lunedì 13 agosto 2018

LA GUERRA DEGLI STRONZI

Ora che tutto volge al termine, sento di dover riferire, sia pur sommariamente, gli eventi di cui sono stato testimone.

La guerra ebbe inizio nel mese di marzo del 2016, allorché gli stronzi deposti dagli allogeni presero improvvisamente ad assalire i loro corrispettivi cacati dagli indigeni.

Nessuno sa per quale ragione ciò accadde, fatto sta che nei centri abitati scoppiarono violenti tafferugli fra stronzi.

Sulle prime si trattò di risse che coinvolgevano decine di individui, poi la situazione degenerò e gli scontri si tramutarono in vere e proprie battaglie cui presero parte migliaia di contendenti.

Le strade divennero in breve tempo impercorribili. Per ogni stronzo che perdeva la vita, subito dalla fogne ne scaturivano altri cinque.

Durante una delle rare tregue, mi avventurai all'aperto. Il questore mi aveva supplicato per telefono di raggiungerlo con urgenza presso il suo ufficio.

Prima di uscire, indossai una mascherina per proteggermi dai lezzi nauseabondi che ammorbavano le strade.

I marciapiedi erano ricoperti da un denso strato di feci.

Gli stronzi uccisi in battaglia si disfacevano per poi amalgamarsi sotto diversa forma e, nel volgere di poche ore, riprendevano la lotta nei rispettivi schieramenti.

Vidi un assembramento di stronzi nei pressi del Duomo: erano così numerosi che la piazza ne traboccava.

Nel varcare l'ingresso della questura, notai una figura accovacciata accanto a uno schedario. Doveva trattarsi di un archivista uscito di senno: dopo che ebbe defecato, lo vidi infatti ingoiare l'escremento appena deposto. Accortosi che lo stavo osservando esclamò:

"Uno stronzo di meno sulla faccia della terra!".

Mi diressi senza esitazioni al piano superiore.

Sui gradini dello scalone giacevano i corpi senza vita di una decina di stronzi. Il puzzo era atroce.

La porta dell'ufficio del questore era chiusa a chiave dall'interno, bussai ed egli venne ad aprirmi.

"Si sieda", mi disse in tono grave, "La situazione è disperata ma non possiamo e non dobbiamo cedere allo sconforto. La collettività si aspetta molto da noi."

"Forse troppo".

"Abbia la compiacenza di risparmiarmi, per una volta, le sue battute sarcastiche. L'ho convocata per affidarle un importante incarico."

"La ascolto."

"Lei dovrà infiltrarsi fra gli stronzi."

"Scusi ma non credo di aver afferrato."

"Non è stato forse addestrato a questi incarichi?"

"Si, ma stavolta non vedo come potrei assolvere a una simile missione."

"Sta a lei trovare il modo."

"A parte il fatto che quand'anche mi truccassi da stronzo non risulterei credibile e verrei immediatamente individuato come un elemento estraneo, che senso avrebbe la mia infiltrazione? Gli stronzi non parlano, non si scambiano informazioni."

"Mi sta dicendo che non intende obbedire al mio ordine? Si rende conto che questa è insubordinazione?"

"Dottore, la merda ha superato da tempo i livelli di guardia. Lei trascorre il suo tempo barricato in questo ufficio e non ha una chiara visione di quanto accade all'esterno. La questura è deserta: ci siete solo lei e un archivista impazzito che inghiotte i propri escrementi. Gli agenti si sono volatilizzati tutti quanti."

"Insubordinazione e disfattismo!"

"Siamo realisti: gli stronzi hanno preso il sopravvento."

"No! Non tutto è perduto! Chiameremo a raccolta la società civile!"

"La società civile contribuisce ogni giorno a produrre nuovi stronzi. L'unica soluzione consisterebbe nel non defecare, ma ciò è impossibile."

Il questore chinò lo sguardo sconsolato.

"Con tutti questi stronzi in circolazione, c'è il serio rischio che la civiltà si estingua, e noi con essa."

"Quegli stronzi non sono piovuti dal cielo, li abbiamo fabbricati noi. Sono usciti dai nostri culi."

"Non vi è dunque rimedio?"

"Fino a pochi mesi fa l'umanità cacava indisturbata, tirava lo sciacquone e tanti saluti allo stronzo. Oggi non è più così: gli stronzi tornano a noi come altrettanti boomerang.

E siccome smettere di cacare non si può, lei capisce che non c’è soluzione. Finiranno col sopraffarci.”

Il questore mi guardò dritto negli occhi e sospirò.

“Capisco. Siamo nella merda!”

Pietro Ferrari, agosto 2018

sabato 11 agosto 2018

L'ESTATE DEI MORTI

“Oh Signùr, al Giulio l’ha mort! Aiüt, aiüt!”
Pavia, venerdì 8 giugno 2018, ore 10 del mattino: le grida della signora Ernestina, vedova settantacinquenne, risuonano altissime in Viale Gorizia. L’anziana donna, affacciatasi sull’uscio di casa, ha appena scorto nel cortile dell’abitazione del vicino il corpo di quest’ultimo riverso sull’erba, a faccia in giù. Due cornacchie zampettano attorno alla figura esanime, beccandola sulla testa. Le urla di Ernestina attirano l’attenzione di un messo comunale che in quel momento sta percorrendo Viale Gorizia.
“Sciùra, sä süceda?”
“L’ha mort al Giulio, gh’è i crov che 'lä mangiän!”
Il messo compone immediatamente il 112; dopo una decina di minuti sopraggiungono un’ambulanza e una volante della polizia. Il paramedico non può far altro che constatare la morte del pensionato e chiedere l’intervento di una vettura per il trasporto della salma alla camera mortuaria di Via Forlanini. 

“Giovane, i morti vanno trattati con rispetto, tienilo sempre a mente.”
L’uomo che ha pronunciato queste parole si chiama Attilio Ceriani e presta servizio all’obitorio da oltre vent’anni. Il giovanotto che sta istruendo, invece, è alle prime armi.
“Dai morti c’è sempre da imparare, ricordati. Non devi averne paura, abituati a stare in loro compagnia. E mi raccomando, non ridere mai in presenza dei parenti dei defunti! Hai capito Sergio?”
“Capito.”
“Se ti viene da ridere, devi fissare un punto sulla parete, che so io, una macchia di muffa, e concentrarti su quello.”
“Guardare il muro?”
“Funziona.”
“E con gli stranieri?”
“Anche.”
“No, volevo dire: come mi devo comportare?”
“Normalmente. Mostrati serio ma non accigliato. Sii moderatamente affabile.”
Dallo sguardo del neoassunto, Ceriani intuisce che questi ignora il significato del termine.
“Sii cortese”, rettifica, “Parla solo quando interpellato. Tu parli da solo?”
“A volte.”
“Non prendere l’abitudine di parlare coi cadaveri se no poi diventa un vizio.”
“Ma se non posso parlare coi morti, con chi parlo?”
“Parla dentro la tua testa.”
“E come si fa?”
“Imparerai. Intanto devi prendere confidenza con i cadaveri. Questo è molto importante.”
“Cosa devo fare?”
“Devi stare in loro compagnia e non averne paura. Per esempio, ci sono persone che hanno timore di dare le spalle a una barella con sopra un morto. Questo non va bene. E’ una paura che va superata. Lo senti questo odore?”
“Sì.”
“Dovrai farci l’abitudine. Questo è il tuo nuovo mondo. Ti piace?”
“Non tanto.”
“Hai passato troppo tempo all’aria aperta. Il sole fa male, meglio i posti chiusi: sotterranei, cripte. Qui non ti annoierai, te l’assicuro… C’è sempre gente che va, gente che viene. Morti sempre nuovi e relativi parenti. Stai solo attento al personale delle pompe funebri!”
“Perché?”
“Non dar loro confidenza. Non parlare mai più del necessario. Rammenta: è dei vivi che devi avere paura, non dei morti!”
In quel preciso istante si ferma dinanzi all’ingresso la vettura per il trasporto delle salme.
“Che ti dicevo, Sergio? Forza, al lavoro!”
Il fu Giulio viene prontamente scaricato e collocato su una barella zincata nel salone di osservazione.
“Ora del decesso? La trovi scritta su quel documento.”
“Otto del mattino”
“Bene, questo signore resta qui sino alle otto di domattina, dopo di che va nella cella refrigerata, chiaro?”
“Agli ordini!”
Alle 7 dell’indomani, all’atto dell’apertura della camera mortuaria, Ceriani avverte una strana sensazione. Si dirige immediatamente verso il salone, accende la luce: ai piedi della barella zincata su cui, il giorno precedente, era stata deposta la salma del pensionato ora ce ne stanno altre tre.
I cadaveri giacciono nudi uno accanto all’altro, sul pavimento.
“Sergio, vedi anche tu quel che vedo io?”
“Sono uguali.”
“Sì, uguali fra loro… e al morto sulla barella.”

Ore 8, Dipartimento di Medicina Legale

“Non me la raccontate giusta: i cadaveri erano quattro anche ieri sera”.
Il dottor Fulcis lancia un’occhiata severissima agli addetti alla camera mortuaria.
“Le assicuro di no - ma prima di continuare le chiedo di osservarli bene.”
Il medico forense rivolge la propria attenzione alle quattro salme disposte nella sala anatomica. Passa dall’una all’altra, più volte.
“Che razza di scherzo è questo?”
“Me lo dica lei”, risponde Ceriani, “io so solo che ce n’era uno e stamane sono diventati quattro.”
“Esigo sapere esattamente com’è andata.”
“Ieri hanno portato un morto, l’abbiamo sistemato normalmente. Stamattina all’apertura abbiamo trovato altri tre cadaveri uguali al primo.”
“L’originale dov’era?”
“Sulla barella, dove l’avevamo posato.”
“E gli altri?”
“Per terra.”
“In che stato erano?”
“Come li vede ora: rigor mortis.”
In quel preciso istante, il telefono posto sulla scrivania prende a squillare. L’assistente di Fulcis solleva il ricevitore.
“Chiamano dalla camera mortuaria: il cadavere di un’anziana si è quadruplicato.”
Fulcis ha un sussulto, come se avesse ricevuto una frustata.
“Ci sono i parenti della defunta che danno fuori di matto.”
Fulcis e Ceriani si guardano con gli occhi sbarrati.
“Avvertite la polizia per ogni evenienza. Ceriani, lei intanto vada a vedere e mi riferisca.”
La telefonata di Ceriani non si fa attendere.
“Dottore, abbiamo quattro cadaveri uguali come gocce d’acqua.”
“Cos’è questo baccano? Chi grida? I parenti?”
“Sì.”
“Fateli allontanare! Avete chiamato la polizia?”
“Sta arrivando.”
“Portatemi qui la vecchia, subito.”
“Quale delle quattro?”
“Tutte e quattro!”
I quattro corpi giacciono distesi sui tavoli autoptici, indistinguibili l’uno dall’altro.
“Prelievi ematici su tutte e quattro, massima urgenza”, ordina Fulcis.
Il telefono squilla di nuovo. Fulcis esita un istante prima di rispondere.
“Dottore, sono centodiciotto!”
“Come?!”
“Centodiciotto cadaveri!”
“Si può sapere cosa state dicendo? Siete tutti impazziti?”
“Si stanno moltiplicando a tutto spiano! Da sette che erano, sono diventati cento in meno di un’ora. Non sappiamo più dove metterli!
” 
Le urla dei parenti dei defunti risuonano da un capo all’altro della via. Un vecchio vedovo, colto da malore, collassa nel vestibolo della camera mortuaria. Le manovre di rianimazione non sortiscono alcun risultato: viene constatato il decesso. Trasportato al vicino Dipartimento di Medicina Legale, il cadavere si moltiplica sotto gli sguardi atterriti dei necrofori. Fulcis, testimone del fenomeno, vacilla come un pugile colpito da un diretto al volto, quindi dà ordine di deporre i corpi nei sotterranei dell’edificio.

Università degli Studi di Pavia, ore 10

Il professor Erminio Robecchi, ordinario di Diritto delle società offshore e Tecniche di evasione fiscale, trattiene a stento una bestemmia: non uno degli studenti iscritti alla sessione d’esame fissata per quel giorno si è presentato. Gli assistenti stringono la testa fra le spalle, presagendo l’esplosione di rabbia del docente, che non si fa attendere.
“Perché cazzo non mi avete avvisato? Incapaci! Il mio tempo è denaro, lo capite o no?”.
“Veramente noi…”
“Stia zitto! Ma me la pagano, perdìo se me la pagano! Perché dovranno pur tornare… Li aspetto al varco, quei merdosi!”.
La sagoma di un bidello fa capolino all’ingresso dell’aula. L’uomo ha un’aria sinistra: il viso, segnato da cicatrici, trasuda malvagità allo stato puro.
“Professore.”
“Che c’è?”
“Un decesso, in biblioteca.”
“Chi è morto?”
“Il catalogatore. Infarto, credo.”
“E allora? Che c’entro io? Avvertite la famiglia, il 112.”
“Già fatto. Solo che adesso sono tre.”
“Tre cosa?”
“I cadaveri.”
“Le ha dato di volta il cervello?”
“Se non mi crede, venga a controllare di persona.”
“Non ci penso proprio! Ho uno studio da gestire, io. Mi avete già fatto perdere sin troppo tempo!”.
Afferrata la borsa, Robecchi si alza e si dirige all’uscita senza salutare nessuno. Fatti pochi passi in corridoio, inciampa in un cadavere disteso sul pavimento e cade, battendo violentemente la testa contro lo spigolo di uno scaffale. Uno schizzo di sangue imbratta la parete dell’istituto.

10 giugno, Via Forlanini, ore 8 del mattino

“Dottore, che facciamo?”
La domanda dell’assistente di laboratorio cade nel vuoto. Fulcis osserva ipnotizzato la facciata dell’edificio sede del dipartimento di medicina legale. Durante la notte, i cadaveri si sono moltiplicati a un ritmo tale da riempire i corridoi sino ai soffitti. La pressione esercitata dalla massa crescente di corpi ha schiantato le porte degli uffici; saturati anche questi locali, le salme hanno sfondato i vetri delle finestre ed ora debordano all’esterno.
I cadaveri fuoriusciti dalle finestre infrante si moltiplicano per scissione sotto gli sguardi terrorizzati del personale del Dipartimento.
Il mondo che Fulcis conosceva, un mondo strutturato secondo regole stabili, ha cessato di esistere e il medico forense avverte la sensazione che l’abisso del caos si sia spalancato e stia per inghiottire ogni cosa, inclusa la sua vita.
“Ripiegare.”
“Come, dottore?”
“Andiamocene subito da qui!”
Al semaforo di Via Forlanini la circolazione è interrotta. Un posto di blocco impedisce il passaggio delle auto private. Fulcis si rivolge a un agente di polizia: “Ci sarebbe un problema”
“Che problema?”
“Se vuole avere la cortesia di dare un’occhiata nel cortile del dipartimento…”
L’agente fa un cenno a un collega ed entrambi si dirigono nella direzione indicata dal medico. Un minuto dopo li si vede schizzare fuori dal cancello del dipartimento.
Sono sconvolti, faticano a parlare.
“E’ pieno di cadaveri!”
“Visto?”
“E adesso che si fa?”
“Ditemelo voi.”

Ore 10, Prefettura di Pavia

“Tutte le salme giacenti nelle camere mortuarie di tutti gli ospedali e gli istituti di ricovero e cura della provincia devono essere immediatamente cremate”, letta la frase ad alta voce, il prefetto posa il foglio sulla scrivania.
“Non ce la facciamo. Il forno in funzione al cimitero è del tutto insufficiente”.
“E chi ha parlato del San Giovannino? Signor sindaco, le salme vanno all’inceneritore di Parona. La questura garantirà la scorta dei convogli.”
Chiamato in causa, il questore dice la sua:
“Noi siamo pronti a fare la nostra parte. Si tenga presente, tuttavia, che lo smembramento interrompe il processo di moltiplicazione.”
“Ne consegue che?”
“Ne consegue che dovremmo farli a pezzi all’istante, lì dove si trovano.”
“E’ una proposta aberrante! E chi dovrebbe occuparsi della macellazione delle salme?”
“Se non prendiamo provvedimenti saremo sommersi dai cadaveri.”
“Chiediamo l’intervento immediato del ministero dell’Interno.”
“Sì, ma nel frattempo che ne facciamo dei morti?”
“Vanno distrutti!”
“Vediamo se ho capito bene: in un ospedale o in un ospizio si accerta il decesso di un degente; lo si preleva dalla stanza e lo si fa a pezzi?”
“Ha capito benissimo.”
“E io torno a chiederle: chi se ne occuperebbe?”
“Questo è il minore dei problemi: basta pagare e il personale si trova.”
“E quelli che muoiono nella propria casa?”
“Sono una sparuta minoranza.”
“Scusate ma mi è appena giunta una segnalazione: a Lodi e a Cremona sta succedendo lo stesso.”
“Cosa?!”
“La moltiplicazione dei cadaveri dei deceduti nelle ultime ore ha saturato le camere mortuarie degli ospedali e dei ricoveri per anziani. Le salme debordano nelle vie.”
“Siamo rovinati.”
“Allertiamo le autorità sanitarie, le direzioni delle case di riposo: siano schedati malati gravi, vegliardi, moribondi.”
“E’ troppo tardi, signor questore. La situazione ci è già sfuggita di mano.”
“Non è detta l’ultima parola”, osserva il questore.
“Sarebbe a dire?”
“Potremmo giocare d’anticipo, sopprimere i soggetti a rischio: malati terminali, anziani in fin di vita…”
“Ma è mostruoso!”
“E’ in gioco il destino stesso della nazione. Non è tempo di sentimentalismi.”
“In questo momento il nostro problema non sono i moribondi ma coloro che sono già morti, volete capirlo?”, esclama il prefetto.
Un segretario si affaccia alla porta con un foglio in mano. Il prefetto se lo fa consegnare e ne dà lettura:
“Le cataste di cadaveri occupano Via Forlanini in tutta la sua lunghezza. Le salme formano una specie di muro, la cui altezza va aumentando costantemente.”
Il sindaco abbandona la stanza in preda al più assoluto sgomento. Dopo sedici ore, il Ministero dell’Interno dichiara lo stato di emergenza in tutto il territorio nazionale. 

Circolare riservata – distruggere dopo la lettura 

Le “unità speciali” si articolano in squadre di “cacciatori-liquidatori” e “smaltitori”. I primi hanno i seguenti compiti: individuare le minacce (i moribondi) e le “matrici” (i cadaveri) ovunque essi si trovino; accelerare la dipartita dei moribondi; depezzare le salme. Per tale operazione si utilizzino motoseghe, scuri, mannaie. I resti vanno scaricati presso la stazione di smistamento - qui, le squadre degli “smaltitori” provvedono a stiparli nei cassoni dei camion diretti agli inceneritori.

“Mai vista tanta gente qui. Di solito non c’è nessuno.”
Una folla di donne è raccolta in preghiera all’interno della basilica di San Michele Maggiore e nella piazza antistante. Il questore accoglie le parole del funzionario della Digos con un’alzata di spalle.
“A me preme solo che non scoppino tafferugli. Avete avvertito il prete di non dire spropositi?”
“Certo.”
“Non voglio sentir pronunciare la parola apocalisse. La gente va tranquillizzata, non spaventata.”
“Abbiamo chiarito bene la cosa.”
“Da oggi non si scherza più. Chi diffonde allarmismo va arrestato, chiaro?”
“Ricevuto.”
“Come si chiama l’officiante?”
“Don Angelo Barbieri.”
“Spero per lui che si attenga alle disposizioni. In ogni caso, orecchie aperte: alla prima nota stonata, intervenite.”
La recita del rosario dura ormai da due ore. Gli amplificatori posizionati in piazza diffondono la voce di don Angelo fra coloro che non sono potuti entrare. Il senso di angoscia e smarrimento è tale da risultare quasi palpabile. D’un tratto, nel bel mezzo del Salve Regina, una vecchia si accascia nella navata centrale. Si leva immediatamente un coro di grida stridule, come uno strepitare di cornacchie e di gazze. Un medico si fa largo tra la gente per prestare soccorso. Mentre sta controllando il battito cardiaco dell’anziana, dal corpo di quest’ultima scaturisce un clone perfettamente formato. Si scatena il fuggifuggi generale. Don Angelo raggiunge di corsa i locali della canonica e vi si barrica. I fedeli si accalcano all’uscita, urla spaventose risuonano sotto le volte della basilica.
Gli agenti presenti in piazza San Michele tentano invano di garantire un deflusso ordinato della folla in preda al panico.
Il questore, avvertito al telefono, ruggisce un ordine perentorio:
“Non fatevi sfuggire il prete!”

Ore 14, Questura di Pavia

“Eminenza!”
“Dottore buongiorno. Non le nascondo che questa convocazione improvvisa mi ha non poco sorpreso.”
“Non ha motivo di preoccuparsi. Dovendo conferire urgentemente con lei, l’ho mandata a prendere. Lei comprenderà che nelle presenti condizioni ogni minuto è prezioso.”
“Certamente.”
“Ho letto le sue dichiarazioni sul quotidiano locale… il suo appello al rispetto dei diritti umani. E’ un momento difficile per tutti, le istituzioni politiche, militari, religiose devono dar prova di coesione e senso della responsabilità.”
“Questo mi è chiaro ma io non potevo non raccogliere il grido di dolore dei parenti dei malati, degli anziani.”
“Naturale, tuttavia volevo informarla che, per motivi di sicurezza, le sarà assegnata una stanza confortevole presso di noi, in questo edificio, da oggi e per le prossime settimane, sino a quando tutto non tornerà nei binari della normalità.”
“Devo considerarmi in arresto?”
“Ma neanche per sogno! Come le dicevo, si tratta di una misura a garanzia della sua incolumità. Ed ora devo proprio salutarla: sa, gli impegni mi chiamano. Se vuol essere così gentile da seguirli, gli agenti la scorteranno presso il suo appartamento.”
L’appartamento del vescovo si rivela essere una comunissima cella.

Ore 16, Prefettura di Pavia

Il prefetto siede, solo, nel proprio ufficio: sulla scrivania sono sparpagliate delle carte. Il funzionario stringe in mano una Beretta 92 S.
“Cosa diceva la maestra Belloni? "Il viatico di una buona vita è una coscienza retta". E adesso? Cosa volete che faccia? E’ finita, è tutto finito.”
Da piazza Guicciardi giunge un coro di urla.
“Che succede? Chi grida? Disperdete l’assembramento!”
Nessuno risponde. Il Prefetto riprende a parlare fra sé e sé.
“Mi sparo, non mi sparo? Dio mio, che devo fare?”
Lo squillo del telefono interrompe le elucubrazioni del funzionario.
“Pronto!”
“La aggiorno sulla situazione.”
La voce del questore ha un suono inquietante, come se qualcosa dentro di lui si fosse incrinato per sempre.
“Sono oltre diecimila, e aumentano a ritmo vertiginoso. A tutti gli effetti, il numero esatto non può più essere stimato.”
“E adesso?”
“In questo preciso istante ci sono le ruspe in azione in Via Forlanini, ma è come cercare di svuotare il mare. Ne spuntano sempre di nuovi. Una cosa allucinante.”
“E nelle altre camere mortuarie?”
“La situazione è fuori controllo alla Maugeri, al Santa Margherita e al Pertusati”
“Allora siamo fottuti”
“Temo proprio di sì.”

Policlinico San Matteo, ore 17

“Ceriani, mi stia a sentire.”
“La ascolto.”
“Ho esaminato attentamente la questione. I cadaveri si moltiplicano per scissione, questo è assodato, ma che ne è dei cloni, se così vogliamo chiamarli?”
“Cominciano a decomporsi.”
“Precisamente. La moltiplicazione si interrompe nel momento in cui inizia la fase putrefattiva enfisematosa. Il problema è che, in 24 ore, da un cadavere possono scaturirne mille.”
“E ciascun clone dà origine ad altri cloni.”
“Ecco, appunto.”
“Quindi siamo spacciati.”
“E’ quel che ho spiegato al prefetto, prima che si sparasse.”
“Ho saputo. Ho sentito anche quel che è successo dopo.”
Fulcis tacque, distogliendo lo sguardo.
“Sono spuntati quattro cloni del prefetto, ognuno con un buco alla tempia.”

Lunedì 19 giugno

Pavia è una città fantasma. Gli abitanti sono fuggiti in preda al panico. Il tanfo di decomposizione rende l’aria irrespirabile: le vie sono ingombre di cadaveri. Le ruspe aprivano un varco fra i cumuli di cadaveri, e subito lo spazio liberato veniva nuovamente riempito dalle salme in moltiplicazione. L’istituzione-attivazione delle “unità speciali” ha richiesto due giorni e in quel sia pur breve lasso di tempo la situazione è precipitata senza scampo.
I morti hanno saturato la città: edifici, strade, piazze, vicoli.
I vivi ne sono stati scacciati.

2 luglio 2018

Il dottor Fulcis ha trovato rifugio nella casa di famiglia a Fortunago, un borgo situato sulle colline dell’Oltrepò Pavese, e da qui segue, tramite Internet, l’evolversi catastrofico della situazione. Ceriani è al suo fianco, armato di fucile, per ogni evenienza.
“Sta andando tutto quanto a puttane! Ascolti questo report:
La fuga dalle aree urbane ha interessato tutta quanta la penisola. Numerosissimi gerontocomi sono stati dati alle fiamme con i ricoverati ancora dentro.
Le unità speciali setacciano le colonne degli sfollati in cerca di anziani e malati da abbattere, scontrandosi con la resistenza delle famiglie.
I piccoli centri su cui si riversa l’ondata di profughi vengono saccheggiati e in molti casi dati alle fiamme. Dalle grandi città la massa dei cadaveri tracima verso il circondario, inarrestabile. Trasportati dalle acque dei fiumi, i morti vengono disseminati ovunque, e qui seguitano a moltiplicarsi, a ritmo crescente.

“Basta non arrivino quassù…”
“E’ un rischio remoto, il problema è un altro: l’interruzione dei rifornimenti di generi di prima necessità. I negozi sono vuoti!”
“Per questo abbiamo fatto scorta prima di venire qui.”
“E quando l’avremo esaurita? Per non parlare dei saccheggiatori… Non siamo affatto al sicuro. Da un giorno all’altro potrebbero piombare qui e mettere il paese a ferro e a fuoco.”
“Non staremo certo a guardare.”
“Ci faranno a pezzi comunque. E poi c’è un altro rischio da considerare. Se morisse qualcuno dei tanti vecchi che vivono qui?”
“Lo facciamo a pezzi e lo bruciamo.”
“E’ una parola! Crede forse che la famiglia ce lo lascerebbe fare? ‘Prego, smembratelo pure!’. Lei non conosce questa gente.”
“Se un cadavere non viene trattato immediatamente, è la fine.”
“La fine è già arrivata, Ceriani, e questo posto pullula di anziani.”
“Non ho intenzione di seguire l’esempio del prefetto. Sarà finita quando sarà finita. Per il momento abbiamo ancora cibo a disposizione e la cantina è ben fornita.”
“Di notte non riesco a chiudere occhio… ho sempre l’impressione che qualcuno cerchi di entrare in casa.”
“Le finestre hanno le inferriate, la porta pare robusta…e noi siamo armati.”
“Abbiamo provviste per non più di un mese.”
“Meglio di niente, dottore.”
“E poi?”
“E poi basta.”

Pietro Ferrari, luglio 2018 

lunedì 6 agosto 2018

AROMIA MOSCHATA E SUO USO VOLUTTUARIO

Non si smette mai di imparare. Vagando in Facebook, per puro caso sono venuto a conoscenza di qualcosa di estremamente bizzarro, in cui mi sono imbattuto nel gruppo "Insetti e altri artropodi- un fantastico mondo da scoprire". Il post che ha attratto la mia attenzione è stato pubblicato il 24 maggio 2018. Si continua a sostenere che in Occidente gli insetti generano una tale repulsione da rendere impensabile ogni loro uso per finalità quotidiane come ad esempio l'alimentazione (ma non solo). In realtà non c'è nulla di più lontano dal vero. Ancora in tempi non troppo lontani, si usava un coleottero cerambicide noto alla Scienza come Aromia moschata per conferire un grato odore al tabacco. L'insetto è splendido, simile a una pietra preziosa e davvero simpatico. 


(By Simon Eugster, created 28 June 2007 (UTC), CC BY-SA 3.0)

Riporto in questa sede il thread tal quale, comprensivo di refusi:  

Alfred Sternberg:
Le persone di una certa età ricorderanno sen'altro che questo cerambicide veniva utilizzato in passato fino agli anni '60 per aromatizzare il tabacco, sia quello per il fiuto che per il trinciato da pipa. Il modo consisteva nell'inserire nella scatola del tabacco questo insetto vivo, che sprigiona un forte aroma di fiori.
L'aromia moschata, splendido cerambicide dal colore blu/verde metallizzato, è diffuso in buona parte dell'Europa ed è facilmente rintracciabile sui salici, del quale è parassita e veniva ricercato per l'aromatizzazione del tabacco. Dopo circa una settimana il tabacco a contatto con questo insetto assumeva un certo odore difficilmente definibile, tra il muschio ed il floreale con una certa prevalenza verso la rosa.

Laura Grilli:
Ricordo quando ero bambina di questo insetto profumato ...mia madre lo chiamava Mosca americana ...Non ne ho più visti da allora

Alfred Sternberg:
E' abbastanza comune, completamente scomparso è invece il loro uso per questa finalità

Aromia moschata nei forum

Si trovano menzioni del prezioso coleottero e delle sue proprietà anche in luoghi del Web ben diversi da Facebook. Riporto alcuni interventi particolarmente significativi tratti dalle conversazioni occorse in due forum. 

1) Ritrovo Toscano della Pipa


Olòrin, riportando Ramazzotti:
"Questo insetto è un Coleottero (più precisamente un Cerambicide) dalle lunghe antenne e dall'aspetto elegante, con elitre di color verde metallico o bronzeo; misura da un centimetro e mezzo a poco più di tre centimetri, abita in modo particolare i salici ed esala un gradevole aroma, che è un mezzo fra il muschio e la rosa. Nelle campagne si usava raccogliere l'Aromia, ucciderla e riporla in mezzo ai forti tabacchi di allora, perchè coferisse loro un profumo di fiori; credo che oggi sia spento perfino il ricordo di questa pratica: mio nonno notaio mi assicurava che il risultato era buono, ma ero allora decenne e non mi fu possibile sperimentarlo; nè - più tardi - ne ebbi mai l'occasione"

Aqualong:
Mi ero riproposto di provare il metodo,poi non l'ho mai fatto,qualche anno addietro avevo anche chiesto in giro,c'era la memoria del fatto,ma non quella dell'esperienza diretta.
Comunque i vecchi fumatori interpellati che ricordavano il nonno o l'amico etc.. erano tutti concordi che la cerambice andava inserita viva nella custodia del tabacco,che spesso era un pezzo di canna vuota, grossotto, con un tappo di sughero e qualche forellino in alto per far respirare la bestia.
Quello che profumava il tabacco erano le deiezioni dell'insetto,( a Napoli direbbero cacatielle)che quindi doveva campare il più possibile per irrorare il trinciato col suo prezioso aroma. 8)

PaperoFumoso:
Va bene sperimentare ma, a fumarmi la merda del Cerambicide, non ci avevo ancora pensato :-)

Aspetto dovertente è scoprire, con grande sorpresa, che non tutta la merda puzza: si sfata un luogo comune  :o

Aqualong: 
Pensiamo alle api,nelle arnie non ci sono wc,può essere che le deiezioni delle operaie contribuiscono al flavour del miele? 8) ;D 
"non olet"
(Vespasiano)

Giala:
Amico, mai sentito parlare di pajata?
Il caffe' migliore del mondo (ed anche il più caro) lo caca uno zibetto indonesiano.

La merda fa miracoli!

PaperoFumoso:
W la merda!
Più merda per tutti! ;D :D ;D :D

2) Il Piacere del Tabacco da Fiuto


smokeless:
Ho recentemente sperimentato un metodo di aromatizzare il tabacco del quale a suo tempo mi parlò mio babbo, che mi diceva si usasse dalle nostre parti sia per il fiuto che per il trinciato da pipa sino all'avvento, nei primi anni 60, dei tabacchi da pipa aromatizzati (clan e skipper in primo luogo). Il modo consiste nell'inserire nella scatolina del tabacco un coleottero vivo, del genere cerambicidi, che sprigiona un forte aroma di fiori.
Grazie all'aiuto di mio fratello, di professione biologo ed entomologo per passione, ho identificato questo coleottero nella bellissima aromia moschata, di uno splendido colore blu/verde metallizzato, diffuso in buona parte dell'Europa, facilmente rintracciabile sui salici, del quale è parassita. Mio fratello me ne ha anche procurato un esemplare che, benchè morto già da qualche settimana, continuava a emanare un intenso profumo.
Ho pensato quindi di inserirlo in un barattolo a tenuta contenente del SC blu, tabacco assolutamente neutro, e che credo più somigli ai vecchi tabacchi utilizzati un tempo, e lasciarlo riposare per una settimana.
Dopo questo tempo effettivamente il tabacco ha preso un certo odore difficilmente definibile, floreale con una certa prevalenza verso la rosa, comunque diverso dalle profumazioni da me conosciute; forse il più vicino potrebbe essere l'aroma di qualche wilson o SG (forse il Princess Gold), ma meno saponoso e più incerto. L'aroma è comunque più spiccato all'apertura del contenitore che nel naso, dove risulta poco persistente, non aiutato certo dal SC blu, anch'esso di breve durata.
Rimangono poi dei fastidiosi effetti collaterali: il coleottero si è in parte sbriciolato, si sono polverizzate le lunghe antenne e le zampette, e, benchè l'insetto sia veramente bello, fa un po' schifo nasarne parti insieme al tabacco.
In conclusione si è trattato di un esperimento interessante, che vorrei riprovare con un insetto più fresco (mio fratello passa i fine settimana a caccia di coleotteri per la sua collezione), anche se è chiaro che, con l'avvento della diffusione dei tabacchi aromatizzati, si sia estinta questa abitudine, del resto abbastanza ripugnante e sanguinaria per noi cittadini non più abituati al contatto quotidiano con la campagna.
C'è da aggiungere che, dopo una breve ricerca su internet, ho rilevato che questa usanza non era esclusiva della mia isola, ma anzi diffusa in tutta europa, almeno nelle zone in cui questo insetto è comune.
Mi spiace, non riesco ancora bene a caricare immagini, ma una foto dell'aromia è facilmente ricavabile da una ricerca su internet

bering:
Bellissima descrizione smokeless, anch'io ha letto Ramazzotti e mi ricordo dell'aromatizzazione "all'insetto". Se non ricordo male , e quindi potrei sbagliarmi, l'insetto veniva messo vivo nella tabacchiera e credo che gli escrementi aromatizzassero il tabacco. Non vorrei "!sparare una bischerata" come si dice in toscana, ma cosi ricordo, magari andrò a ricercare il libro.

smokeless:
Si, Bering, ti cofermo che anche a me è stato detto che l'insetto veniva messo vivo nella scatola, ma più che dagli escrementi l'odore dovrebbe essere emanato da ghiandole che secernono feromoni utili ad attirare soggetti della stessa specie, almeno così mi è stato riferito.
So che è un paradosso, ma mi sentirei spietato nel richiudere un insetto vivo (e particolarmente carino) nella scatoletta del tabacco, ma non ho avuto nessun senso di colpa quando, in quei giorni, mi sono immerso nel gelido mare di dicembre per poi divorarmi, vivi, una cinquantina di ricci di mare (bè, in realta si mangiano solo le uova).

Axel#6: 
Anche a me risulta che la "mosca del tabacco" (così la chiamava mio nonno, andava messa viva nella tabacchiera. Così mi ha raccontato mio nonno e così ho già raccontato in questo forum da un'altra parte. Davanti alle mie rimostranze di bambino già sensibile alle problematiche animaliste, il nonno aggiungeva poi che non si trattava di una barbarie, anzi: la nicotina inebriava l'insetto al punto che non ne voleva più sapere di uscire dalla scatola magica della polvere neppure quando questa veniva aperta. E così trascorreva beatamente la sua esistenza immersa nella nicotina fino a concludere i suoi giorni tranquilla al riparo di una tabacchiera, morendo di "morte naturale", cosa strana per un insetto che invece di solito muore "spetasciato" o ingoiato da qualcuno o qualcosa... pensate un po': non è forse la fine che anche noi "tabacconi" ci auspicheremmo???!!

bering:
Anch'io caro smokeless avrei remore a mettere un insetto vivo nella tabacchiera, e son contento che l'animo di uomini fiutatori di tabacco (pensa rudi e forti :huh: ) sia invece cosi sensibile anche nei confronti di un insetto. Sarebbe un altro mondo se tutti fossimo "fiutatori di tabacco".
Lo so ragazzi siam tutti dei romantici, gente d'altri tempi 

Logiche conclusioni

Il tempo macina ogni cosa, stritola e divora interi mondi. Il passato è la misura della perdita delle informazioni: più qualcosa si allontana dalla misteriosa entità che chiamiamo "presente" - la sola in cui è definita la nostra esistenza - più perde i propri contorni, più si erode, come se svanisse pezzo per pezzo. Man mano che gli oggetti e le informazioni sprofondano, meno si può conoscere. Al termine di questo gorgo inghittitore c'è un buco nero concettuale che possiamo definire "filtraggio", oltre il quale non esiste più nulla che possa servirci per ricostruire ciò che è andato perduto. Possiamo conoscere il passato soltanto perché nel presente perdurano suoi fossili, sempre più fragili ed evanescenti man mano che procediamo lungo la nostra linea di esistenza. Il caso dell'Aromia moschata usata per aromatizzare il tabacco è un esempio di quanto fragile sia il tessuto di ciò che conosciamo come "realtà". Un costume un tempo diffuso è sparito dal sapere comune quasi da un giorno all'altro, senza che quasi nessuno se ne accorgesse. Le scarse testimonianze che ne rimangono sono anch'esse minacciate, rischiano di perdersi nel rumore di fondo del Web. Tutto è molto confuso e presenta anche alcune contraddizioni, almeno in apparenza. Ad esempio c'è chi sostiene che il coleottero fosse aggiunto vivo al tabacco, mentre secondo altri che fosse aggiunto morto e che venisse sbriciolato. Forse erano diffusi entrambe le preparazioni, ma ormai chi può dirlo? Alcuni chiamavano il cerambicide "mosca americana", ma si tratta di una specie euroasiatica, che non è stata certo importata dagli Stati Uniti! Come e quando a qualcuno sarà venuto in mente di mettere questo insetto nel proprio tabacco? Non possiamo dare una risposta. Ignoriamo troppe cose e Google non ci è poi di grande aiuto. Mi auguro che in futuro possano essere compiute ricerche più approfondite e fruttuose.

giovedì 2 agosto 2018

PRESTITI SPAGNOLI NELLA LINGUA DEI MAPUCHE

Com'è facile intuire, la lingua dei Mapuche a partire dall'epoca coloniale ha accolto un gran numero di prestiti dallo spagnolo. Alcuni di questi prestiti sono stati così ben integrati nel sistema fonetico del Mapudungun che a prima vista può essere difficile riconoscerne l'origine spagnola. Solo per fare un esempio, i Mapuche hanno adattato come /f/ entrambi gli allofoni del fonema /b/ dello spagnolo, [b] e [β]. In altri casi, nonostante gli adattamenti, la derivazione è manifesta. Com'è facile intuire, si tratta di parole entrate nella lingua in tempi e in modi diversi, di qui le grandi divergenze nel loro trattamento. Una fonte di dati è il World Loanword Database (WOLD), in cui è consultabile un dizionario etimologico del Mapudungun a cura di Lucía Golluscio, Adriana Fraguas e Fresia Mellico. Per approfondimenti sul trattamento dei prestiti spagnoli si rimanda alla tesi di Dana Bronzino, Loanword Adaptation in Spanish and Mapudungun: a Phonological and Sociolinguistical Analysis (2016), consultabile online e liberamente scaricabile:


Questo è un elenco di parole Mapudungun importate dallo spagnolo: 

aballo, abajo "sotto" < Sp. abajo
achur
"aglio" < Sp. ajos
afena
"avena" < Sp. abena
akucha "ago" < Sp. aguja 
animawün
"osare" < Sp. animarse
araw "aratro" < Sp. arado
asaon
"zappa" < Sp. azadón
awar "fave" < Sp. habas
awela
"nonna" < Sp. abuela
charu
"tazza" < Sp. jarro
chifu
"capretto" < Sp. chivo
chumpiru "cappello" < Sp. sombrero
depwe
"dopo" < Sp. despues
elle
, eje "asse" (della ruota) < Sp. eje
entrekawün
"arrendersi" < Sp. entregarse
espeko
"specchio" < Sp. espejo
etaka
"piolo" < Sp. estaca
falin "valere" < Sp. valer
faltay
"morire" < Sp. faltar "mancare" 
familia
"famiglia" < Sp. familia
faratu
"a buon mercato" < Sp. barato
faril "barile" < Sp. baril

fazofe "mattone" < Sp. adobe
fentana "finestra" < Sp. ventana 
fenzen "vendere" < Sp. vender
foforo "fiammifero" < Sp. fósforo
fomfa
"bomba" < Sp. bomba
fonsiku "tasca" < Sp. bolsillo
foraku "cinghiale" < Sp. verraco
fota "stivale" < Sp. bota
fote
"barca" < Sp. bote
fotilla
"bottiglia" < Sp. botella

foton "bottone" < Sp. botón
furiku "asino" < Sp. borrico "asinello"
fülang "bianco" < Sp. blanco
fülor "fiore" < Sp. flor
fürin "friggere" < Sp. freir
inchalen "gonfiore" < Sp. hinchazón
iskwela
, eskwela "scuola" < Sp. escuela
ispwela
"sperone" < Sp. espuela
kafon "sapone" < Sp. jabón
kalera "scale" < Sp. escalera
kanan "guadagnare" < Sp. ganar
kaniru "ariete" < Sp. carnero "pecora"
kansalen "stanco" < Sp. cansarse "stancarsi"
kansu "oca" < Sp. ganso
kapüra "capra" < Sp. cabra
karfon "carbone" < Sp. carbón
kaserola "padella" < Sp. caserola
kastiku "castigo" < Sp. castigo
kawell, kawellu "cavallo" < Sp. caballo
kesu
"formaggio" < Sp. queso
kolmenia
"ape" < Sp. colmena "alveare"
koral "recinto" < Sp. corral
korderu
"agnello" < Sp. cordero
kuchara
"cucchiaio" < Sp. cuchara
kuchillu
"coltello" < Sp. cuchillo
kues
"giudice" < Sp. juez
kulpafle
 "colpevole" < Sp. culpable 
külafo "chiodo" < Sp. clavo
kürus "croce" < Sp. cruz 
lawna "laguna" < Sp. laguna
ley
"legge" < Sp. ley
lichi "latte" < Sp. leche
lifru
"libro" < Sp. libro
lofo "lupo" < Sp. lobo
llafe "chiave" < Sp. llave
mansun, manshun "bue" < Sp. manso "mite"
marchay "camminare" < Sp. marchar "marciare"
masan "impastare" < Sp. amasar  
mesa "tavola" < Sp. mesa
monte "albero" < Sp. monte*
napor "rape" < Sp. nabos
neqan "negare" < Sp. negar
ofaz, ufas "uva" < Sp. uva
pan
"pane" < Sp. pan
pañu
"panno" < Sp. paño
pañush
"liscio" < Sp. paño "panno"
patu "anatra" < Sp. pato
peine
"pettine" < Sp. peine
pekan "pescare" < Sp. pescar
pelota
"palla" < Sp. pelota
pillaw
"prendere, afferrare" < Sp. pillado "catturato"
pofre "povero" < Sp. pobre
potüro "puledro" < Sp. potro
pülatillu
"piattino" < Sp. platillo
püresu, pürezu "prigioniero" < Sp. preso
ratrillu
"rastrello" < Sp. rastrillo
relo
"orologio" < Sp. reloj
rono "forno" < Sp. horno
sanka "fossa" < Sp. zanja
sayuno "colazione" < Sp. desayuno
seran
"chiudere" < Sp. cerrar
seza "seta" < Sp. seda
sofalün "impastare" < Sp. sobar
sofran
"resti" < Sp. sobras
tafla, trafla "tavola" < Sp. tabla
tampilla
"stampella" < Sp. estampilla
tasa
"tazza" < Sp. taza
tenedor
"forcone" < Sp. tenedor
testiku "testimone" < Sp. testigo
tolto "tenda" < Sp. toldo
toro "toro" < Sp. toro
türen
"treno" < Sp. tren

ufisa
, ofisha "pecora" < Sp. obeja
waka
"vacca" < Sp. vaca
walpon
"riparo, stalla" < Sp. galpón
wazaña
"falce" < Sp. guadaña
yewa
"cavalla" < Sp. yegua
yuku
"giogo" < Sp. yugo
zefe
"debito" < Sp. deber
zefen
"dovere" < Sp. deber

*Nello spagnolo del Cile il termine monte "monte, montagna"; "vegetazione incolta" è passato comunemente a significare "albero". Un singolare slittamento semantico.

Il Mapudungun non distingue il significato delle parole dalla posizione dell'accento, che non ha quindi grande importanza. Va segnalato che esistono non poche controversie sull'argomento, tanto che in opere diverse si trovano descrizioni contraddittorie dell'accentazione di alcune parole native (es. /'ɹuka/ o /ɹu'ka/ "casa"). Nei prestiti qui discussi spesso la posizione dell'accento è in netta contrapposizione con quella dello spagnolo. Se una parola ha due sillabe aperte, a prendere l'accento è l'ultima. Se è presente un nesso il cui secondo membro è una rotica o una liquida, spesso si ha ambiguità.

/tʃa'ɹu/ "tazza"
/ɹo'no/ "forno"
/to'ɹo/ "toro"
/wa'ka/
 "vacca" 

/po'fɹe/ "povero"
/ta'fla/
, /'tafla/ "tavola" 

Se a causa di un nesso consonantico si crea una sillaba che non esisteva nell'originale spagnolo, dando origine a una parola con tre sillabe aperte, la seconda sillaba prenderà l'accento.  

/ka'püɹa/ "capra"
/po'tüɹo/ "puledro" 

Se una parola ha due sillabe, di cui la prima aperta e la seconda chiusa, l'accento cade sulla seconda. 

/a'tʃuɹ/ "aglio" 
/a'waɹ/
 "fave" 
/fa'ɹil/
"barile"  /na'poɹ/ "rape" 

Se una parola ha due sillabe, di cui la prima chiusa e la seconda aperta, l'accento può cadere sulla seconda, anche se nelle parole native cade invece sulla prima.

/kan'su/ "oca"

Se una parola ha due sillabe chiuse, l'accento cade sulla seconda; anche nelle parole native cade sulla prima.

/kaɹ'fon/ "carbone"
/man'sun/ "bue" 

Sono possibili parole trisillabiche il cui accento diverge da quello spagnolo, nel caso in cui le prime due sillabe siano aperte e la terza chiusa.

/te'nedoɹ/ "forcone" < Sp. /tene'ðor/ 

A quanto riporta Bronzino, si hanno anche parole sdrucciole: 

/ka'seɹola/ "padella" < Sp. /kase'rola/

L'adattamento alla fonetica nativa agisce anche sulle parole di introduzione più recente, anche se in modo meno efficace. In diversi casi il termine importato non subisce modifiche nonostante il suo aspetto sia incompatibile con la fonetica nativa:

gofiernu, gobiernu "governo" < Sp. govierno
ministro
"ministro" < Sp. ministro
presedente "presidente" < Sp. presidente
pülatiko
"plastico" < Sp. plastico
razio
"radio" < Sp. radio
sosialimu "socialismo" < Sp. socialismo
vidrio
"vetro" < Sp. vidrio

In diversi casi si sono creati doppioni, quando una parola spagnola si usa accanto a una nativa o in ogni caso preispanica. Questi sono alcuni esempi: 

parola nativa / prestito spagnolo

fey wüla "dopo" / depwe
füren "famiglia" / familia
katrüwe "coltello" / kuchillu
kofke "pane" / pan
kuen "friggere" / fürin
kuyül "carbone" / karfon
lay "morire" / faltay
lilpu "specchio" / espeko
liq "bianco" / fülang
miñche "sotto" / aballo, abajo
mongkol "palla" / pelota
mülewelu "resti" / sofran
nün "prendere, afferrare" / pillaw
nürüfün "chiudere" / seran
rünatuwe "pettine" / peine
trekan "camminare" / marchay
ziwlliñ "ape" / kolmenia 

In questi casi non si tratta di prestiti necessari, dato che nella lingua esistevano già parole per esprimere dati concetti. Li si può definire "prestiti di lusso". Ovviamente è sempre possibile che un prestito di lusso scalzi la parola nativa e la faccia cadere nell'oblio.

PRESTITI QUECHUA, AYMARA, KAKAN E PUELCHE NELLA LINGUA DEI MAPUCHE

Nella lingua dei Mapuche sussistono numerosi prestiti da altre lingue amerindiane, con buona pace degli accademici che in passato la ritenevano esente da qualsiasi influenza esterna. Come si può facilmente intuire, la principale fonte di prestiti è stata la lingua dell'Inca, il Quechua. Questo è un elenco di vocaboli del Mapudungun di origine Quechua: 

achawall "gallo" < Qu. atawallpa "gallo"(1) 
awka "nemico" < Qu. awqa "nemico, ribelle"
chaküra "campo" < Qu. chakra "campo;
     coltivazione"
challwa "pesce" < Qu. challwa "pesce"
chang "gamba"; "ramo" < Qu. chanka "gamba"
charaypuka "lucertola" < Qu. Sant. qaraypuka
      "iguana"(2)
charki "carne" < Qu. ch'arki "carne essiccata"
chawcha "moneta" < Qu. chawcha "patata precoce"
chillka "carta" < Qu. qillqa "segno; scrittura"(3)
chillkatun "scrivere" < Qu. qillqay "scrivere"(3) 
ichona "falce" < Qu. ichuna "falce"
kachu "erba" < Qu. q'achu-q'achu "erba"
kaka "zia materna" < Qu. kaka "sorella della madre"
kalku "stregone" < Qu. qarqu "portento funesto"
kangkan "arrostire" < Qu. kankay "arrostire"
kara "città" < Qu. pukara "fortezza"
kawewe "remo" < Qu. qawiy "remare"(4)
kawitu "letto" < Qu. kawitu "letto"
lilpu "specchio" < Qu. rirpu "specchio"
lüpümün "bruciare" < Qu. ruphay "bruciare"
muchan "baciare" < Qu. muchay "baciare"
müski, mishki "miele; cera d'api" < Qu. miski
     "miele"
ñaña "sorella" < Qu. ñaña "sorella"
palum "lucertola" < Qu. palu "lucertola; alligatore"
pike "pulce" < Qu. piki "pulce"
pongkwin "gonfiore" < Qu. punkiy "gonfiore"
puma "coguaro" < Qu. puma "coguaro"

p
ütra
 "stomaco" < Qu. patra "ventre"
sapallu "zucca" < Qu. sapallu "zucca" 
titi "piombo" < Qu. titi "piombo; stagno"
tupu "spillo" < Qu. tupu "spillone"
wachol "orfano" < Qu. wakcha "povero"(5)
wampo "canoa" < Qu. wampu "canoa"(6) 
wañu "sterco" < Qu. wanu "sterco" 

(1) La parola in epoca preispanica doveva indicare il gallo cedrone o altro tipo di galliforme selvatico. Compare come nome di un notissimo imperatore incaico.
(2) Vocabolo del Quechua di Santiago del Estero (Argentina), che mostra l'aggettivo puka "rosso" dopo il sostantivo qaraywa "lucertola" (si noti la palatalizzazione della consonante iniziale). Questa anomalia è dovuta al sostrato Kakán: nella lingua dei Diaghiti l'aggettivo seguiva sempre il sostantivo. Nel Quechua di Cuzco vale l'inverso: es. pukallpa "terra rossa" < puka "rosso" + allpa "terra".
(3) Questa radice si deve essere diffusa in epoca coloniale, visto che gli Incas ignoravano la scrittura alfabetica. In epoca preispanica indicava i pittogrammi indigeni. Si noti la trasformazione dell'occlusiva uvulare iniziale /q/ nell'affricata postalveolare /tʃ/ (mutamento che non ha intaccato la /q/ interna).
(4) Il suffisso -we è usato per formare nomi di strumenti da radici verbali.
(5) Il suffisso -ol è altamente problematico e a mio avviso di origine ignota, ma la radice è chiara.
(6) Il vocabolo è attestato come huampu nell'opera di Luis de Valdivia (Arte y gramatica de la lengua general que corre en todo el Reyno del Chile. Lima, 1606).

Numerosi prestiti dal Quechua descritti da Valdivia sono caduti in disuso e non si trovano più nella lingua moderna. Altri invece sono ancora vitali. Utile è senza dubbio lo studio di Rodrigo Moulian, María Catrileo e Pablo Landeo (Università di Concepcion, Cile), Afines Quechua en el vocabulario Mapuche de Luis de Valdivia (2015) - con relativo allegato. Va detto che gli autori di questo studio propongono qualche etimologia fallace, fondata su mutamenti fonetici molto improbabili o impossibili; sembra poi che le loro conoscenze della lingua Quechua siano abbastanza limitate. Riporto una lista di quechuismi valdiviani nell'ortografia originale. 

amca "mais tostato" < Qu. hamk'a "mais tostato" 
amchi "semolino" < Qu. hamchi "semolino"
ampi "medicina, purga" < Qu. hampi "medicina"
ampin "curare" < Qu. hampiy "curare"
apo "governatore" < Qu. apu "generale, autorità"
ata "gallina" < Qu. atawallpa "gallo"
ayargen "essere pallido" < Qu. aya "morto"
cahuin "riunione" < Qu. kaywi "ossequi rituali,
    ricordi di una festa"(i)
cahuintu "ubriacatura" (vedi sopra)
camañ "facitore"(ii) < Qu. kamayuq "responsabile"
capi "fagioli freschi" < Qu. kapi "baccello di
    legume"(iii)

cullpo "tortora" < Qu. kullku "tortora"(iv)  
chala "paglia di mais secco" < Qu. ch'alla "paglia
    di mais secco"
chaucha "patate gialle" < Qu. chawcha "patata precoce"
huaccha "anatra" < Qu. wachwa "anatra di lago"
huayqui "lancia" < Qu. wach'i "freccia"(v)
llanca "pietra preziosa" < Qu. llanqa "colore
     intenso"
llancavú "color porpora" < Qu. llanqha "color rosa"
llipu "specchio" < Qu. rirpu "specchio"
llupu, llupug "pentola" < Qu. llupu "basso;
     appiattito"(vi)
murque "farina di mais tostato" < Qu. machka
     "farina tostata" < proto-Qu. *matrka 
muti "mais cotto" < Qu. mut'i "mais bollito"
mutin "cuocere mais" < Qu. mut'iy "bollire il mais"
pichi "piccolo" < Qu. pisi "poco"
pirca "parete" < Qu. pirqa "parete, muro"
pozco "lievito" < Qu. p'uchqu "lievito"
puñu "nuvoloso" < Qu. phuyu "nuvola"
purumache "gli antichi" < Qu. purun machu "spiriti
     degli antenati"(vii)
qillca, quillca "carta, scrittura" < Qu. qillqa "segno;
     scrittura"(viii)
raquin "contare, stimare" < Qu. rak'iy "ripartire"
tabo "casa" < Qu. tampu "alloggiamento, ostello"
tica "mattone" < Qu. tika "mattone"(ix)
titun "saldare con stagno" < Qu. titiy "saldare"
údan "avere la scabbia" < Qu. utha "foruncolo"(x)
vminta "pane di mais" < Qu. umita "tipo di cibo"
yana "servo" < Qu. yanaq "servo"
yclla "mantelle delle indiane" < Qu. lliklla "mantella
     da donna"

(i) Moulian e coautori forniscono come fonte per la parola Quechua Rosat, 2009: 527.
(ii) Si trova soltanto come secondo elemento di composti che indicano professioni, così ampi camañ "medico".
(iii) Moulian e coautori forniscono come fonte per la parola Quechua Augusta 1916a : 76.
(iv) La seconda consonante della parola Mapudungun è dovuta con ogni probabilità a dissimilazione.
(v) La consonante glottalizzata -ch'- è stata risolta in -chk-, quindi si è prodotto un dittongo. Un trattamento inconsueto ma non impossibile, che depone a favore dell'antichità del prestito.
(vi) Moulian e coautori forniscono la glossa Quechua llupu "chato, aplastado, de poca altura"; la fonte indicata è Rosat, 2009: 643.
(vii) Da purun "selvatico; terra abbandonata" e machu "vecchio; spirito maligno". La locuzione si riferisce con ogni probabilità ai fantasmi degli antenati non battezzati.
(viii) In Valdivia non si ha la palatalizzazione riscontrata nella lingua moderna. 
(ix) Da non confondersi con tiha "tegola" (Quechua dei Wanka), prestito dallo spagnolo teja. Le tegole, sconosciute in epoca precolombiana, sono state prontamente adottate. A Vilcabamba il palazzo dell'Inca aveva un tetto di tegole.
(x) Rosat, 2009: 1206.

Si potrebbe aprire un dibattito sul percorso con cui ciascuna parola Quechua è penetrata in Mapudungun, ma forse sarebbe inconcludente. Alcuni prestiti appaiono fedeli all'originale, mentre altri hanno subìto mutamenti e potrebbero essere più antichi: è stata ipotizzata addirittura un'origine pre-incaica. Ad esempio chang "gamba; ramo", che presenta la perdita della finale del Quechua chanka. A complicare le cose, questo chanka risale al proto-Quechua *tranka (con tr- pronunciata come in siciliano). Per ulteriori informazioni e discussioni sull'argomento, si veda l'opera di Matthias Pache (Università di Leida), Lexical Evidence for Pre-Inca Language Contacts of Mapudungun (Mapuche) with Quechuan and Aymaran (2014). Ecco alcune corrispondenze che non possono essere dovute a prestiti recenti: 

kelü "rosso" : Qu. qulli "viola"
küyen, küllen
"luna" : Qu. killa "luna" 
mongkol
"sferico" : Qu. muruqu "rotondo" 
ñuke
"madre" : Qu. ñuñu "seno materno"
pun
"notte" : Qu. puñuy "dormire" 
pura "otto" : Qu. pusaq "otto"
tapül "foglia" : Qu. chapra "foglia"
waria "città" : Qu. wasi "casa"
weñi "ragazzo" : Qu. wayna "ragazzo, giovane uomo" 

Si notano anche alcuni importanti prestiti culturali dall'Aymará: 

pataka "cento" < Ay. pataka "cento"
warangka "mille" < Ay. waranqa "mille"
wirin "scrivere" < Ay. wiru "solco" 


Altri prestiti dall'Aymará sono riportati da Valdivia:

ayra "pigro" < Ay. hayra, jayra "pigro"
laqueytun "maledire" < Ay layqa "stregone" 

Ho identificato un'altra fonte di prestiti. Si tratta del Kakán, la lingua dei Diaghiti (Diaguitas).

antü "sole" < Kak. ando-, antofa- "sole"(a)
is
üm
"uccello < Kak. ismi "uccello"(b)
machi "sciamano, sciamana" < Kak. machi
    "sciamano"(c)
patay "pane" < Kak. patay "pane di carrube"(d)
ruca "casa" < Kak. -luca- "casa"(e)

(a) Si ritrova nei toponimi Antofagasta, Antofalla (Antofaya), Andolucas. Il vocalismo è incompatibile con un'origine dal Quechua inti "sole". In Kakán la parola ha un'etimologia: sappiamo che an- "luogo alto", ani- "cielo", -án "alto". Questi elementi sono documentati nella toponomastica e nell'antroponimia diaghita. Nel Quechua di Santiago del Estero esistono anche le forme di sostrato tutu "brucia" e tuy! "che caldo!", donde si deduce che l'elemento -tu- in Kakán doveva indicare il fuoco. Dunque ando-, antofa- < *an-tu- "fuoco del cielo". Questo dimostra la direzione del prestito. Il toponimo diaghita Conando corrisponde alla perfezione al Mapudungun coni antu "tramonto" (lett. "il sole entra", vedi Valdivia). Il toponimo diaghita Antofalla corrisponde alla perfezione al Mapudungun lay antú "eclisse" (lett. "il sole muore", vedi Valdivia). Queste frasi potrebbero essere passate ai Mapuche dal Kakán; se è così anche i verbi in questione sarebbero prestiti. 
(b) Si ritrova nell'idronimo Ismiango, glossato Aguada de los Pajaritos, ossia "Ruscello degli Uccellini". Nel Quechua di Santiago del Estero vive tuttora il vocabolo ishma "uccellino", termine di sostrato. In Mapudungun esiste anche ishike "insetti" (in origine "creature volanti", var. isike), che pare formato dalla stessa radice. Vediamo che -mi è un suffisso ben documentato nell'antroponimia e nella toponomastica diaghita, mentre manca nella lingua dei Mapuche. Evidentemente sia isüm che ishike devono venire da parole col significato di "essere volante". L'oscurità etimologica dimostra che sono prestiti. 
(c) Nel 2017 è stata scoperta in Cile una parlante della lingua Kakán, Karen Zunilda Aravena Álvarez, che definisce se stessa machicua, ossia "sciamana". La parola deve essere un composto, da cui si deduce che -cúa significa "donna". Il vocabolo machi, tradotto con "medico", era ben vivo nel Quechua di Catamarca (Argentina), documentato da Samuel Alejandro Lafone Quevedo (1835-1920). Catamarca è una terra lontana dall'area in cui si parlava il Mapudungun. Con tutta probabilità machi è un termine culturale diaghita passato ai Mapuche. 
(d) Il vocabolo si trova come sostrato nel Quechua di Santiago del Estero e nel Kunza, una lingua isolata un tempo parlata nella regione di Atacama. A Santiago del Estero patay indica un pane particolare, fatto con le carrube. Nelle comunità di Atacama indicava una massa dolce fatta con la farina di carruba. Irriducibile al Quechua, questa parola deve essere un elemento culturale diaghita di particolare importanza.
(e) Il toponimo Andolucas significa "(alla) Casa del Sole". Trovo plausibile l'ipotesi formulata da Pache di un'origine remota del Mapudungun ruka "casa" dalla stessa radice del Quechua wasi "casa". Da una protoforma *wasV-ka "gruppo di case" si sarebbe formata la variante *masV-ka, evoluta in vario modo. Si noti che in Hulliche anziché ruka troviamo shuka "casa". In Amazzonia è molto diffusa la parola maloka "casa comune". Sono convinto che il Kakán sia stato il tramite per il passaggio di questo elemento in Mapudungun. Si nota che il Kunza ha lickan "villaggio", chiaramente parente del termine Kakán -luca- "casa". 

La lingua dei Puelche (Gününa Yajüch), un popolo della Pampa, ha dato alcuni prestiti al Mapudungun, forse a causa di matrimoni misti avvenuti in epoca non troppo antica. I dati sono stati tratti dal World Loanword Database (WOLD).   

kalel "collina" < Pu. kalïl "collina"
kelesia "lucertola" < Pu. kelésia "lucertola"
kotrü "salato, aspro" < Pu. xitran "sale"
kululu "farfalla" < Pu. kululu "farfalla"
lamkja "vino" < Pu. lam "bevanda alcolica"*
trawala "patata" < Pu. dawala "piccola patata selvatica"

*In ultima analisi è a sua volta un prestito dall'inglese rum.