue dovrebbe essere "dozzina": attribuisce proprio a questo termine l'origine del toscano serqua. Mi si lasci dire che il passaggio da -ϕu- /phw/ a -qu- /kw/ mi sembra piuttosto improbabile. Non mi intratterrò su altre peculiari idee di Pittau riguardo al numerale 12 in etrusco. 
 
Una soluzione innovativa

Sono convinto che la derivazione del toscano serqua non sia dal numerale śar "dieci", bensì dal numerale zal "due". Abbiamo una variante apofonica zel- attestata (zelarvenas, zelur, zelvθ). Si dovrebbe ricostruire *zelχva "dodici", "dozzina", parola formata col ben noto suffisso plurale e collettivo -cva, -χva. Sappiamo che i numerali presentano molte stranezze: una simile formazione non sarebbe in ogni caso impossibile. Si suppone ora che questo etrusco *zelχva sia passato in latino divenendo siliqua. Non sarebbe un caso isolato di corrispondenza tra etrusco -e- e latino -i- breve: basti pensare all'etrusco Selvans, che corrisponde a Silvānus (e al gentilizio etrusco Selvaθre, che corrisponde a silvester, silvestris).  
 
1) Soluzione dei problemi di derivazione
Il toscano serqua non sarebbe un derivato del latino siliqua. Invece sarebbe un diretto derivato della forma estrusca, come anche il latino siliqua. Queste due trafile sarebbero indipendenti. In questo modo, il processo di derivazione postulato dai romanisti sarebbe invertito. 
 
etrusco *zelχva => latino siliqua 
etrusco *zelχva => latino volgare *selchua, *serchua => 
      toscano serqua, sarqua  
 
2) Soluzione dei problemi fonetici 
La fonetica irregolare di serqua, che ha una rotica /r/ sviluppata da una liquida /l/, potrebbe essere dovuta al fatto che la parola è passata da una tarda forma di etrusco al latino volgare, con problemi di adattamento di gruppi consonantici non familiari, come /lkhw/, con la sua aspirata. Sarebbe invece molto meno comprensibile se serqua fosse derivato dalla forma latina siliqua: non si spiegherebbe bene l'evoluzione di una /l/ intervocalica in una rotica. La vocale -i- che si trova in siliqua ha l'aria di essere una soluzione più antica per evitare il gruppo consonantico. 
 
3) Soluzione dei problemi semantici  
Per quanto riguarda la semantica, Pittau riporta che "non si vede come dal concetto generico di “unità di misura” venga fuori anche il concetto specifico di “dozzina” e di “dodici”". Tuttavia il latino siliqua non esprime un concetto generico di "unità di misura", ma alcune unità di misura particolari, come 1/24 di solido, che potrebbero provenire direttamente dal concetto di "dodici" o essere comunque collegate. Postulare che da "dozzina" si sia arrivati ai significati della parola latina è in ogni caso verosimile. 
 
"dozzina" => "molte cose" => "baccello" (che contiene le fave, etc.) 
 
4) Soluzione dei problemi morfologici 
Il suffisso -qua, inusuale in latino, è invece molto comune in etrusco come plurale inanimato e collettivo: -cva, -χva (es. avilχval "degli anni", flerχva "sacrifici"). Ovviamente questo i romanisti non lo sanno e non lo vogliono nemmeno sapere, perché il loro unico riferimento è il vocabolario di latino usato a scuola, al massimo con qualche integrazione presa dal vocabolario di greco. 
 
Concordo appieno con la consclusione di Pittau: "relitti dell’antica lingua etrusca esistono tuttora nelle parlate della Toscana e del Lazio settentrionale". Ho preso molto sul serio il suo invito a indagare sull'argomento.  

domenica 19 settembre 2021

UN RELITTO ETRUSCO IN TOSCANO: BISCHERO 'STUPIDO', 'PENE'

Qual è l'origine della notissima parola toscana bischero? Quanti se lo saranno chiesto, senza poter trovare una risposta! Nell'uso comune, bìschero significa "stupido, minchione", ma questa semantica è di chiara origine peniena. Il bìschero è innanzitutto il membro virile. Ricordo ancora che in un fumetto erotico alcune signore chiacchieravano dalla parrucchiera, lamentandosi che i mariti pretendevano la fellatio, incuranti che i loro bischeri fossero bisunti e maleodoranti. Il passaggio da "membro virile" a "scemo" è molto ben documentato in un gran numero di casi. Basti pensare a parole come minchione, pirla, baggiano, citrullo, etc. Gli organi genitali sono per loro natura la negazione dell'intelligenza, maschili o femminili che siano: hanno reazioni puramente impulsive e devono essere controllati perché non facciano disastri.
 
Come al solito, la fantasia dei romanisti si è scatenata. Si può partire dal responso di Google alla chiave di ricerca "bischero":  

Dizionario
Definizioni da Oxford Languages

bischero
/bì·sche·ro/
sostantivo maschile


    1. Ciascuno dei cavicchi che servono a tirare o allentare le corde degli strumenti a seconda che si girino in un senso o nell'altro.
    2. TOSCANO • POP.
    Il pene.
  •         FIG.
    Grullo, buono a nulla; persona che si crede furba e invece si rivela stupida e minchiona (in questo sign. anche f. -a ).
Origine

Prob. alterazione di pìspolo, altra voce tosc. equivalente a bischero nei sign. di ‘cavicchio’ e ‘pene’, con attrazione del pref. bis- con valore pegg. e cambio di suff. •1521.
 

Per completezza, riporto anche la definizione della parola cavicchio, visto che non è di uso comune. La fonte è sempre quella indicata da Google. 

Dizionario
Definizioni da Oxford Languages  
 
cavicchio
/ca·vìc·chio/
sostantivo maschile


    1. Legnetto rotondo piantato su una parete per appendervi oggetti.
  •  Legno cilindrico, aguzzo a un'estremità, con cui si fanno buchi nel terreno per piantare o seminare erbaggi.
  •  Piolo delle scale di legno portatili.
  •  Piccola zeppa troncoconica di legno duro per turare i fori lasciati dai chiodi nei fasciami.
  •  Bischero (per strumenti a corda).
    2.    ESTENS.
    Cavicchio osseo, prominenza dell'osso frontale nei Ruminanti Cavicorni.

Origine

Der. di cavicchia •sec. XVI.

L'opinione della Crusca 


Matilde Paoli (Accademia della Crusca), fa riferimento all'articolo di Alberto Nocentini, Bischero: un caso apparentemente risolto, "Archivio Glottologico Italiano", XC - 2005, f. 1, pp. 114-116: 114. Il suo contributo è del 2009.

"Nello stesso articolo Nocentini, oltre a delineare il percorso semantico della forma, percorso ormai riconosciuto da tempo dagli studiosi di etimologia, formula l'ipotesi che essa risalga, anziché alla radice *bisc-/*pisk- 'dondolare, girare, muoversi', come proposto precedentemente in LEI (vol. VI, coll. 84-90),  al lemma *pipa con il probabile significato originale di 'cannuccio, cannello', a cui sarebbero da connettersi anche l'aretino pipo o pipi 'membro virile dei bambini' e l'aretino e senese pìrolo che ha lo stesso valore, oltre a quello di 'qualsiasi oggetto affusolato'."
 
Le conclusioni della Crusca sono quindi le seguenti: tra il pippo, il pirla e il bischero sussisterebbe assoluta identità e l'etimologia sarebbe da cercarsi in un'onomatopea.
 
La bischerata dei banchieri Bischeri 
 
Nell'abominevole social Quora mi sono imbattuto in un'invereconda stronzata, che tuttavia è molto diffusa tra il volgo: il solito tentativo di far derivare l'origine di un vocabolo da un cognome.   
 
 
L'utente Daniele Bologna ha scritto quanto segue:
 
I Bischeri erano una ricca famiglia di banchieri della Firenze medievale.
Il loro cognome è diventato sinonimo di stupido in vernacolo fiorentino per un fatto avvenuto alla fine del '200 e legato alla fondazione del Duomo: quando il Comune di Firenze decise di costruire la cattedrale di Santa Maria del Fiore si decise di edificarlo in un'area dove la famiglia Bischeri aveva diverse proprietà immobiliari. (più o meno nella posizione dove oggi c'è la cupola del Brunelleschi).
Il Comune allora offrì loro una cifra enorme per poter acquistare quelle proprietà per liberare il terreno e iniziare il cantiere.
I Bischeri pensando di poter speculare sul prezzo rifiutarono più volte le offerte del Comune, finché il governo cittadino perse la pazienza e decise di passare all'esproprio forzato di quei terreni dando ai Bischeri una miseria come indennizzo.
Per questo motivo i Bischeri divennero lo zimbello della città. Cambiarono perfino cognome in Guadagni perchè già allora Bischero era diventato un nomignolo beffardo. 
 

Questi Bischeri sono esistiti realmente. Così Wikipedia in italiano: 

"I Bischeri furono una cospicua famiglia fiorentina, il cui cognome costituisce una famosa etimologia popolare, che gode però di scarsa considerazione tra i linguisti[1] per bìschero, il tipico appellativo toscano indirizzato a persone ingenue e poco furbe."

[1] Vedi Nocentini (2005), di cui sopra. 

E ancora: 

"Si hanno tracce dei Bischeri in Firenze fin dalla metà del XIII secolo e nei decenni successivi questi si imposero come ricchi possidenti e mercanti, conseguendo molte cariche pubbliche, tra cui ben 15 priorati dal 1309 al 1432 e due gonfalonieri di Giustizia (Noferi e Giovanni). La famiglia Bischeri aveva le proprie case nella zona tra Piazza del Duomo e Via dell'Oriuolo, nota oggi come "Canto dei Bischeri" ed il suo stemma era bardato di otto di nero e di oro."
 
I Bischeri non sono stati la causa dell'uso della parola bischero; semmai sono stati scherniti e messi in satira dal volgo proprio per via del loro nomen omen
 
Un'attestazione antica 
 
Anche se i romanisti pensano di ridurre tutto a formazioni onomatopeiche, il bischero era già noto nell'Etruria dell'antichità. Il vocabolo viscri è attestato in un'iscrizione su statuetta bronzea recante un testo in scriptio continua. Questa è la traslitterazione: eitviscriture/arnθalitlepumpus (Ar 4.4, CIE 2627). La prima parte del testo è da separarsi in eit viscri ture "così dona il membro", mentre la seconda indica il soggetto della frase, ossia il nome del donatore: Arnθ Alitle Pumpus.  
 
eit "così" 
viscri "membro" 
ture "dona" 
 
Traduco viscri in modo generico con "membro" oppure "organo interno". Marzolla era convinto che si trattasse di una fallo, rappresentato "con crudo realismo" (1984). Forse aveva ragione. Si noterà che l'uomo rappresentato dalla statuetta non indossa le vesti di un aruspice. La trafila semantica deve essere stata questa: "organo" => "budello" => "pene".  
 
Il toscano bischero "pene", "stupido" è senz'altro il più chiaro e glorioso relitto etrusco ben vivo e vitale ai nostri tempi. 
 
Pallottino riteneva probabile l'evoluzione dell'approssimante /w/ in una fricativa /v/ o /β/ in etrusco, che sarebbe avvenuta precocemente rispetto al latino. Si può citare a questo proposito il toponimo Velzna, corrispondente al latino Volsinii (Novi), da cui si è sviluppato l'italiano Bolsena, con una consonante iniziale occlusiva. Ecco, la derivazione del toscano bischero dal sostrato etrusco sarebbe un altro notevole esempio di questo sviluppo. Possiamo ricostruire un latino volgare *bīscru(m) come antenato diretto della parola in analisi. 

A questo punto i romanisti potrebbero obiettare che il termine toscano è attestato a partire dal XVI secolo, trovandosi però nel cognome Bischeri già nel XIII secolo: c'è una grande distanza temporale tra l'etrusco, verosimilmente spentosi agli inizi del I secolo d.C. o forse poco oltre. Questa non è una prova convincente, anche considerando che non si tratta di un dottismo. I resti delle lingue di sostrato hanno spesso una considerevole tenacia e possono continuare la loro esistenza occulta come fiumi carsici per molti secoli, emergendo poi all'improvviso. 
 
Possibili prestiti dal proto-tirrenico
al proto-italico e al proto-germanico
  

Indago alcuni possibili prestiti dall'etrusco al latino, più antichi di quello che ha dato origine alla parola bischero

Traduco quanto riportato dalla Wikipedia in inglese: 

 
vīscus n. (genitivo vīsceris); terza declinazione (soprattutto plurale)
  1. Ogni organo interno del corpo.
  2. (anatomia) interiora, viscere, intestini, organi interni  
  Sinonimi: intestīnum, interāneum, exta, prōsicium, 
      prōsecta, hīllae

Etimologia 

Di origine non chiara[1]; forse dal proto-indoeuropeo *weys- (“girare, ruotare”).

[1] De Vaan, Michiel (2008).
 
La ricostruzione proto-indoeuropea è abbastanza discutibile e potrebbe essere fallace: a quanto se ne sa, la radice è presente soltanto in latino; al limite sarà stata presente in altre lingue derivanti dal proto-italico, anche se all'attuale stato delle conoscenze non lo sappiamo. Reputo più probabile pensare che dall'antico etrusco sia giunta al proto-italico questa parola come prestito.  

Traduco quanto riportato dalla Wikipedia in inglese: 


virga f. (genitivo virgae); prima declinazione 
   1. ramoscello, giovane germoglio 
   2. asta, 
   3. bastone, bastone da passeggio 
   4. bacchetta (magica) 
   5. (in senso figurato, latino tardo, latino medievale) pene
 
Etimologia 

Dal proto-italico *wizgā, probabilmente dal proto-indoeuropeo *wisgeh₂ (“asta o ramo flessibile”). Possibilmente imparentato col proto-germanico *wiskaz (“fascio di fieno o di paglia, ciuffo”).[1] Dal proto-indoeuropeo *weys- (“produrre, procreare”), o in alternativa da una radice *weyḱs- (vedi *weyḱ-)(2). Indipendentemente da ciò, è probabilmente un doppione di viscum(3)
 
[1] Alberto Nocentini, Alessandro Parenti, “l'Etimologico - Vocabolario della lingua italiana”, Le Monnier, 2010
(2) La radice *weyḱ- ha il significato di "entrare; stanziarsi; stanziamento" (nota mia).
(3) Latino viscum "vischio" (nota mia).

La ricostruzione proto-indoeuropea è abbastanza discutibile e potrebbe essere fallace: a quanto se ne sa, la radice è presente soltanto in latino e in germanico. Questa radice ha l'aria di essere un termine di sostrato o di adstrato, preso proprio da una lingua tirrenica. I Neogrammatici lo hanno preso e lo hanno proiettato nelle Steppe, come è loro costume. 
 
Questa è la trafila da me presupposta: 

Proto-tirrenico: 
    *wisk- 
Significato: "membro", "organo"
     per estensione: "budello", "pene"
=> Proto-indoeuropeo occidentale:
    *wizg- / *wisk- / *wi:sk- 
Significato: "asta flessibile", "membro"; "organo", "budello" 
=> Proto-italico, Proto-germanico.  

mercoledì 1 settembre 2021

IL VINO AMARO DI SODOMA E GOMORRA

Deuteronomio 32, noto come Cantico di Mosè o Canto di Mosè, consiste in una serie di maledizioni, non sempre coerenti e comprensibili alle menti moderne. Non va confuso con Esodo 15, che pure è chiamato allo stesso modo ed esprime la gioia per la liberazione del popolo di Israele dal giogo del Faraone Ramesse, le cui armate pronte a macellare furono sommerse dalle acque del Mar Rosso. Qui invece Mosè giudica la propria gente, colpevole di aver deviato dalla Legge di Dio, così tuona e minaccia le più terribili punizioni. A causa del rilassamento dei costumi e dei sacrifici rivolti a divinità straniere, ossia a demoni, gli Israeliti sono diventati come le genti di Sodoma e Gomorra, si sono degradati. Eppure, essendo pur sempre gli Eletti, a differenza degli altri popoli, avranno comunque la possibilità di scamparla e di non incorrere nell'annientamento. Ecco la sostanza del testo in questione.
 
Tra le invettive contenute in Deuteronomio 32 ve ne è una di particolare interesse filologico, perché potrebbe alludere a un vino molto peculiare che oggi è andato perduto. Ecco il testo che ha catturato la mia attenzione: 
 
30 Come può un uomo solo inseguirne mille
o due soli metterne in fuga diecimila?
Non è forse perché la loro Roccia li ha venduti,
il Signore li ha consegnati?
31 Perché la loro roccia non è come la nostra
e i nostri nemici ne sono giudici.
32 La loro vite è dal ceppo di Sòdoma,
dalle piantagioni di Gomorra.
La loro uva è velenosa,
ha grappoli amari.
33 Tossico di serpenti è il loro vino,
micidiale veleno di vipere. 
 
Questo è il testo biblico originale in lingua ebraica: 
 
ל  אֵיכָה יִרְדֹּף אֶחָד, אֶלֶף,  {ר}  וּשְׁנַיִם, יָנִיסוּ רְבָבָה:  {ס}  אִם-לֹא כִּי-צוּרָם מְכָרָם, {ר}  וַיהוָה הִסְגִּירָם.  {ס} 
 
לא  כִּי לֹא כְצוּרֵנוּ, צוּרָם;  {ר}  וְאֹיְבֵינוּ, פְּלִילִים.  {ס}
 
לב  כִּי-מִגֶּפֶן סְדֹם גַּפְנָם,  {ר}  וּמִשַּׁדְמֹת עֲמֹרָה:  {ס}  עֲנָבֵמוֹ, עִנְּבֵי-רוֹשׁ--  {ר} אַשְׁכְּלֹת מְרֹרֹת, לָמוֹ.  {ס} 

לג  חֲמַת תַּנִּינִם, יֵינָם;  {ר}  וְרֹאשׁ פְּתָנִים, אַכְזָר.  {ס}
 
Questa è una rudimentale traslitterazione:  
 
eichah yirdof echad, elef, ushenayim, yanisu revavah: im-lo ki-tzuram mecharam, va-Yehovah hisgiram 
ki-lo ketzurenu, tzuram; ve'oyeveinu, pelilim 
ki-miggefen Sedom gafnam, umishadmot Amorah 
anavemo, inne-vei-rosh - ashkelot merorot, lamo 
chamat tanninim, yeinam; verosh petanim, achzar. 
 
Glossario ebraico-italiano  
 
eichah "o come (può)", "ahimè" (interiezione)
yirdof "egli inseguirà" (dalla radice r-d-f "inseguire")
echad "uno"
elef "mille" 
ushenayim "e due (soli)" (u- "e"; shenayim "due") 
yanisu "essi espelleranno" (dalla radice y-n-s "scacciare, 
     espellere")
revevah "diecimila"
im-lo "altrimenti" 
ki- "perché"
tzuram "la loro roccia" (da tzur "roccia")
mecharam "li ha venduti" (dalla radice m-k-r "vendere";
      -am "loro")
va-Yehovah "e il Signore" (sostituito da vahashem, lett.
     "e il Nome")
hisgiram "li ha consegnati" (dalla radice s-g-r "chiudere;
      arrendersi; consegnare"; -am "loro")
ketzurenu "perché la nostra roccia" (ke- "perché", tzurenu
     "la nostra roccia")
ve'oyeveinu "e i nostri nemici" (da oyev "nemico")
pelilim "giudici" (da palil "giudice")
miggefen "dalla vite" (da gefen "vite")
Sedom "Sodoma"
gafnam "la loro vite" (da gefen "vite"; -am "loro")
umishadmot "e dai campi (coltivati)"
Amorah "Gomorra"
anavemo "le loro uve" (da enav "uva")
innevei-rosh "piene di veleno" (innevei- "con, insieme a";
     rosh "veleno")
yeinam "il loro vino" (da yayin "vino")
ashkelot "grappoli" (da eshkol "grappolo)
merorot "amarezza" (da maror "amaro")
lamo "a loro" 
chamat "calore" (ossia "cosa caustica, veleno")
tanninim "serpenti" (da tannin "serpente") 
verosh "e veleno" (da ve- "e", rosh "veleno")
petanim "vipere" (da peten "vipera")  
achzar "crudele, spietato, terribile" 
 
Alla luce di queste evidenze, dobbiamo porci una domanda. Queste velenose similitudini tra il vino del Paese di Sodoma e Gomorra erano soltanto frutto dell'arte poetica e di un lamento morale, oppure esprimevano qualcosa di più concreto e portavano in sé una memoria ancestrale? Propendo in modo nettissimo per la seconda ipotesi: non credo che queste fossero pure e semplici metafore. 
 
Il vino coltivato e bevuto nella Pentapoli doveva essere amaro come il veleno e scuro, per via di qualche particolarità materiale dei suoi ingredienti e della sua lavorazione. Date le proprietà dell'area in cui era situato il Paese di Sodoma e Gomorra, sulle rive del Mar Morto, queste caratteristiche della bevanda inebriante dovevano derivare dalle uve da cui era prodotta, perché crescevano su un terreno ricchissimo di bitume naturale. Proprio il Mar Morto (in ebraico יַם הַמֶּלַח Yam hamMelach, ossia "Mare del Sale") è noto per la sua grande abbondanza di asfalto, che talvolta affiora a grandi blocchi dopo essersi staccato dai fondali. Dagli Autori greci era chiamato Ἀσφαλτίτης Λίμνη (Asphaltites Limne) "Lago di Asfalto", denominazione ripresa dai Romani (Lacus Asphaltites). La Valle di Siddim era piena di pozzi di bitume, denominati nel testo biblico בֶּֽאֱרֹת֙ חֵמָ֔ר  be'erot chemar (Genesi 14, 10). La regione, oggi infeconda come un deserto lunare, era assai fertile nei tempi antichi, prima che un'immane catastrofe cancellasse le città e persino le loro vestigia. Possiamo quindi dire che la mia ipotesi non sia poi così peregrina.
 
Possono le vigne crescere sul bitume di Sodoma e Gomorra? Senza dubbio sì. I suoli più idonei alla coltivazione della vite sono quelli contenenti calcare, marne, scisti e argille. Orbene, esistono gli scisti bituminosi. Sono rocce sedimentarie, in genere di granulometria fine. Il loro colore tipico è nerastro o marrone scuro. La loro particolare ricchezza di materia organica, il cherogene, deriva dalla diagenesi dei resti di antichi organismi sepolti nel sedimento all'epoca della sua formazione. Gli idrocarburi sono un comune esito della materia organica: tra questi si annovera l'olio di scisto, che può essere usato come sostituto del petrolio. Un sostrato ideale!   
 
Nell'antichità il vino conteneva composti organici volatili rilasciati dalla pece e dalla resina, sostanze che venivano usate ovunque per rendere stagni i recipienti. Aveva certamente un sapore che risulterebbe molto strano per i nostri palati, diverso da qualsiasi cosa a cui abbiamo potuto fare l'abitudine. Il vino della Pentapoli doveva essere ancora più particolare di quello prodotto in altri luoghi e in altre epoche, ad esempio nella Roma dell'Impero. È possibile che avesse proprietà psicoattive marcate e che fosse nocivo alla salute, sia fisica che mentale. Cercare di coltivare uve come quelle di Sodoma e Gomorra, in modo tale da ricostruire un prodotto simile, richiederebbe studi approfonditi, lunghe sperimentazioni e soprattutto molte risorse. Sarebbe in ogni caso una sfida molto interessante. Anche se si riuscisse nel nobile intento, si otterrebbe qualcosa che forse sarebbe considerato imbevibile e che potrebbe fruttare accuse di avvelenamento. Al massimo potrebbe diventare una bevanda di nicchia. 
 
Generazioni di botanici con poco senno hanno identificato la vite di cui si parla in Deuteronomio 32 con una pianta la cui denominazione scientifica è Calotropis procera. Popolarmente è chiamato melo di Sodoma e appartiene alla famiglia delle Asclepiadacee. Si tratta di un piccolo albero sempreverde ed ermafrodita, alto da 4 a 6 metri. Esiste poi anche il Pomo di Sodoma (Solanum linnaeanum), una pianta appartenente alla famiglia delle Solanacee. Le sue bacche dopo la maturazione si riducono in una polvere nerastra e non se ne può trarre alcunché di utile. Secondo una leggenda, questo vegetale orrendo sarebbe stato l'unico a crescere dopo il disastro che annichilì le città del Mar Morto. Evidentemente non sono queste le fonti da cui si abbeveravano le genti della Pentapoli per narcotizzarsi quotidianamente! Nemmeno il Diavolo saprebbe spiegare come si possa ottenere del vino da questi sgradevole vegetali, che definire aberranti è ancora poco! 

sabato 28 agosto 2021

ETIMOLOGIE ENOLOGICHE: IL FALERNO

Come tutti sanno, immensa fama ha goduto nell'antichità il vino falerno (latino falernum). Il naturalista Plinio il Vecchio fece una classifica dei vini migliori: Antea caecubum, postea falernum, ossia "Prima il cècubo, poi il falerno". 
 
Questo riporta il celeberrimo Vocabolario Treccani: 
 

falèrno agg. e s. m. [dal lat.  Falernus]. – Antico nome (Agro f., lat. Ager Falernus) della Campania settentr., prima appartenente ai Capuani, poi annessa (fine del sec. 4° a. C.) al territorio dei Romani. Era celebrato dagli antichi scrittori per il suo vino, chiamato appunto falerno (lat. vinum falernum, o falernum s. neutro), nome che nell’uso poet. divenne sinon. di vino prelibato; sono ancor oggi così chiamati alcuni vini tipici della Campania. 
 
Il problema è sempre lo stesso. Molti credono che risalire al latino sia la fine della ricerca, come se la lingua di Roma insegnata a scuola fosse un idioma adamitico, non derivato. Per me invece, una parola latina è l'inizio della ricerca: bisogna capire da dove è venuta.  

Plinio il Vecchio, i cui testi sono sempre molto utili, ci dice questo (Naturalis Historia XIV, 8): 

Antea Caecubo erat generositas celeberrima in palustribus populetis sinu Amynclano, quod iam intercidit iniuria coloni locique angustia, magis tamen fossa Neronis, quam a Baiano lacu Ostiam usuque navigabilem incohaverat. Secunda nobilitas Falerno agro erat et ex eo maxime Faustiniano; cura culturaque id collegerat; exolescit haec quoque copiae potius quam bonitatis studentium. Falernus ager a ponte Campano laeva potentibus Urbanam coloniam Sullanam nuper Capuae contributam incipit, Faustinianus circiter IIII milia passuum a vico Caedicio, qui vicus a Sinuessa VI M passuum abest. Nec ulli nunc vino maior auctoritas; solo vinorum flamma accenditur, tria eius genera: austerum, dulce, tenue. Quidam ita distingunt, summis collibus Caucinum gigni, mediis Faustinianum, imis Falernum.
 
Traduzione:  
 
Prima c'era per il cècubo una qualità molto famosa nelle paludi con i pioppi nel golfo di Amicla, che ormai è scomparsa per la negligenza del contadino e per la ristrettezza del luogo, ma ancor di più per il canale di Nerone, che aveva reso navigabile dal bacino di Baia fino ad Ostia. La seconda eccellenza era per il territorio di Falerno e da questo soprattutto per il faustiniano; se l'era conquistata con la cura e con la coltivazione. Queste vengono meno anche per colpa di quelli che aspirano all'abbondanza più che alla qualità. Il territorio di Falerno comincia dal Ponte Campano a sinistra per quelli che vanno verso la colonia Urbana di Silla associata da poco a Capua, il faustiniano a circa quattromila passi dal villaggio di Cedicio, villaggio che dista seimila passi da Suessa. Per nessun vino c'è oggi maggiore rinomanza. A lui solo si accende la fiamma dei vini. Tre sono le sue specie: aspro, dolce, leggero. Alcuni lo distinguono così: il caucino nasce sui colli più alti, il faustiniano sui medi, il falerno sui più bassi.
 
C'è molta confusione. Dalle parole di Plinio, sembra ben chiara la localizzazione dell'area in cui il vino falerno era prodotto, nella Campania settentrionale, in quella che attualmente è conosciuta come provincia di Caserta. Pure sono state fatte ipotesi alternative, per quanto presentino qualche difficoltà.
 
 
Marina Alaimo (AIS Napoli) cerca di risalire al luogo d'origine del falerno, arrivando a questa conclusione: non sarebbe l'area denominata Piana di Falerno, ai piedi del Monte Màssico, bensì il Monte Falero, oggi conosciuto come Monte Echia. Data la mia scarsa conoscenza dei luoghi, a prima vista l'idea mi era parsa ragionevole. Tuttavia non ha retto a una breve ricerca. Non sono riuscito a trovare l'oronimo Falero: c'è soltanto la mitologica Torre di Falero, dal nome di uno degli Argonauti. Invece ho potuto appurare che il Monte Echia era anticamente chiamato Eple o Emple, denomine che si suppone derivata da Euplea (Afrodite Euploia, patrona della navigazione). Ho potuto vedere una sua foto. Si tratta di un minuscolo pinnacolo di tufo giallastro, di apparenza malaticcia e lebbrosa, friabile, che non sembra davvero il luogo di origine dell'illustre vino, prodotto in grande abbondanza: non è più alto di un palazzo a tre piani! 

In ogni caso, la Alaimo puntualizza una cosa interessante: se il falerno fosse stato coltivato sulle pendici del Monte Màssico, sarebbe stato conosciuto come màssico. Ebbene, il vino chiamato màssico, in latino (vinum) massicum, era noto nell'antichità ed era ben distinto dal falerno. Il màssico era un vino robusto ma di qualità mediocre.   
 
Attualmente si produce il vino denominato Falerno del Massico nel territorio dei seguenti comuni: Mondragone, Falciano del Massico, Carinola, Sessa Aurunca e Cellole (tutti in provincia di Caserta). Si tratta di un vino composto, prodotto a partire da uve di diversi vitigni. 

Falerno del Massico Rosso
    Aglianico: minimo 60%
    Piedirosso: massimo 40%

Falerno del Massico Primitivo
    Primitivo: minimo 85%
    Barbera, Aglianico, Piedirosso massimo 15%

Falerno del Massico Bianco
    Falanghina: minimo 85%
    Altri vitigni campani: massimo 15%

Detto questo, rimane il problema imbarazzante della continuità. Con che uve gli Antichi facevano il falerno? Sappiamo che il falerno continuò ad essere prodotto in epoca medievale, tanto che Papa Innocenzo III lo menzionò nel suo De contemptu mundi. Come erano cambiate le tecniche di vinificazione? Cesare e Augusto avrebbero riconosciuto il falerno bevuto da Innocenzo III, se un crononauta lo avesse portato loro con un prodigioso viaggio nel tempo? Innocenzo III avrebbe riconosciuto il falerno bevuto da Cesare e da Augusto? Non lo sappiamo con certezza, anche se parrebbe implausibile. A maggior ragione, si possono nutrire fondati dubbi sull'identità tra il falerno prodotto in epoca moderna e quello dell'epoca di Roma. La questione ampelografica sembra irrisolvibile.    

Luca Menna, nel Saggio Istorico  della Città e Diocesi di Carinola, 1848, ha scritto quanto segue:  

"Qualsia l’etimologia del vocabolo Falerno, nulla sì conosce , possiam dire solamente , che il Possessore di questo Campo si chiamava Falerno , e li diede un tal nome; di questo sentimento è Sillo Lib. VII, e di fatti il vocabolo Falernus è nome di uomo, e lo vediamo in uso presso il Gori in una sua Iscrizione così: Falernus Euclito fratri suo." 
 

Saggi storici di questo genere sono il prodotto di una cultura autoreferenziale. L'enunciato di Menna è l'essenza stessa dell'impotenza etimologica. Mentre la linguistica faceva passi da gigante, resisteva questo zoccolo duro di topi di biblioteca locali, che spesso erano anche parroci, per i quali l'intera conoscenza del genere umano si riduceva al latino e al greco. Tutto ciò che è al di fuori di queste lingue classiche, era per loro profondo abisso di inconoscibilità. 

Io mi oppongo strenuamente a chiunque dica "nulla si conosce", quando è possibile conoscere!  

In questo specifico caso, si nota una certa negligenza etimologica, perché l'autore avrebbe potuto benissimo trovare una spiegazione al nome Falernus ricorrendo alle fonti classiche.
 
Radice: etrusco fal- "alto"  
 
Testo originale della glossa: "Falae dictae ab altitudine, a falado quod apud Etruscos significat caelum." 
Traduzione della glossa: Le falae ("torri") sono così chiamate dall'altezza, da falado, che tra gli Etruschi significa "cielo". 
Autore: Sesto Pompeo Festo 
Forma singolare: fala 
Varianti ortografiche: phala "torre"; falando "cielo" 
Note: 
Si trova il testo della glossa di Festo con coelum anziché caelum.

Forme etrusche ricostruite: 
*fala "alto"
*falaś "luogo alto; torre; pertica" 
   attestazioni:  
   locativo: falś-ti "sulla pertica" (Cippo di Perugia,
        cfr. Facchetti) 
   locativo: falza-θi aiseras "nel luogo alto degli Dei" 
        (lamella plumbea di Magliano)
*falaθu "cielo"  
Note:  
Etrusco *falaθu "cielo" deve avere avuto il significato di "soffitto a volta". Il latino palātum "palato", ma anche "volta del cielo", deve essere un prestito antico dall'etrusco, come evidenziato da Pittau. Si noti la consonante iniziale p- in luogo di f-: si deve trattare di esiti diversi di una protoforma in ph- /ph/. Per la semantica, si confronti il rumeno ceru gurei "palato", alla lettera "cielo della gola", "soffitto della gola".

Testo originale della glossa: "Falarica genus teli missile quo utuntur ex falis, id est ex locis instructis, dimicantes."
Traduzione della glossa: La falarica è un tipo di arma da getto che i combattenti utilizzano dalle falae, ossia dai luogi fortificati. 
Varianti ortografiche: phalarica  
Pronuncia: /fa'la:rica/
Autore: Sesto Pompeo Festo 
Protoforma ricostruibile: *falāsica 
Note: 
Un notevole caso di rotacismo. Il fenomeno è comune: etrusco tus "letto, giaciglio" è stato preso a prestito in latino arcaico come *tosos per poi diventare torus "cuscino, guanciale, materasso". 
False etimologie: greco φαλός (phalos) "bianco", φάλαρος (phalaros) "con una macchia bianca". Siamo di fronte a un'evidente fabbricazione scolastica. La metodologia è questa: aprire un vocabolario di greco e cercare forme assonanti, anche a dispetto della semantica.  
 
Forme etrusche derivate dalla radice fal- "alto" e attestate in iscrizioni: 
 
falaθres "di Celeste", gentilizio, oppure "della volta celeste"  
faliaθere "nella volta celeste"
faluθras "degli Dei Superi" 
falau "innalzato" (Tabula Capuana, TLE 2)
Note: 
Etrusco falaθres, attestato al genitivo in diverse iscrizioni, deve essere l'equivalente del latino caelestis "celeste, del cielo" (dissimilato per l'atteso *caelestris). In un caso non è chiaro se le attestazioni siano quelle di un gentilizio oppure se sia un sostantivo col significato di "volta celeste". Il testo tr: falaθres: (iscrizione di Settecamini, ET Vs 1.176) potrebbe stare per tular: falaθres: e significare "confine della volta celeste". Secondo Kaimio (2017), si dovrebbe invece interpretare tr: come un'abbreviazione di trepies "di Trebio" (prenome), per cui falaθres sarebbe un gentilizio. Non ci sono ancora elementi per decidere la questione. Una forma arcaica di falaθre- potrebbe essere il faliaθere documentato in un'iscrizione ad Orvieto (Stopponi, 2009). La presenza di -i- è ancora enigmatica; conto tuttavia di poter risolvere il problema quando emergeranno nuovi dati. Il genitivo plurale faluθras "degli Dei Superi" compare in un'iscrizione a Tarquinia (ET Ta 1.164). Stopponi afferma di voler lasciare ai linguisti la definizione esatta di questa forma: ebbene, è un tipico tema plurale, proprio come cliniiaras, clenaras "dei figli", genitivo di clenar "figli". 
Nel testo della Tabula Capuana, alcuni leggono falal anziché falau: se tale lettura fosse corretta, avremmo un genitivo in -al anziché un participio passato in -u, ma la sostanza non cambierebbe molto.  
 
Etrusco arcaico: 
   nominativo/accusativo: *falaθu "cielo" 
   genitivo: *falaθu-s "del cielo"
   nominativo/accusativo: *falaθu-r "Dei Superi"
   genitivo: *falaθu-ra-s "degli Dei Superi"

Neoetrusco: 
   nominativo/accusativo: faltu, haltu "cielo"
   genitivo: *faluθ-s "del cielo"
   nominativo/accusativo: *faluθ-r "Dei Superi"
   genitivo: faluθ-ra-s "degli Dei Superi" 

Note: 
La forma faltu, con la variante delabializzata haltu, è attestata in molte iscrizioni composte da una sola parola.
 
Il nome del popolo dei Falisci e della città di Falerii, loro capitale, è pure di origine etrusca. I Falisci parlavano una lingua indoeuropea, italica e simile al latino. Com'è naturale, aveva numerosi prestiti onomastici dall'etrusco. Tra questi prestiti c'è il nome stesso dell'etnia e l'aggettivo che la designa. 
 
latino Falerii < *Falasioi (pl. tantum), alla lettera
    "Luoghi Alti", "Fortezza"  
latino Falisci < *Falasikoi "Gente di *Falasioi
latino Faliscus < *Falasikos
Note: 
La sincope di -i- nel suffisso *-ikos dovette avvenire prima del rotacismo della sibilante mediana -s-. In etrusco troviamo alcuni gentilizi molto interessanti che potrebbero essere connessi al nome dei Falisci. Mostrano una peculiarità di difficile spiegazione: l'Umlaut palatale. 

Feluskes (gen.) < *falius-
Feleskenes (gen.) < *falias- 
 
A questo punto possiamo azzardare qualche ipotesi di ricostruzione più dettagliata della protoforma dell'aggettivo falernus
 
1) falernus < *falasi-nos 
2) falernus < *falar(i)-nos
 
Il problema fondamentale è quello dell'eventuale rotacismo. Essendo il toponimo ager Falernus localizzato in un'area di lingua osca (sannitica), si dovrebbe propendere per l'ipotesi 2), dato che in tale lingua italica non esisteva il rotacismo. Tuttavia è sempre possibile che l'origine sia connessa a una migrazione da Nord, dal territorio dei Falisci: in tal caso Falernus sarebbe un sinonimo di Faliscus. Sono necessari ulteriori studi. 
 
Queste sono alcune sopravvivenze toponomastiche della radice fal- "alto":  

Falacrina, frazione del comune di Antrodoco (Rieti)
Falacrina, Falagrina, valle nella quale nasce il Velino 
Falecare, frazione del comune di Cittareale (Rieti)
Falerna, comune della Calabria (Catanzaro)
Falerno, frazione del comune di Città di Castello (Perugia)
Falerone, comune delle Marche (Fermo) 
Faleria, Falesia, comune del Lazio (Viterbo) 
Falisco, corso d'acqua del Lazio 
Falsini, frazione del comune di Radicondoli (Siena) 
Falterona, frazione del comune di Lastra a Signa (Firenze)
Falterona, monte del Val d'Arno Casentinese 
Faltignano, frazione del comune di San Casciano (Firenze)
Faltona, frazione del comune di Talla (Arezzo)  
Faltona, frazione del comune di Borgo San Lorenzo (Firenze)
Faltona, torrente della Val di Sieve, Toscana
Faltugnano, frazione del comune di Prato 
Faltugnano, frazione del comune di Vinci (Firenze)
Falzano, frazione del comune di Cortona (Arezzo)

Sopravvivenze romanze della radice fal- "alto":  
 
Italiano: falasco "tipo di vegetazione palustre" 
Significato originale: *"erba alta" 
Note: 
Il nome "falasco" era attribuito a diverse piante delle Ciperacee e delle Graminacee. Gli utilizzi di questa vegetazione erano molteplici: oltre che come combustibile o lettiera per il bestiame, serviva per lavori di intreccio e per impagliare fiaschi. In Sardegna esistevano capanne di falasco fino a tempi abbastanza recenti.

Napoletano: falerne "superbo"  
Significato originale: *"alto" 
Note: 
Anni fa mi sono imbattuto in questa voce, che i romanisti spiegano a partire dal nome dell'antico vino. Per loro lo slittamente semantico sarebbe stato questo: "ubriaco di falerno" > "altezzoso, superbo". Non so se la parola sia ancora usata nella lingua viva di questi tempi o se sia antiquata. Dai dati che ho esposto si dimostra subito che non c'è alcun bisogno di simili contorsioni. Reputo che questo vocabolo napoletano sia un relitto osco (sannitico), a sua volta preso a prestito dall'etrusco.    

Conclusioni 

Nonostante tutti i problemi di cui abbiamo trattato, è indubitabile la radice etrusca da cui deriva il nome del vino falerno, anche se il percorso semantico non è sempre chiarissimo.