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giovedì 5 luglio 2018

IL CERVELLO DI BOLTZMANN E L'USO ABUSIVO DELL'IPOTESI ERGODICA

Chi ha mai sentito nominare il cervello di Boltzmann? Pochi, immagino. Con questa locuzione non si intende la materia grigia un tempo contenuta nell'augusta scatola cranica del geniale fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906), da lungo tempo ridotta in polvere. Il nome di cervello di Boltzmann indica un'entità autocosciente, ovviamente ipotetica, formatasi casualmente a partire da una fluttuazione statistica in un universo in morte termica. Vediamo di capire meglio il concetto.

Il secondo principio della termodinamica afferma che in un sistema isolato lontano dall'equilibrio termico, l'entropia aumenta nel tempo in modo irreversibile. Questo aumento è destinato a continuare fino al raggiungimento dell'equilibrio termico del sistema stesso, che non scambia energia e materia con l'esterno. L'entropia è una misura del disordine presente in un sistema fisico e ha le dimensioni di un'energia divisa per una temperatura: la sua unità di misura è Joule/Kelvin. L'enunciato matematico del principio in questione è il seguente: 

ΔS ≥ 0

dove ΔS è la variazione di entropia nell'unità di tempo, che non è mai negativa. Vale la relazione ΔS = ΔQ/T, essendo ΔQ la quantità di calore scambiata nell'unità di tempo alla temperatura T. Possiamo dire che in qualche modo il calore si degrada e va ad aumentare il moto disordinato degli atomi nella materia, diventando inutile ai fini di produrre lavoro. L'entropia è proprio questa parte di calore degradato, che non possiamo più utilizzare - ossia convertire in altre forme di energia, come ad esempio quella meccanica.

Essendo possibile definire l'universo come un sistema isolato, si deduce che la sua entropia aumenterà fino al raggiungimento di uno stato di equilibrio che possiamo definire morte termica. Una volta raggiunta la morte termica non potranno più verificarsi scambi di calore tra le parti del sistema, essendo tutto il calore disperso ed essendo quindi impossibile usarlo per compiere lavoro. L'inquietante domanda di Boltzmann è dunque questa: "Come mai l'universo non ha ancora raggiunto le condizioni di equilibrio, ossia di morte termica?" 

Certo, Rovelli farebbe meglio di me. Proverò comunque a spiegare come stanno le cose, usando i mezzi più efficaci a mia disposizione.

Nel mondo ideale di Piero Angela esistono soltanto trasformazioni reversibili. Se ad esempio si fa scorrere all'indietro la sequenza filmata del moto uniformemente accelarato di un corpo, si ottiene un'altra sequenza, di un moto uniformemente decelarato, che non viola alcuna legge ficisa. I corpi, detti mobili o gravi, non hanno struttura interna, sono indeformabili, non possono essere scalfiti o infranti, non sono nemmeno composti da atomi. Sono corpi ideali e ogni cambiamento in un simile mondo dei Puffi è parimenti ideale. 

Chiunque capisce che se da un corpo ideale passo a un corpo reale, gli esempi fatti da Piero Angela non valgono più. Se lascio cadere un bicchiere, causandone la rottura, accade una cosa mirabile: facendo scorrere all'indietro la sequenza filmata dell'evento, ottengo un'altra sequenza, che non ha senso alcuno. I cocci di vetro tornerebbero infatti a comporsi spontaneamente, fino a riformare il bicchiere infranto. Allo stesso modo, se ingurgito una decina di brioche, le digerisco e defeco, la sequenza inversa mostrerebbe le feci strisciare come serpenti, salire nel mio ano, farsi strada nell'intestino e riformare le brioche ingerite, che sarebbero infine rigurgitate tornando integre. Qualcosa non quadra, è evidente.  

Il moto uniformemente accelerato spiegato agli studenti da generazioni di insegnanti non esiste in condizioni reali. Un corpo dovrebbe muoversi nel vuoto assoluto per non incontrare resistenza. Nella realtà dei fatti, si manifesta questa resistenza, detta attrito. L'attrito genera calore, ossia provoca la trasformazione dell'energia cinetica in energia termica. Come conseguenza, il grave decelera fino a fermarsi. 

Questa discrepanza tra il mondo di Piero Angela e la realtà fisica osservabile ha le sue radici proprio nel secondo principio della termodinamica, da cui scaturisce la freccia del tempo. Dopo aver affermato in lungo e in largo che il tempo nelle equazioni fondamentali della Natura non lo si trova, lo stesso Carlo Rovelli è stato costretto ad ammettere che esiste una notevole eccezione: dovunque compaia l'entropia. Proprio lì il tempo c'è, eccome! Anzi, si può dire che ne venga generato.

Entropia, attrito, dispersione del calore, degradazione dell'energia, irreversibilità! I sistemi naturali sono assai complessi e non possono essere descritti con gli strumenti concettuali di un liceale. Può sembrare lapalissiano, eppure non si insisterà mai abbastanza su questo punto. Come può un meccanico classico descrivere un organismo come un cavallo? Approssimandolo a una sfera rotolante, come in una famosa barzelletta che circolava quando studiavo all'università. Facendo così perderà informazioni e non potrà codificare un numero incalcolabile di caratteristiche del cavallo stesso. Eppure si possono capire molte cose usando la termodinamica. Il corpo di un animale, umani inclusi, si manterrà in condizioni ben definite di bassa entropia ingerendo acqua e nutrienti, che permettono alle cellule di mantenersi in funzione. I residui dei processi di assorbimento di materia ed energia produrranno entropia in eccesso, che verrà espulsa con le feci, l'orina e il sudore. Se il disordine nel corpo crescerà, ad esempio ad opera di un patogeno, si avrà una condizione di malattia. Se crescerà oltre un certo limite tollerabile, si avrà la morte, e il corpo stesso diverrà entropia da smaltire, un dono per i carognari.

Se il predominio del disordine vi sembra schiacciante e vi causa angoscia, vi dirò che nell'universo l'entropia è in genere sorprendentemente bassa. La radiazione solare è una sorgente di bassa entropia. Certo, se un essere umano sta esposto ai raggi del sole, la sua entropia aumenterà e finirà per crollare (si chiama insolazione). Tuttavia se i raggi del sole colpiscono un vegetale, grazie alla fotosintesi clorofilliana permetteranno la produzione di nutrienti. I raggi del sole, incidendo su un pannello fotovoltaico, ci permetteranno di ottenere energia elettrica, che potrà essere convertita in energia meccanica e via discorrendo. Gli esempi sono innumerevoli. Si utilizzano forme di energia di cui possiamo disporre, si produce lavoro e si aumenta l'entropia nell'ambiente in cui viviamo. Se facciamo diminuire l'entropia in una porzione del nostro mondo, refrigerando una stanza, la faremo aumentare altrove. Quindi, essendo sempre crescente l'entropia del sistema isolato che è l'universo, essa dovrà essere stata ancora più bassa in passato. Com'è possibile questo? Da dove proviene tutta questa bassa entropia? 

Adesso possiamo capire meglio come Boltzmann sia riuscito a concepire la sua risposta molto originale a questo quesito dalle conseguenze esistenziali devastanti. In realtà il nostro universo a bassa entropia non esiste affatto. Le condizioni di morte termica, ossia di equilibrio universale, sono dominanti da eoni. Una fluttuazione termica imprevista e rarissima, quale si può produrre in miliardi di anni, avrebbe allora causato l'aggregazione di una struttura in grado di prendere coscienza di sé: è proprio il cervello di Boltzmann. Inorridito dal caos in cui si è trovato a sussistere, questo organismo si è chiuso nel solipsismo, concependo un universo inesistente, come i mondi onirici in cui ci illudiamo di vivere ogni notte, quando ci immergiamo nel sonno detto REM. Forse lo scienziato viennese avrebbe potuto dirci di più su questa orrifica prospettiva. Purtroppo è stato esasperato a tal punto dalla moglie e dalla figlia da impiccarsi per sfuggire al tormento, mentre si trovava in vacanza a Duino.

Statisticamente, si può dire che la formazione di un cervello di Boltzmann in un universo in equilibrio sia molto più probabile dell'evoluzione di un universo implausibile come il nostro a partire da condizioni di bassissima entropia, che sono ancora più incomprensibili. A questa conclusione si dà il nome di Paradosso del cervello di Boltzmann. A quanto pare, queste splendide elucubrazioni boltzmanniane sono state tenute nascoste per decenni, riemergendo soltanto agli inizi del XXI secolo. La stessa locuzione "cervello di Boltzmann" è stata coniata da Lorenzo Sorbo e da Andreas Albrecht nel 2004, proprio nello stesso anno in cui ho iniziato la mia poco proficua carriera di blogger. 

Ergodicità abusiva! 

In Quora è stata posta una domanda cruciale, che tormenta il genere umano da sempre. 

È stata data una risposta al perché esiste la vita?

Così ha risposto Roberto Weitnauer:

"La risposta è molto semplice: perché può esistere. Si può applicare la legge di Murphy, non c’è problema a stabilire questo ponte concettuale tra comicità e scienza."

"In questo universo tutto ciò che prima o poi, in qualche modo o per qualche verso può accedere, prima o poi, in qualche modo o per qualche verso, accade. Esiste dopotutto la versione scientifica della legge di Murphy. Si tratta di una nota teoria statistica, detta Ipotesi ergodica - Wikipedia. Vorrei qui esemplificarla con una scimmietta immortale che batte a caso sui tasti di un computer." 

"Sfruttando le alternative a disposizione, questo animale instancabile produce dell’informazione. Esso sortirà ogni genere insulso di simboli e di sequele di caratteri alfanumerici. Informazione non vuole dire infatti significato. Tali successioni saranno enormemente superiori alle eventuali sporadiche parole che potrebbero avere un senso in qualche lingua. Eppure, continuando instancabilmente a battere sui tasti, la scimmietta arriverà a un bel momento a una sequenza casuale di caratteri che corrispondono alla “Divina Commedia” di Dante o magari a “Ulisse” di Joyce in serbo-croato. Non solo, alla lunga, questo succederà un numero illimitato di volte." 

E ancora: 

"Possiamo scherzare sulla legge di Murphy o sulla scimmietta ergodica, ma i concetti sottostanti sono tutt’altro che banali. Il punto è che la vita non è in alcun modo incompatibile con le leggi fisiche note. Contrariamente a quanto qualcuno pensa, essa non ha affatto le sembianze di un miracolo o di qualcosa di eccezionale rispetto al comportamento della materia e dell’energia. Esistono persino delle condizioni termodinamiche favorenti la comparsa di sistemi auto-organizzati. In effetti, la vita sul nostro pianeta è uno di questi: la biosfera è una struttura dissipativa perfettamente descrivibile in termini termodinamici." 

Ora, nessuno dubita che la biosfera sia perfettamente descrivibile in termini termodinamici. Quello che Weitnauer descrive come soluzione del problema, è invece il problema stesso. Sembra sfuggirgli che la somma improbabilità delle condizioni di partenza e dell'evoluzione del sistema universo non possono essere descritte come il prodotto di una banale combinazione di elementi semplici come le lettere dell'alfabeto. C'è di mezzo l'abisso della fisica quantistica e della non commutatività delle sue variabili!

In poche parole, un cervello di Boltzmann non sorge come sorgerebbe un verso di Dante da una continua estrazione casuale di lettere da un contenitore, essendo qualcosa di infinitamente più complesso. Per non parlare di un intero universo improbabile a bassa entropia! Le tesi di Weitnauer sono insostenibili: ci troviamo una volta di più di fronte all'argomento fallace della scimmietta della Città degli Imperatori, già confutato da me in un precedente contributo: 


Per quanto riguarda l'ipotesi ergodica, ecco un sunto facilmente ricavabile dal Web e assai utile: 

"Il termine ergodico è stato introdotto da Ludwig Boltzmann (1844-1906) con riferimento ai sistemi meccanici complessi capaci di assumere spontaneamente tutti gli stati dinamici microscopici compatibili con il loro stato macroscopico. Le particelle costituenti il sistema, cioè, assumono ogni insieme di valori istantanei di posizione e velocità le cui caratteristiche medie corrispondono allo stato macroscopico del sistema."
(Fonte: Wikipedia)

"In meccanica statistica, l'ipotesi ergodica dice che, dopo un tempo sufficientemente lungo, il tempo speso da una particella in un volume nello spazio delle fasi di microstati della stessa energia è proporzionale al volume stesso; equivalentemente alle condizioni termodinamiche, il suo stato può essere uno qualunque di quelli che soddisfano le condizioni macroscopiche del sistema." (Fonte: Wikipedia)

Si comprende facilmente che è stato fatto un uso abusivo del termine "ergodico" e della stessa teoria di Boltzmann. 

Immaginiamo ora un congegno che estrae simboli alfanumerici, posto nei pressi di un quasar distante da noi dieci miliardi di anni luce. Immaginiamo che quando è partita la luce che raggiunge in questo istante un attuale astronomo, il congegno abbia ottenuto questa sequenza: 

NELMEZZODELCAMMINDINOSTRAVITA

Avrebbe un senso? No. Per nulla. Einstein ci dice che non esiste un unico presente in tutto l'universo. Tuttavia ci dice anche come tutti i presenti dell'universo sono tra loro connessi. Per certo quando il congegno ha estratto la sequenza dantesca, non esistevano né Dante Alighieri né la lingua italiana, né la protolingua del genere umano, né la vita multicellulare. Questo perché la sequenza NELMEZZODELCAMMINDINOSTRAVITA è stata estratta dal congegno dieci miliardi di anni prima del nostro presente. Non basta che si generi una sequenza di elementi alfanumerici: è necessario che esista qualcuno ad attribuirle un senso.

Si arriva così a un altro paradosso. Un cervello di Boltzmann è un codice. Un codice non è un semplice insieme di elementi inerti senza relazione reciproca. Un codice è un aggregato di elementi simbolici che veicolano informazione. Un cervello di Boltzmann deve essere un codice. Per essere consapevole, deve includere algoritmi, ossia procedimenti che permettono la risoluzione dei problemi mediante un numero finito di passi elementari. Questo però non è possibile: il caso non genera codici.

giovedì 24 maggio 2018

DIALETTO: UNA PAROLA CONTROVERSA

Non esiste una definizione scientifica e rigorosa di cosa si debba intendere per "dialetto". Poche parole sono più problematiche e ambigue di questa. La confusione che la circonda è davvero troppa, considerato quanto è capillare il suo uso. Questi sono i significati più comuni:

1) Varietà di una lingua;
2) Una lingua in contrapposizione a un'altra, in genere a
lla lingua ufficiale di una nazione;
3) Una lingua parlata in una singola località o comunque in un contesto territoriale ristretto, in rapporto a una lingua parlata in un'area più estesa;
4) Una lingua non scritta, soprattutto se parlata da popolazioni considerate "primitive", "selvagge", "non civilizzate"
5) Qualsiasi lingua di cui un topo di biblioteca chiamato "grammatico" non abbia fissato la struttura in un tomo chiamato "grammatica".

Più preciso è il Vocabolario Treccani, che combina le prime tre definizioni sopra riportate integrandole: oltre a definire il dialetto come realtà il cui contesto culturale e geografico è limitato, insiste molto sull'assenza del prestigio tipico di una lingua nazionale, o sul fatto che questo prestigio, un tempo esistente, è andato perduto dopo una fase di declino. Inoltre, cosa non meno importante, perché un sistema linguistico possa essere definito come "dialetto" è necessaria l'appartenenza a un gruppo di sistemi linguistici di origine comune, che condividono un certo numero di innovazioni. Per chi volesse approfondire l'interessante argomento, rimando senz'altro al sito web Treccani.it, astenendomi da riportarne in questa sede i testi coperti dal diritto d'autore.



Si converrà che tale trattazione possa risultare di difficile comprensione per le persone meno istruite. Il pregiudizio volgare, plasmato da decenni di propaganda scolastica e di bombardamento televisivo, interpreta tuttora la parola "dialetto" in modo fortemente spregiativo. Così, per ovviare a questo problema, è stato proposto l'uso di locuzioni come "lingua locale" o "lingua regionale". Una bella strategia, non c'è che dire: per fare un paragone, proviamo a immaginarci un dittatore come Pinochet, ma reso buonista e rimbambito dalla demenza senile, che intenda restituire la dignità a prigionieri politici che ha fatto immergere in vasche di feci e a cui ha fatto strappare le unghie. Ecco le lacrime del coccodrillo! Prima fare di tutto per annientare, poi, di fronte ai perseguitati distrutti, innalzarli su un trono di cartapesta. Questo è il teatrino massonico. 

Vita, agonia e morte dei dialetti italiani  

Realizzata l'unità nazionale, le politiche dei Savoia per imporre l'italiano del Manzoni come unica lingua furono molto aggressive, anche se poco efficaci nel breve e nel medio termine. Il fine era quello di eradicare fino all'estinzione completa ogni parlata popolare. Questo processo di italianizzazione linguistica forzata era chiamato in sintesi "fare gli Italiani". Ricordo un interessante articolo, purtroppo perduto, in cui si descriveva con grande efficacia il processo di diffusione di una lingua italiana sostanzialmente artificiale. All'epoca dell'Unità d'Italia, l'italiano era la lingua parlata di una percentuale molto piccola della popolazione. I maestri erano costretti ad insegnarlo nelle scuole del Regno come una lingua straniera. Il giornalista diceva che sua madre e sua suocera, una modenese e l'altra toscana, ignorando entrambe l'italiano, per comunicare avevano bisogno dell'interprete. La terribile suocera, trasferita a Modena, quando andava a messa restava sconvolta dalla pronuncia usata dal prete e dai fedeli, sbottando di continuo in un "Ché, ché, ché! Questi 'un son cristiani!": le formule latine, storpiate dai modenesi in un modo diverso da quello usato dai toscani, le sembravano un modo volgare e blasfemo di rivolgersi a Dio. La Grande Guerra, si diceva nell'articolo, mescolò sangue, pidocchi e dialetti di tutt'Italia, portando a un lieve miglioramento nelle comunicazioni. Tuttavia, per molti, l'italiano rimase a lungo soltanto la lingua dei telegrammi ("mamma indisposta rientrare subito") e delle autorità. Il regime fascista fece di tutto per imporre l'italiano come unica lingua, ma a vincere la battaglia contro i dialetti fu la televisione. Il ruolo di Mike Bongiorno e di Lascia o raddoppia? fu determinante. Altrettando fondamentale fu l'opera di Totò, che con i suoi film insegnava l'italiano agli Italiani, mettendoli in guardia da errori di ogni genere, travestendo l'istruzione in forma di battute esilaranti. La scuola aveva fatto di tutto, era ricorsa ad ogni mezzo repressivo per estinguere i dialetti, fallendo la sua battaglia contro gli "asini", gli alunni recalcitranti che reagivano all'indottrinamento rifiutandosi di imparare la lingua imposta. La televisione, mostro sacro, fece piazza pulita di tutto. Il giornalista modenese riportava il caso di un'anziana maestra. Quando aveva iniziato il suo magistero scolastico, la donna aveva dovuto combattere contro l'italiano dialettizzato dei suoi studenti, che infarcivano i loro temi con parole come pita "tacchino" e via discorrendo. Avvicinandosi alla pensione, la maestra si era resa conto che qualcosa era cambiato nei bambini: tutti si esprimevano nell'italiano piatto e disadorno della televisione! Certo esistono ancora numerosi parlanti dei dialetti della Penisola, tuttavia mescolano l'idioma avito con l'italiano (code mixing e code switching), nativizzano parole italiane - ma soprattutto la Dea della Gioventù non mette alcuna ghirlanda di fiori sul loro capo.

Un reperto della massima importanza

Tempo fa recuperai un libro di storia ad uso delle scuole medie, consunto e mezzo mangiato dai pesciolini d'argento, che era appartenuto a mio padre (RIP). Era molto sintetico, ma non per questo privo d'interesse. Quello che più mi colpì fu la descrizione di un mito pseudognostico risorgimentale sull'origine del dialetti, descritti come invenzioni di un genio malefico per far sì che gli Italiani non si intendessero gli uni con gli altri e obliassero le proprie origini. L'idea fondante era la seguente: essendo l'Italia erede dell'Impero Romano, le sue popolazioni dovevano continuare l'eredità dell'Urbe antica - ovviamente in contrapposizione ai "barbari" - solo che nel corso dei secoli avevano perso ogni consapevolezza del proprio passato comune. Così si affermava che l'antica lingua italiana era cambiata per degenerazione e imbastardimento, dando origine al complesso panorama delle parlate definite "dialetti". Le origini massoniche di questo mito sono lampanti.

Propaganda risorgimentale massonica

Non si creda che la religione civica massonica che ispirò il Risorgimento sia del tutto estinta: ne perdurano ancor oggi vestigia. Ricordo ancora quando in un ufficio in cui mi è toccato recarmi per lavoro, i miei occhi sono stati colpiti da un manifesto totalitario. Sotto le sagome di alcuni figuri, in verità piuttosto loschi, seduti davanti a un bar, campeggiava la scritta propagandistica "Itali siam tutti". Per un cimbro dell'altopiano di Asiago, per un greco del Salento o per un albanese di Calabria non c'è posto: non essendo "itali", secondo questa visione politica dovrebbero sparire, in quanto la loro stessa esistenza dà fastidio ai ministri del culto risorgimentale. Manzoni, che fu un gran malfattore, considerò sempre sua fonte d'ispirazione il concetto di "Italia una di sangue, di lingua e d'altar" (o "una d'arme", ci sono diverse varianti). Quindi, per chi propugnò queste idee deleterie, in Italia non ci sarebbe posto nemmeno per un valdese. Quale ipocrisia, le parole sull'unità di altare pronunciate da un giansenista che si finse un cattolico-belva per convenienza personale!

Il razzismo di un antirazzista

Posso fornire la testimonianza delle conseguenze luttuose della politica applicata alle lingue galloitaliche, più note alle masse come "dialetti del Nord Italia". La Lega Lombarda di Umberto Bossi, poi divenuta Lega Nord (quindi soltanto Lega per decisione di Matteo Salvini), cercò di rilanciare le lingue galloitaliche, pur fallendo su tutta la linea. Un risultato concreto ottenuto dal partito völkisch è stato quello di fomentare l'avversione verso le parlate da promuovere. Infatti nella mitologia di una sinistra ormai lontana anni luce da Marx, i leghisti sono bollati come "razzisti" e "fascisti", più per tradizione polemica che per oggettivi riscontri nella realtà. Così, se anche una persona ritenuta "razzista" e "fascista" sostenesse qualcosa di utile, la sua proposta sarà per necessità considerata un male da combattere. Anni fa mi capitò di discutere dei dialetti con un informatico che era venuto in ufficio per sistemarmi il computer. Questo individuo sosteneva, per avversione politica, che ogni dialetto lombardo fosse soltanto una degradazione dell'italiano. Così, per fare un esempio, definiva la frase "schiscia ul butùn" come forma degradata dell'italiano "schiaccia il bottone". La "degradazione" sarebbe derivata a suo dire dall'errata imitazione dell'italiano da parte di persone illetterate. Per colmo del paradosso, questo ragazzo, che si professava "antirazzista", applicava categorie tipiche del razzismo biologico nel descrivere il locutori delle lingue galloitaliche, ritenuti da lui "subumani". Ho cercato di spiegargli l'origine delle lingue romanze a partire dall'evoluzione del latino volgare, ma non sono riuscito nemmeno a farmi capire. La Scienza non può nulla contro le storture dell'ideologia!

Il giusto uso della parola "dialetto" 

Qual è il vero senso della parola "dialetto"? A parer mio, per spiegare una parola di origine greca, bisogna rifarsi alla lingua degli antichi Elleni. Il termine διάλεκτος (dialektos) ha i seguenti significati: 

1) discorso, conversazione; discussione, dibattito, argomento
2) lingua comune, parlata; linguaggio articolato, lingua
3) la lingua di un paese; varietà della lingua greca (es. attico, ionico, dorico)
4) parola o espressione locale
5) modo di parlare; accento
6) stile, dizione poetica
7) qualità, "idioma" (detto di strumenti musicali)

A quanto si può vedere, la parola "dialetto" non può avere in sé un significato spregiativo. Non c'è nulla nella sua etimologia (da διά "attraverso", λέγω "io dico, parlo") che possa far pensare a qualcosa di indegno. L'origine è la stessa della parola "dialogo". Non può e non potrà mai significare "sottolingua" o "lingua degenere": questi falsi significati le sono stati annessi dai massoni risorgimentali e dalle maligne istituzioni scolastiche. Così professo di non avere colpa alcuna parlo di "dialetti italiani", usando una denominazione geografica, o se uso locuzioni come "dialetti lombardi", "dialetti piemontesi", "dialetti siciliani" e via discorrendo. Non posso tuttavia dire di aver superato le difficoltà descritte: enormi sono le possibilità di essere fraintesi, qualunque discorso si faccia. 

Un problema non di poco conto

Come visto consultando l'Enciclopedia Treccani online, è chiaro che un dialetto in genere appartiene a un gruppo di parlate simili, ossia a un continuum. Così si può dire che il milanese, il pavese, il bergamasco e il bresciano sono dialetti della lingua lombarda, oppure che la lingua lombarda è parlata in diverse varietà, tra cui il milanese, il pavese, il bergamasco, il bresciano, etc. Non esiste tuttavia una lingua lombarda ufficiale, codificata, di riferimento. Se si cercasse di prendere il milanese di Carlo Porta e di farne una lingua standard, ci sarebbero sollevazioni popolari. Sarebbero rivolte senili, ma non per questo meno accese: già la Brianza, in cui si parlano dialetti molto affini al milanese, è abitata da gente campanilista che impedisce qualsiasi operazione volta a definire una lingua lombarda di riferimento. Questi sentimenti bellicosi sono tra le cause del declino di tutte queste parlate, che non vengono trasmesse alle giovani generazioni e che si estingueranno in breve volgere di tempo. Mentre parlo, a Seregno muoiono tre o quattro persone ogni santo giorno che passa, e nella massima parte dei casi si tratta di anziani dialettofoni. Azrael sta falciando innumerevoli uomini e donne dagli ottant'anni in su. Ognuno di questi defunti è un parlante lombardo in meno, che non sarà mai sostituito. Ade non ha mai restituito nessuno.

Anche l'italiano è un dialetto

Tecnicamente parlando, ogni lingua ufficiale è uno specifico dialetto che ha avuto più fortuna di altri, riuscendo ad imporsi per mezzo della politica. Va inoltre ricordato che una lingua dotta, usata per fini politici, culturali e scientifici, è in buona sostanza una creazione artificiale. L'italiano che parliamo non sfugge a queste regole. Consiste infatti di una base formata da parole passate per la genuina usura popolare, che ne costituiscono l'ossatura (es. cane, gatto, albero, pietra, muro, mare, occhio, orecchio, fiorefiume, riva, miele, etc.), su cui si sono stratificati innumerevoli vocaboli presi dal latino letterario (es. applauso, auscultare, floreale, plumbeo, aureo, lene, mensile, mestruo, clausura, sessuale, etc.) e dal greco (es. problema, filosofo, poema, fantasia, fantasma, ecclesiastico, pederasta, coprofagia, etc. - oltre a formazioni come clorofilla, elicottero, brontosauro, triceratopo, pterodattilo, etc.). Potremmo dire che la lingua italiana da noi parlata e scritta è viva solo grazie a massicce trasfusioni dalle lingue classiche.

Un bel paradosso! 

Spesso la lingua italiana è chiamata lingua di Dante. Anch'io uso di solito questa locuzione. Nonostante ciò, l'italiano che usiamo quotidianamente è più che altro la lingua elaborata da Manzoni. Si noterà infatti che I promessi sposi è un'opera di lettura assai scorrevole e lineare, per quanto deprimente, mentre l'italiano di Dante è difficile e richiede studi approfonditi. Se andassi in giro a parlare la sublime lingua in cui Dante scrisse la Commedia... non soltanto non sarei affatto capito, ma sarei considerato un folle!

martedì 27 giugno 2017


I ROBOT DELETERI DI SHAVER:
UNA TRUFFA FANTASCIENTIFICA

Molti ricordano ancora la Guerra dei Mondi di Orson Welles, la famosa truffa radiofonica che fece passare per verità un'invasione marziana sul territorio degli Stati Uniti d'America. Esiste però un evento altrettanto notevole, che però pochi conoscono in Europa nonostante la risonanza che ebbe all'epoca: il cosiddetto Mistero Shaver.

Richard Sharpe Shaver nacque a Berwick, Pennsylvania, nel 1907. Si sa molto poco degli anni giovanili della sua vita. Egli affermò in seguito di aver lavorato in una fabbrica, e che proprio in quell'ambiente cominciarono a manifestarsi strani fenomeni. Un giorno cominciò ad accorgersi che un saldatore che usava sul lavoro, a causa di una disfunzione dei suoi componenti, gli permetteva di captare i pensieri dei suoi colleghi. A questo fenomeno telepatico si sarebbero aggiunte visioni ben più stravaganti e terribili. In una di queste egli avrebbe vissuto una sessione di tortura ad opera di esseri diabolici che abitavano in spelonche di un mondo che si trovava nelle viscere della Terra. A seguito di questo trauma, egli si licenziò e condusse per qualche anno vita da vagabondo. Anche se sembra che rimase internato per qualche tempo in una clinica psichiatrica verso il 1934, le sue tracce sono confuse fino al 1943, quando egli fece la sua ricomparsa in uno stato di esaltazione. Scrisse una prima lettera al direttore di Amazing Stories, una famosissima rivista di fantascienza. Affermava di aver scoperto un'antica lingua chiamata Mantong, che sarebbe stata la prima lingua parlata dall'umanità, quella dalla quale ogni altra derivò in seguito. Sono state fatte molte ricostruzioni della lingua del cosiddetto Proto-Mondo. I Cabalisti e lo stesso Dante Alighieri pensavano che quella lingua fosse l'Ebraico, ipotesi che non regge all'analisi delle moderme conoscenze, ma perlomeno si tratta di un'idea a cui non mancano tradizione e cultura. Altri studiosi hanno analizzato migliaia di lingue arrivando a ricostruzioni la cui sonorità è simile a quella del Bantu. La conoscenza del Mantong implicava una corrispondenza semplice tra suoni e significati occulti, applicabile a tutte le parole di tutte le lingue del passato e del presente: chi l'avesse conosciuta, avrebbe avuto accesso al codice definitivo per comprendere la vera natura di ogni cosa. In buona sostanza, le chiavi fondamentali sono in questa lista:

A - Animale
B - Essere
C - Vedere
D - Energia dannosa (generata dal sole)
E - Energia
F - Fecondo
G - Generare
H - Umano
I - Io
J - Generare
K - Cinetico (in moto, energia)
L - Vita
M - Uomo
N - Bambino
O - Orifizio, sorgente
P - Potere
Q - Ricerca
R - Orrore (una grande quantità di D)
S - Sole (emette D)
T - Forza benefica (l'opposto di D)
U - Tu
V - Vitale (magnetismo animale)
W - Volontà
X - Conflitto (D e T in contrasto)
Y - Perché
Z - Zero (T e D che si annullano)

Il direttore di Amazing Stories, Ray Palmer, chiese a Shaver dove avesse appreso il Mantong, e questi gli rispose con una seconda lettera molto ponderosa, composta da ben 10.000 parole. Palmer fu molto colpito, e si divertì ad applicare l'interpretazione Mantong di diverse parole. Si convinse così che il visionario dicesse la verità. Secondo la narrazione contenuta nella voluminosa lettera, i parlanti Mantong avrebbero abitato in Lemuria e si sarebbero chiamati TEROS. In seguito a un cataclisma solare di immane portata, questi Lemuriani avrebbero abbandonato la Terra su navi spaziali, lasciando gli antenati della presente umanità e alcune creature sotterranee. Questi esseri, chiamati ABANDONDEROS, termine per comodità abbreviato in DEROS, avrebbero continuato ad abitare un continente sotterraneo costituito da un vasto sistema di caverne. Orbene, se Palmer trovò da sé la chiave per comprendere molte parole, era perché il Mantong non è altro che... Inglese! La parola ABANDONDEROS altro non è se non un'abbreviazione di ABANDONED DETRIMENTAL ROBOTS, ossia "Robot Nocivi Abbandonati". Lo stesso termine Mantong, che dovrebbe riuscire sospetto a chiunque abbia anche una minima infarinatura di lessico anglosassone, altro non è che MANKIND'S TONGUE, ossia Lingua dell'Umanità. Eppure nessuno se ne accorse. Per tutti era assolutamente naturale che i Lemuriani parlassero una lingua fatta di parole inglesi abbreviate, in cui la struttura pronominale di base è costituita da I "io", U "tu", Y "perché" (pronunciato "why"), etc.


Gli ABANDONDEROS non sarebbero stati robot costruiti dai loro antichi signori, ma esseri in origine umani diventati chissà come marchingegni meccanici a causa della loro malvagità e decadenza. Questo infatti afferma la dottrina di Shaver, che le membra biologiche di un essere rivolto al Male sono destinate a trasformarsi automaticamente in metallo e circuiti a causa del prevalere dei raggi solari nocivi. Al giorno d'oggi, qualsiasi persona sana di mente cestinerebbe simili bizzarrie senza pensarci troppo. Palmer però era troppo avido per lasciarsi sfuggire una simile occasione, così diede inizio a una serie di pubblicazioni di questo materiale su Amazing Stories. Il primo episodio comparve sul numero di marzo del 1945 con il titolo "I REMEMBER LEMURIA" (Io ricordo Lemuria), e fu seguito da altri, tra cui "THE RETURN OF SATHANAS" (Il Ritorno di Sathanas). Le descrizioni degli ABANDONDEROS erano dense di particolari raccapriccianti ed esplicitamtente pornografici. A quanto fu scritto, questi automi diabolici non si limitavano a vagare nella Terra Cava. Essi spiavano invece attivamente i terrestri, intrudendosi nelle loro vite ed effettuando non pochi rapimenti a scopo di stupro, di tortura e di macellazione. Le loro prede preferite erano guardacaso di sesso femminile: queste affascinanti vittime venivano condotte negli antri oscuri del sottosuolo, penetrate in tutti i modi possibili dai giganteschi organi copulatori degli aguzzini robotici e infine ridotte a cibo. Ogni evento che funestava la vita della Nazione fu attribuito agli automi sotterranei. Tramite un potere chiamato TELAUG, ossia TELEPATHIC AUGMENTATION, gli ABANDONDEROS erano in grado di controllare le vite di milioni di persone piegandole al loro volere, mentre il SEX-SLIM era descritto come una specie di raggio elettromagnetico a cui veniva attribuita la capacità di porre la gente in uno stato di perenne eccitazione sessuale e di violenza. Le vendite della rivista schizzarono alle stelle. Fu un successo mai visto a memoria d'uomo. Le rivelazioni di Shaver non venivano però considerate come un semplice racconto di science fiction. Venivano intese alla lettera. Presto si moltiplicarono gli episodi di donne che avevano attacchi di panico perché temevano di essere possedute carnalmente dagli ABANDONDEROS. Si scatenò il panico. I livelli furono tali che ne nacquero vere e proprie epidemie di schizofrenia. Ogni recesso domestico poteva celare un diverticolo attraverso cui gli automi malefici potevano introdursi nottetempo. La redazione di Amazing Stories arrivò a ricevere 50.000 lettere al mese, tutte da persone che affermavano con estrema pervicacia di aver avuto contatti con i robot deleteri. In molte città furono fondati degli "Shaver Mystery Club", e l'argomento guadagnò persino spazio anche nei media mainstream, inclusa una menzione su Life.

Tutta questa diffusione del Mistero Shaver non poteva però durare indefinitamente senza che qualcuno si opponesse. Molti fan della genuina fantascienza protestarono contro tali basse speculazioni, e si cominciò a parlare dell'Imbroglio Shaver. Per il visionario della Pennsylvania iniziò così una parabola discendente. Non appena le vendite di Amazing Stories cominciarono a dare segnali inequivocabili di flessione, lo stesso Palmer finì con il dissociarsi, ritornando a pubblicare racconti fantastici. Correva l'anno 1948. Echi dell'accaduto perdurarono in ogni caso ancora per lungo tempo. Sul finire degli anni '50 c'erano ancora Shaver Mystery Club attivi, e in alcuni programmi radiofonici i deliranti contenuti sugli ABANDONDEROS erano ancora menzionati. Palmer sostenne sempre l'autenticità delle narrazioni di Shaver, pur proponendole a un pubblico ristretto sul periodico The Hidden World. Quando nel 1971 fu diffusa la notizia che Shaver era stato rinchiuso in una clinica psichiatrica, Palmer arrivò ad affermare che le sue esperienze erano in ogni caso valide: se egli non visitò fisicamente la Terra Cava, poté tuttavia esplorarla per mezzo della proiezione astrale mentre il suo corpo giaceva nella camicia di forza in una cella dalle pareti imbottite. Richard Shaver negli anni '70 viveva nell'oscurità, perdendo tutto il suo tempo alla ricerca di fantomatici Libri Pietrificati, ossia scritti fossili redatti in lingua Mantong dagli antichi Lemuriani e Atlantidei. Questi reperti avrebbero subito una completa mineralizzazione e sarebbe stato possibile reperirli negli strati geologici delle montagne d'America. In seguito a rivelazioni telepatiche, il visionario era convinto di poterne trovare alcuni che spiegavano in dettaglio come costruire armi laser non diverse dalle spade di luce di Guerre Stellari. Per molti anni cercò di convincere invano diverse case editrici a pubblicare testi che riportavano fotografie dei reperti da lui trovati. Morì nel 1975.

Shaver era indubbiamente una persona disturbata, in un'epoca in cui la schizofrenia non era ben compresa. Un gran numero di suggestioni fantastiche concorsero in lui a formare per paradosso una mitologia che parve plausibile a molti, perché alimentava il fuoco del panico. Tra gli elementi più notevoli c'è la leggenda della Terra Cava, unita al terrore della degenerazione genetica. Nella descrizione dell'insaziabile brama sessuale degli automi si possono cogliere persino accenni di pornografia streicheriana. Per certi versi, si può persino leggere la narrazione del visionario pennsylvano come una metafora sul potere manipolatorio dei media, già allora notevole. In buona sostanza si tratta di fantascienza fatta passare per realtà dalle macchinazioni di un editore con pochi scrupoli. Quello che più dovrebbe sorprendere è invece la rapidità e la vastità del contagio psicotico che si è originato da queste letture solo per il fatto di essere state descritte come realtà. Persino gli oppositori, i membri dei club anti-Shaver, non hanno fatto altro che deridere l'intera storia della Lemuria sotterranea, senza addurre alcuna argomentazione per confutare la realtà del Mantong - cosa che sarebbe stata più logica.

Penso sia poi il caso di riportare menzione della mostra organizzata da "The Pasadena City College Art Gallery" dedicata ai lavori di Stanislav Szukalski (1893-1987) e di Richard S. Shaver, intitolata "Mantong e Protong". Si è svolta a Pasadena dal 9 ottobre al 14 novembre 2009 e le è stato dedicato anche un gruppo in Facebook, ormai inattivo. La mostra comprendeva disegni, dipinti, sculture, dipinti, pubblicazioni rare e interviste registrate. Esistono diversi blog e siti dedicati all'argomento.

martedì 17 maggio 2016

IL MISTERO DI SAEGANOR


Nella discussione della voce "Anton LaVey" su Wikipedia compare tuttora il mio intervento, dal titolo Saeganor, che risale al 31 luglio 2011. Lo riporto in questa sede, abbreviando per comodità i link che vi sono inclusi: 

La stessa frase inserita in questa sede a proposito del nome Saeganor compare in tutto il Web, ripetuta a pappagallo. "Un noto soprannome di LaVey era Saeganor, personaggio di un libro medievale, di una setta anticattolica". Quale libro? Quale setta? Non se ne fa menzione da nessuna parte, né in rete né altrove. Con ogni probabilità perché non esiste l'uno e non esiste l'altra. E quello che più stupisce è la sua presenza soltanto in siti in lingua italiana. A quanto pare l'informazione è una bufala e Saeganor è un nick collegato a qualche gioco di ruolo. Guardate cosa ritorna Google digitando "Saeganor":


E questo è quello che ritorna Yahoo:


Nel frattempo ogni menzione al nick fittizio Saeganor è stata giustamente rimossa dai Wikipediani - che non mi hanno nemmeno menzionato per aver smascherato l'informazione farlocca, ça va sans dire. Riflettendo su questo assurdo pacchetto memetico, mi chiedo come sia possibile che in tutto il Web nessun navigatore a parte me si sia posto domande sull'origine del fantomatico Saeganor. Da che lingua proverrebbe mai? Non è un nome latino, né greco, né germanico, né celtico, né basco e neppure ebraico. Non ha nulla a che fare con qualsiasi lingua parlata in Europa in epoca medievale. Che non sia greco né ebraico lo potrebbe capire anche una persona del tutto ignara di quelle lingue: nel Medioevo la conoscenza del greco era come un libro chiuso e quella dell'ebraico non era facilmente accessibile a chi non appartenesse a una comunità ebraica. Dante Alighieri, che fu tra i massimi sapienti della sua epoca, non poté mai apprendere il greco e nemmeno l'ebraico, pur avendone lo struggente desiderio.

Appurato che Saeganor non si spiega con una lingua naturale, possiamo cercare tra le lingue artificiali. In particolare, azzardiamo un parallelismo con la lingua enochiana. In enochiano SAGA significa "uno, intero", e NOR significa "figlio". Così avremmo SAGANOR col significato di Figlio Unico. Allo stesso modo abbiamo SAGACOR "in un numero", da SAGA e da CORMF "numero". In ogni caso sarebbe un anacronismo, dato che la lingua enochiana appare per la prima volta negli scritti di John Dee (1527-1608) e di Edward Kelley (1555-1597): non si può attribuirla a un uomo vissuto nel Medioevo, a meno che un giorno non si riesca a dimostrare che i due esoteristi hanno utilizzato materiale preesistente. Molte sono le discussioni sulla natura dell'idioma esoterico, che funziona in modo molto diverso dalle lingue delle genti, tanto che per molti meglio sarebbe assegnarlo al novero delle glossolalie. Che io sappia è anzi la più complessa e articolata conlang di origine glossolalica finora documentata. Avremo modo di parlarne diffusamente in altre occasioni.

Da dove proviene dunque la leggenda di LaVey-Saeganor? Dalla fantasia di un moderno, è ovvio. Forse un esoterista con vaghe reminiscenze di enochiano ha riportato SAGA "uno" con la grafia errata *SAEGA e ha coniato l'epiteto del fondatore della Chiesa di Satana.

Se qualcuno fosse in grado di smentirmi e di fornire una documentazione attendibile del fatto che LaVey si attribuisse il soprannome Saeganor o Saganor lo sfido a riportarla in un commento a questo post. Sono tuttavia certo che ciò non accadrà mai.

domenica 30 marzo 2014

NON SEQUITUR

E adesso dedichiamoci all'ennesimo caciucco di baggianate, sempre dalla stessa fonte: 
 
"Sorvoliamo pure per ora su Plutarco (nato nel 46 dc), del quale si cita solo (perché nella fantasia della restituta non esiste il suono della V) Oualerios per Valerius, senza maliziosamente mai citare le alternanze Νέρουα, Νέρβα; Σεουῆρος, Σεβῆρος e altre; eppoi, ancor peggio, su Polibio. Se vorrai ti dirò, se non avrai paura dei dati nudi e crudi che distruggono le tue certezze fondate soltanto sull'autorevolezza. Comunque già con Plutarco siamo fuori dai termini della cosiddetta pronunzia classica. In sostanza dire Kikero per Cicero è una bischerata."
Sorvoliamo su Plutarco? Un par de cojjoni, come dicono i Romani in quello che Dante Alighieri chiamava "il più turpe dei volgari", e che invece è particolamente adatto quando si tratta di esporre le inconsistenze al pubblico ludibrio.

Plutarco (46 d.C. ? - 125 d.C. ?) ebbe contatto diretto con la lingua latina in un'epoca ancora non troppo lontana da quella classica, così le sue trascrizioni ci danno un esempio di come il latino era pronunciato dalle classi colte nel I-II secolo d.C. L'idea della pronuncia classica che sparisce da un giorno all'altro seguendo una cronologia da manuale è di una grande ingenuità. Se qualcuno dice bischerate, quello non è Plutarco: molto più facile che le dicano i moderni che all'epoca non erano presenti e che rifiutano di servirsi di argomenti razionali.

Rimando a successivi post per una trattazione più approfondita. Per adesso mi limito a qualche significativo esempio tratto dalle Vite Parallele e contenente trascrizioni di parole latine con C e G davanti a vocali anteriori o al dittongo AE:

lat. ancilia : ἀγκύλια 
lat. Caesar : Καίσαρ 
lat. Celeres : Κέλερας (acc.)
lat. Cicero : Κ
ικέρων 
lat. hoc age : ὃκ ἄγε 
lat. Marcellus : Μ
άρκελλος
lat. Marcius : Μά
ρκιος
lat. Mucius : Μού
κιος
lat. Lucius : Λ
εκιος
lat. Scaevola : Σ
καιλας 
lat. Scipio : Σ
κηπίων 

Né si può argomentare che il greco, non avendo l'affricata palatale, l'avrebbe semplicemente trascritta come una velare: questo non accade  nelle lingue antiche e nemmeno in quelle moderne. I suoni /k/ e /tʃ/ sono molto diversi tra loro: è un inganno scolastico ritenerli simili e parlare di "c dura" e "c molle". L'orecchio di una persona che parla una lingua priva di suoni palatali non ne coglie alcuna somiglianza. Se una lingua non ha
/tʃ/, piuttosto la trascrive con /ts/ o con /s/.

Infatti il greco in epoca bizantina iniziò a trascrivere il suono palatale sviluppatosi nel tardo latino come τζ:
Μουτζιανι per Muciani.

Le alternanze tra
ου e β per trascrivere latino /w/ dimostrano in modo chiaro che questo suono stava assumendo nel I secolo d.C. una pronuncia bilabiale /β/, simile alla nostra /v/ ma realizzata con le labbra unite o avvicinate. Di questo esistono numerose testimonianze anche successive (ad esempio in Velio Longo, II secolo). Il processo tuttavia non era completato all'epoca di cui stiamo trattando, e molti ambienti ancora si pronunciava /w/. Si ha persino testimonianza che tra le plebi e tra popolazioni barbariche esisteva il vezzo di pronunciare addirittura il suono come una /u/ pienamente sillabica. I grammatici dell'epoca condannano la pronuncia trisillabica di venit come *u-e-nit.

Detto questo, non nascondo affatto alternanze come Νέρουα - Νέρβα o Σεουῆρος - Σεβῆρος, e non tremo certo di paura di fronte ad esse: ne sono a conoscenza fin dall'epoca del liceo.

Semplicemente il passaggio da /w/ alla bilabiale /β/ non ha nulla a che fare con la pronuncia della lettera C. Non sequitur. Mostrare che esisteva una pronuncia di V consonantica simile a /v/ non implica affatto che C fosse palatale davanti alle vocali E e I: tra le due cose non esiste nessun nesso logico.

L'argomento presentato è
pseudoscientifico e non ha alcun valore. Si basa infatti sulla convinzione che pronuncia restituta e pronuncia ecclesiastica siano due entità monolitiche, e che una volta trovato un dato che pare contrastare con un dettaglio della pronuncia restituta, questo debba per necessità significare l'affermazione della pronuncia ecclesiastica. Se la Scienza avesse seguito una simile metodologia, non avremmo automobili, frigoriferi, acqua corrente, corrente elettrica, computer, telefonini e quant'altro.

A quanto pare c'è gente che ignora un fatto molto semplice: le lingue cambiano nel tempo, e lo fanno seguendo leggi ben precise. Dove una legge fonetica ammette un'eccezione, quell'eccezione viene spiegata in ciascun caso. Essi pensano che le lingue non siano mai cambiate dall'epoca paleolitica: proiettano ogni caratteristica di una lingua fin nella notte dei tempi. A sentir loro, ci sarebbe persino da dubitare che sappiano della derivazione delle lingue neolatine dal latino volgare: è più facile che pensino al latino come a una lingua che a un certo punto si è spenta, e all'italiano come a una lingua parlata dal volgo fin dall'epoca di Noè.

Non si vede come i "dati di fatto nudi e crudi" possano distruggere le "certezze fondate sull'autorevolezza". Se mi azzardassi a dire una cosa simile al mitico Er Monnezza, lui mi replicherebbe di certo: "distruggono li maccheroni de tu' nonno". Mi limiterò ad affermare che i fatti li spiego secondo la logica, che a quanto pare non sembra essere molto popolare in certi ambienti.

domenica 23 marzo 2014

ALCUNE NOTE SULL'ORTOGRAFIA DEL LATINO

Quando una lingua adotta un alfabeto, cerca per quanto possibile di esprimere ogni suo fonema con una lettera adatta. Non sempre l'adattamento ha successo, ma il principio resta in linea di massima valido. In seguito all'adozione dell'alfabeto, poiché ogni lingua naturalmente evolve, l'adesione delle lettere ai fonemi può anche deteriorarsi, e in questo modo hanno origine le ortografie storiche. Ciò accade perché la scrittura tende ad essere molto resistente al cambiamento una volta che è stata codificata. In alcuni casi, due suoni diversi, scritti usando due lettere diverse, vengono a collassare in un suono unico.

Esempio:
In greco antico la lettera Y esprimeva il suono /ü/, ma il suo valore fonetico viene ad essere confuso con quello della lettera I nelle parole dotte di origine greca nelle lingue moderne. Così σύστημα dà origine a sistema (inglese system). Molti faticano a capire perché in alcune parole si debba scrivere y e in altre i: Dante Alighieri scriveva tranquillamente ydioma, non pochi americani scrivono prysm.

Altre volte invece un suono viene a differenziarsi a seconda del contesto, dando origine a due o più suoni completamente diversi che però rimangono scritti con lo stesso carattere.

Esempio:
In ebraico il fonema /p/, scritto con la lettera פ (pe) ha sviluppato in fine di sillaba e in posizione intervocalica il suono /f/, cosicché la lettera in questione si trova ad avere due pronunce diverse. 

Il latino aveva così il suono velare /k/ scritto con la lettera "c". Quando questo suono iniziò a mutare davanti alle vocali anteriori /e/ e /i/, il carattere usato per scriverlo rimase immutato. Questa è la ragione per cui ancora oggi la lettera "c" è usata con due diversi suoni in lingue discendenti dal latino come l'italiano, lo spagnolo e il romeno.

C'è chi assurdamente pretende di far credere che il suono affricato palatale dell'italiano "cece" e "amici" già sussistesse nel latino imperiale, ma questa idea ridicola è contraddetta da numerosi fatti deducibili a partire dalla sola analisi del sistema usato dai Romani per registrare la parola. 

Se per assurdo il suono palatale fosse esistito già nella lingua all'epoca dell'adozione della scrittura, ecco che sarebbe stato scritto con un carattere diverso da quello usato per il suono velare.

Notiamo che ad esempio l'umbro e il volsco, che avevano già mutato la velare /k/ in un suono palatale davanti a vocali anteriori quando avevano adottato la scrittura, avevano un segno speciale per esprimerlo.   
Quando gli Umbri presero l'alfabeto dagli Etruschi, non riuscirono a distinguere graficamente /k/ da /g/ e /u/ da /o/, trascrivendo questi suoni alla maniera etrusca, ma furono per contro ben capaci di capire che parole come
çersna "cena" avevano un suono più simile a /s/ che a /k/, e agirono di conseguenza usando un segno speciale (translitterato con "ç"). Quando dall'alfabeto etrusco passarono a quello latino, usarono un segno "ś" alterato a partire dalla lettera "s", o anche quest'ultima tal quale. Il passaggio all'alfabeto latino permise agli Umbri di esprimere alcuni cambiamenti che la loro lingua aveva subito e che la scrittura da loro usata in precedenza non erano stati registrati: l'oscuramento della /a:/ finale di parola in /o:/ e il rotacismo della sibilante sonora.  

Da qui si trae un primo indizio contro chi propugna l'anacronismo di una fantomatica pronuncia palatale antica: quando i Romani hanno preso la scrittura vi era soltanto /k/ a differenza dell'umbro che - repetita iuvant - era una lingua diversa ed evolutasi in modo indipendente. 

Dall'indizio si può però chiaramente passare alle prove concrete. Sappiamo che il dittongo /ae/ era nell'antichità repubblicana un dittongo vero e proprio, discendente, con primo membro /a/. Sappiamo anche che CAESAR era letto con la velare /k/ e con il dittongo /ae/ (arcaico /ai/).

Infatti non soltanto il termine ha dato in tedesco Kaiser "Imperatore", ma in antico inglese ha dato cāsere. Il dittongo, adottato come /ai/ dai Germani, è evoluto regolarmente in /a:/ nella lingua anglosassone. Questi sono dati di fatto.

Adesso passiamo all'attacco. Siccome /ae/ aveva il primo elemento /a/ ai tempi di Cesare e di Augusto, colui che pretende di affermare la pronuncia palatale di "c" davanti a vocali anteriori non sa in nessun modo spiegare come questo suono avrebbe potuto esistere ai tempi di Cesare, visto che davanti ad "a" non si trova la "c" di cece nemmeno nello schema della pronuncia ecclesiastica.

D'altronde abbiamo chiara la testimonianza del poeta Ennio (239 a.C - 169 a.C.), che ci dà un'interessante allitterazione: Lumine sic tremulo terra et cava caerula candent "così di tremula luce brillano la terra e l'ampia volta del cielo". 

Ora, siccome nei secoli la parola Cesare si è evoluta indubbiamente con il suono palatale, dando forme come italiano Cesare e via discorrendo, significa che questo suono si è sviluppato soltanto dopo che il dittongo /ae/ si è mutato in /e:/. Questo è in perfetto accordo con il fatto che la palatalizzazione è iniziata tardi.

Naturalmente i sostenitori della pronuncia monottongata "e" noteranno che esistono esempi di "e" per "ae" già nell'antichità. Tuttavia questo argomento non ha alcun significato, come mi accingo a mostrare con la massima evidenza. 

A scanso di equivoci, si nota che si tratta di una pronuncia latina rustica di "ae" come "e", che era antica ed evidentemente dovuta a una tendenza presente anche nelle lingue sabelliche. La /e:/ prodotta da questo mutamento, che non si trovava nella lingua urbana, era un suono chiuso come quello di italiano "cena". Analogamente in questo modo di parlare il dittongo /au/ si monottongava in /o:/, anche in questo caso col suono chiuso come quello di italiano "ora". Esempi sono copo per caupo "taverniere", Clodius per Claudius, etc. Invece la riduzione di /ae/ in /e:/ nella lingua urbana ha avuto luogo più tardi e ha prodotto un suono aperto come quello dell'italiano "retto". Si tratta di due fenomeni diversi che non vanno confusi. Tutte le lingue neolatine derivano dalla lingua che aveva /ae/, non dal latino rustico dei tempi antichi.
Questo è in sintesi lo schema:

              LATINO ARCAICO
                    (IE *ai > ai)
                                 |
               ----------------------------------
               |                                             |
† LATINO RUSTICO        LATINO URBANO

   (ai > e: chiuso)                         (ai > ae)
                                                           |   
                                   TARDO LATINO URBANO
                                              (ae > e: aperto)
                                                          |
                                         LINGUE ROMANZE


Per quanto riguarda la "c" davanti a "i", si consideri la parola cicirrus "galletto", chiaramente onomatopeica e derivata dal verso dell'animale, che in italiano è trascritto tradizionalmente con chicchirichì. Chi proietta all'infinito nel passato la pronuncia palatale, non può spiegare questo nome, che tra l'altro in greco è trascritto da Esichio come κίκιρρος. La parola potrebbe essere passata in latino dall'osco, e qualcuno potrebbe pensare che per questo avesse il suono duro. Ma anche in questo caso, se per assurdo la lettera "c" avesse espresso il suono palatale davanti a "i" in latino, il termine con il suono velare sarebbe stato normalmente trascritto con un diverso carattere per render conto della diversa pronuncia, ad esempio *kikirrus. Questo però non è accaduto, perché di suoni palatali nel latino dell'epoca non ne esistevano.

Già considerando quanto esposto sopra, l'idea della pronuncia palatale antica nel latino - priva di ogni valore nel mercato delle idee scientifiche - è da considerarsi alla stregua di un peana osceno di Benigni. 

sabato 15 marzo 2014

DANTE ALIGHIERI, I VOLGARI ITALIANI E LA GORGIA

Nel corso della sua vita Dante Alighieri ha viaggiato e ha visto molte cose, discutendo in dettaglio un gran numero di argomenti nei suoi trattati. Nel De Vulgari Eloquentia ha scritto diffusamente delle lingue e del problema delle loro origini. Date le fragili conoscenze della sua epoca e l'inesistenza del metodo scientifico, non ci si può certo aspettare che potesse giungere a risultati strabilianti: per quanto geniale era pur sempre figlio del suo tempo. Passando in rassegna i volgari parlati in Italia, ha riportato persino una poesiola pornografica in marchigiano attribuita a un fiorentino di nome Castra: "Una fermana scopai da Cascioli, cita cita se' n gìa 'n grande aina". Il verbo "scopare" è stato tradotto nei più assurdi e comici modi da commentatori moderni ("incontrare", "scorgere" o addirittura "battere con una scopa"), mentre appare evidente il suo senso vero, tuttora così vivo e vitale ai nostri giorni. Dante condannava e metteva in satira i dialetti italiani, giudicando "il più turpe" quello di Roma, "di accento ferino" quello di Aquileia, "aberrante" quello dei Casentinesi e degli abitanti di Fratta; soltanto il siciliano dei poeti si salva da una censura tanto veemente. Anche dei Sardi l'Alighieri aveva un'opinione terribile e credeva addirittura che non avessero una lingua propria, ma che imitassero il latino ereditato dall'epoca dell'Impero. Così è riportato nel De Vulgari Eloquentia (Liber Primus, XI, 7):

"Sardos etiam, qui non Latii sunt sed Latiis associandi videntur, eiciamus, quoniam soli sine proprio vulgari esse videntur, gramaticam tanquam simie homines imitantes: nam domus nova et dominus meus locuntur."

"Quanto ai Sardi, che non sono Italiani ma andranno associati agli Italiani, via anche loro, dato che sono i soli a risultare privi di un volgare proprio, imitando invece la grammatica come fanno le scimmie con gli uomini: e infatti dicono domus nova e dominus meus."

La deduzione di Dante è ovviamente erronea, ma non priva di un certo interesse: il sommo poeta, che difficilmente avrà conosciuto la lingua sarda per diretta esperienza, aveva raccolto da qualche fonte un paio di voci, constatando quindi la somiglianza col latino ed essendo da questo tratto in inganno. In realtà, il sardo non conserva il sigmatismo al nominativo singolare, così come ha perduto la declinazione. Non è chiaro se l'adattamento delle parole sarde alle forme latine vere e proprie dominus meus e domus mea sia stato compiuto dallo stesso Dante.

Tanto per fare qualche altro esempio di filologia del De Vulgari Eloquentia, si nota che l'autore accomunava il germanico allo slavo, errando gravemente. Tuttavia è arrivato a teorizzare un "idioma triforme", che è una più felice intuizione: aveva capito che italiano, provenzale e lingua d'oil non potevano risalire direttamente al latino classico dell'antichità, ma dovevano derivare da una instabile varietà volgare da questo distinta (quello che noi chiamiano latino volgare). Così ha distinto le lingue neolatine in tre ceppi a seconda della particella usata per affermare, ossia "oc", "oil" e "sì".

Veniamo dunque alle abitudini fonetiche dei dialetti toscani del XIII-XIV secolo. Nella sua ricerca del volgare più illustre, si direbbe che Dante non lo potesse trovare nemmeno nella natia Toscana. Il quadro che ne traccia è infatti abbastanza impietoso. Riporta anche qualche esempio: 

Locuntur Florentini et dicunt
Manichiamo introcque, | che noi non facciamo altro.

Pisani:
Bene andonno li fanti | de Fiorensa per Pisa.

Lucenses:
Fo voto a Dio ke in grassarra
eie lo comuno de Lucca.

Senenses:
Onche renegata avess'io Siena.
Ch'ee chesto?

Aretini:
Vuo' tu venire ovelle?

Tutte queste cose hanno la loro rilevanza per quanto riguarda la questione della gorgia, che alcuni insistono col ritenere antica. Dal confronto della propria parlata con quelle di altre genti d'Italia, Dante avrebbe di certo detto qualcosa sulla gorgia, se questa fosse effettivamente esistita. La totale assenza di menzioni di questa abitudine è un forte indizio della sua inesistenza all'epoca. A questo punto i casi sono due: 

1) Se la gorgia fosse esistita e Dante l'avesse considerata corretta e di buon uso, avrebbe notato la sua assenza al di fuori della Toscana;

2) Se la gorgia fosse esistita e Dante non l'avesse considerata corretta e di buon uso, ne avrebbe parlato diffusamente per stigmatizzarla.

Ammettiamo ora di scegliere la seconda possibilità e vediamo dove ci porta l'ipotesi. Data la severità dell'Alighieri, siamo propensi a credere che il suo giudizio su ogni forma di aspirazione sarebbe stato implacabile e che avrebbe riportato un gran numero di esempi da sottoporre al ludibrio e allo scherno delle future generazioni.