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mercoledì 12 settembre 2018


RAMTHA L'ILLUMINATO

Falsa Luce che inganna i viandanti 

Una sedicente medium americana nota come J.Z. Knight, il cui vero nome è Judith Darlene Hampton, sostiene di aver contattato un'entità di nome Ramtha servendosi delle tecniche di channeling. Questo Ramtha sarebbe un guerriero di Lemuria, che più di 35.000 anni orsono condusse una guerra contro gli Atlantidei. Secondo questa narrazione, Ramtha avrebbe guidato un imponente esercito di oltre due milioni di guerrieri reclutati in tutti i continenti, e sarebbe giunto a conquistare i due terzi delle terre emerse del globo. Nel periodo in cui visse come uomo, la Terra avrebbe attraversato un periodo di gravi catastrofi geologiche. Knight dice che Ramtha fu tradito e quasi ucciso, e che passò quindi sette anni in un luogo isolato, osservando la natura e sviluppando doti paranormali. Divenne chiaroveggente e in grado di muoversi fuori dal corpo. Avrebbe quindi raggiunto il suo esercito in India e dopo aver insegnato ai suoi uomini una nuova filosofia, sarebbe asceso in cielo.

Secondo un canovaccio ormai sperimentato a fondo, Ramtha avrebbe portato la sua conoscenza agli umani delle varie epoche fondando le civiltà che si sono succedute sulla Terra, a partire dagli Antichi Egizi. Tutto ciò che è ritenuto positivo nella storia, viene attribuito all'influenza di Ramtha, dagli insegnamenti di Socrate al genio di Leonardo da Vinci, dall'Induismo all'arte di Michelangelo.

Dalla rivelazione che Knight avrebbe avuto è stata fondata a Yelm nel 1987 la Ramtha's School of Enlightenment (Scuola di Illuminazione di Ramtha, RSE). La dottrina trasmessa da questa entità incorporea è di tipo panteista. Non riconosce una netta separazione tra spirito e materia, definendo la materia come la parte più densa di un universo che per sua natura è in ogni caso spirituale. In questo si oppone in modo radicale allo Gnosticismo. Il punto centrale dell'insegnamento di Ramtha è la cosiddetta Internalizzazione della Divinità, ossia l'idea di Dio come vivente in ogni individuo. Ogni essere umano sarebbe così Dio, e dovrebbe soltanto rendersi conto di ciò per accedere a un'esistenza superiore. È ancora la dottrina del Libero Spirito che riemerge prepotentemente in questo periodo storico di eclissi del Dualismo. Essendo impossibile comprendere e metabolizzare il Male da simili presupposti, questo sarebbe riconducibile a uno stato di semplice ignoranza. Per vincere il Male, quindi, sarebbe sufficiente sviluppare la propria consapevolezza interiore e riconoscendo la propria natura più profonda si influenzerebbe in modo positivo il destino. Un tocco di ottimismo psichedelico si rivelata spesso vincente.

Questi sono i princìpi fondamentali della filosofia di Ramtha:

1) L'affermazione "Tu sei Dio";
2) l'orientamento che permette di rendere noto l'ignoto;
3) il concetto che la consapevolezza e l'energia creano la natura della realtà;
4) la sfida a conquistare se stessi.


In teoria Ramtha dovrebbe comunicare usando la lingua di Lemuria, o almeno trasmettere a Knight la conoscenza di alcune parole significative di quel suo passato. Invece si esprime in un inglese corretto, il cui unico tocco esotico sarebbe un lieve accento indostano. Altra cosa che colpisce è la sua incapacità di comprendere alcune parole, come per esempio "carota". Davvero strano per un benefattore dell'umanità che dovrebbe conoscere ogni parola di ogni lingua terrestre, avendo egli vagato per la Terra ed essendo stato l'ispiratore dei più elevati intelletti umani. In netto contrasto con queste difficoltà linguistiche, Ramtha sarebbe ben informato su dettagli di politica mondiale. Anche solo da questi indizi si può comprendere che questo channelling non è genuino, ma le descrizioni della fauna e della flora di Lemuria sono ancora più assurde: quel continente scomparso sarebbe stato popolato esclusivamente da umani e - letteralmente - da lemuri, ossia da proscimmie.  

Ci sono state numerose controversie. Ritengo notevole il caso di un uomo sieropositivo che evitò di curarsi nell'assurda convinzione di poter essere risanato dalla sua fede in Ramtha, e quando si accorse di essere in fin di vita denunciò J.Z. Knight. Il colmo del paradosso è che quest'uomo si chiamava realmente Knight (il caso fu detto "Knight vs. Knight").

Grottesca e degna di irrisione è invece la regolare apposizione di copyright allo spirito guida decisa dalla medium per prevenire la proliferazione di veggenti plagiarie. Forse alcuni ufologi riterranno inquietante sapere che J.Z. Knight è nata proprio a Roswell, New Mexico.  

Etimologia di Ramtha

Cosa davvero singolare e sorprendente, il nome Ramtha si trova tal quale nella lingua degli Etruschi. In numerosissime iscrizioni è documentato il nome proprio di persona Ramtha, con le varianti arcaiche Ramatha e Ramutha. C'è però un piccolo particolare: l'antroponimo etrusco è femminile, mentre il lemuriano della Knight è di sesso maschile. Secondo la medium, nell'antica lingua di Lemuria la parola Ram significava "Dio", così Ramtha deve essere un suo derivato e significare qualcosa come "Divino". A dire il vero Ram "Dio" è la sola glossa fornita. Impossibile non pensare a Rama (Ram), divinità maggiore dell'Induismo! L'antroponimo etrusco è di incerto significato, ma somiglia alla parola hittita per indicare la luna, arma-, a parer mio di origine sconosciuta e non indoeuropea: potrebbe trattarsi proprio di un antico nome della luna, prima che il sinonimo tiv lo sostituisse. Non è improbabile che la Knight abbia tratto ispirazione proprio dalla lettura di alcune iscrizioni etrusche, magari traslitterate in un libro divulgativo, interpretando il nome servendosi del teonimo indiano Rama. Un'altra possibilità è che sia rimasta colpita dal nome della città giordana di Ar Ramtha (varianti Al-Ramtha, Ramtha, Ramoth, Romtha, Ermeith), dotandolo di una falsa etimologia. Date queste premesse, sembra inutile tirare in causa la glossolalia, anche se anni fa sono entrato in un sito di adepti della setta di Ramtha e mi sono imbattuto in alcune frasi in una lingua sconosciuta. Resta da capire se valga la pena approfondire oltre l'argomento.

mercoledì 14 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI ADIEGO LAJARA

Ignasi-Xavier Adiego Lajara, dell'Università di Barcellona (Universitat de Barcelona) è l'autore dello studio Lenguas anatolias y protoindoeuropeo (in inglese Anatolian Languages and Proto-Indo-European), pubblicato sulla rivista archeologica e filologica Veleia (n. 33, 2016, codice DOI: 10.1387/veleia.16819). Il lavoro, che si trova sul sito Academia.edu, è consultabile e scaricabile liberamente seguendo questo link:


Riporto l'abstract, tradotto dal sottoscritto:

"Questo articolo è un rapporto sullo stato dell'arte sulla posizione dialettale del gruppo anatolico (che comprende l'hittita, il luvio, il palaico, il licio, il milio, il cario, il pisidio e il sidetico) all'interno della famiglia linguistica indoeuropea. Valuta le due principali posizioni con cui finora si sono cercate di spiegare le forti divergenze tra le lingue anatoliche e lo stadio linguistico ricostruito di proto-indoeuropeo: da una parte, c'è l'ipotesi che assume un generale processo di perdita di categorie linguistiche in anatolico a partire dalla lingua comune; dall'altra, abbiamo l'ipotesi che assume una precoce separazione dalla lingua comune. A questo proposito, evidenzio alcune opinioni di parte sul cambiamento linguistico, che hanno condizionato questa discussione. Inoltre enfatizzerò il progresso nello studio delle lingue anatiliche diverse dall'hittita e il loro contributo alla questione sulla posizione dialettale dell'anatolico nel gruppo indoeuropeo. La conclusione è che la presente situazione rende difficile decidere quale delle due posizioni sia giusta."

Ricostruzione di Brugmann (morfologia nominale):

1) Un sistema con tre categorie, genere, numero e caso. Queste categorie consistevano in tre generi (maschile, femminile, neutro), tre numeri (singolare, duale, plurale) e otto casi (nominativo, vocativo, accusativo, genitivo, ablativo, dativo, strumentale, locativo).
2) Da un punto di vista formale, è stato assunto un sistema di temi caratterizzato dal suono finale del tema stesso. È stata assunta una generale opposizione tra temi in -o e temi atematici. I temi in -o, chiamati anche temi tematici, sono caratterizzati da una vocale tematica -o/e-, accento fisso o non mobile e assenza di alternanze apofoniche o ablautiche, mentre i temi atematici sono caratterizzati da alternanze apofoniche e in molti tipi da accento mobile. Tra i temi atematici, un'importante sottoclasse è quella delle radici in -a:, che per lo più esprimono il genere femminile e che hanno sviluppato un particolare insieme di uscite flessive.
3) Per gli aggettivi, l'espressione di gradazione è ottenuta tramite specifici suffissi. Nel caso del grado comparativo, un suffisso *-ies-/-ios- può essere ricostruito con sicurezza.

Ricostruzione di Brugmann (morfologia verbale):

1) Un sistema di tre temi (tritematismo), ossia presente, aoristo, perfetto, basato principalmente - ma non esclusivamente - sull'espressione dell'aspetto. Ogni tema era formata dalla radice verbale per mezzo di diverse procedure caratteristiche con una varità di costruzioni per il tema del presente (radicale, raddoppiata, con infisso nasale, con diversi suffissi), contro una varietà  più limitata per il tema dell'aoristo (radicale, sigmatico, raddoppiato) e una formazione praticamente esclusiva del tema del perfetto (il perfetto raddoppiato). È notevole anche l'esistenza di una differenziazione chiaramente definita tra i temi tematici e atematici, con caratteristiche simili ai corrispondenti temi nominali (invariabilità delle forme nella flessione tematica rispetto alla variabilità apofonica e di accento nella flessione atematica).
2) L'esistenza della distinzione di voce tra attivo e medio-passivo, la distinzione di numero tra singolare, duale e plurale, così come la distinzione tra prima, seconda e terza persona, tutte espresse tramite uscite personali.
3) L'uso di diverse uscite personali aggiunte al tema del presente indicativo come mezzo per distinguere tra presente e passato (il cosiddetto imperfetto).
4) L'esistenza dei modi indicativo, congiuntivo e ottativo, gli ultimi due espressi tramite suffissi aperti aggiunti al tema.
5) L'esistenza di un modo imperativo caratterizzato dall'uso di specifiche uscite personali.
6) L'uso di un insieme di uscite per il tema del perfetto.
7) La presenza di aumento in alcune lingue come tratto del tempo passato, opposto all'uso senza aumento per il cosiddetto modo ingiuntivo.
8) L'assenza di ogni espressione formale del tempo futuro, rimpiazzato dall'uso del presente pro futuro.

Ecco invece ciò che emerge dal terremoto anatolico:

La morfologia nominale è molto diversa da quella proposta per il proto-indoeuropeo prima dell'interpretazione della lingua hittita:

1) L'hittita ha due generi (comune e neutro) senza alcuna traccia del femminile, sia nei sostantivi che negli aggettivi.
2) Non c'è il duale.
3) Un unico insieme di uscite dei casi è usato per tutti i temi nominali, cosicché non possiamo propriamente parlare di temi "tematici" e di temi in -a: come flessioni differenziate dal resto delle flessioni atematiche.
4) Non si possono osservare tracce di gradazione aggettivale.

Morfologia verbale:

1) Non c'è tritematismo: c'è soltanto una forma tematica da cui tutta la coniugazione è creata per ogni verbo. Contro il sistema presente-aoristo-perfetto del proto-indoeuropeo di Brugmann, l'hittita mostra un sistema monotematico.
2) Cosa ancor più interessante, non ci sono affatto chiare tracce di tutti i marcatori dei temi dell'aoristo e del perfetto.
3) Ci sono soltanto due modi, l'indicativo e l'imperativo. Non esistono tracce di ottativo e di congiuntivo.
4) Ogni verbo appartiene a una delle due classi di coniugazione, dette coniugazione in -mi e coniugazione in -hi, e queste classi sono caratterizzate da insiemi di uscite flessive in parte diverse. I criteri secondo cui i verbi primari e derivati sono assegnati a una o all'altra classe restano non chiari. Mentre le uscite della coniugazione in -mi si confrontano facilmente con le uscite primarie e secondarie del proto-indoeuropeo di Brugmann, le uscite singolari della coniugazione in -hi mostrano evidenti connessioni con le uscite del perfetto e del medio del proto-indeuropeo brugmanniano - ma è formalmente impossibile pensare che la classe in -hi sia un semplice esito di una "riconversione" dei perfetti e dei medi proto-indoeuropei in una classe di coniugazione.
5) In modo simile al modello brugmanniano, l'hittita distingue tra presente e passato tramite uscite personali.
6) L'esistenza di due voci espresse tramite uscite personali è anch'essa comune al modello brugmanniano.
7) L'hittita mostra particolari mezzi per esprimere il modo e l'aspetto: ha sviluppato un perfetto perifrastico, usa suffissi come -ske-/-ska per derivare temi con significato di imperfetto o ricorre a particelle per esprimere sfumature modali (potenziale, irreale, ottativo).
8) L'hittita non ha né duale né aumento.

È notevole che un tipo di formazione di temi nominali considerata residuale nel proto-indoeuropeo di Brugmann, i temi eteroclitici in -r-/n-, fosse pienamente produttiva in hittita e in luvio.

Prova della natura arcaica delle lingue anatoliche

Sono uno strenuo sostenitore della tesi della natura arcaica delle lingue anatoliche: esse non presentano traccia alcuna di molte caratteristiche morfologiche indoeuropee perché non le hanno mai sviluppate. Se le lingue anatoliche fossero derivate da una protolingua affine all'indoeuropeo brugmanniano o a quello ricostruito dai laringalisti, sarebbero di certo rimasti residui della situazione più antica. Ad esempio, non è possibile che l'usura fonetica sia stata così radicale da far scomparire ogni traccia di un'ipotetica antica distinzione del genere femminile nei sostantivi e negli aggettivi, e neppure di certe caratteristiche della flessione verbale (raddoppiamento, pluralità dei temi, etc.): sarebbe rimasta in ogni caso qualche reliquia. Non va dimenticato che tali lingue non hanno avuto un'erosione quasi completa dell'apparato grammaticale, paragonabile a quella che possiamo constatare nell'inglese. Hanno mantenuto una grammatica abbastanza complessa. Dovremmo quindi immaginare una perdita selettiva, che avrebbe fatto sparire certe caratteristiche brugmanniane ma conservando tutto il resto, come se ad agire fosse stato un diavoletto di Maxwell, un genietto maligno con in mente un progetto ben definito. Inutile dire che cose simili non accadono nell'evoluzione delle lingue.

Per quanto possa rendermi impopolare, non esiterò ad affermare una verità scomoda. Tecnicamente parlando, le lingue anatoliche non sono lingue indoeuropee vere e proprie. Sono lingue preindoeuropee derivanti da una protolingua geneticamente imparentata con il protoindoeuropeo: il punto di divergenza è da collocarsi ben a monte dell'indoeuropeo ricostruito da Brugmann. In altre parole, la teoria a parer mio più vicina alla realtà è quella dell'indohittita. Il nome è brutto e sarebbe il caso di modificarlo, ma per comodità può andar bene.

Le invereconde baggianate di Renfrew

Noto una certa tendenza nel Web ad associare l'ipotesi indohittita con le deliranti teorie pseudoscientifiche dell'indoeuropeizzazione neolitica enunciate da Colin Renfrew, che respingo con fermezza. È chiaro che le lingue anatoliche hanno avuto origine più a nord, fuori dall'Anatolia e che si sono espanse in Asia minore solo in un secondo momento. Ritenere che l'Anatolia sia l'origine dell'indoeuropeizzazione è semplicemente folle, anche perché ancora in epoca storica persistevano in quelle terre lingue non indoeuropee. Lo stesso nome degli Hittiti deriva da quello della terra di Hatti, abitata anticamente da genti non indoeuropee poi assorbite e assimilate. Com'è ovvio che sia, la radice in questione non ha alcun parallelismo nelle lingue indoeuropee e non può essere spiegata tramite la ricostruzione brugmanniana. Va ricordato inoltre che la lingua delle antiche genti di Hatti ci è attestata, perché gli Hittiti se ne servivano per scopi religiosi: era una lingua non indoeuropea, chiamata proto-hattica dagli studiosi, appartenente alla molteplicità nord-caucasica (con somiglianze soprattutto con le lingue caucasiche nordoccidentali). Per usare un paragone rozzo che renda l'idea, la differenza tra l'hittita e il proto-hattico sembra quella che passa tra il latino e il cinese. A complicare il quadro, bisogna ricordare che lo stesso lessico dell'hittita è molto composito e in buona parte di origine oscura per non dire ignota - non necessariamente con corrispondenze in proto-hattico. I seguaci di Renfrew ignorano che anche parole con la stessa radice di termini indoeuropei possono gettare un po' di luce sulla lontana preistoria. Così apprendiamo molto dall'uso di un termine hittita, hartagga- "orso" (parente dell'IE *ṛkθo- "orso"), che indica anche un tipo di sacerdote: il ministro di culto doveva indossare la pelle dell'animale e impersonarlo, e questo ci appare come un lampante residuo di sciamanesimo, correlabile a un'origine settentrionale della popolazione.

È evidente che l'Anatolia non può essere stata a maggior ragione il luogo d'origine dell'indoeuropeo di Brugmann. Non è in quella terra che sono derivate le lingue indoeuropee moderne, come appare chiaro già analizzando la sua situazione linguistica nell'antichità, in cui dominano le lingue anatoliche. Ma forse Renfrew, che NON È un linguista, crede che un diavoletto di Maxwell abbia fatto evolvere la protolingua indohittita nelle lingue indoeuropee moderne in Europa e nelle lingue anatoliche in Asia Minore, postulando assurdi meccanismi selettivi.

Epilogo

L'articolo di Adiego Lajara non prende posizione in modo netto. Si limita a fare un riepilogo dei fatti conoscibili, per affermare che non si può giungere in alcun modo a conclusioni certe. Questo è in un certo qual senso l'ammissione di una sconfitta. Posso capire la sua sfiducia. La discussione è dominata da posizioni preconcette, che rallentano e ostacolano gli studi, complice anche l'estrema frammentarietà del mondo accademico. Uno studioso che segue il metodo scientifico deve raccogliere dati e far passare sotto il loro giogo le proprie teorie. Non può e non deve in alcun caso manipolare la realtà documentabile e accertabile per piegarla alle proprie idee preconcette. Se lo fa, è un falso uomo di Scienza e un malfattore. Ci sono neogrammatici e laringalisti che adorano con feticismo estremo le proprie teorie, al punto di costringere le lingue anatoliche nel letto di Procuste delle loro ricostruzioni, considerate assolute e definitive.

domenica 4 febbraio 2018

ETRUSCO S'A 'QUATTRO': L'ARGOMENTO DELLA QUADRUPLICAZIONE

All'epoca di Pallottino si brancolava nel buio. Non c'era comprensione del fatto molto semplice che il lemma etrusco tamera significa "spazio funebre", "tomba". Abbondavano le ubbie e molti accostavano invano la parola a epiteti greci e anatolici indicanti titoli sacerdotali (es. luvio dammara-, cilicio-ciprio Tamiras), senza poter ottenere traduzioni sensate e concrete delle iscrizioni. L'etimologia di tamera è di chiara origine indoeuropea e indica qualcosa di meramente materiale: si tratta di un antico prestito dalla radice *tam-, che corrisponde a IE *dom-, con l'ara semantica di "casa" e "costruire". Facchetti rende tamera semplicemente con "camera", traduzione da me poco amata, dato che potrebbe trarre in inganno il lettore poco accorto, suggerendo per assonanza una falsa connessione con il vocabolo italiano (di ultima origine greca).  

Agostiniani fu il primo a notare che le locuzioni tamera zelarvenas e tamera śarvenas sono altamente significative e presentano un importante parallelismo. Infatti tamera zelarvenas significa "avendo raddoppiato lo spazio funebre", mentre tamera śarvenas significa "avendo quadruplicato lo spazio funebre". L'analisi delle forme verbali in questione è la seguente:

zel-ar-ve-nas "avendo raddoppiato" : va con zal "due" (alterna con zel-, esl-)
śa-r-ve-nas "avendo quadruplicato" : va con śa "quattro".

In entrambi i casi abbiamo un suffisso rotico. Si noti che zelur, trovato in un'altra iscrizione (San Manno, CIE 4116), si tradurrà con "duplice".

Per ulteriori approfondimenti, si rimanda a all'opera di Agostiniani Sul valore semantico delle formule etrusche "tamera zelarvenas" e "tamera śarvenas" (in Studi linguistici offerti a G. Giacomelli dagli amici e dagli allievi, Padova 1997).

Va subito detto che śar- in śarvenas si oppone a sar "dieci", che ha una sibilante diversa. A quanto pare le forme soggiacenti all'ortografia difettosa e incompleta sono rispettivamente /ʃa:r-/ "quadruplo" e /sar/ "dieci", che non presentavano ambiguità per il parlante, anche per il loro aspetto morfologico.

Quando ero al liceo, venni a conoscenza di una bella storiella.
La peste infuriava ad Atene, e tramite l'oracolo di Delfi si seppe che Apollo, infuriato, ne era la causa. La divinità ordinò di duplicare il suo altare, che si trovava sull'isola di Delo e che aveva forma cubica. Così fu subito costruito un nuovo altare raddoppiando lo spigolo di quello esistente. Fu così ottenuto un altare le cui facce avevano area quadrupla rispetto alle facce dell'altare originale, mentre il volume era otto volte maggiore. La pestilenza divenne ancor più grave, perché Apollo era infuriato a causa della brutale ignoranza delle sublimi leggi della geometria dimostrata dagli Ateniesi. Ci furono altri tentativi infruttuosi, compiuti da matematici, e la ricerca sarebbe andata avanti fino all'annientamento della popolazione.
La soluzione fu trovata da Platone, che diede una lettura simbolica alle parole dell'oracolo: Apollo voleva che gli Ateniesi coltivassero la matematica e la geometria, non un altare raddoppiato. In effetti, non era possibile con i mezzi esistenti in Grecia a quei tempi risolvere il problema, dovendo moltiplicare lo spigolo del cubo originale per la radice cubica di due. Per raddoppiare l'area di un quadrato le cose sono molto più facili: basta costruire un quadrato avente per lato la diagonale del quadrato originale. 

Siccome gli etruscologi hanno la brutta tendenza a crogiolarsi nella loro torre d'avorio e non sembrano capire la complessità delle cose, riporterò due interessanti link che rimandano a una descrizione dettagliata di questi problemi di geometria:



Gli Etruschi, come i Greci, sapevano soltanto raddoppiare o quadruplicare un'area quadrata. Non sapevano triplicarla né sestuplicarla. Questo argomento da solo sarebbe sufficiente a spazzar via l'insistente idea di coloro che traducono śa con "sei" e huθ con "quattro". Spero che costoro, messi di fronte ai fatti da me esposti, si rendano conto di aver imboccato un vicolo cieco, abbandonino i loro paraocchi ideologici e si ravvedano.

lunedì 18 settembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI BARTOLUCCI

Chiara Bartolucci (Soprintendenza Archeologia della Toscana) è l'autrice del lavoro De lingua origineque Etruscorum, in cui cerca di far luce sulla provenienza dell'inclito popolo tirrenico. Il testo è liberamente consultabile e scaricabile al seguente url:


L'autrice riassume le opinioni sull'origine allogena degli Etruschi già enunciate dagli autori dell'Antichità:

   - Erodoto (Storie, I, 94) riporta una teoria secondo la quale gli Etruschi provenivano dalla Lidia. Essi giunsero in Italia sotto la guida del re eponimo Tirreno a causa di una carestia poco prima della guerra di Troia (XII sec. a.C.),
   - Ellanico di Mitilene (in Dion. Hel., I, 28) teorizza che gli Etruschi giunsero in Italia a seguito della migrazione dei Pelasgi (misterioso popolo migratore del Mediterraneo orientale). Tale tesi è stata avvalorata, secondo la ricerca moderna, da alcune fonti egizie ovvero i resoconti da Amenophis III a Merneptah (1413-1220 a.C.). All'interno di tali documenti vengono trattate le scorrerie di diversi popoli, alcuni di essi di facile identificazione mentre altri di dubbio, se non impossibile riconoscimento. Tra i tanti nomi spicca /Trš.w/ che alcuni identificano con il termine greco Tyrsenoi/Tyrrenoi (Tirreni/Tusci), quindi gli Etruschi.

    - Anticlide (in Strab., V, 2-4): secondo lui Tirreno colonizzò prima le isole dell'Egeo (Lemno e Imbro) e poi l'Italia.
(cit.)

Lampante è la natura politica e ideologica delle opinioni di Dionigi di Alicarnasso sugli Etruschi come popolo autoctono. L'autrice fa notare che la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso non è propriamente attendibile, in quanto viziata da argomenti politici tipici del Principato di Augusto. Difendendo l'origine greca di Roma e covando stizzosi sentimenti antietruschi, l'autore non poteva che ritenere i Rasenna indigeni, al preciso scopo di sminuirli, di rubare loro la gloria. Questa confutazione è di somma importanza, perché indebolisce la posizione dogmatica della Setta degli Archeologi, che di tutte le testimonianze degli autori antichi ne fanno prevalere una assolutamente minoritaria per sostenere il pilastro portante del Pallottinismo: l'idea del "farsi" degli Etruschi sul suolo italico, con totale inconoscibilità delle componenti d'origine, considerata una prosecuzione diretta dei Villanoviani.

Etruschi e genetica

Il complesso problema del DNA degli Etruschi porta a considerazioni che possono lasciare sgomenti. Com'è noto, le analisi genetiche sui resti di Etruschi e su moderni abitanti della Toscana non hanno dato esiti conclusivi. Si rimarca la fallacia e la fragilità logica dei tentativi di dimostrare la continuità genetica tra gli Etruschi e gli attuali toscani. La Bartolucci descrive lo scibile sull'argomento, anche se non mi pare che giunga a enunciare una teoria capace di fare chiarezza. A mio avviso è ben possibile che siano state le linee nobiliari dell'antico popolo a estinguersi e che siano sopravvissute numerose linee plebee o servili - il che renderebbe conto dei risultati marasmici delle indagini. Questa confusione potrebbe avere molteplici cause. La lingua etrusca avrà finito con l'accomunare un certo numero di genti di diversa origine, sebbene in origine sarà stata parlata soltanto da una minoranza giunta dal mare. Se le cose stanno così, smantellare il nocivo tabù pallottiniano che vieta l'indagine sul "farsi" degli Etruschi diventa una necessità prioritaria. 

La fallace testimonianza di Xanto 

Dionigi di Alicarnasso riporta quanto segue a sostegno delle sue tesi: "Xanto di Lidia, uno degli storici più autorevoli per quanto attiene alle antichità della sua patria, che non fa allusione in nessun passo dei suoi scritti a un capo lidio a nome Tirreno, o alla migrazione dei Tirreni in Italia, sottolineando come i due popoli presentino usanze e lingue diverse. Di conseguenza “l’opinione secondo me più verosimile è quella secondo la quale i Tirreni sono una nazione autoctona, vista l’originalità dei loro costumi e della loro lingua. Non c’è alcuna ragione per cui i Greci non avrebbero dovuto chiamarli Tirreni, dalle torri in cui vivono e dal nome di uno dei loro governanti." Il fatto che la anatolica lingua dei Lidi non somigli affatto a quella degli Etruschi non deve stupire: i Lidi sono sopraggiunti nella terra che da loro ha poi preso il nome soltanto quando i Tirreni erano già migrati. Una realtà lapalissiana, a cui tuttavia sembrerebbe che nessuno abbia seriamente pensato.

La lingua di Lemno

La Bartolucci cita un argomento che Pallottino ha cercato con ogni mezzo di tenere nascosto, ma che ha un potere devastante, in grado di far implodere la teoria autoctonista. Si tratta dell'attestazione di una lingua simile all'etrusco in un'iscrizione trovata nell'isola egea di Lemno, in un luogo lontanissimo dall'Etruria. Alcuni autori hanno tentato di far passare la lingua lemnia per un "rigurgito" provenuto dall'Italia, senza portare evidenze plausibili e fondandosi su ragionamenti di una fragilità logica molto spinta, forgiate cum dolo allo scopo di salvare il Pallottinismo. Riporto un passaggio del De lingua origineque Etruscorum"Come ogni testimonianza autoctonista, anche quella di Pallottino è incapace di spiegare in maniera convincente la testimonianza lemnia. Per Pallottino il contributo egeo alla lingua degli Etruschi storici va spostato al passato più remoto che si possa immaginare, e cioè verso l’inizio del II millennio a.C., il che rende la somiglianza tra lemnio ed etrusco inspiegabile." Aggiungerò che esistono alcune innegabili consonanze tra il lessico di base dell'etrusco e quello del sostrato preindoeuropeo della lingua greca. L'esempio dato dall'etrusco puia "moglie" e dal greco ὀπυίω "prendo in moglie" non può essere attribuito al caso. Tutto ciò dovrebbe porre fine una volta per tutte alle inveterate pastoie dogmatiche, lasciando libero il campo alla Scienza.

domenica 12 febbraio 2017

LONGOBARDO RICOSTRUITO: UNA FORMULA PER GUARIRE IL MAL CADUCO

Testo in longobardo (ricostruito), con introduzione e altre parti in latino:

CONTRA CADUCUM MORBUM
ACCEDE AD INFIRMUM IACENTEM ET A SINISTRO USQUE AD DEXTRUM LATUS SPACIANS, SICQUE SUPER EUM STANS DIC TER:
THONOR THUTIGO, THEUDEUIGO! 
THAU QUAM THES TIUFOLES SUNO, UF ADAMES PRUCCON, ANDI SCHITODA AINAN STAIN ZO GUIDE. THAU QUAM THES ADAMES SUNO, ANDI SLOH THES TIUFOLES SUNO ZO AINERU STUDON. PETRUS CASANTIDA PAULUM SINAN PRODER THAZ ER ADERRUNA ADERON FERPUNDI, FERPUNDI THEN PANDON. FERSTEZ ER THEN SATANAN. ALSUA TON IH THIH UNRAINER ATHMO FRAM THISEMO CHRISTINON LICHAMON. SUA SCAIRO IH MIT THEN ANDON THEA ERDA PIRORIU. POST HEC TRANSILIAS AD DEXTRAM ET DEXTRO PEDE DEXTRUM LATUS EIUS TANGE ET DIC: STAND UF GUAZ GUAS THIR. THER GOD CAPAUT THIR IZ. HOC TER FAC ET MOX VIDEBIS INFIRMUM SURGERE SANUM. 
 

Trascrizione fonologica (semplificata): 

/'kontra ka'dukum 'morbum
ats'tsede ad in'firmum ja'tsentem et a si'nistro 'uskwe ad 'dekstrum 'latus 'spatsjans, 'sikkwe super 'eum 'stans et 'dik 'ter :
'θɔnor 'θu:ti:go 'θeud'e:wi:go
θau 'khwam θɛs 'tiufoles 'suno u:φ 'adames 'prukko:n, andi 'skito:da ainan 'stain tso: 'gwide.
θau 'khwam θɛs 'adames 'suno andi 'slo:χ θɛs 'tiufoles 'suno tso: 'aineru 'stu:do:n
'petrus ka'santida 'paulum si:nan 'pro:der θats er 'a:derru:na 'a:dero:n fer'pundi, fer'pundi θe:n 'pandon. fer'ste:ts 'ɛr θɛn 'satanan. 'alswa: 'to:n iç 'θiç, 'unraine:r 'a:tmo, fram 'θisemo 'kristi:non 'li:ççamon. swa: 'skairo iç mit θe:n 'andon θea 'ɛrda pi'ro:rju. post 'ek tran'siljas ad 'dekstram et 'dekstro 'pede 'dekstrum 'latus 'ejus 'tanje et 'dik : 'stand 'u:φ, gwats 'gwas θir. θɛr 'gɔd ka'paut 'θir its. ok 'ter 'fak et 'moks vi'debis in'firmum 'surjere 'sanum/ 

Per la pronuncia delle parole latine in questo genere di formule rimando a quanto specificato a proposito dell'incantesimo per curare la paralisi del cavallo.   

Traduzione: 

Contro il morbo caduco.
Avvicinati al malato che sta disteso e, protendendo<ti> dal lato sinistro al destro e stando così sopra di lui, di’: 
Donar* Tonante, Eterno del Popolo!
Allora venne il figlio del Diavolo sul ponte di Adamo e spaccò una pietra sul legno. Allora venne il figlio di Adamo e uccise il figlio del Diavolo a un ramo.
Pietro mandò suo fratello Paolo perché legasse la runa delle vene alle vene, <la> legasse con legacci. Egli cacciò fuori Satana. Allo stesso modo faccio io con te, spirito immondo, da questo corpo cristiano, così velocemente come io tocco la terra con le mani. E tocca la terra con entrambe le mani e di’ un Padre nostro.
Dopo questo, passa a destra e tocca il piede destro dal lato destro e di’:
Alzati! Cosa avevi? Dio te lo ordinò! Fai questo per tre volte, e subito vedrai il malato alzarsi sano.

*Corrisponde a Thor, teonimo universalmente noto ai lettori. 

Testi di partenza:

1) Testo in antico alto tedesco tardo (francone renano, XII sec.):

Contra caducum morbum.
Accede ad infirmum iacentem et a sinistro vsque ad dextrum latvs spacians. sicque super eum stans dic ter.
Donerdutigo. dietewigo.
do quam des tiufeles sun. uf adames bruggon. unde sciteta einen stein ce wite. do quam der adames sun. unde sluog des tiufeles sun zuo zeinero studon. petrus gesanta. paulum sinen bruoder. da zer aderuna. aderon ferbunde pontum patum. ferstiez er den satanan. also tuon ih dih unreiner athmo. fon disemo christenen lichamen. so sciero so ih mit den handon. die erdon beruere. et tange terram utraque manu. et dic pater noster. Post hęc transilias ad dextram et dextro pede dextrum latus eius tange et dic. stant uf waz was dir. got der gebot dir ez. hoc ter fac. et mox uidebis infirmum surgere sanum.

2) Testo in antico alto tedesco tardo (bavarese, XI sec.):

pro cadente morbo
Doner dutiger
diet mahtiger
stuont uf der adamez prucche schitote den stein zemo Wite.
Stuont des adamez zun. unt sloc den tieules zun. zu der studein.
Sant peter. sante zinen pruder paulen daz er arome adren ferbunte frepunte den paten. frigezeden samath friwize dih unreiner atem. fon disemo meneschen.
zo sciero zo diu hant wentet zer erden.
ter cum pater noster. 

Per approfondimenti rimando al lavoro di Eleonora Cianci (2004).

Commenti: 

Giustamente si è visto nell'incantesimo francone renano e nel suo analogo bavarese un'eredità dell'epoca in cui i missionari cristiani combattevano contro il paganesimo dei Germani. Il tema del duello tra Cristo e Donar (Thor) si trova ben documentato. Tra i Sassoni pagani in guerra contro i Franchi era credenza comune che uno dei passatempi del dio rossochiomato fosse duellare con il dio dei cristiani. In Islanda è riportata la discussione tra un missionario e una valente poetessa, Steinunn Refsdóttir (Brennu-Njáls saga, ossia Saga di Njáll del rogo, cfr. Chiesa Isnardi). Steinunn affermò che Thor aveva sfidato a duello Cristo, chiedendosi con parole di scherno come osasse il nuovo dio confrontarsi con il dio dei Padri.

Esiste però anche un altro tema nel materiale a.a.t., che non è stato finora messo nella giusta evidenza. Nella mitologia scandinava, Thor combatte contro il gigante Hrungnir e riceve nel cranio il frammento di una cote (pietra per affilare). La maga Gróa cerca di estrarre il frammento di selce, ma non ci riesce: come conseguenza quel corpo estraneo continua a causare a Thor forti dolori e periodiche convulsioni. Le coti erano ritenute manufatti magici e pericolosi, tanto che non era permesso ai bambini usarle per giocare. Si deduce quindi che l'epilessia era ritenuta dai Germani il prodotto di questo problema cranico del fulvo figlio di Wotan. Nulla di più naturale quindi di una serie di invocazioni a tale divinità per guarire dal mal caduco. A riprova di questo, nel testo francone renano la divinità pagana viene invocata esplicitamente. Sono perciò indotto a credere che le formule siano rudimentali cristianizzazioni di qualcosa di più antico e che il motivo del duello tra Donar e Cristo sia soltanto un'innovazione successiva sovrapposta al racconto del frammento di cote conficcato nel cranio del dio pagano. Con ogni probabilità il duello originale era tra Donar e un gigante. Se così fosse, sarebbe Donar ad essere chiamato "Figlio di Adamo", mentre il nome del gigante sarebbe finito rimosso e sostituito da "Figlio di Satana". Non dimentichiamo infine che il nome norreno Hrungnir ha la stessa radice del gotico hrugga "bastone" (-gg- suona -ng-): nel materiale tedesco abbiamo una pietra scagliata e un ramo. La studiosa dell'Università di Chieti fa molti interessanti riferimenti a materiale biblico, tuttavia non si cura molto della religione nativa e conclude che non si riesce a giungere a un'interpretazione soddisfacente. 

A.a.t. Donerdutigo e Doner dutiger: l'aggetivo è una crux per i germanisti. Credo di poterne finalmente offrire una sicura soluzione. Elenchiamo le proposte finora fatte dagli accademici per passare poi a confutarle:

1) A.a.t. dutigo viene tradotto con "del popolo" e ritenuto corradicale di a.a.t. diota "popolo, gente", che è come il gotico þiuda "popolo, nazione", dal protogermanico *θiuðo: id. La Cianci aderisce a questa proposta, seppur obtorto collo.
2) A.a.t dutigo viene tradotto con "pettoruto" e ricondotto ad a.a.t. tutto, tutta "mammella, poppa". Secondo Grienberger, il riferimento sarebbe stato al torace muscoloso dell'Aso dalla barba rossa.
3) A.a.t. dutigo viene tradotto con "valente", riconducendolo a un vocabolo anglosassone *dytig, glossato con lat. valens. La proposta si trova in un testo della Catholic University of America (Studies in German, 1944, vol. 19-21), più vecchio del famoso chinotto di Leone di Lernia. 
4) A.a.t. dutigo viene tradotto con "benigno" e ricondotto al gotico þiuþeigs "buono, degno di lode".

Tutte queste proposte non sono soltanto errate, ma sono anche impossibili per elementari ragioni fonetiche.

1) A.a.t. dutigo non può aver nulla a che fare con diota. In nessuna varietà di germanico la forma protogermanica mostra qualcosa di diverso dal dittongo /iu/ (con l'accento sulla -i-). Se guardiamo anche le altre lingue indoeuropee in cui la radice è rappresentata, vediamo che tutte le forme attestate sono riconducibili a una protoforma IE col dittongo /eu/. Anche il latino totus /'to:tus/ "tutto", l'osco touto "cittadinanza" e tovtix "pubblico", così come le forme celtiche, mostrano regolari esiti di /eu/. Dove sarebbe dunque la variante con una /u/ semplice? Anche l'ittita tuzzi "armata" a parer mio ricade in quanto visto: la sua vocale /u/ è chiaramente il frutto di una monottongazione. Se un celtico *toutikos fosse l'antenato della voce a.a.t. dutig-, per avere /u:/ dovremmo essere in presenza di un prestito tardo e non si spiegherebbe d- iniziale, che viene regolarmente da th-2) Per prima cosa a.a.t. tutto, tutta "poppa" è una forma di origine basso tedesca dovuta a prestito. La forma genuina con II rotazione è documentata dal m.a.t. zutzel, glossato con Sauglappen "panno assorbente". Grienberger non si è accorto che il consonantismo non quadra per nulla e che d- sarebbe impossibile, perché evidentemente era uno studioso scadente. Inoltre tutto, tutta indica solo il seno femminile e non il torace maschile. Giova ricordare che a Thor è attribuita quella che i buonisti oggi chiamerebbero omofobia feroce. Soltanto insinuare che la divinità avesse atteggiamenti femminei o caratteristiche equivoche era un insulto che avrebbe portato i suoi fedeli a uccidere i responsabili della bestemmia. Tra i Germani una simile onta poteva essere lavata soltanto col sangue.   3) L'anglosassone *dytig "valente" non può essere corradicale al nostro dutig-. Non è proprio possibile, visto che la corretta parola anglosassone è dyhtig. In a.a.t. /χt/ non si semplifica mai in /t/. Evidentemente gli studiosi della Catholic University of America erano troppo distratti dalla presenza di bambini nell'ateneo per ricordare correttamente parole in antico inglese. 
4) La soluzione non è soddisfacente per il vocalismo e neppure per il consonantismo. Ci aspetteremmo *diedigo come riflesso di *θiuθi:ɣ- e *dietigo come riflesso di un'eventuale variante *θiuði:ɣ-. Resta il fatto che forme con un'antica /u(:)/ non se ne trovano.

In protogermanico abbiamo la radice verbale *θiutanan "fare rumore, tuonare", donde è formata una variante ablautica *θu:tanan, documentata ad esempio nel gotico wulfiliano þuthaurn /'θu:t-hɔrn/ "tromba" e nel norreno þútr "rumore", "frastuono". Noi ipotizziamo che in gotico esistesse un derivato *þuteigs /'θu:ti:xs/ "tonante", che sarabbe entrato in longobardo come prestito, a causa della forte influenza del germanico orientale su tale lingua. Così la forma longobarda si espanse nell'area bavarese e francone renana in un tempo in cui il mutamento da /t/ a /ts/ e a /s̪/ non era più attivo, ma in cui restava vivo l'adattamento di /θ/ con /d/. Questo portò alle forme dutigo (flessione aggettivale debole) e dutiger (flessione aggettivale forte). Tutto ciò è ben plausibile, vista la natura magica delle formule. La genuina forma a.a.t. del verbo è diozan "fare frastuono". Le forme corrispondenti in longobardo ricostruito sono THUZAN /'θu:tsan/ e THEUSSAN /'θeus̪s̪an/

A.a.t. zuo zeinero studon è una grave crux. Cianci traduce con "al suo ramo", come fanno molti altri accademici. La parola per dire ramo in questo testo è studa, con la flessione debole, gen. e dat. studon. Il problema, ben grave, è che c'è un errore marchiano. Tradurre zuo zeinero con "al suo" (dat. f.) è una palese assurdità. C'è un anacronismo, perché l'aggettivo possessivo sarebbe sinero! Potremmo supporre una traduzione errata. Qualche studioso avrebbe confuso zeinero col la forma moderna dittongata, interpretando incredibilmente z- iniziale come la s- sonora del tedesco moderno sein "suo"! L'errore si sarebbe poi propagato e nessuno se ne sarebbe accorto, nemmeno la Cianci. Il problema è che un aggettivo a.a.t *zein o *zeini non sembra esistere. Non c'è alcuna connessione con a.a.t. zein "ramo", che corrispondente a gotico tains "ramo" ed è di genere maschile. Infatti zuo zeinero è una contrazione di un più antico zuo zi einero. Tutto è iniziato da zi einero contratto in zeinero, rafforzato quindi con zuo. Reduplicazioni di questo tipo non sono rare.

A.a.t aderuna aderon: a quanto pare la corretta traduzione era finora impossibile. C'è chi etichetta il termine aderuna come ungedeutet, ossia "non interpretato". C'è chi considera la parola ostica come un nome proprio e non lo traduce, lasciando Aderun. C'è chi lo vede come semplice plurale della parola ādra, ādara "vena", cosa che dal punto di vista morfologico è impossibile. Cianci sorvola su aderuna, limitandosi a parlare di aderon, che è un dativo plurale. A parer mio sta per *āderrūna, un antico composto formato da ād(a)ra "vena" e da rūna "segreto, mistero", i.e."formula magica" o "segno magico".  

A.a.t. pontum patum: un altro passaggio difficile. Per alcuni sarebbe una fantasiosa abbreviazione di Pontium Pilatum (acc.), che non ha il minimo senso nel contesto. Il testo bavarese ha invece frepunte den paten, che potrebbe spiegarsi bene se paten stesse per panten "ai legacci". Senza il minimo senso è la proposta di vedere patum come voce del verbo beiten "spingere, impellere" non quadra assolutamente il vocalismo, oltre al fatto che è un verbo debole. Sbagliare è certo una cosa normale, ma questi sono errori che difficilmente uno si aspetta di trovare tra gli accademici. 

sabato 13 febbraio 2016

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: MASCILLA PER MAXILLA

La parola latina maxilla ha numerosi parenti in altre lingue indoeuropee, che possono essere consultati agevolmente nel database The Tower of Babel di Sergei Starostin: 

Proto-IE: *smakr- (IndoIr. -k'-)
Meaning: beard, chin
Hittite: zamangur, zamakur n. 'Bart' (Friedrich 259),
     samankurwant- 'bärtig' (180)
Old Indian: śmáśru n. `beard, moustache'
Armenian: maurukh, mōrukh `Bart'
Baltic: *smakr-a-, -ia- c., -ā̂ f.
       Meaning: chin
       Lithuanian: smakr̀a-s `Kinn', dial. smakrà `id.'
       Lettish: smakrs, smakre, smakris, smakars
           `Kinn, Gaumen'
Germanic: *smáxr-ia- m.
       Meaning: lip
       Old English: smǟre, -es m. `lip'
Latin: māla f. `Kinnbacke, Kinnlade; Wange; Bart', dem.
      maxilla
`Kinnbacke; Kinn'
Celtic: Ir smech `Kinn'
Albanian: mjekrɛ Kinn, Bart 

Come già visto nel caso di axilla, diventato ascilla e quindi italiano ascella, anche in questo caso si è avuta una metatesi. La forma maxilla, che è un diminutivo di ma:la < *maksla, ha prodotto la variante mascilla semplicemente invertendo /k/ e /s/. Solo in epoca tarda ha subito palatalizzazione, sviluppandosi poi nell'esito italiano. Coloro che postulano i suoni palatali (postalveolari) della pronuncia ecclesiastica ab aeterno, sono assolutamente incapaci di spiegare l'accaduto. 

sabato 21 marzo 2015

COLIN RENFREW È UN NEMICO DELLA SCIENZA

Colin Renfrew è un archeologo britannico noto per la cosiddetta ipotesi anatolica sulla patria originaria degli Indoeuropei. Rifiutando la teoria kurganica di Marija Gimbutas, egli afferma che gli Indoeuropei si sarebbero diffusi a partire dall'Anatolia nel VII-VI millennio a.C., durante il Neolitico. A detta sua, la lingua indoeuropea si sarebbe diffusa per trasmissione culturale anziché per migrazione fisica. Spingendosi oltre, tale teoria arriva ad identificare la Rivoluzione Agricola del Neolitico proprio con la comparsa delle lingue indoeuropee, affermando che esisterebbe una continuità diretta tra quell'epoca e la nostra, senza nessun reale stravolgimento nella natura degli idiomi parlati nel corso dei secoli. Non userò mezzi termini: simili enunciati sono vaneggiamenti che non hanno più valore di una massa di baggianate New Age. Il discorso è lungo e articolato, vediamo di procedere con ordine. 

Le teorie di Colin Renfrew a proposito della cosiddetta indoeuropeizzazione neolitica sono semplicemente insostenibili in quanto non spiegano la realtà dei fatti. Non rendono assolutamente conto dei gradienti delle lingue indoeuropee antiche e moderne in Europa, che non appartengono al gruppo delle lingue anatoliche come quella degli Ittiti, ma a un tipo più recente e dotato di ben precise caratteristiche, tra cui un lessico relativo all'uso del cavallo e del carro da guerra. Se l'antenato delle lingue indoeuropee si fosse diffuso in un'epoca tanto antica, come supposto da Renfrew, le lingue storicamente documentate sarebbero tra loro talmente diverse da non recare più una chiara traccia dell'origine comune, e il lavoro dei filologi sarebbe molto più duro. Inoltre Renfrew non spiega in alcun modo l'esistenza degli elementi del sostrato preindoeuropeo. In altre parole, lingue indoeuropee come il greco e il latino mostrano nel loro lessico molte parole che non sono di origine indoeuropea e che puntano a lingue perdute che erano parlate in epoca più antica. Queste parole appartengono spesso e volentieri ad aree semantiche peculiari, includendo fitonimi, zoonimi, termini per indicare elementi del paesaggio, ma anche termini culturali come nomi di metalli (es. latino plumbum, greco μόλυβδος) e parole relative all'agricoltura, come il nome greco del grano, σῖτος.  

Questo archeologo, che non ha la benché minima competenza in fatto di linguistica, non è neppure in grado di spiegare la presenza dei Baschi nel'attuale penisola Iberica. Se fosse per lui, direbbe che i Baschi sono migrati da Sidonia in epoca recente. Si nota che nella lingua basca ci sono molte parole relative ad innovazioni neolitiche che non sono indoeuropee. 

Termini relativi all'agricoltura: 

aitzur, zappa 
ardo
, vino
bihi, chicco di grano
garagar, orzo
gari, grano, frumento
ogi, pane
olo, avena
ore, pasta
uzta, raccolto 

Termini relativi all'allevamento: 

ahuntz, capra
ardi, pecora
artile, lana
behi, vacca
gazta, formaggio
idi, bue
zenbera, formaggio molle
zezen, toro 

Persino alcuni termini relativi alla metallurgia sono antichi, segno che quando si cominciarono a lavorare i metalli esistevano ancora tradizioni non indoeuropee: 

berun, piombo
burdina, ferro
urre, oro
zilar, argento 

Si noterà che uno di questi lemmi, il nome dell'argento, è stato preso a prestito dai Germani (proto-germanico *siluβra-), dagli Slavi (antico slavo ecclesiastico sĭrebro) e dai Balti (antico prussiano silapris, lituano sidãbras, lettone sidrabs). Il nome del piombo è chiaramente simile agli equivalenti vocaboli del greco e del latino: è ben possibile che la radice sia di origine iberica e che si sia diffusa ad oriente.

Tutte evidenze che sono state bellamente ignorate da Renfrew. Del resto, non è una novità lo strapotere degli archeologi, che cercano con ogni mezzo di pronunciarsi su argomenti che non sono preparati ad affrontare. Penso che Colin Renfrew non sia poi tanto diverso dai complottisti che infestano la Rete con le loro inconsistenze. Egli è incapace di distinguere la logica dal paralogismo. La sua teoria sull'equivalenza tra archeologia e linguistica è estremamente nociva alla Conoscenza. Nonostante sia un fatto appurato che archeologia e linguistica utilizzano mezzi diversi e hanno scopi diversi, esiste sempre chi intende con prepotenza affermare il primato dell'archeologia, giungendo a conclusioni indebite quanto ridicole. 

Gli esempi concreti che si possono fare sono innumerevoli. Gli Aquitani appartenevano alla Cultura di La Tène, che era di origine celtica. Tutti i loro manufatti e utensili erano di fattura lateniana. Tuttavia noi sappiamo per certo che gli Aquitani parlavano una lingua assai simile a una forma ancestrale di basco, e per nessuna ragione questa può essere classificata come lingua celtica. Allo stesso modo possiamo dire che gli Illiri furono profondamente influenzati dalla Cultura di La Tène, anche se la loro lingua, per quanto fosse sicuramente indoeuropea, non era certo celtica. La somiglianza della cultura materiale di diversi popoli non implica l'identità delle loro lingue. Non sequitur. Questo perché una cultura materiale viene adottata più facilmente di una lingua: una popolazione è restia ad abbandonare l'idioma dei propri padri, mentre è quasi sempre propensa a riconoscere la superiorità di una tecnologia e ad adottarla prontamente. In genere sono prese a prestito le parole necessarie a descrivere le innovazioni, ma il lessico di base e la struttura grammaticale oppongono nel breve periodo una certa resistenza al cambiamento. Sappiamo che gli Americani costruiscono palazzi e stadi proprio nello stesso modo degli Italiani, dei Tedeschi, degli Ungheresi, degli Iraniani e dei Giapponesi, ma le rispettive lingue sono realtà distinte, la loro differenziazione non è assolutamente sovrapponibile all'evoluzione della cultura materiale di questi popoli. Renfrew utilizza il Rasoio di Occam con estrema facilità, e questo suo uso abusivo rade ogni complessità. Così lo definisco nemico della Scienza. Tutti coloro che hanno un minimo di buonsenso dovrebbero rivoltarsi contro la stoltezza delle sue vane teorie. Invece si nota che ci sono pochissimi oppositori, mentre i partigiani di tali assurdità sono numerosi e non esistano ad assumere comportamenti molesti nel tentativo di imporsi con tecniche trollose. Alcuni sono anche più estremi, arrivando addirittura a proiettare le lingue indoeuropee nell'Europa del Paleolitico.   

Strategie dialettiche aggressive dei partigiani delle teorie pseudoscientifiche di Renfrew e simili:  

1) Prima tecnica negazionista: stabiliscono in modo dogmatico l'inesistenza dei sostrati non indoeuropei; 

2) Seconda tecnica negazionista: accusano chi si oppone alle loro teorie di non portare prove;   

3) Tecnica dello sfinimento: non stanno ad ascoltare le argomentazioni altrui e ripropongono le stesse idee fisse o commentano con frasi ironiche per far saltare i nervi.

4) Tecnica del maiale e della colomba: accusano di dogmatismo coloro che si oppongono alle loro idee dogmatiche, in modo da gettargli addosso discredito.  

Come reagire: 

1) Rifiutare di fare il gioco dei troll e di perdere tempo a parlare con loro;

2) Smontare i loro spropositi usando i Principi della Logica, pubblicando le confutazioni sul proprio blog. 

3) Esporre alla gogna del ridicolo ogni loro assurdità. 

sabato 24 gennaio 2015


IL MISTERO DELLA TOMBA DEI CARONTI

I fautori della scuola indoeuropeizzante - che attribuisce ai numerali etruschi huθ e śa il valore di "quattro" e "sei" rispettivamente - usano proporre come prova risolutiva delle loro tesi un affresco sepolcrale che mostra due porte dipinte su due pareti di una tomba, ciascuna con due figure di Caronte. Per questo la tomba, che si trova nella necropoli di Monterozzi (Tarquinia) è chiamata Tomba dei Caronti. Risale al III o al II secolo a.C., in una fase di decadenza della civiltà etrusca.

Questa è la descrizione delle figure, tratta da
http://www.futouring.com/

"Quello di destra ha i capelli a serpente ed è armato di martello, mentre l’altro ha un copricapo alato ed un grande martello. Sulla parete di fondo lo schema è analogo: ai lati di una finta porta resa accuratamente, sono raffigurati due esseri mostruosi dal corpo blu e con ali rosse: quello di destra indossa una tunica rossa ed è armato di martello e spada, mentre quello a sinistra veste una tunica blu ed è armato di ascia."

Veniamo alla parte che a noi più interessa. Sopra la figura di ognuno di questi demoni è posta un'iscrizione. Una riporta ΧARUN [P]U[F]E - secondo altri [L]U[F]E (SE 30 p290 10), un'altra ha soltanto ΧARUN (SE 30 p291 11), un'altra ancora mostra ΧARUN ΧUNΧULIS (SE 30 p291 12, aka TLE 884) e l'ultima ha ΧARUN HUΘS (SE 30 p293 13, aka TLE 885). 

Per questo motivo c'è chi si è affrettato a tradurre Χarun Huθs con "Il Quarto Caronte". A parte il fatto che le figure non sono numerate, in lingua etrusca huths non potrebbe mai significare "quarto". Se anche si attribuisse infatti a huθ il significato di "quattro" - come fa la scuola indoeuropeista - l'ordinale "quarto" sarebbe huθs-na, mentre huθ-s significherebbe piuttosto "dei quattro". Così ecco la traduzione "Caronte dei Quattro", di cui è stata proposta l'interpretazione "Caronte dei Quattro <Caronti>". Questo però è privo di logica. Non esiste nulla che lasci pensare che Χarun Huθs sia prominente rispetto ai restanti tre Caronti, né che abbia rispetto ad essi una superiorità gerarchica. Se così fosse, dovrebbe dirsi invece "Caronte dei Tre", perché tale demone non potrebbe mai essere anche Caronte di se stesso. È evidente che qualcosa non torna, e che tutte queste proposte sono superficiali.

Nel tentativo di spiegare la connessione con il numerale, si potrebbe pensare che la figura di Χarun Huθs abbia a che fare con i morbi. Ognuno dei quattro Caronti potrebbe essere connesso a un particolare tipo di morte. La morte tramite il fuoco, la morte violenta, la morte tramite l'acqua e la morte di malattia. Si potrebbe allora ipotizzare che i sapienti Rasna distinguessero sei tipi diversi di morbi, e che quindi il Caronte che presiedeva alla morte per malattia fosse chiamato "Caronte dei Sei", sottointendendo "Morbi". Anche questa ipotesi è tuttavia di una fragilità logica molto spinta, perché implicherebbe un termine sottointeso, cosa che non è molto in sintonia con la mentalità etrusca. Ridicola è la proposta di interpretare il teonimo come "Caronte Numero Sei", come se fosse il nome di un profumo.  

Arrivo dunque alla conclusione che Huθs sia una parola che niente ha a che vedere con il numerale huθ "sei". Penso che siamo di fronte a una coincidenza fortuita. Il termine in questione rimanderebbe così a una diversa forma soggiacente, con significato del tutto dissimile. L'ipotesi non è poi così peregrina: l'ortografia etrusca aveva limitate capacità di esprimere i suoni, ed è ben possibile che nascondesse qualche dettaglio importante, come ad esempio la lunghezza della vocale tonica. A dire il vero, già Georgiev aveva pensato a questa possibilità, avvicinando il termine etrusco all'ittita ḫūd- "essere rapido, pronto a colpire".

Si può dimostrare che l'etrusco non è una lingua anatolica come l'ittita, ma presenta in ogni caso numerosi prestiti da tale fonte, come avrò modo di dimostrare in seguito. Così esistono due possibilità:

1) La radice huθ- "rapido, pronto a colpire" è un prestito anatolico, così come in inglese il termine voyage è un prestito dall'antico francese;
2) La radice ḫūd- "rapido, pronto a colpire" in ittita è un affioramento di un sostrato tirrenico: si tenga conto che le lingue anatoliche hanno un'imponente quantità di lessico la cui origine è ignota e non collegabile a un'origine indoeuropea.

Potremmo ipotizzare le seguenti forme soggiacenti:

/hud-/ "sei" : huθ
/hu:d-/ "rapido, pronto a colpire" : Huθs

L'epiteto Χunχulis mostra un suffisso -is che si trova anche altrove (netśvis "aruspice", etc.) e che potrebbe ben avere un significato agentivo. La forma è stata avvicinata all'ittita ḫulḫuliya- "lottare, combattere", con dissimilazione della prima -l- in -n-. Valgono gli stessi ragionamenti fatti per l'epiteto Huθs.

Per quanto riguarda Χarun [P]u[f]e, se la lettura fosse confermata, si potrebbe fare un interessante collegamento. In latino la parola popa indicava l'officiante del sacrificio cruento: era un uomo incaricato di abbattere con un maglio la vittima sacrificale. La parola in questione non ha origine indoeuropea: invano alcuni studiosi hanno pensato di connetterlo con popina "cucina", parola di origine osca derivata dalla stessa base del latino coquere "cuocere". Tuttavia il popa non cuoceva, ma colpiva con il maglio. Si riporta un'iscrizione su ossario che ha cure laru pufa (NRIE 260): Così ricostruisco senza dubbio pufa "abbattitore". In un'epoca più antica la parola etrusca doveva essere *pupa, quindi fu data in prestito al latino come popa, con -p- conservata. In seguito l'etrusco subì un'ulteriore evoluzione e la -p- mediana divenne l'affricata -f-, come riscontrato anche in altri casi. L'epiteto Pufe sarebbe quindi un derivato di pufa

Riassumiano quindi:

1) HUΘ- "essere rapido, pronto a colpire", donde HUΘ-S "rapido, pronto a colpire"

2) PUF- "abbattere", donde PUFA, PUFE "abbattitore"

3) ΧUNΧUL- "lottare, combattere", donde ΧUNΧUL-IS "lottatore" 

Tutto parrebbe molto logico.