giovedì 22 febbraio 2018

IL GROTTESCO DEL MODERNO PANILLIRISMO PELASGICO

Ricordo nitidamente un film ritenuto trash dalla critica, ma a mio avviso bellissimo. L'ho visto tante volte in gioventù che ancora adesso ne ricordo molte battute a memoria. Il suo titolo è A proposito di omicidi... (l'originale è The Cheap Detective), del 1978, con l'intramontabile Peter Falk nel ruolo del detective Lou Peckinpaugh. La trama di questa commedia satirica, piena di trovate esilaranti, la caratterizza come un improbabile ibrido tra Casablanca e Il falcone maltese. A un certo punto il capo dei malfattori, certo Jasper Bombolo, spiega a Lou Peckinpaugh: "Nell'853 si è verificato un avvenimento poco conosciuto nella Storia. Dodici pescatori albanesi conquistarono la Cina, il Tibet e la Mongolia!". "Per la miseria, non me l'hanno detto!", ribatte il detective, con un po' di sano scetticismo. La risposta del malvivente sorprende non poco: "Perché lei non ha studiato la storia in Albania! In seguito i dodici tornarono al loro paese con la più ricca preda di guerra di cui si abbia memoria. Ognuno di loro aveva un diamante di 766 carati, la cui dimensione era pari a quella di un uovo di gallina del New Jersey!".

Che c'entra tutto questo con la lingua etrusca? Beh, è molto semplice. Esiste in Albania un forte movimento politico che cerca con ogni mezzo di affermare l'origine albanese dell'etrusco, diffondendo favole e inconsistenze marchiane. Gli aderenti a questa congrega di entusiasti non esitano a trollare, dando spesso prova di un certo fanatismo nei commenti su social e forum, che talvolta ricorda il tifo degli hooligan. La loro narrazione non è poi molto diversa dalla storiella dei dodici pescatori albanesi conquistatori della Cina, del Tibet e della Mongolia. È un tipico esempio di "scienza balcanica", che pretende di trasformare in realtà a colpi di clava le fantasie dei tirannelli locali. Sembra che questa ennesima teoria pseudoscientifica sulle origini della lingua etrusca si sia sviluppata a partire dall'opera dell'antropologa Nermin Vlora Falaschi (1921-2004). Questa autrice è partita da un ragionamento discutibile e semplicisitico: identificati gli Etruschi con i Pelasgi e considerati i Pelasgi ascendenti degli Illiri, sarebbe provata all'istante l'identità etnica e linguistica tra gli Etruschi e le genti dell'Albania. Nel Web si trovano poi alcune divertenti "perle". Stalin: "Gli albanesi potrebbero avere le stesse ragici degli etruschi". Enver Hoxha: "Gli albanesi hanno origine pelasgica, il popolo più antico dei Balcani".

L'inganno dei traduttori magici

Il problema fondamentale è che i panilliristi pelasgici negano alla radice il metodo scientifico. Prendono forme dell'albanese moderno, le proiettano immutate indietro nei secoli, quindi le usano per "tradurre" i frammenti ottenuti spezzettano le iscrizioni etrusche nel modo che fa loro più comodo. Non tengono nemmeno conto degli elementi onomastici, che è facilissimo riconoscere: li tagliano a pezzetti come vogliono senza tener conto della loro struttura e degli elementi grammaticali. Quando si tratta di analizzare singole parole, utilizzano il criterio dell'assonanza. Molti di loro ignorano persino il fatto che le Tavole Iguvine sono scritte in umbro, una lingua italica imparentata col latino, e tramite i loro strumenti di traduzione magica affermano di poterne comprendere alla perfezione il testo, facendolo "cantare". Le "traduzioni" fabbricate dalla Vlora Falaschi e dai suoi accoliti sono assurde ed espresse in una forma mentis tipicamente moderna, come ci si può attendere. Bastano pochi esempi di questa metodologia per capire quanto sia imbarazzante. Il nome della città di Cortona viene preso tal quale, senza badare al fatto che in etrusco era Curtun, quindi viene metanalizzato come COR TONA e interpretato come "nostro raccolto" (albanese korr "raccolto" e tonë "nostro"). L'iscrizione etrusca θania : anaieireliri - di cui non si menziona l'origine né la classificazione - viene trattata così: la theta iniziale somiglia a uno zero e viene quindi abolita, mentre il resto viene scomposto arbitrariamente in ania â naje irë liri e interpretato come "la nave è per noi coraggio e libertà" (la Falaschi riporta le parole albanesi come ania "nave", â "è", naje "per noi", irë "coraggio", liri "libertà"). Non si pensa nemmeno per un attimo al fatto che il prenome femminile Thania compare in moltissime altre iscrizioni e che il contesto con le navi non c'entra una cippa.

Diamo invece un'occhiata alla realtà. Questo è un confronto tra i numerali etruschi e i numerali albanesi.

Italiano

Etrusco

Albanese

uno

θu

nyë

due

zal

dy

tre

ci

tre (m.), tri (f.)

quattro

śa

katër

cinque

maχ

pesë

sei

huθ

gjashtë

sette

semφ

shtatë

otto

cezp

tetë

nove

nurφ

nëntë

dieci

sar

dhjetë

venti

zaθrum

njëzet



Trascrivo i numerali etruschi in un'ortografia albanese approssimativa: thu, cal, ki, sha, mak (mah), huth, sempf, kecp, nurpf, sar, cathrum. Considerato che i numerali sono tra le parti più stabili di una lingua, non c'è molto in comune. Vediamo che in etrusco i numerali semφ "sette" e nurφ "nove" sono prestiti da una lingua indoeuropea non identificata (anche se permangono oscure le modalità di trasmissione e di formazione), mentre il numerale sar "dieci" potrebbe essere un prestito da una lingua semitica. Il condizionale è d'obbligo. Le forme albanesi sono invece di chiara origine indoeuropea. Appartengono a una lingua di tipo satəm, che assibila le antiche consonanti palatali indoeuropee k', k'w, g', g'h, g'w, g'hw: ad esempio IE *penk'we "cinque" diventa in albanese pesë. Le trasfomazioni occorse nel precursore dell'albanese sono molto complesse e non c'è spazio per discuterle in questa sede.

Forse il mondo accademico levantino non è a conoscenza del fatto che le lingue evolvono nel tempo. Essendo l'albanese una lingua indoeuropea, è possibile indagare a fondo il suo passato. Fornisco un elenco di parole albanesi con le protoforme ricostruite e contrassegnate da un asterisco. Per comodità ho indicato la lunghezza vocalica con i due punti (:) anziché con il macron (il trattino sopra la vocale). Queste dovevano essere proprio le forme che si usavano ai tempi di Giulio Cesare:    

bardhë "bianco" < *bardza
be "giuramento" < *baida
bie
"portare" < *berja 
bimë
"pianta" < *bu:ma:
bisht
"coda" < *bu:šta
derë
"amaro; difficile" < *deuna 
det
"mare" < *deubeta
ditë
 "giorno" < *di:ta:
dhi
"capra femmina" < *aidzija:
edh
"capro" < *aidza
elb
"orzo" < *albi
err
"oscurità" < *ausra
ethe
"febbre" < *aida
grua, grue
 "donna, moglie" < *gra:wa:
gjalpë
"burro" < *selpi-
gjashtë
"sei (6)" < *seksti
gjër
"zuppa" < *jausna
gjithë, gjidhë
 "tutto" < *semdza
gjû
"ginocchio" < *gluna < *gnuna 
hedh
"gettare" < *skeuda
hell
"spiedo" < *sko:la:
hënë, hanë
"luna" < *ksanda:
hime
"crusca" < *skeidma
hirrë
"siero" < *ksira:
jam
"io sono" < *esmi
kem
"incenso" < *kapna
kollë
"tosse" < *ka:sla:
krye
"testa" < *kra:nja: < *kra:snja: 
mbi
"su" < *ambi
mbyll
"chiudere, fissare" < *ambiwe:la
mbys
"affogare, uccidere" < *ambiwi:tja
mish
"carne" < *memsa
mjaltë
"miele" < *melita
mjekër
"barba" < *smekra:
muaj, muej
"mese" < *mo:snja < *mo:nsja
natë
 "notte" < *nakti
pelë
"giumenta" < *po:ula:
ploje
"massacro" < *pla:ga:
quaj, quej
"chiamare, dar nome" < *klo:usnja
rrah
"colpire" < *wragska  
shi
"pioggia" < *su:ja
shteg
"sentiero" < *staiga
tredh
"castrare" < *treuda
thaj
"seccare" < *sausnja
udhë
"via" < *wada
urë
"ponte" < *wara:
ve
"vedova" < *widewa:
verë
"vino" < *waina:  

Numerosi prestiti latini in albanese sono stati trattati come parole native e nel corso dei secoli hanno subìto mutamenti anche profondi: 

ar "oro" < aurum
brekë
 "pantaloni" < bra:cae
dëm, dam "danno" < damnum
emtë "zia" < amita
gaz "gioia" < gaudium 

gjelbër, gjelbën "verde" < galbinus "giallastro"
gjell "gallo" < gallus
kalë "cavallo" < caballus
kërrutë "pecora con le corna" < cornu:ta
mend "mente" < mentem (acc.)
nip "nipote" < nepo:s
prind "padre, genitore" < parentem (acc.)

Tra questi prestiti ci sono anche parole relative alla religione cristiana, segno che la lingua doveva essere affine a quella ricostruita ancora nella tarda antichità: 

blatë "ostia" < obla:ta
dreq "diavolo" < draco: "dragone" 

enjëll
"angelo" < angelus
fe "fede, religione" < fides 
ferr "inferno" < infernum 
kështër, kështën "cristiano" < christia:nus
kishë "chiesa" < eccle:sia

kryq "croce" < crucem (acc.)
mëshirë
"pietà, misericordia" < miseria "infelicità;
     povertà"
prift "prete" < presbyter
upeshk "vescovo" < episcopus

La fonte dei dati da me riportati è il fondamentale A Coincise Historical Grammar of the Albanian Language, di Vladimir Orel, che può essere parzialmente consultato su Google Books. Esiste inoltre un potentissimo strumento di ricerca su Wikipedia, che permette di individuare le protoforme delle parole native. 


Si ha il sospetto che tutto ciò sia tabù per i panilliristi pelasgici, o quantomeno che lo considerino incomprensibile. Per ricercare possibili radici albanesi comuni all'etrusco o a qualsiasi altra lingua antica, è necessario operare il confronto con le forme ricostruite di cui sopra, non con le forme moderne, diamine! 

Un possibile sostrato tirrenico in albanese

Fermo restando che l'etrusco e l'albanese non sono geneticamente imparentati, qualche nesso interessante si riesce a trovare in ogni caso. Infatti l'antenato dell'albanese aveva, come tutte le lingue indoeuropee, un certo numero di elementi di sostrato, provenienti da una lingua parlata in precedenza. Analizziamone alcuni: 

gur "pietra" < *guri
karmë "banco roccioso" < *karpna:
karpë "altura rocciosa" < *karpa:
karsh "area rocciosa" < *karusa
magulë "mucchio" < *magula:
mal "montagna" < *mala

L'etimologia proposta dagli indoeuropeisti per queste voci è forzata, presenta difficoltà semantiche e ha tutta l'ara di essere fallace. Le voci karmë, karpë e karsh derivano chiaramente dall'elemento di sostrato preindoeuropeo *kar- "roccia": non si sente la necessità di una derivazione da IE *kerp- "tagliare". La formazione *karp-na: da *karpa: mostra poi un suffisso in nasale che ricorda numerose formazioni in etrusco. Vediamo che gur è stato ricondotto a IE *gwor- "altura", purtuttavia è la parola di base per indicare la pietra ed è più probabile che la sua origine non sia indoeuropea. La voce mal esiste anche in rumeno, dove significa "costa, riva". Così pure magulë ha riscontro nel rumeno măgură "collina". La lingua dacica doveva avere affinità notevoli con la lingua proto-albanese, al punto che forse ne era soltanto una varietà. Avremo ancora occasione di occuparci di questi vocaboli, che sono relitti di mondi perduti.

Richiamo l'attenzione sull'interessante parola mushk, mushkë "mulo", che si ritrova anche nelle lingue slave (antico russo mŭskŭ "mulo"). Il latino mu:lus viene da *mukslos per *musklos, ed è conosciuta una forma diminutiva muscella "asinello". Il greco antico μυχλός "asino da monta" è da un precedente *mukslo-. Persino in veneto abbiamo musso "asino", che deriva dalla stessa radice. Orbene, in etrusco esiste un gentilizio Musclena, che permette di ricostruire *muscle come nome etrusco del mulo. Evidentemente il termine, di origine tirrenica, si è irradiato nell'area balcanica e oltre.

Alcune parole albanesi, senza dubbio indoeuropee, risalgono a strati linguistici molto antichi. Così abbiamo yll "stella", la cui forma ricostruita è *usli-. Questa ha la stessa origine dell'etrusco usil "sole", senza dubbio un prestito da una lingua indoeuropea sconosciuta. Festo fornisce l'etimologia del nome della gens Aurelia, affermando che era chiamata così dal sole (a sole dicta). Si tratta di una variante apofonica della voce precedente, *ausel-, che in seguuito ha subìto regolarmente rotacismo. Sono convinto che se si porteranno avanti studi seri e rigorosi, si potranno raggiungere risultati notevoli e molto interessanti.

domenica 18 febbraio 2018

LA PESTE DEL DECOSTRUZIONISMO

Senza dubbio l'uomo più nocivo vissuto nel XX secolo fu il filosofo francese Jacques Derrida, nato Jacques Élie Derrida. Il suo nome di certo dirà poco alla massima parte dei navigatori: l'entropia del mondo macina ogni cosa e ne disperde il pulviscolo nell'Oblio. Eppure le conseguenze di ogni atto e di ogni parola rimangono, assumendo proporzioni drammatiche che in certi casi arrivano a riempire di sé l'intera società umana. Nessuno potrebbe mai sospettare la spaventosa gravità della colpa di Derrida. Eppure le cose stanno così. Fu proprio quest'uomo a inoculare nel genere umano un tremendo virus memetico che ha portato all'annientamento di ogni capacità di giudizio, minando alla radice la stessa possibilità di conoscere. Chi viene colpito dal contagio diventa cieco all'ontologia e mostra sintomi di una grave forma di demenza. Ha così avuto origine l'Era Postmoderna, in cui l'insania derridiana ha completamente permeato l'Occidente, riducendolo rapidamente a una poltiglia infetta.

Una biografia sintetica  

Jacque Èlie Derrida nacque nel 1930 ad Algeri, nel quartiere di El Biar, da famiglia di origine ebraica sefardita, di condizione benestante. Il suo curriculum è decisamente notevole. Dopo inizi difficili, fu ammesso all'École Normale Supérieure (ENS), dove Louis Althusser fu suo tutor e amico. Completò il suo dottorato in filosofia su Edmund Husserl. Vinse una borsa di studio all'Università di Harvard. Dopo la guerra insegnò alla Sorbona come assistente di Suzanne Bachelard, Georges Canguilhem, Paul Ricœur e Jean Wahl, tenendo seminari su Hegel, Husserl e Heidegger. Su raccomandazione di Altuhusser, ottenne quindi una cattedra all'ENS. Fu fondatore del Collège International de Philosophie, quindi directeur d'études presso l'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Ricevette un dottorato onorario dalla Columbia University, seguito da numerosi altri (University of Cambridge, The New School for Social Research, University of Essex, Katholieke Universiteit Leuven, University of Silesia, etc.). Fu professore alla University of California, Irvine (UCI), oltre che professore itinerante in moltissimi atenei sparsi per il mondo. Fu membro dell'American Academy of Arts and Sciences. Ricevette l'Adorno-Preis dall'Università di Francoforte. Morì nel 2004 a causa di un tumore al pancreas, durante un intervento chirurgico. Scompariva così un essere al cui confronto Heydrich dovrebbe essere considerato innocuo come un baco da seta.   

Decostruzione e decostruzionismo

Derrida ha utilizzato il termine Decostruzione (Déconstruction) per tradurre in pratica l'invito di Heidegger alla Destruktion della metafisica. Stando alle parole del filosofo sefardita, la Decostruzione è la "denaturalizzazione del naturale". Essenzialmente si tratta della critica della relazione tra il testo e il significato. L'oggetto del linguaggio, su cui si fonda ogni testo, è ritenuto intrinsecamente complesso, instabile e impossibile a determinarsi. Così per Derrida si rende necessario operare un'analisi serrata in cui i testi degli autori occidentali vengono sottoposti a un minuzioso confronto interno allo scopo di evidenziarne le incoerenze e di portare alla luce tutto ciò che è implicito, come i presupposti e i pregiudizi nascosti. La tesi contrabbandata è molto chiara: tutto ciò che è conoscenza accertata diventa "fascismo" e "razzismo". Queste idee sono espresse tramite l'uso di un linguaggio densissimo, ermetico, pieno di neologimi deleteri. Solo per fare un esempio, Derrida prende il Logos, lo ibrida col fallo e crea il "fallogocentrismo". Si tratta di fumisteria che nasconde ben altro! Il decostruzionismo ha contaminato numerose scienze, influenzando in modo profondo l'architettura, l'arte, la letteratura, il diritto (ne sono nate le sentenze dei Cainiti), la politica (ne è nato il buonismo politically correct), la religione (ha ucciso la teologia cattolica e il Buddhismo lamaista; ha dato origine al Bergoglionismo) e persino la linguistica (Alinei e Semerano sono da considerarsi derridiani radicali). Non c'è campo del pensiero e della creatività umana che sia rimasto immune al morbo.

Il virus Derrida

A riconoscere per primo la natura della Decostruzione e a creare la locuzione "virus Derrida" è stato il matematico e divulgatore scientifico greco Nikos Angelos Salingaros. Nel suo saggio, intitolato per l'appunto The Derrida Virus, parte della raccolta Anti-Architecture and Deconstruction: The Triumph of Nichilism (2004), egli non esita a usare una metafora biologica particolarmente forte per descrivere la sciagurata opera del filosofo francese. Egli afferma giustamente che le idee derridiane, applicate in modo critico, sono responsabili della distruzione del pensiero logico. A chi trova stravagante il mio linguaggio, dirò che non soltanto Salingaros ha usato il concetto di meme per spiegare l'azione del decostruzionismo, aggiungendo che la paternità della memetica si deve a Richard Dawkins, che l'ha elaborata nella sua analisi della propagazione delle idee. Riporto un link al lavoro del matematico greco, in lingua inglese, la cui lettura caldeggio vivamente a tutti. 


Purtroppo l'infezione è stata riconosciuta tardi, quando ormai era generalizzata. Possiamo ben dire che Salingaros ha chiuso la stalla dopo che i buoi erano già scappati, oppure che ha urlato "al fuoco!" quando ormai la città era stata ridotta in cenere. Una cosa molto triste. 

Il corredo memetico del virus Derrida 

Vediamo ora di analizzare la struttura del patogeno decostruzionista e le sue insidiose modalità di azione. Tutto è partito in sordina, senza che nessuno potesse anche soltanto sospettare la pericolosità di ciò che stava accadendo. Quando era ancora uno studente universitario, il giovane Derrida ha tratto materiale memetico dalla fenomenologia di Edmund Husserl e dall'ontologia essenziale di Martin Heidegger, fabbricando in modo astuto le prime sequenze del virus, riuscendo a mascherarle, a farle passare per una forma innovativa di critica testuale. Per quanto la cosa possa stupire, l'analogia tra le mutazioni dei memi e quelle dei geni che codificano i corpi dei veventi è profonda. Mentre il virus biologico attacca le cellule dell'ospite, replicando a dismisura il proprio RNA o DNA fino a farle esplodere, il virus memetico attacca l'intelletto della persona infettata, replicando a dismisura le proprie unità significative, che sono pacchetti di informazioni degeneri pronte a diffondersi e a perpetuare il ciclo dell'annichilimento cognitivo. Se i memi tratti dal pensiero di Husserl e di Heidegger costituiscono la base fondante dei filamenti di RNA concettuale, furono presto inglobati nella struttura virale altri elementi molto importanti, perché in grado di favorire la propagazione di questo morbo metafisico e di mascherarne la natura esiziale: sono sequenze prese dalle scenze umane, soprattutto dalla psicanalisi, dalla linguistica e dalla politica. L'habitat ideale in cui è iniziata la pullulazione del patogeno era costituito dal dibattito sul cosmopolitismo, sulla natura della democrazia, sui diritti degli esseri umani e degli animali, sul superamento dell'umanesimo, sull'Europa Unita e sulla crisi della sovranità. Un humus mortifero che ha permesso l'esplosione della Grande Pandemia di Demenza. Questo scrive Salingaros nel sopracitato saggio The Derrida Virus (traduzione del sottoscritto): 

Critici altrimenti acuti hanno commesso l'errore di respingere Derrida come un altro inintelligibile filosofo francese. Eppure ciò che egli ha introdotto è molto più pericoloso. Egli trasforma la conoscenza in casualità, proprio come un virus distrugge gli organismi viventi disintegrando le cellule individuali. Le sue proprietà possono essere riassunte così:

 01. Il virus ha una piccolissima quantità di informazioni codificate sia come lista di istruzioni da seguire o come esempi da copiare.
 02. All'interno di un ospite appropriato, il virus dirige la parziale disintegrazione dell'ordine e della connectività nella struttura dell'ospite stesso.
 03. Il virus dirige quindi il riassemblaggio di porzioni della struttura dell'ospite, ma in un modo che nega le connessioni necessarie a realizzare la coerenza o la vita.
 04. Il prodotto finale deve codificare il virus nella propria struttura.
 05. Un prodotto decostruito è il veicolo di trasmissione del codice virale nel prossimo ospite.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti! 

Un esempio da Quora

Il sito Quora, in cui ogni utente può porre al pubblico qualsiasi domanda e ottenere una serie di risposte, è un miscuglio di perle e di sterco. Si trovano quesiti molto intelligenti a cui danno risposta uomini di Scienza e che aiutano il lettore. Va anche detto che specialmente su Quora in inglese si trovano numerose domande del tipo: "Perché sono nauseante quando smerdo?", "Perché mi piace annusare piedi sporchi?", "Come posso uccidere Adolf Hitler?" e via discorrendo. Tra tante colossali stronzate, ho scorto l'azione del virus Derrida. Un utente si è imbattuto in un archeologo che sostiene a spada tratta una tesi singolare e folle come il Terrapiattismo o il bicarbonato per curare il cancro: il Cristianesimo non sarebbe esistito prima di Alcuino e sarebbe anzi stato inventato ex nihilo dal monaco di York. Ecco il testo"A Quoran archaeologist-historian argues there is no textual evidence for a Christian theological tradition in the West prior to the life of Alcuin (735-804 CE), and that earlier Christian history is a fiction. Is there any rigorous counterargument?". C'è stato chi si è messo a fare un lavoro certosino di raccolta di prove, scrivendo papiri che hanno sui derridiani l'effetto dell'acqua su un impermeabile.

Possibili cure

Salingaros sostiene acutamente che il virus Derrida non può essere combattuto a livello di dibattito intellettuale. Lo stesso Derrida lo ha detto, anche se nessuno gli ha dato retta: "[Il virus] è qualcosa che non è né vivente né non vivente: il virus non è un microbo. E se segui queste due tracce, quella di un parassita che distrugge la destinazione dal punto di vista comunicativo, interrompendo la scrittura, la codifica e la decodifica dell'iscrizione - e che d'altra parte non è né vivo né morto, hai la matrice. Alludo alla possibile intersezione tra l'AIDS e i virus dei computer...". Parole di xenogenesi memetica, che fanno tremare. Il matematico greco arriva alla giusta conclusione che il solo modo di neutralizzare il virus è interrompere alla radice la sua catena di trasmissione: "Siccome il virus non è un vivente, non ha senso attaccarlo con il ridicolo o con criteri logici come quelli di verità e di consistenza. Queste tecniche sono adatte a falsificare e a smantellare sistemmi infinitamente più complessi, che hanno una corrispondente vulnerabilità. Il virus Derrida virus è semplicemente un'informazione codificato nei circuiti neuronali umani e nell'ambiente fisico esterno. Esso risiede negli individui indottrinati programmati per spargerlo, nelle costruzioni e nei testi che ci infettano attraverso sistemi visuali. Il solo modo di fermarlo è fermare i suoi modi di trasmissione informativa". Tuttavia, leggendo Salingaros, ci si rende ben presto conto che nel suo testo mancano indicazioni su metodi concreti per fermare il propagarsi del virus memetico. Le sue conclusioni hanno dell'incredibile. Concentrandosi sull'architettura e dimenticandosi del resto, afferma che "È improbabile che i convertiti alla decostruzione possano essere persuasi ad abbandonare il loro cammino irrazionale. Tuttavia è probabile che la salute e la razionalità siano restaurate attraverso nuove generazioni di architetti". Egli è come un medico che di fronte all'infuriare della peste polmonare, fa spallucce e dice: "È improbabile che gli appestati possano essere convinti a ritornare in salute. Tuttavia è probabile che in futuro si possa ottenere la guarigione tramite una nuova generazione di filosofi". Una conclusione che sembra quasi... derridiana! Non sono così ottimista. A mio avviso l'unica cura possibile, purtroppo irrealizzabile, consiste nella soppressione di chi ha in sé il patogeno e opera per diffonderlo. Se dipendesse da me, userei i sistemi di Ezzelino III da Romano e dei Tokugawa. 

giovedì 15 febbraio 2018

CONTRO IL SEMERANISMO

Nel panorama della pseudoscienza linguistica italiana portata avanti da rappresentanti del mondo accademico, un posto di rilievo spetta senza dubbio alle teorie di Giovanni Maria Semerano, nato a Ostuni nel 1911 e deceduto a Firenze nel 2005. Se l'idée fixe di Mario Alinei è l'origine paleolitica dei dialetti europei, il nucleo dell'edificio teorico di Semerano consiste invece nella negazione stessa dell'esistenza di una protolingua indoeuropea e in una sorta di fumoso paleocomparativismo accadico-sumerico. Il suo metodo è tutto incentrato sull'affermazione della paretimologia basata unicamente sull'assonanza. Una volta presa come metro e misura del linguaggio umano la lingua accadica - spesso e volentieri confusa con la lingua sumerica - ogni parola di una qualsiasi altra lingua viene manipolata con arti da prestidigitatore per giungere alla sua fantomatica radice mesopotamica. 

La metodologia semeraniana è particolarmente grossolana, dilettantesca, oserei dire quasi brutale. Solo per fare un esempio, prende il prenome latino Marcus e lo paragona all'accadico māru "figlio", senza nemmeno accertare il suo significato d'origine. Viene ignorato il fatto che Marcus deriva dal nome di Marte (Mars, gen. Martis), e che ha parallelismi ben chiari in osco. Sappiamo, poiché ce lo dicono gli Antichi, che il nome osco di Marte era Mamers, e si capisce subito che da questo è derivato l'antroponimo Mamercus. Quindi Marcus sta a Mars come Mamercus a Mamers. Sappiamo anche che la forma arcaica di Mars era Mauors /'ma:wors/. Così Marcus viene da un precendente *Mauortikos /'ma:wortikos/. Tutto questo è rimosso a priori da Semerano, che non esita a separare una parola da tutti i suoi parenti e a isolarla dalle dinamiche della lingua a cui appartiene per proiettarla in un mondo molto distante nello spazio e nel tempo. 

Un'altra "perla" semeraniana riguarda la parola greca ápeiron "infinito". Per il filologo di Ostuni, ápeiron non avrebbe nulla a che vedere con péras "confine" e non significherebbe "senza confini". La prova sarebbe a parer suo, l'inesplicabile alternanza tra -e- e il dittongo -ei- > /-e:-/. Ora, basta leggersi la grammatica greca di Marucco e Ricci per comprendere che ápeiron "infinito" viene da una precedente forma *ṇ-per-jom, essendo a- < *ṇ- il normalissimo prefisso negativo, ed essendo il dittongo derivato da metatesi dell'originale -j-: il mutamento è -*erj- >-eir- > /-e:r-/. Allo stesso modo mélanja "nera" è diventato mélaina. Queste cose per Semerano non rilevano, dato che la sua conoscenza proveniva essenzialmente dallo spulciare i dizionari raffazzonando assonanze. Ecco che ha inventato una fanfaluca colossale: ápeiron non significherebbe a sentir lui "infinito", bensì "polvere". La parola sarebbe venuta dal babilonese eperu "polvere, terra" e avrebbe acquistato il significato riportato sui dizionari a causa del detto biblico "polvere eri e polvere ritornerai". Tutto questo nonostante non esista un solo barlume di collegamento di ápeiron con significati come "polvere" o "terra" in tutta la letteratura greca. 

Sarebbe troppo lungo esporre in dettaglio le assurdità spacciate per etimologie in totale disprezzo del metodo scientifico. Le parole delle più svariate lingue sono trattate nelle opere di Semerano senza alcun rispetto per la loro struttura, analizzate male e fatte cozzare a dispetto di gravissimi problemi semantici. Accade così che il latino res /re:s/ "cosa" viene "spiegato" con il babilonese rēšu "testa", "capo", ma anche "unità da computare", "beni", passando sopra al fatto che in latino la -s di res è un suffisso del nominativo. Non si vede perché ricorrere ad acrobazie quando il sanscrito rāḥ "ricchezza, proprietà" (acc. sing. rāṃ, rāyaṃ) spiega tutto alla perfezione. Passando in rassegna i vari significati che res assume in latino, vediamo che il suo significato originaro non può avere a che fare col concetto di "testa". Che la parola accadica abbia proprio il significato originario di "testa" lo prova tra l'altro il suo corrispondente ebraico rōš.

Ho letto che Spadolini era preso da una profonda angoscia perché ignorava la vera etimologia di Italia. Così ha chiesto lumi a Semerano, che era per lui una specie di guru. Il filologo ha spiegato al massiccio politico che è da ritenersi errata la tradizionale etimologia che deriva Italia da vitulus "vitello" e traduce il toponimo come "Terra dei Vitelli". Questo perché vitulus ha una -i- breve, mentre la prima i- di Italia è lunga. Così ecco che per magia tira fuori dal cilindro magico un babilonese Atalu "Terra del Tramonto". Certo, non ha senso confrontare una /i/ breve con una /i:/ lunga, ma possiamo immaginarci come migliorino le cose confrontandola con una /a/! Il bello è che Spadolini se l'è bevuta. Il fatto che Esichio riporti una glossa italós "toro" è stato ritenuto irrilevante. Evidentemente è una parola tirrenica priva di relazione con vitulus < IE *wet-. Può essere utile far notare che in osco si ha la forma Víteliú /wi'telljo/ "Italia", chiaramente rimodellata sull'associazione a una parola simile al lat. vitulus. In umbro troviamo vitluf, vitlu "vitelli" (acc. pl.).

La teoria di Alinei è certo molto utile ai movimenti identitari, ai nazionalisti come ai separatisti di vario genere, perché proietta il presente nel passato più lontano postulando una continuità, accentuando così il legame col territorio. Cancella l'Ignoto, pur sostituendolo con qualcosa di falso. Per contro, la teoria di Semerano svolge un compito politico del tutto diverso. Lo stesso autore scrisse: "Le nostre pagine mirano a colpire ideologie deleterie, che sfociano nel razzismo, le stesse che nell'antichità divisero Indoeuropei e popoli antichissimi non-Indoeuropei, tra noi Arii, dominatori, e Semiti “complesso etnico inferiore”." Addirittura arrivò a dire: "Le perfidie etimologiche ebbero l'ardire di appollaiarsi al posto della Storia". In realtà è stato proprio lui a fare propaganda conducendola senza scrupoli, falsificando in modo sistematico la linguistica, la Storia e la stessa logica. Il fine ultimo del becero paleocomparativismo semeraniano è la distruzione della linguistica indoeuropea perché creduta l'origine delle dottrine naziste. Il ragionamento - assolutamente fallace - è molto semplice ed enunciabile in questi termini: "Adolf Hitler ha fondato il mito della razza Ariana e della sua superiorità su ragioni linguistiche, ossia sul concetto di protolingua indoeuropea, quindi cancellando tale concetto ecco che si sconfigge anche l'hitlerismo e ritornano i Puffi". Secondo questi deliri, una protolingua comune ricostruita a livello teorico a partire da lingue attestate implicherebbe per necessità un popolo unitario, compatto e dotato di caratteristiche semidivine. Basta qualche ragionamento sul Nazionalsocialismo e sul contesto in cui nacque per comprendere l'assurdità di queste tesi. Il razzismo scientifico ottocentesco e novecentesco ha la sua chiara origine nelle dottrine evoluzionistiche di Darwin. Hitler non è certo diventato un darwinista sociale e un antisemita radicale studiando grammatiche di sanscrito! In questa Italietta si fa di tutto per banalizzare ciò che si teme e che non si capisce (ecco che i nazisti diventano "quei brutti-cattivi che hanno paura del diverso e non vogliono l'amico negretto a scuola"), così non deve stupire se le mostruose baggianate dell'indoeuropeo come "razzismo linguistico" hanno trovato fertile terreno. Per quanto riguarda il razzismo di origine darwinista, giova notare che quando nacque e crebbe non si conosceva nemmeno l'esistenza del DNA. Nessuno sembra considerare che è cosa a dir poco stolta pensare di combattere un'ideologia servendosi di palesi fabbricazioni.

Non appartengo certo al novero dei neogrammatici e sono il primo a riconoscere l'importanza dei sostrati preindoeuropei. Profondo molte energie nella loro ricostruzione e nel tentativo di comprenderne l'origine ultima. Non condivido coloro che tentano di negare l'esistenza dei sostrati ricostruendo protoforme indoeuropee improbabili per ogni singola oscura parola. I rapporti tra lingue semitiche, protolingua indoeuropea e lingua sumerica devono essere studiati seguendo il metodo scientifico. Lungi da me ogni forma di razzismo linguistico! Proprio per questo riconosco nel semeranismo un grave pericolo. Il Semeranismo, come l'Alineismo, persegue finalità politiche stravolgendo i dati di fatto accertabili e conoscibili, quindi si serve della menzogna e al contempo la serve.

L'accoglienza dell'opera di Semerano in svariati ambienti politici della sinistra italiana è stata putacaso a dir poco entusiastica. Si riporta ad esempio l'opinione di Massimo Cacciari, che esaltò i ponderosi tomi dello studioso di Ostuni come "una festa per l'intelligenza". Altri semeranisti sfegatati sono il filosofo Emanuele Severino, il filosofo Umberto Galimberti, il filologo Luciano Canfora e lo storico Franco Cardini. Anche il defunto esoterista Elémire Zola è ascrivibile a questo novero. Il sostegno alle dannose favole semeraniane è trasversale e più diffuso di quanto non si possa credere. Si segnala la piaggeria stomachevole dei quotidiani, in particolare Repubblica, che ha addirittura avuto l'ardire intitolare un articolo "Il linguista che fa tremare l'accademia". Anche se non sono comuni come i troll alineisti, i troll semeranisti esistono nel Web. Basti guardare la sezione "Discussione" nella pagina della Wikipedia in italiano dedicata a Semerano, in cui un linguista ha subìto aggressioni verbali. In Sardegna, dove il paleocomparativismo regna sovrano, imperversano due fazioni opposte: i feniciomani, che attribuiscono l'origine della lingua sarda ai Fenici, e i sumeromani, che l'attribuiscono invece ai Sumeri. I sumeromani si sono parzialmente sovrapposti ai semeranisti, dando origine a episodi anche poco piacevoli, come i violenti attacchi al linguista Eduardo Blasco Ferrer (R.I.P.), che è stato perseguitato come un martire cristiano sotto Diocleziano.

Ho visto cose che voi umani... Ho visto semeranisti strepitare e tirare in ballo Giordano Bruno, paragonando gli indoeuropeisti all'Inquisizione, il tutto dopo aver coperto di contumelie i loro interlocutori. A questo punto possiamo farci una domanda. Chi ha interesse a fomentare tutta questa pseudoscienza, tutta questa disinformazione linguistica? Eh, penso che sia possibile fare qualche ipotesi. Le radici degli studi di Semerano sono esoteriche. Ricordo che anni fa, un affiliato a una loggia massonica se ne uscì con un'etimologia ridicola: egli separava "dannato" da "dannazione" e da "danno" (latino damnatus, damnatio e damnum rispettivamente), per sostenere a spada tratta che la sua origine sta nel greco thánatos "morte". Per lui l'identità dannato - thánatos era un dato di fatto, a cui aggiungere qualche fumisteria esoterica. Come criticai la sua falsa etimologia, andò su tutte le furie. Era forse un semeranista? No, a quanto pare non aveva mai sentito parlare di Giovanni Semerano. Tuttavia la metodologia di cui faceva sfoggio era identica. C'è da riflettere.

lunedì 12 febbraio 2018

CONTRO L'ALINEISMO

Quando la Scienza viene meno ai propri princìpi per asservirsi alla politica, diventa all'istante Pseudoscienza. La trasformazione è drammatica e irreversibile. La Pseudoscienza può essere paragonata a un albero infestante che produce frutti mostruosi quanto nocivi: non ne sortirà mai nulla di buono, neppure per puro caso. Se a diffondere idee pseudoscientifiche è un pazzoide senza titolo alcuno, che delira senza sosta sui Rettiliani, si tende a non dare troppo peso alla cosa. Tanto si tratta per l'appunto di un pazzoide, spesso senza arte né parte, del tutto privo di qualsiasi traccia di istruzione e di cultura scientifica. Ai tempi di Carlo Cotenna c'era un individuo bizzarro che girava Milano in bicicletta, cercando di diffondere la sua grande scoperta, riassumibile in una frase stringata: "La Terra è piatta". Veniva deriso da tutti, anche dai più ignoranti popolani. Cosa dire invece quando a formulare teorie assurde e contrarie ai dati di fatto è un luminare? Questa è una cosa terribile, un funesto portento di questi tempi degeneri. Provate a immaginarvi uno studioso, parte del mondo accademico, con un curriculum da far paura e la conoscenza di una gran mole di informazioni, che si mette a costruire a tavolino una teoria assurda quanto il terrapiattismo o l'antivaccinismo, diffondendola poi con grandi mezzi tra le genti. Forse non lo sapete, ma cose simili accadono davvero.

Un esempio di teoria pseudoscientifica diffusa da un accademico di fama è quella che va sotto il nome di Continuità Paleolitica, escogitata dal linguista Mario Alinei. Non si tratta di uno sconosciuto. Non è nemmeno un rubicondo cronista sportivo come David Icke o un terrapiattista friggitore di psilocybe. Nato a Torino nel 1926, Alinei è professore emerito all'Università di Utrecht, dove ha insegnato per molti anni (1959-1987). Fondatore della rivista Quaderni di Semantica, è stato presidente dell'Atlas Linguarum Europae presso l'Unesco assieme ad Anton Weijnen dell'Università di Nimega. È autore di numerosissime pubblicazioni ed è un'autorità nel campo della dialettologia. Per rendersene conto basti guardare la sua bibliografia, facilmente reperibile nel Web. A quanto sono riuscito ad apprendere, Alinei fu un pioniere dell'uso del computer nella linguistica. Il dialettologo serbo Pavle Ilić ha dichiarato che "Alinei è uno tra i non numerosi linguisti europei che già negli anni '60 erano desiderosi e capaci di applicare i risultati delle innovazioni tecnologiche allo studio del linguaggio". Le cose hanno assunto una svolta improvvisa e sorprendente quando il luminare torinese si è ritirato, nel 1996. A partire da quella data, si è messo a produrre una mole immensa di lavori tutti incentrati sull'idée fixe dell'origine delle lingue indoeuropee nell'Europa del Paleolitico Superiore. Secondo la sua teoria, ogni lingua e soprattutto ogni dialetto di origine indoeuropea dell'Europa attuale sarebbe stato parlato senza interruzione e in forma riconoscibile fin dall'epoca più remota, anteriore addirittura alla fine dell'ultima glaciazione. In pratica, la protolingua indoeuropea risalirebbe a Homo erectus!

Prendiamo per esempio il lombardo, ben rappresentato dal dialetto di Milano. Secondo Alinei, le sue caratteristiche sarebbero già state presenti prima ancora della rivoluzione agricola, prima ancora della comparsa dell'aratro. Così, immaginiamo che con una macchina del tempo, senza muovermi nello spazio, io arrivi da un cacciatore-raccoglitore del Leptolitico e lo apostrofi così: "Ti, balabiòtt, va a dà via i ciapp e càghes adòss!". Ebbene, a quanto pare il glottologo continuista è assolutamente certo che sarei capito alla perfezione e che il cavernicolo mi risponderebbe: "Tel rüzzi denter in del cü, sacrament d'un'òstia!". Il tutto con una bestemmia inconcepibile prima di Cristo. La cosa travalica talmente i confini del ridicolo che ci sarebbe da considerarla una barzelletta. Che non sia una vana facezia lo dimostra il fatto che la reazione del mondo scientifico a queste scempiaggini è stata a dir poco flaccida. Così è riportato in Wikipedia: "Questa sua (e di pochi altri studiosi e accademici) visione della storia delle lingue e dei "dialetti" d'Europa contrasta con quella "corrente" ed è rifiutata dalla maggior parte dei linguisti storici “tradizionali”." Diabole! Un giudizio blandissimo, di un'incredibile tolleranza!

Tutto ciò che non conocorda con i dogmi alineisti, viene semplicemente rimosso, passato sotto silenzio come se non fosse mai esistito. Così sono fatte scomparire moltissime lingue parlate in epoca antecedente alla diffusione del latino. Le loro attestazioni scritte non rilevano. Le lingue italiche sono ritenute inesistenti! Le lingue celtiche sono ritenute inesistenti! Intere masse di antroponimi ben dcumentati, che non collimano con l'idea di Alinei, non vengono nemmeno menzionati! Dove questa strategia non riesce, come nel caso della lingua etrusca, che non può semplicemente esser fatta sparire nel Nulla, ecco che viene ridefinita. Siccome nell'Europa centrale esiste un'unica isola non indoeuropea, l'Ungheria, ecco che l'etrusco viene dichiarato ungherese! Gli Etruschi vengono considerati una naturale propaggine dei Magiari, nonostante questi ultimi siano migrati nelle loro attuali sedi in epoca medievale! I dati della lingua dei Rasenna vengono fatti a pezzi e rimontati a piacimento, ovviamente per essere confrontati con l'ungherese contemporaneo proiettato nella preistoria, con tanto di prestiti da lingue slave e altaiche! Del resto le lingue uraliche e quelle altaiche sono confuse e vengono affermate le equazioni Magiari = Turchi e Turchi = Etruschi! Non dovrebbe sorprendere che Alinei in Ungheria sia ritenuto un eroe nazionale, al punto che le sue baggianate sull'etrusco-ungherese sono addirittura strombazzate come una "scoperta". Una tattica semplicissima, comprensibile da tutti. E che dire dei Baschi e della loro enigmatica lingua? Semplice: sarebbero migrati da Marte in epoca recentissima!

Se si risapesse cosa penso della perniciosa opera di Alinei, subito qualcuno si inalbererebbe urlando allo scandalo. "Luminare giudicato da un blogger!", esclamerebbero. La cosa molto probabilmente non avverrà, anche perché i miei scritti non li legge quasi nessuno, li pubblico soltanto per diletto mio e di pochissimi altri. In ogni caso il problema sussiste. Se qualcuno osa insorgere contro un'idea palesemente falsa e dannosa diffusa da uno studioso, viene ritenuto "arrogante" e "intollerante", il più delle volte da gente che non ha alcuna competenza nel campo in questione. Il mondo accademico è malato, è come se fosse affetto da una grave forma di morbo di Alzheimer che ne corrode il senno.

Questo però non è tutto. Esistono propagandisti attivissimi, a cui possiamo ben dare il nome di alineisti militanti, che cercano di diffondere con ogni mezzo la teoria della Continuità Paleolitica nei social network e nei forum. Dovunque ci sia una discussione su un argomento sensibile, arrivano prontamente. Hanno tutte le caratteristiche di una setta di fanatici. Sono tutti uguali e scrivono tutti le stesse identiche cose. Mettono il massimo impegno nel catechizzare i presenti, riportando lunghi papiri con gli enunciati delle dottrine di Alinei. Come se si trattasse di una gemma di inestimabile valore, ecco che forniscono l'url del sito del loro signore e mentore, denominato Continuitas. Ogni volta che avviene questa operazione, parlano di tale portale con estrema deferenza, con frasi del tipo "Questo è il loro sito" (dei continuisti), con tono sacrale, come se si aspettassero che i presenti si mettessero a prostrarsi in adorazione. A ogni minima obiezione, sommergono gli interlocutori con scritti lunghissimi senza né capo né coda, pieni di deliri e di paralogismi. Non ascoltano e pretendono di avere la parola soltanto loro. I loro argomenti sono di questo tenore: "Risalendo al passato c'è sempre unità, quindi le teorie di Alinei sono giuste". Il fatto che andando indietro nella storia di diverse lingue si arrivi a una protolingua comune, da ricostruirsi con fatica, non implica affatto che si possano prendere lingue viventi per proiettarle immutate nel Paleolitico! 

Adesso vediamo un po' di capire quale sia l'origine di questi partigiani delle teorie di Alinei. Evidente come la luce del sole è il fatto che a muoverli siano basse motivazioni politiche. La politica è una brutta bestia e soprattutto ha risorse da spendere per le sue finalità squallidissime. Riporto il commento di un navigatore, Tom Sawyer, apparso su un thread politico come risposta a un missionario alineista: 

"il problema pero’ e’ che questa teoria non e’ accettata dalla comunita’ scientifica, mentre viene esaltata (per motivi politici) in ambienti che non hanno niente a che fare con la scienza. puo’ darsi che alinei sia un genio incompreso, e puo’ darsi che no. qui nessuno e’ un esperto di linguistica comparata, di glottologia, di archeologia ecc., e quindi la questione resta in sospeso. quel che NON resta in sospeso e’ che l’ estrema destra russa utilizza questa teoria per motivi, diciamo cosi’, poco nobili. idem per l’ estrema destra slovena. idem per l’ estrema destra veneta. il motivo e’ chiaro: tutti questi gruppi vedono in questa teoria un buon argomento per opporsi all’ immigrazione, oppure per avanzare rivendicazioni territoriali. io non ho niente contro alinei. ma se questa teoria (che e’ ancora ampiamente da dimostrare, per quel che ho capito) viene utilizzata in questo modo dai gruppi di cui sopra, allora siamo di fronte ad un uso strumentale della scienza, che andrebbe condannato senza riserve. da alinei per primo."

Tutto è molto chiaro. A foraggiare è nientepopodimeno che Putin. Al tiranno russo interessa aumentare con ogni mezzo l'entropia in Europa, e a questo scopo profonde capitali ingentissimi. Tom Sawyer non può avere che un vago sentore di quanto le idee di Alinei distino dalla realtà delle cose, ma di certo ha una grande capacità intuitiva. Purtroppo mostra un po' di ingenuità quando dice che lo studioso dovrebbe condannare per primo l'uso strumentale della Scienza. Il fatto è che la Continuità Paleolitica non è affatto Scienza. Parrebbe (il condizionale è d'obbligo) costruita proprio perché la politica possa farne un uso strumentale.

Rimando a quest'altro mio post sull'argomento:

giovedì 8 febbraio 2018

ETRUSCO ZAMTHI- 'ORO' - LATINO SANTERNA 'CRISOCOLLA'

Una fibula d'oro porta la seguente iscrizione in lingua etrusca (ET Cl 2.3): 

mi araθia velaveśnaś zamaθi mamurke mulvenike tursikina

La traduzione è molto semplice:

"io sono l'oro di Arath Velavesna, Mamurce Tursikina <mi> ha donato"

Il lemma zamaθi significa "oro", anche nel senso di "oggetto d'oro", "gioiello d'oro". Anche in italiano si usa "gli ori" in una simile accezione. Purtroppo, dal momento che questo uso della parola "oro" non si trova in inglese, gli accademici anglosassoni si rifiutano di credere a questa traduzione, così insistono col voler tradurre zamaθi con "fibula". Nonostante sia stato fatto notare che un tempo l'inglese gold poteva indicare anche un oggetto d'oro e non soltanto il metallo in sé, nessuno sembra averne preso atto. Ricordo ancora polemiche furibonde nate dalla discussione di questo argomento. Sappiamo che gli anglosassoni hanno la brutta tendenza ad applicare le categorie della propria lingua all'intero Universo, cosa che spesso li porta in un vicolo cieco. Se in una qualsiasi lingua una parola traduce sia "gold" che "golden object" o "golden jewel", ci sono persone che vanno fuori di testa e hanno un subitaneo travaso di bile. Impossibile, essi dicono, arrivando a diventare più paonazzi del fallo di un priapico imbottito di viagra. Seguendo voli pindarici, ci fu persino chi arrivò a ipotizzare una parentela con l'urritico zalamši-, zalmatḫi- "statua" (un prestito dall'accadico ṣalmu "statua") - e questo a dispetto della materialità dell'oggetto (!), come se le difficoltà semantiche fossero irrilevanti.

Ora elenchiamo due dati di fatto incontrovertibili:

1) La radice in analisi compare anche nel Liber Linteus come forma aggettivale zamθi-c "d'oro, aureo" con la variante zamti-c. Il testo ha caperi zamθic (VIII, 10) e caperi zamtic (XII, 12), traducibile come "nel vaso d'oro", nel qual caso dovremmo ammettere un aggettivo indeclinabile. Data la scarsa comprensione di entrambi i passaggi del documento in cui compaiono le riportate attestazioni, potrebbero anche esistere altre soluzioni, anche se risulta evidente che il significato di "fibbia" non ci azzecca proprio per nulla.

2) Esiste in latino il vocabolo santerna "crisocolla", che non viene semplicemente considerato dagli etruscologi, a dispetto della sua terminazione caratteristica. La crisocolla, a scanso di equivoci, è un minerale non pregiato, che all'epoca veniva utilizzato per l'estrazione del rame e per la produzione di un omonimo pigmento, anche noto come colla d'oro, viride, verde di banda, hispanicum, lutea e orobitis. Appartiene alla famiglia dei silicati e ha un bel colore verde brillante o bluastro. La classificazione Strunz è 9.ED.20 e la formula chimica è (Cu,Al)2H1Si2O5(OH)4·n(H2O). Benissimo. Dovrebbe saltare all'occhio che crisocolla (lat. chrysocolla) è dal greco χρυσόκολλα, che deriva direttamente da χρυσός "oro". È del tutto lapalissiano dedurre che il termine santerna è direttamente dall'etrusco *zamθerna e che zamθi- è proprio la traduzione del greco χρυσο-! Fine della dimostrazione. 

Si noterà che l'enigmatico termine greco ξανθός /ksan'thos/ "giallo" è un relitto pre-ellenico imparentato con il lemma etrusco in analisi.

Concludo con una riflessione. Se si dimostra qualcosa con l'uso della logica, giungendo alla certezza dove regnava il dubbio, bisogna far in modo esista un'autorità scientifica in grado di porre la parola fine a ogni disputa e alla proliferazione di inutili quanto nocive ipotesi pseudoscientifiche. Teorie vecchi e superate, ormai smentite dai fatti, non dovrebbero saltare fuori come cadaveri putrefatti da una palude. Invece si nota che manca ogni forma elementare di controllo sulle falsità palesi e di diffusione attiva delle informazioni attendibili, evidentemente perché i settari archeologi si oppongono con ogni mezzo: sembra che ci sia un diffuso interesse a impedire di giungere a una buona conoscenza della lingua dei Rasenna. 

ETRUSCO NETS'-, NETHS'- 'INTERIORA'

Nell'iscrizione bilingue di Pesaro, di età augustea, abbiamo l'attestazione del termine netśvis "aruspice".

Il testo latino è il seguente: 
 
L. caf(at)ius . l . f . ste . haruspex | fulguriator  

Questo è il testo etrusco: 

cafates. lr. lr. netśvis . trutnvt . frontac  

Tutto molto chiaro:

netśvis = aruspice
trutnvt = interprete
frontac = delle folgori (agg.)

Evidentemente trutnvt frontac indicava il folgoratore, che non era un Goldrake o un Mazinga ante litteram, bensì colui che interpretava i fulmini.La vocale -o- del lemma frontac è scritta con un carattere speciale. 

In un'altra iscrizione (CI 1.1036) troviamo la variante netsviś. Poi abbiamo l'iscrizione del sarcofago di Laris Pulena, detto anche sarcofago del Magistrato, che ci mostra la locuzione ziχ neθśrac "libro aruspicino", in cui l'aggettivo è formato con l'usuale suffisso -c a partire da neθś-ra-, che evidentemente indica la scienza degli Aruspici (alla lettera "la cosa delle interiora"). La radice di questi lemmi, netś-, nets-, neθś-, indica infatti le interiora. Esiste un notevole parallelismo in greco, dove abbiamo la parola νηδύς "interiora, ventre, stomaco", evidentissimo relitto del sostrato pre-ellenico e privo di qualsiasi parentela nelle lingue indoeuropee.   

Anni fa, mentre vagavo nei gruppi di Yahoo!, mi capitò di imbattermi in un autore russo che con grande insistenza proponeva un'interpretazione bislacca e insensata del lemma etrusco netsviś. A sentir lui, il termine in questione avrebbe avuto il senso di "astrologo" anziché quello di "aruspice". La base della sua pseudotraduzione era a suo dire una radice protosemitica che trascriveva come /*ndZm/ e che doveva significare "stella". Stanco di continuare a vedere riproposta questa assurdità, ho fatto in brevissimo tempo le mie indagini. Orbene, in proto-semitico è ricostruibile *nagmu "segno", poi passato a significare "oggetto celeste" e infine "astro, stella". Da questa radice è derivato l'arabo najm /nadʒṃ/ "stella" (nel dialetto egiziano suona /neg/, con consonante velare /g/). Tutto ha avuto origine da un equivoco marchiano quanto grossolano nato dall'ignoranza più belluina, se non dal dolo: una trascrizione della consonante postalveolare sonora dell'arabo come /dʒ/ ha generato l'illusione  di un gruppo consonantico. L'autore, di cui non riesco proprio a ricordare il nome, a quanto pare è stato preso dal senso di inadeguatezza e di vergogna, dato che ha fatto perdere le sue tracce: ancora oggi non se ne riesce a trovare traccia alcuna nel Web. Una piccola vittoria contro la marea della Pseudoscienza.

domenica 4 febbraio 2018

ETRUSCO S'A 'QUATTRO': L'ARGOMENTO DELLA QUADRUPLICAZIONE

All'epoca di Pallottino si brancolava nel buio. Non c'era comprensione del fatto molto semplice che il lemma etrusco tamera significa "spazio funebre", "tomba". Abbondavano le ubbie e molti accostavano invano la parola a epiteti greci e anatolici indicanti titoli sacerdotali (es. luvio dammara-, cilicio-ciprio Tamiras), senza poter ottenere traduzioni sensate e concrete delle iscrizioni. L'etimologia di tamera è di chiara origine indoeuropea e indica qualcosa di meramente materiale: si tratta di un antico prestito dalla radice *tam-, che corrisponde a IE *dom-, con l'ara semantica di "casa" e "costruire". Facchetti rende tamera semplicemente con "camera", traduzione da me poco amata, dato che potrebbe trarre in inganno il lettore poco accorto, suggerendo per assonanza una falsa connessione con il vocabolo italiano (di ultima origine greca).  

Agostiniani fu il primo a notare che le locuzioni tamera zelarvenas e tamera śarvenas sono altamente significative e presentano un importante parallelismo. Infatti tamera zelarvenas significa "avendo raddoppiato lo spazio funebre", mentre tamera śarvenas significa "avendo quadruplicato lo spazio funebre". L'analisi delle forme verbali in questione è la seguente:

zel-ar-ve-nas "avendo raddoppiato" : va con zal "due" (alterna con zel-, esl-)
śa-r-ve-nas "avendo quadruplicato" : va con śa "quattro".

In entrambi i casi abbiamo un suffisso rotico. Si noti che zelur, trovato in un'altra iscrizione (San Manno, CIE 4116), si tradurrà con "duplice".

Per ulteriori approfondimenti, si rimanda a all'opera di Agostiniani Sul valore semantico delle formule etrusche "tamera zelarvenas" e "tamera śarvenas" (in Studi linguistici offerti a G. Giacomelli dagli amici e dagli allievi, Padova 1997).

Va subito detto che śar- in śarvenas si oppone a sar "dieci", che ha una sibilante diversa. A quanto pare le forme soggiacenti all'ortografia difettosa e incompleta sono rispettivamente /ʃa:r-/ "quadruplo" e /sar/ "dieci", che non presentavano ambiguità per il parlante, anche per il loro aspetto morfologico.

Quando ero al liceo, venni a conoscenza di una bella storiella.
La peste infuriava ad Atene, e tramite l'oracolo di Delfi si seppe che Apollo, infuriato, ne era la causa. La divinità ordinò di duplicare il suo altare, che si trovava sull'isola di Delo e che aveva forma cubica. Così fu subito costruito un nuovo altare raddoppiando lo spigolo di quello esistente. Fu così ottenuto un altare le cui facce avevano area quadrupla rispetto alle facce dell'altare originale, mentre il volume era otto volte maggiore. La pestilenza divenne ancor più grave, perché Apollo era infuriato a causa della brutale ignoranza delle sublimi leggi della geometria dimostrata dagli Ateniesi. Ci furono altri tentativi infruttuosi, compiuti da matematici, e la ricerca sarebbe andata avanti fino all'annientamento della popolazione.
La soluzione fu trovata da Platone, che diede una lettura simbolica alle parole dell'oracolo: Apollo voleva che gli Ateniesi coltivassero la matematica e la geometria, non un altare raddoppiato. In effetti, non era possibile con i mezzi esistenti in Grecia a quei tempi risolvere il problema, dovendo moltiplicare lo spigolo del cubo originale per la radice cubica di due. Per raddoppiare l'area di un quadrato le cose sono molto più facili: basta costruire un quadrato avente per lato la diagonale del quadrato originale. 

Siccome gli etruscologi hanno la brutta tendenza a crogiolarsi nella loro torre d'avorio e non sembrano capire la complessità delle cose, riporterò due interessanti link che rimandano a una descrizione dettagliata di questi problemi di geometria:



Gli Etruschi, come i Greci, sapevano soltanto raddoppiare o quadruplicare un'area quadrata. Non sapevano triplicarla né sestuplicarla. Questo argomento da solo sarebbe sufficiente a spazzar via l'insistente idea di coloro che traducono śa con "sei" e huθ con "quattro". Spero che costoro, messi di fronte ai fatti da me esposti, si rendano conto di aver imboccato un vicolo cieco, abbandonino i loro paraocchi ideologici e si ravvedano.

ETRUSCO S'A 'QUATTRO': L'ARGOMENTO DEL QUADRATO


Una famosa iscrizione su uno specchio volterrano (TLE 399, aka ET Vt S.2) ha il seguente testo:

eca: sren: tva: iχnac: hercle: unial: clan: θra: sce

Questo scrive Koen Kylin sull'argomento:

"Lo specchio rappresenta una scena con Giunone allattante Ercole barbato; Giove tiene in mano una tavoletta recante l'iscrizione. Alcuni autori in passato avevano tradotto: questa figura mostra come Ercole di Giunone il figlio il latte succhiava. Credo però che la Fiesel, ora seguita da quasi tutti gli etruscologi, avesse ragione quando diceva che la rappresentazione della scena fosse perfettamente chiara al pubblico etrusco, in modo tale che l'iscrizione dovesse spiegare la scena anziché ripeterla. L'allattamento di Ercole indica piuttosto l'adozione di Ercole da parte di Giunone. Da molti autori l'iscrizione viene dunque tradotta nel senso di questa figura mostra come Ercole di Giunone figlio divenne."

Sono certo che la Fiesel si sia grossolanamente sbagliata. I due punti tra le parole θra e sce , perfettamente visibili a occhio nudo, non possono semplicemente scomparire come se nulla fosse solo perché a qualche etruscologo non garbano - tanto più che gli Etruschi sapevano benissimo segmentare le parole. Nessuno avrebbe scritto θra: sce se il verbo fosse stato *θras-. Sostengo la traduzione "il latte succhia" o "il latte succhiava". Non è necessario supporre che l'iscrizione sia descrittiva: è ben possibile che in etrusco la locuzione "succhiare il latte" esprimesse in modo idiomatico il concetto di "essere adottato". Una possibilità ben concreta che a quanto pare non è saltata in mente a nessuno. Tra l'altro, su una pentola compare la parola isolata θre (Maggiani, Artigianato artistico in Etruria, pag. 115 n. 145), il che può costituire un interessante parallelismo. Guardando la scena mitologica sullo specchio volterrano, si noterà lo sguardo perplesso e arcigno di Giove, evidentemente geloso.

Non è tuttavia la semantica delle parole θra e sce il centro di questa trattazione, e nemmeno i turbolenti sentimenti di Giove, con rispetto parlando. Il termine che ci interessa di più in questa sede è sren, in genere tradotto con "figura" o "disegno". Ebbene, io sostengo che sren traduca alla perfezione il latino quadrum e il greco πίναξ e che significasse in origine "quadrato" o "quadro". Quindi passò a indicare anche la rappresentazione di una scena, uno slittamento semantico del tutto comprensibile. Anche se lo specchio di Volterra è rotondo, guardandolo sembra quasi che la scena con le figure divine sia stata pensata dall'artista come un quadrato inscritto nella forma circolare del manufatto. Notiamo ad esempio gli elementi architettonici che la delimitano sopra e sotto. 

La radice śren- compare anche le Liber Linteus nella locuzione ricorrente cletram śrenχve (variante śrencve). Forte della traduzione di sren come "figura", ecco che Pallottino tradusse cletram śrenχve con un improbabile "il carro adorno", dal momento che nelle Tavole Iguvine (scritte in umbro) vi era la parola kletra indicante un congegno per trasportare le offerte. All'epoca di Pallottino molti erano gli elementi incerti della morfologia etrusca, così fu creduto verosimile interpretare il suffisso -χve aggiunto a sren- come una terminazione aggettivale, mentre la -m di cletram era da alcuni interpretata come "accusativo fossilizzato". A nessuno è saltata agli occhi la discordanza! Ora sappiamo che -χva, -cva è un suffisso del plurale inanimato, e che -a finale non alterna arbitrariamente con -e: il suffisso -χve deve essere un locativo plurale derivato da un più antico -*χva-i (suffisso attestato in altri vocaboli). Facchetti fa un'analisi geniale di cletram śrenχve, concludendo giustamente che non vi è alcun carro adorno. Il termine cletram è un falso amico della parola umbra: è da analizzarsi come c-le-tram, con l'elemento -tram visto anche in c-n-tram. Se c-n è l'accusativo del pronome ca "questo, egli", c-le è il suo pertinentivo II, in buona sostanza un locativo del genitivo in -al. Così Facchetti traduce cletram śrenχve come "nelle aree all'esterno". Condivido appieno e aggiungo che si tratta di aree quadrate: "nei quadrati esterni". Per approfondimenti, si rimanda all'opera dello stesso studioso, Elementi di morfologia etrusca (Arcipelago Edizioni, 2002), consultabile su Scribd.

Nel testo del Cippo di Perugia compare śran-c, lemma che giustamente si ritiene il nome di un'unità di misura di area (-c è la comunissima congiunzione enclitica che vale "e", proprio come il latino -que). Anche in questo caso, il significato centrale di "area quadrata" è perfettamente pertinente. Anche nella Tabula Cortonensis compare śran, nelle linee 3-4 della faccia A, dove si legge tênθur . sa . śran . śarc . clθil . têrsna, traducibile come "quattro misure e dieci aree quadrate vicine a queste". Facchetti interpreta śran in modo abbastanza fumoso, come "in estensione".

Da dove verranno dunque queste parole, sren e śran? A parer mio si tratta di antichi composti che incorporano il numerale śa "quattro", la cui traduzione letterale deve essere "quattro angoli", "quattro punte" o "quattro lati". Proprio come in tedesco, in cui Viereck significa "quadrato" e "quadrilatero". La differenza delle sibilanti è in questo caso apparente: anche se nel contesto del Liber Linteus s indica il suono palatale e ś il suono laminale, mentre in altre iscrizioni avviene l'inverso, śrenχve potrebbe avere in realtà una š palatale iniziale. Facchetti trascrive le s dell'iscrizione di Volterra come š, ottenendo eca: šren: tva: iχnac: hercle: unial: clan: θrašce. È ben possibile che le due sibilanti non fossero ben distinte dallo scriba e che un nesso sibilante + rotica fosse di realizzazione abbastanza incerta. L'ortografia della Tabula Cortonensis sembra seguire il Liber Linteus nel modo di rappresentare le sibilanti, e Facchetti trascrive tênθur . sa . śran . śarc . clθil . têrsna come tênθur . ša . sran . sarc . clθil . têršna.

Queste sono le protoforme ricostruite: 

śran < *ŚA-RANA
sren
< *ŚA-RANI
śrenχve < *ŚA-RANI-ΧVA-I


Sono convinto che un giorno tutti questi dettagli saranno chiariti meglio. In ogni caso credo che quanto esposto costituisca un potente argomento linguistico in più in favore dell'identificazione del numerale śa con "quattro" e non con "sei".