domenica 4 febbraio 2018

ETRUSCO S'A 'QUATTRO': L'ARGOMENTO DEL QUADRATO


Una famosa iscrizione su uno specchio volterrano (TLE 399, aka ET Vt S.2) ha il seguente testo:

eca: sren: tva: iχnac: hercle: unial: clan: θra: sce

Questo scrive Koen Kylin sull'argomento:

"Lo specchio rappresenta una scena con Giunone allattante Ercole barbato; Giove tiene in mano una tavoletta recante l'iscrizione. Alcuni autori in passato avevano tradotto: questa figura mostra come Ercole di Giunone il figlio il latte succhiava. Credo però che la Fiesel, ora seguita da quasi tutti gli etruscologi, avesse ragione quando diceva che la rappresentazione della scena fosse perfettamente chiara al pubblico etrusco, in modo tale che l'iscrizione dovesse spiegare la scena anziché ripeterla. L'allattamento di Ercole indica piuttosto l'adozione di Ercole da parte di Giunone. Da molti autori l'iscrizione viene dunque tradotta nel senso di questa figura mostra come Ercole di Giunone figlio divenne."

Sono certo che la Fiesel si sia grossolanamente sbagliata. I due punti tra le parole θra e sce , perfettamente visibili a occhio nudo, non possono semplicemente scomparire come se nulla fosse solo perché a qualche etruscologo non garbano - tanto più che gli Etruschi sapevano benissimo segmentare le parole. Nessuno avrebbe scritto θra: sce se il verbo fosse stato *θras-. Sostengo la traduzione "il latte succhia" o "il latte succhiava". Non è necessario supporre che l'iscrizione sia descrittiva: è ben possibile che in etrusco la locuzione "succhiare il latte" esprimesse in modo idiomatico il concetto di "essere adottato". Una possibilità ben concreta che a quanto pare non è saltata in mente a nessuno. Tra l'altro, su una pentola compare la parola isolata θre (Maggiani, Artigianato artistico in Etruria, pag. 115 n. 145), il che può costituire un interessante parallelismo. Guardando la scena mitologica sullo specchio volterrano, si noterà lo sguardo perplesso e arcigno di Giove, evidentemente geloso.

Non è tuttavia la semantica delle parole θra e sce il centro di questa trattazione, e nemmeno i turbolenti sentimenti di Giove, con rispetto parlando. Il termine che ci interessa di più in questa sede è sren, in genere tradotto con "figura" o "disegno". Ebbene, io sostengo che sren traduca alla perfezione il latino quadrum e il greco πίναξ e che significasse in origine "quadrato" o "quadro". Quindi passò a indicare anche la rappresentazione di una scena, uno slittamento semantico del tutto comprensibile. Anche se lo specchio di Volterra è rotondo, guardandolo sembra quasi che la scena con le figure divine sia stata pensata dall'artista come un quadrato inscritto nella forma circolare del manufatto. Notiamo ad esempio gli elementi architettonici che la delimitano sopra e sotto. 

La radice śren- compare anche le Liber Linteus nella locuzione ricorrente cletram śrenχve (variante śrencve). Forte della traduzione di sren come "figura", ecco che Pallottino tradusse cletram śrenχve con un improbabile "il carro adorno", dal momento che nelle Tavole Iguvine (scritte in umbro) vi era la parola kletra indicante un congegno per trasportare le offerte. All'epoca di Pallottino molti erano gli elementi incerti della morfologia etrusca, così fu creduto verosimile interpretare il suffisso -χve aggiunto a sren- come una terminazione aggettivale, mentre la -m di cletram era da alcuni interpretata come "accusativo fossilizzato". A nessuno è saltata agli occhi la discordanza! Ora sappiamo che -χva, -cva è un suffisso del plurale inanimato, e che -a finale non alterna arbitrariamente con -e: il suffisso -χve deve essere un locativo plurale derivato da un più antico -*χva-i (suffisso attestato in altri vocaboli). Facchetti fa un'analisi geniale di cletram śrenχve, concludendo giustamente che non vi è alcun carro adorno. Il termine cletram è un falso amico della parola umbra: è da analizzarsi come c-le-tram, con l'elemento -tram visto anche in c-n-tram. Se c-n è l'accusativo del pronome ca "questo, egli", c-le è il suo pertinentivo II, in buona sostanza un locativo del genitivo in -al. Così Facchetti traduce cletram śrenχve come "nelle aree all'esterno". Condivido appieno e aggiungo che si tratta di aree quadrate: "nei quadrati esterni". Per approfondimenti, si rimanda all'opera dello stesso studioso, Elementi di morfologia etrusca (Arcipelago Edizioni, 2002), consultabile su Scribd.

Nel testo del Cippo di Perugia compare śran-c, lemma che giustamente si ritiene il nome di un'unità di misura di area (-c è la comunissima congiunzione enclitica che vale "e", proprio come il latino -que). Anche in questo caso, il significato centrale di "area quadrata" è perfettamente pertinente. Anche nella Tabula Cortonensis compare śran, nelle linee 3-4 della faccia A, dove si legge tênθur . sa . śran . śarc . clθil . têrsna, traducibile come "quattro misure e dieci aree quadrate vicine a queste". Facchetti interpreta śran in modo abbastanza fumoso, come "in estensione".

Da dove verranno dunque queste parole, sren e śran? A parer mio si tratta di antichi composti che incorporano il numerale śa "quattro", la cui traduzione letterale deve essere "quattro angoli", "quattro punte" o "quattro lati". Proprio come in tedesco, in cui Viereck significa "quadrato" e "quadrilatero". La differenza delle sibilanti è in questo caso apparente: anche se nel contesto del Liber Linteus s indica il suono palatale e ś il suono laminale, mentre in altre iscrizioni avviene l'inverso, śrenχve potrebbe avere in realtà una š palatale iniziale. Facchetti trascrive le s dell'iscrizione di Volterra come š, ottenendo eca: šren: tva: iχnac: hercle: unial: clan: θrašce. È ben possibile che le due sibilanti non fossero ben distinte dallo scriba e che un nesso sibilante + rotica fosse di realizzazione abbastanza incerta. L'ortografia della Tabula Cortonensis sembra seguire il Liber Linteus nel modo di rappresentare le sibilanti, e Facchetti trascrive tênθur . sa . śran . śarc . clθil . têrsna come tênθur . ša . sran . sarc . clθil . têršna.

Queste sono le protoforme ricostruite: 

śran < *ŚA-RANA
sren
< *ŚA-RANI
śrenχve < *ŚA-RANI-ΧVA-I


Sono convinto che un giorno tutti questi dettagli saranno chiariti meglio. In ogni caso credo che quanto esposto costituisca un potente argomento linguistico in più in favore dell'identificazione del numerale śa con "quattro" e non con "sei".

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