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martedì 5 novembre 2019

SONIA TREMOLO

Scoprii di avere un morto in cantina mentre stavo effettuando lavori di sgombero a lungo rimandati. I tessuti erano prosciugati e rinsecchiti a tal punto che li si sarebbe detti di cartone. Emanava un puzzo tutto sommato contenuto, una via di mezzo tra la pelle di salame e la crosta di formaggio ammuffita. Telefonai subito a Danilo per chiedergli consiglio.
“Ti mando una mia conoscente. Sistema tutto lei.”
“E chi sarebbe?”
“Meno sai meglio stai. Le do il tuo numero, ciao.”
Attesi per un’ora circa, in preda a una discreta agitazione, sino a che squillò il cellulare.
“Via Dei Pini 174?”, chiese una voce femminile.
“Sì, esatto.”
“Sarò lì tra mezz’ora.”
“Quando è vicina mi faccia uno squillo, così scendo e le apro il cancello col telecomando.”
Mezz’ora dopo una station wagon faceva retromarcia nel garage sotterraneo del palazzo, posizionandosi vicino all’ingresso della mia cantina. Ne scese una quarantenne dai capelli neri con indosso un impermeabile scuro.
Il viso, benché attraente, aveva tratti duri e lo sguardo trasmetteva una certa inquietudine.
Aprì il portellone del bagagliaio e mi si parò di fronte.
“Beh? Dov’è il reperto?”
“Mi segua.”
La sconosciuta indossò una mascherina e guanti da chirurgo.
Entrati, le mostrai il cadavere, appoggiato in un angolo tra la parete e un vecchio armadio tarlato.
 “Bella mummia. Sicuro di volersene privare?”
“Non saprei che farmene.”
“Com’è che si è accorto solo ora della sua presenza?”
“Prima c’era un bordello incredibile. Abito qui da pochi mesi, i precedenti inquilini hanno lasciato una montagna di cianfrusaglie.”
 “E un cadavere. Lo avvolga ben bene in un tappeto e me lo carichi in macchina. Stia attento nel muoverlo.”
Dopo aver steso un vecchio tappeto sul pavimento della cantina, vi adagiai la mummia, la avvolsi e la collocai nel bagagliaio. 
“Quanto le devo per il suo disturbo?”
“Niente.”
“Come niente?”
“Se dico niente è niente.”
“Mi permetta almeno di pagarle le spese della benzina.”
“Un favore si ricambia con un favore. La aspetto domani a casa mia.”
“Va bene.”
Mi porse un biglietto da visita.

Sonia Tremolo
Tassidermista
Via Allan Kardec, 40

“Alle 23 esatte.”
“Ci sarò”, dissi.
“Arrivederci. Chiuda il portellone .”
Salì in macchina e partì.
Inviai un messaggio a Danilo per avvertirlo che la questione era risolta.

L’indomani mattina mi recai a far colazione al Caffè del Moro. Seduto da solo a un tavolino, vidi il mio insegnante di religione delle superiori. Gli rivolsi un cenno di saluto.
“Buongiorno don.”
“Carissimo, quanto tempo.”
“Come sta?”
“Diciamo bene, compatibilmente con l’età. E tu? Ti interessi ancora di spiritismo?”
“Non più.”
“Bravo, sta’ lontano da quelle cose. Te la ricordi quella medium, come si chiamava… Vanessa Ley.”
“Sì, me la ricordo.”
“E’ deceduta, lo sapevi?”
“No, non ne avevo idea.”
“L’hanno trovata morta in casa, a Ivrea. Viveva sola, con una torma di gatti. Quando l’hanno ritrovata, le avevano completamente scarnificato la faccia.”
“Accipicchia.”
“Avevano fame, povere bestiole.”
Rientrando a casa mi soffermai nei pressi dell’edicola. La locandina del quotidiano locale titolava: “Orrore in Oltrepò: uccide la moglie e ne divora i resti”. Era, credo, il primo caso di un delitto in famiglia sfociato in atti di cannibalismo.  Incuriosito, acquistai una copia del giornale e mi sedetti a leggerlo su una panchina poco distante.
Il cannibale era un pensionato, residente in una sperduta frazione collinare dalle parti di Broni. Dopo aver accoppato la moglie l’aveva macellata riponendo poi le “porzioni” nel congelatore. Si era tradito allorché, a una domanda dei vicini in merito allo stato di salute della moglie, aveva risposto “L’avevo sempre giudicata una donna acida ma devo ammettere che, con una spruzzatina di vino bianco, le sue costolette sono deliziose”.
Benché fosse una giornata di sole, l’aria era frizzante. Mi alzai e mi diressi verso casa. Sul marciapiede dinanzi all’ingresso del mio condominio giaceva una colossale torta di escrementi. I casi erano due: o l’aveva deposta un alano portato a spasso da un padrone sconsiderato, oppure un teppista si era divertito a defecare proprio lì, vicino al cancello.
Risuonò un grido: “Ha visto che schifo? E’ una vergogna. Stavolta i vigili mi sentono!”.
Era la signora Santina che sbraitava dalla finestra.
Schivai il cumulo di feci ed entrai. Sulla soglia di casa mi squillò il cellulare.
“Può venire ora?”
Era lei, Sonia.
“Come, adesso?”
“Sì, stasera non posso. Un imprevisto.”
“Va bene, mi dia una mezzoretta.”
“A dopo.”
Salii pensieroso le scale.
“Che vorrà da me? Ormai non posso più tirarmi indietro.”

Via Allan Kardec è una strada periferica alberata su cui si affacciano villette signorili, alcune di recente costruzione. Quella al numero 40 aveva un aspetto incredibilmente decadente: una dimora da film horror. Il giardino, invece, appariva ben curato. Scesi dalla bicicletta e suonai il campanello. Mi fu subito aperto. Percorsi i pochi metri che separavano il cancello dalla veranda bussai alla porta una, due, tre volte. Nessuno rispose. Chiamai la signora al cellulare.
“Arrivo subito.”
Nell’attesa, mi sedetti sulla panchina in veranda. Mentre me ne stavo lì ad osservare le aiuole fiorite, un bel gattone dal mantello screziato sbucò da dietro l’angolo e venne a strusciarsi sulle mie gambe.
La padrona di casa giunse finalmente ad aprire. Indossava una vestaglia in raso, nera, chiusa da una cintura.
“Grazie per essere venuto. Entri.”
Io e il gatto la seguimmo dentro casa.
Fatti pochi metri in un corridoio dalle pareti color malva, entrammo in una sala elegantemente arredata.
“Si sieda. Posso offrirle una bella tisana? E’ un infuso di mia preparazione, a base di ribes e rosa canina. Le piacerà.”
“Va bene, grazie.”
Presi posto su una poltrona e il gatto mi si accoccolò in grembo.
La sua padrona tornò reggendo un vassoio con due tazze e dei pasticcini.
“Si serva pure. Le piacciono i dolci alle mandorle?”
“Molto.”

“Immagino vorrà sapere perché l’ho convocata.”
“Effettivamente.”
“Prenda l’album sul tavolino di fronte a lei. Lo sfogli.”
L’album conteneva una serie di fotografie.
Alcune ritraevano Sonia in compagnia di un tipo dall’aria spavalda.
“Quello è mio marito”, disse, “O per meglio dire lo era.”
“E’ morto?”
“Sì. Conservo il suo cadavere nel mio laboratorio, da basso. Vuole che glielo mostri?”
“No no, non si disturbi. Magari un’altra volta.”
“Lo ha osservato bene in viso? Saprebbe riconoscerlo?”
“Sì, certo.”
“Guardi le foto successive.”
Dopo svariati ritratti fotografici del marito, apparvero alcuni scatti che mostravano una donna coi capelli rossi a caschetto.
“La mia ex migliore amica e assistente, Grazia Ferretti. Lei dovrà introdursi in casa sua e restituirmi ciò che quell’ingrata mi ha sottratto.”
“Sarebbe a dire?”
“La testa di mio marito Alberto.”
Trasecolai.
“La testa? Ma se mi ha detto poco fa che ne ha conservato il cadavere!”
“Dopo la morte l’ho decapitato. Volevo dedicare alla sua testa una cura particolare, capisce? Aveva una gran bella testa, mio marito.”
“Di cosa è morto, esattamente?”
“Overdose.”
“Si drogava?”
“Ma quale droga! Overdose di allopurinolo, un farmaco contro la gotta.”
“E io come faccio a entrare in casa della sua amica?”
“Ex amica. Semplice: deve rimediare un invito.”
“Ma se non la conosco nemmeno!”
“La conosca. Cominci col chiederle l’amicizia su Facebook.  Grazia è appassionata d’arte contemporanea e la settimana prossima ci sarà un vernissage di Sarfatti, il famoso pittore. Lo conosce?”
“No.”
“A questo si può rimediare. In ogni caso, le suggerisco di cogliere al balzo l’occasione della mostra per incontrarla.”
“Ammettiamo, in via del tutto ipotetica, che mi inviti a casa sua: se non so dove tiene la testa come faccio a prenderla?”
“Vive in un appartamento, mica nella reggia di Versailles.”
“Ha un garage?”
“Sì.”
“E se l’avesse nascosta lì?”
“Lo escludo nel modo più categorico. Sono sicura che la tiene in casa. Erano amanti, vorrà averla vicino a sé.”
“Scusi ma la testa dove sta, materialmente?”
“In un contenitore di vetro, immersa in una soluzione acquosa di formaldeide. ”
“E dove la infilo, in un trolley?”
“Bravo, finalmente una buona idea.”
“E secondo lei quella non si insospettisce a vedermi arrivare con un trolley?”
“Che motivo avrebbe d’insospettirsi? Lei dica che dovrà poi recarsi in stazione.”
“Non riuscirò mai a impadronirmi della testa senza che mi scopra.”
“Se la porti a letto.”
“La testa?”
“No, Grazia! E quando si è addormentata…”
Sonia si alzò, aprì il mobile alle sue spalle e ne tirò fuori una scatola.
“Sostituirà la testa di mio marito con questa copia in cera.”
La scatola conteneva una perfetta riproduzione della testa del defunto.
“Dunque, mi faccia capire: tolgo la testa di Alberto dalla boccia di vetro e la ripongo in quest’altra, prendo la testa finta e la metto al posto di quella vera.”
“Stia attento a non fare confusione però!”
“Beh ma non saranno mica del tutto uguali.”
“Certo che no ma sa com’è, l’emozione può giocare brutti scherzi.”
“La sta facendo troppo facile. Grazia viene a letto con me e poi cade in un sonno tanto profondo da non accorgersi che sto trafficando in salotto con la testa del suo ex amante?”
“Non è necessario che venga a letto con lei: è sufficiente che lei la narcotizzi.”
“In che modo?”
 “Le darò tutto l’occorrente, non si preoccupi. Basterà che  versi nel suo bicchiere qualche goccia del mio elisir e la stronza si addormenterà come un angioletto.”
“Ragioniamo: quella si sveglia intontita a distanza di ore e secondo lei non s’insospettisce?”
“Sospetti ciò che vuole.”
“Eh no! Ci devo entrare io, in quella casa, non voglio guai.”
“Si faccia trovare in casa al suo risveglio e non sospetterà nulla.”
“Se dorme dodici ore di fila?”
“Non accadrà: cinque gocce del mio preparato la faranno assopire. Dopo un pisolino di un’oretta o due, si sveglierà. Lei avrà tutto il tempo di sistemare la faccenda della testa senza che Grazia si accorga di nulla.”
“Non sarà così immediato rimediare un invito.”
“Sono certa che ci riuscirà.”

Non essendo un esperto di arte contemporanea, appena tornato a casa mi documentai su Sarfatti tramite Internet. Sbirciai la pagina Facebook della tizia: stranamente, non vi trovai selfie ammiccanti. Era tutto un susseguirsi di dipinti astratti, foto in bianco e nero di impianti industriali dismessi. Una bella donna che non amava apparire: cosa alquanto insolita. Le inviai una richiesta d’amicizia e seguitai a curiosare sulla sua bacheca.
Stavo per staccarmi dal pc quando vidi lampeggiare una notifica. Aveva accettato. Le inviai un messaggio tramite Messenger:
“Grazie e buona giornata.”
La risposta non tardò ad arrivare.
“Se mi mandi una foto del tuo cazzo ti cancello all’istante. Sono stufa di ricevere cazzi.”
Mi misi a ridere a crepapelle.
La signora pareva non prestare troppa attenzione al significato delle proprie affermazioni.
“Le assicuro che non è mia intenzione. Ho visto la sua pagina, mi sono piaciute le immagini che ha pubblicato. Tutto qui.”
“Ah, bene. Possiamo anche darci del tu, non ho mica ottant’anni. Ti interessi di arte? Dalla tua pagina non sembrerebbe. Vedo più che altro link musicali.”
“Amo la musica ma anche la pittura e la fotografia.”
“Chi ama troppe cose non ne ama seriamente nessuna.”
“Mica vero: a me ad esempio piace il risotto con i funghi. Amo seriamente il riso e i funghi.”
Un emoji sorridente comparve ad indicare un’attenuazione del gelo.
“Ti piacciono i gruppi prog italiani anni Settanta?”
“Sì.”
“Piacciono anche a me.”
“Davvero?”
“Sì. E’ per questo che ho accettato la tua richiesta.”
“Allora abbiamo qualcosa in comune.”
“Quello e il risotto ai funghi.”
La temperatura di scioglimento dei ghiacci poteva dirsi raggiunta.
La salutai augurandole buon pranzo.

“Dio Gianni!”, l’imprecazione del portiere risuonò come un tuono nell’androne del palazzo, “Chi è il bastardo che viene a cagare sempre davanti al cancello? Se lo becco giuro che lo inculo col manico del badile!”
“Sandro, ci risiamo?”
“Sì, e come se non bastasse la merda che mi tocca raschiare dal marciapiede, devo sorbirmi pure le menate della sciura Santina che mi lisa i coglioni, come se fossi stato io a cagare qua davanti!”
“Senza una telecamera ‘sta storia non finisce più.”
“Non serve la telecamera: ci penso io, vedrà! Prima o  poi lo becco e lo sdereno!”
Notai con sgomento che, nel pronunciare queste parole, il portiere era in preda a una vistosa erezione. Mi allontanai in fretta.

“Faccio saltuariamente uso di eroina. La cosa ti disturba?”
Gli occhi verdi di Grazia mi fissavano con un’intensità difficile da sostenere.
“Per niente”, risposi.
“Meglio così.”
Sedevo nella saletta del suo appartamento da neanche un quarto d’ora ed eravamo già a questo punto. Avevo spuntato un invito a casa sua senza passare per l’inaugurazione, cosa di cui ero felicissimo, visto che di Sarfatti non mi importava un accidente.
“Tu fai uso di sostanze?”
“No.”
“Bevi?”
“Non granché. Soffro di bruciori di stomaco e devo moderarmi.”
“Un perfettino, insomma.”
“Non direi proprio.”
“E dov’è che vai di bello in treno?”
“A Bordighera.”
“A far che?”
“Mi ha invitato un amico.”
“Quindi sei omosessuale.”
La guardai sbigottito.
“Veramente no. Ma poi perché, scusa?”
“Riassumiamo: hai cinquant’anni, sei scapolo e non ti sei mai sposato, vai al mare a casa di un amico, quindi sei gay.”
“Ma è una conclusione del tutto arbitraria!”
“Mica tanto, mi sono limitata a constatare i fatti.”
“Non sono gay.”
“Va bene, come preferisci. Senti, io vado a fare una doccia, tu mettiti pure comodo, fa’ come se fossi a casa tua, basta che non ti masturbi sul divano.”
Stavo per mandarla a cagare ma mi trattenni: avevo una missione da compiere e questa storia della doccia cadeva a puntino.
Non appena si tolse di torno mi misi a perlustrare l’appartamento: con mia sorpresa la testa stava in un’anta dell’armadio in saletta! Sono sempre stato un imbranato totale, eppure in quell’occasione riuscii a stupire me stesso: effettuai la sostituzione con precisione e sveltezza.
Grazia riapparve dopo una decina di minuti, indossando un accappatoio verde.
“Scusa ma mi sono ricordata che ho un impegno alle cinque.”
“Nessun problema. Tanti saluti.”
Le rivolsi un sorriso che avrebbe destato invidia in Giuda Iscariota, strinsi saldamente le maniglie del trolley e mi tolsi di torno. Una volta per strada mi misi a fischiettare.
Fermai un taxi: dieci minuti dopo ero a casa.
La chiamata di Sonia non si fece attendere.
“Allora?”
“Sistemato.”
“Davvero?”
“Certo.”
“Grande. Ti posso raggiungere?”
“Ok.”

Quando scese dall’automobile, credetti di vedere l’assassina del film Profondo rosso: stesso abbigliamento, stesso taglio di capelli. Solo più giovane di Clara Calamai.
“Come ci sei riuscito?”
“E’ stato più semplice del previsto. Davvero non credevo che me la sarei cavata così in fretta e così facilmente.”
“E lei che impressione ti ha fatto?”
“Lasciamo perdere che è meglio. Solo mi domando: e se si accorge della sostituzione?”
“Lo escludo: ho fatto un lavoro sopraffino. Piuttosto, sa dove abiti?”
“No.”
“L’hai cancellata dai tuoi contatti?”
“Sì sì, bloccata su Facebook, Messenger, Whatsapp. Non mi becca più.”
“Sono in debito con te. D’ora in avanti, se tu dovessi avere problemi – che so io, un cadavere da occultare o roba del genere – non esitare a chiamarmi.”
“Spero di non trovare altre mummie in cantina!”
“Non mi riferivo a quello. Intendevo dire: se tu avessi necessità di smaltire un cadavere a seguito di un diverbio…”
“Ahhh… No, non penso, comunque grazie.”
“Non si può mai dire, credimi. Ad esempio, tu sei una persona pacata, un uomo tranquillo, eppure ti sei introdotto nella casa di una sconosciuta e le hai sottratto un ‘oggetto’. Non si può escludere che, un domani, tu commetta un omicidio.”
“Ma non penso proprio!”
“Nel caso, sappi che io posso fornirti il nécessaire.”
“Tipo?”
“Veleno, armi…”
“Addirittura?”
“Certo. Ma soprattutto, ti ripeto, io so come far sparire un cadavere."
“Ti ringrazio, spero comunque di non aver mai bisogno.”
“Senti, io mi riprendo la testa di mio marito e me ne torno a casa. Allora, ricordati: in caso di necessità, non esitare.”
“Va bene.”
Dopo che se ne fu andata, mi versai un bicchiere di whisky e mi misi a riflettere sulla sua proposta. In effetti, qualcuno c’era che avrei fatto fuori volentieri. All’occorrenza.

Pietro Ferrari, novembre 2019

venerdì 1 novembre 2019

“RIPULITE LA ZONA”

Quante volte avevo ricevuto quell’ordine? Non c’era alcun bisogno di chiedere ulteriori istruzioni, ripulire la zona significava una cosa soltanto: liquidare chiunque vi avessimo incontrato.
Personalmente lo trovavo disgustoso ma sapevo che la mia presenza sarebbe valsa ad evitare inutili eccessi. Altre unità si erano abbandonate a gesti indegni di uomini in divisa: anziani invalidi gettati vivi nei fienili in fiamme, adolescenti stuprate, neonati scagliati in aria e usati come bersagli per il tiro al piattello. Nulla di tutto ciò poteva e doveva essere attribuito al mio reparto. Le atrocità si verificano laddove alla guida dei soldati vi sia un ufficiale debole, privo di polso, oppure un degenerato, un sadico. Non era questo il mio caso. Presenziavo alle esecuzioni ed esigevo che, nel dare la morte, non si trascendessero mai i limiti imposti dalla più ferrea disciplina militare. Quel giorno avremmo dovuto rastrellare un’area piuttosto estesa, “eliminando tutte le presenze ostili e i loro fiancheggiatori”. In sintesi: l’ennesima missione di sterminio.
Avevo imparato un poco di italiano e a volte me ne servivo, più che altro con le donne. La cosa peggiore era incrociare gli sguardi delle madri coi figli accanto. Molte imploravano pietà e io non potevo far altro che dir loro: “Finirà presto, signora, non si preoccupi”. Un’incombenza estremamente penosa. Mi capitava di rivedere in sogno quei volti disperati e di udire, di nuovo, i pianti dei bambini.
Non permettevo a nessuno dei miei uomini di ubriacarsi, prima e durante le azioni. So però che molti al campo bevevano sino a stordirsi, al ritorno dalle operazioni.
Non mi facevo illusioni sulle sorti del conflitto: le stavamo buscando su tutti i fronti, una batosta dietro l’altra. La guerra era perduta, tuttavia il giuramento di fedeltà al Führer ci costringeva all’obbedienza.
Così, quel giorno, ci disponemmo a compiere il nostro ingrato dovere di assassini.
Avanzammo nell’erba alta, lungo le pendici della collina, alle prime luci dell’alba. Il paesaggio era immerso in un silenzio irreale. Ci addentrammo in un bosco di castagni. Dopo un quarto d’ora di marcia intravidi un pennacchio di fumo in lontananza.
Il sergente mi rivolse un’occhiata interrogativa.
Scorgemmo un cascinale in fiamme.
Qualcuno doveva averci preceduti, ma chi?
Ci avvicinammo guardinghi all’edificio. Sull’aia giacevano distesi dei cadaveri: corpi carbonizzati, irriconoscibili.
Qualcosa non quadrava.
Trasmisi la notizia via radio al comando e ricevetti la conferma di quanto già sapevo: eravamo la prima unità a metter piede da quelle parti.
“Sono stati i partigiani?” chiese il sergente.
“Lo escludo.”
“Un attacco aereo?”
“Ha visto incrociare aerei da queste parti nelle ultime ore? Io no.”
 “E allora se non sono stati i nostri, né i partigiani né gli alleati… chi ha fatto questo?”
“Credo che lo scopriremo presto.”
Proseguimmo nella ricognizione, il dito sul grilletto, pronti a ingaggiare battaglia.
Superato il crinale ci apparve uno spettacolo sconvolgente: le pendici e la vallata limitrofa erano interamente ricoperte da una distesa di cenere finissima. Non una pianta, neppure il moncone di un tronco, né un muro di mattoni sbrecciato, nulla: solo e soltanto cenere grigia, a perdita d’occhio.
Eppure nessun bombardamento incendiario aveva avuto luogo nella zona.
Cercai di avvertire il comando ma la radio improvvisamente non volle saperne di funzionare.
“Ritiriamoci”, dissi ai miei uomini, “Proseguire non avrebbe senso: non è rimasto niente e inoltre saremmo facili bersagli per gli Jabos su un simile terreno.”
Facemmo dietrofront e passammo, di nuovo, accanto alla cascina ridotta ormai a un cumulo di macerie annerite.
Prima di inoltrarci nel bosco ordinai agli uomini di muoversi con la massima cautela. Procedemmo con le armi spianate, trattenendo quasi il respiro.
A un tratto si udì un boato, e gli uomini in testa alla colonna furono avvolti da un’enorme fiammata scaturita dal suolo. Ci gettammo a terra, le armi crepitarono rovesciando nugoli di proiettili fra gli alberi.
Poi il terreno prese a sussultarci sotto i piedi.
Ci mettemmo a correre. Una seconda scossa sismica, più violenta della prima, ci fece cadere come birilli. Udii urla di terrore alle mie spalle, mi voltai e vidi che un’intera sezione del bosco si stava sollevando. Si era aperta nel suolo un’ampia fenditura, lunga centinaia di metri, e parecchi dei miei uomini ne furono inghiottiti.
I superstiti si diedero a correre a gambe levate verso valle. Li seguii insieme al sergente.
Rientrammo trafelati alla base. Dalle colline, avvolte da una spessa cappa di fumo color ocra, giungeva un cupo brontolio.
Fatto l’appello,  constatai che gli effettivi del reparto si erano ridotti della metà.
Non so come, riuscii a mettermi in contatto radio col comando della divisione.
Il generale in persona mi investì con una richiesta perentoria.
“Mi vuol dire cosa diavolo è successo, Kruger?”
“La zona ha ripulito noi.”

Pietro Ferrari, ottobre 2019

giovedì 25 luglio 2019


THE CHIMP

Anno: 1932
Regia:
James Parrott 
Produzione: Hal Roach 
Sceneggiatura: Harley M. Walker
Distribuzione: Metro-Goldwin-Mayer
Dialoghi: Harley M. Walker
Fonico: Elmer Raguse
Durata: 25 min 13 sec
Genere: Comico
Interpreti e personaggi:  
  Stan Laurel e Oliver Hardy, nei panni di sé stessi;
  Charles Gemora (la gorilla Ethel);
  Tiny Sandford (Destructo, il forzuto del circo);
  Jimmy Finlayson (presentatore dei numeri circensi);
  Billy Gilbert (proprietario della pensione);
  Dorothy Granger (Ethel, moglie del proprietario);
  Bobby Burns (pensionante).
Titolo in italiano: Il circo è fallito 

Comicità anarchica 

I copioni dei cortometraggi prodotti da Hal Roach, aventi per protagonisti Laurel e Hardy, subivano aggiustamenti e modifiche durante le riprese. Una cosa tutto sommato naturale e niente affatto rara nel mondo del cinema. Secondo quanto si legge in Laurel and Hardy: The Magic Behind the Movies, di Randy Skretvedt (Bonaventure Press, 2019), ciò accadeva spesso allorché si trattava di testi scritti da Harley M. Walker, accreditato come autore dei dialoghi di “The Chimp”.
L’espressione che meglio si presta a descrivere questo cortometraggio è “comicità anarchica”.
Non vi è traccia alcuna della melassa profusa a piene mani da Charlie Chaplin in “The Circus” (1928): a regnare è il gusto per la sovversione dei ruoli e delle regole, in barba a tutti i canoni.
Per questo “The Chimp”, a quasi novant’anni dalla sua realizzazione, conserva una sorprendente freschezza, cosa che non si può certo dire di opere coeve o posteriori.
Nel cast si segnalano alcuni straordinari caratteristi presenti in altri cortometraggi di Hal Roach. Mi riferisco anzitutto a James Finlayson, l’attore calvo coi baffoni ben noto ai fan di Laurel e Hardy.
Nel ruolo del proprietario della pensione troviamo il bravissimo Billy Gilbert, che molti di voi ricorderanno nei panni del medico ospedaliero in “County Hospital” (1932). Merita una menzione anche Stanley J. "Tiny" Sandford nella parte del forzuto del circo (nel 1933 lo ritroveremo sul set di “Busy Bodies”).
Straordinaria l’interpretazione della gorilla Ethel da parte di Carlos Cruz “Charles” Gemora. Era, questi, un immigrato filippino di piccola statura dalle spiccate doti artistiche. Trovò lavoro come scultore e truccatore a Hollywood e, in seguito, come attore, sempre indossando un costume da gorilla.
In questo ruolo ebbe modo di recitare accanto a Lon Chaney in “The Unholy Tree”, di Jack Conway (1930); Bela Lugosi in “Murders of the Rue Norgue”, di Robert Florey (1932); i Fratelli Marx in “At the Circus”, di Edward Buzzell (1939); Robert Mitchum in “White Witch Doctor”, di Henry Hathaway (1953). 

Pietro Ferrari


Trama: 
Stan e Oliver lavorano presso un circo equestre come inservienti. A causa della loro proverbiale inettitudine provocano il crollo del tendone, facendo fallire il circo. L’impresario, a corto di quattrini, annuncia ai dipendenti che non potendo pagarli in denaro suddividerà fra loro i beni del circo. A ciascuno verrà assegnato ciò che saprà disegnare su un foglio. Oliver si ritrova così proprietario di Ethel, una simpatica e intelligentissima femmina di gorilla; Stan del “circo delle pulci”, una scatoletta piena di insetti molesti. Mentre Oliver tenta di fabbricare con delle assi una gabbia per Ethel, si materializza un leone che prende a inseguire il bizzarro terzetto. Dopo una lunga corsa per le vie della città, i fuggitivi giungono nei pressi di una pensione il cui proprietario, proprio in quel mentre, è in preda a una crisi di gelosia furiosa poiché la moglie, che di nome fa Ethel proprio come la gorilla, è andata chissà dove e tarda a tornare. Mentre Oliver si accinge a firmare il registro degli ospiti, piombano nella hall Stan e Ethel, terrorizzati dal riapparire del leone. Il proprietario dà in escandescenze e intima loro di uscire. A questo punto non resta ai due che ingegnarsi. Oliver entra in una rimessa, si spoglia e fa vestire Ethel con i propri pantaloni, la giacca e il cappello. Lui, a sua volta, indossa la gonna di tulle di Ethel (che è una provetta ballerina). A vestizione conclusa, Stan e la scimmia riescono a farsi ammettere alla pensione. Mentre Oliver attende un segnale dell’amico, vede ricomparire il leone. Urlando per il terrore riesce, non si sa bene come, a chiudere il felino nella rimessa. Stan si affaccia alla finestra e Oliver gli fa segno di lanciargli i propri abiti: l’imbranatissimo Stan lancia i pantaloni dritti su un filo steso poco più sotto. Nel tentativo di recuperarli, Stan e Ethel cadono entrambi addosso al povero Oliver. Dopo aver abbandonato Ethel nei pressi di un cassonetto, i due amici tornano alla pensione. Arrampicandosi per la grondaia, Ethel raggiunge la finestra della loro stanza e vi si introduce, andandosi poi stendere nello stesso letto dove dorme Oliver, cui schiocca un bacio sul collo. Questi lancia un urlo e scaccia la scimmia, dicendole di andare a coricarsi nello sgabuzzino. Ethel obbedisce, ma non senza aver sottratto a Oliver la coperta. A questi non rimane che coricarsi accanto a Stan. Dopo pochi istanti i due cominciano a grattarsi: Stan ha lasciato inavvertitamente aperta la scatola del “circo delle pulci”! Nel frattempo, in una stanza vicina, un anziano pensionante mette in funzione un grammofono. Nell’udire il motivo musicale, Ethel si mette a ballare trascinando con sé Stan nella danza. Oliver esorta ripetutamente Ethel a tornare a letto. Il proprietario della pensione, che ancora rimugina sopra il ritratto della moglie fedifraga, nell’udire le parole di Oliver crede che siano rivolte alla “sua” Ethel e, impugnata una pistola, si precipita verso la stanza dei due amici, intimando loro di aprire la porta. I due fanno appena in tempo a nascondere Ethel nel letto della stanza accanto, quand’ecco che il proprietario fa saltare la serratura con una pistolettata e irrompe nella stanza gridando “Dov’è lei?”. “Lei chi?” replica basito Oliver. “La mia Ethel!” Stan indica senza esitazioni la stanza accanto. Il proprietario, scorgendo una figura nascosta sotto le coperte, attacca una vera e propria filippica – il cui effetto comico è moltiplicato dalle espressioni stupefatte di Stan e Oliver. “Pensa a quello che mi hai fatto, tu, che porti il mio nome, tu, la madre dei miei figli! Tu che io amo più della vita stessa!” In quel preciso istante la moglie del proprietario, rientrata a casa con l’aria trionfante della moglie infedele reduce da un appuntamento con l’amante, fa il suo ingresso nella stanza attirata dal vociare del marito. Questi nel vederla esclama: “Ethel!”. La gorilla, sentendo pronunciare il proprio nome, esce da sotto le coperte. La Ethel depilata scappa in preda al terrore e il marito, per lo spavento, lascia cadere a terra la pistola gridando a Stan e Oliver di portar via la scimmia. Ethel, stanca di tutto quel baccano, afferra la pistola e si mette sparare una gragnuola colpi sul pavimento, facendo fuggire tutti quanti.


Pietro Ferrari 


Alcune considerazioni

Ricordo di aver visto questo filmato quando ero ancora allo stadio larvale! Ne rammento anche un altro, in cui Oliver finiva immerso in una piscina piena di un elisir ringiovanente, emergendone come uno scimpanzé: una splendida satira al darwinismo! Peccato che queste comiche siano sempre state associate alla più estrema superficialità, quando in realtà contengono fulgidi tesori.  

Una constatazione lapalissiana 

Il titolo originale del corto cozza in modo stridente con il fatto che Ethel, la scimmia protagonista, non è affatto uno scimpanzé (genere Pan), bensì un gorilla (genere Gorilla). La forma abbreviata chimp, derivata da chimpanzee, è documentata per la prima volta nel 1877. Il nome esteso chimpanzee è documentato in inglese già nella prima metà del XVIII secolo (1738) e deriva da una lingua Bantu del Congo o dell'Angola (cfr. Kikongo chimpenzi "scimmia") - anche se attualmente non risulta che l'ominide sia presente sul territorio dell'ex colonia portoghese. Come mai il cortometraggio mostra una simile confusione tra grosse scimmie? La risposta è abbastanza semplice: non ci si può aspettare che una persona di cultura anche media avesse, nella prima metà del XX secolo, l'acume e le conoscenze di un tassonomo. Non è poi escluso che la scelta abbia avuto una sua componente estetica: The Gorilla non sarebbe suonato bene come The Chimp.

venerdì 12 luglio 2019

SENTIERI VERSO IL NIRVANA

Sofia giaceva distesa sul divano con gli occhi sbarrati.
Dalle casse dello stereo si spargevano per la stanza le note di "Aurora" degli Helevorn.
La tivù, accesa a volume zero, trasmetteva scene di guerriglia urbana.
"Sistemiamo la questione una volta per tutte", disse ad alta voce. Si alzò, andò in bagno, si vestì e prese dal cassetto della scrivania la pistola che vi era custodita, una Glock 17, e tre caricatori.
Alle 8 e 30 esatte si introdusse nella sede della Fondazione. Colpi d’arma da fuoco e grida di terrore risuonarono poco dopo in tutto il palazzo. 

Danilo mi telefonò all’una di notte. Ero sveglio e in balia dei consueti bruciori di stomaco, così risposi subito.
"Puoi raggiungermi?"
"Dove sei?"
"Al cinema" 
Era così che chiamava il piazzale del capannone dismesso situato a poca distanza dall’argine.
"Arrivo."
Sapendo dove si appostavano le pattuglie per i controlli, per evitare sorprese feci il giro largo . Dopo venti minuti ero sul posto. Imboccata la strada a fondo chiuso che conduceva al capannone, vidi la vettura di Danilo posteggiata accanto al muro di cinta. Accostai, scesi dall’auto e lo raggiunsi.
"Beh?"
"Ho un problema, anzi due."
Aprì il bagagliaio dell’auto e mi fece segno di guardare. All’interno c’erano due cadaveri. 
"Cos’hai combinato?"
"Abbiamo avuto una discussione."
"Animata, a quanto vedo. Chi erano?"
"Gente poco raccomandabile."
"E mo'?"
"Ho due badili sul sedile posteriore."
"Ma porca puttana. E dove la scaviamo la buca?"
"Tranquillo, qui dietro c’è un terreno incolto, non ci vede nessuno." 
"Grazie al cazzo."
"Dammi una mano a tirarli giù, dai."
"Gli hai tolto i documenti?"
"Ovvio." 
Fu una faticaccia d’inferno ma, stranamente, mi calmò il bruciore di stomaco. 

Rientrato a casa dopo tre ore, mi distesi a letto senza neppure svestirmi.
Mi svegliai a metà mattina e per prima cosa accesi il televisore.
Su tutti i canali non si faceva che parlare della strage alla Fondazione.
Riconobbi il viso di Sofia, "l’autrice del massacro", come la definì il giornalista.
Sofia… erano trascorsi dieci anni dall’ultima volta in cui l’avevo incontrata. Non sarebbe più accaduto: era stata abbattuta dalla polizia accorsa sul luogo dell’eccidio.
In meno di un’ora, Sofia era riuscita a far fuori venti persone.
Non male, per una ragazza che ricordavo timida e delicata. 

Pietro Ferrari, luglio 2019
DE CASU DIABOLI 

Dopo due giorni di autosegregazione, Anselmo si decise ad uscire di casa.
Era una tiepida giornata primaverile: il puzzo dei fanghi di depurazione sparsi sui campi toglieva il fiato. Un misto di odori molesti - escrementi umani e suini frammisti ad altre sozzure di ignota origine -, aleggiava sul territorio butterato dalle escavazioni, completamente spoglio di vegetazione.
Il sentiero che conduceva al torrente costeggiava un fosso in cui confluivano scarichi fognari. Ne esalavano lezzi nauseabondi. I campi erano letteralmente zuppi di liquami cloacali, ovunque si scorgevano pozze di putridume che il terreno non riusciva ad assorbire.
L'aria era letteralmente intrisa di merda.
Nei pressi di una casupola intravide un nugolo di bambini intenti a giocare a pallone. Somigliavano sinistramente ai nani del film di Cronenberg "La covata malefica". Giunto a poche decine di metri dal ponte, fu investito da una folata di aria rovente, seguita, poco dopo, dal fragore di una violentissima esplosione.
A occidente si levò una nuvola simile al fungo di un'esplosione atomica.
Dovevano essere esplose in simultanea svariate cisterne della vicina raffineria.
Mentre rientrava a casa, il cielo si venne via via oscurando. Un'enorme cappa di fumo si distese sulle campagne brulle e sull’abitato.
Ben presto fu tutto un risuonare di sirene di ambulanze e di mezzi dei vigili del fuoco. Immense lingue di fuoco si levavano all’orizzonte. E Anselmo sorrise. 

Pietro Ferrari, luglio 2019
UN INATTESO RITORNO 

Saranno state le sette di sera. Mi ero appena cambiato dopo essere tornato dal lavoro quando udii bussare alla porta.
Scostai le tende della finestra che dà sulla veranda e li vidi.
Erano in tre, talmente simili da risultare indistinguibili: alti un metro e sessanta, robusti.
Erano tre fantocci fecali, muniti di gambe e braccia e con una testa rudimentale. Benché la finestra fosse chiusa, fui investito da un pungente odore di escrementi. 
Venni colto dalle vertigini.
Stavo forse sognando?
No, erano proprio lì, dinanzi ai miei occhi, e non smettevano di bussare.
Mi accostai alla porta.
"Che volete? Chi siete?"
"Babbo! Siamo opera tua!"
"Che state dicendo? Io non vi conosco!"
"Come non ci conosci? Siamo usciti dal tuo buco del culo! Ci hai fabbricati tu, un poco alla volta, nel corso della tua esistenza."
In un istante compresi l'atroce verità: gli stronzi che avevo deposto in mezzo secolo si erano compattati, assumendo sembianze umane, ed ora si presentavano all'uscio di casa mia, in cerca di asilo!
"Andatevene, non vi voglio qui!"
"Non ce ne andremo."
"Chiamo la polizia!"
"Fai pure."
Mi attaccai al telefono.
"Polizia, aiuto!"
"Si calmi. Da dove chiama?"
"Dalla provincia di Pavia"
"Che succede?"
"Ci sono tre stronzi che vogliono entrare in casa mia!"
"Sono armati?"
"Non mi pare."
"Chi sono, esattamente?"
"Non lo so, non li ho mai visti prima!"
"Sono italiani?"
"Parlano italiano ma non so dirle se siano di qui."
"Senta, in questo momento le pattuglie sono tutte impegnate."
"E io che faccio?"
"Se la situazione degenera, richiami. Nel frattempo io allerto la pattuglia più vicina. Mi fornisca cortesemente il suo indirizzo."
Fornii il mio indirizzo.
I colpi alla porta proseguivano.
"Smettetela, stronzi!"
"Se non apri resteremo qui ad aspettare. Dovrai pur uscire, prima o poi."
"Adesso arriva la polizia!"
"Ne sei proprio sicuro?"
In quel preciso momento udii grida stridule provenire dal cortile della vicina.
Dunque non stava capitando solo a me?
"Siamo tornati! Non potrete più disfarvi di noi!" esclamarono in coro i tre fantocci.
Sbirciai nuovamente dalla finestra: gli stronzi stavano facendo il girotondo in veranda!
"Andate via! Non avete il diritto di insolentirmi!"
"Abbiamo tutto il diritto, invece. Sei stato tu ad averci prodotti, babbino."
"Non sono il vostro babbo!"
"E invece sì! Siamo il frutto delle tue interiora! Rivendichiamo le nostre prerogative!"
"Cosa vorreste che facessi? Che vi accogliessi in casa?"
"Ci sembra il minimo."
"Ma se puzzate da far schifo!"
"Non è certo colpa nostra, sei tu ad averci formati così."
"Basta! Non voglio più ascoltarvi, andate via!"
Mi rifugiai in saletta e accesi il televisore.
Il tiggì stava trasmettendo immagini riprese in piazza del Duomo a Milano: c'erano stronzi ovunque!
Era dunque quello il redde rationem?
La merda tornava a presentarci il conto?
Per troppo tempo ci eravamo cullati nell’illusione che le nostre feci fossero scomparse nel nulla, una volta tirato lo sciacquone del wc, ed ecco che ora l'erroneità di tale convinzione si manifestava in tutta la sua maleodorante evidenza.
Gli stronzi non si erano affatto dissolti come bolle di sapone, al contrario: si erano aggregati sino a formare quelli che, a tutti gli effetti, apparivano come manichini escrementizi animati.
Decisi di tentare il tutto per tutto: i tre stronzi presidiavano la porta sulla veranda? Avrei tentato la fuga dalla porta sul cortile.
Cercando di fare meno rumore possibile, tolsi il catenaccio e sbirciai fuori. Il cortile era sgombro.
Dalla strada però giungevano urla agghiaccianti. Aguzzai la vista.
Nei pressi del cancello, un gruppo di stronzi aveva circondato un passante che tentava disperatamente di respingerli mulinando le braccia. Fu sopraffatto: gli stronzi gli balzarono addosso, sommergendolo.
Richiusi la porta e tornai in saletta. Avrei atteso la notte, nella speranza che al calare delle tenebre gli assedianti si disperdessero. La suoneria del cellulare per poco non mi fece prendere un colpo. Risposi benché si trattasse di un numero sconosciuto. "Stiamo venendo a prenderti."
"Chi parla?"
"Siamo noi, babbino."
"Chi vi ha dato il mio numero, maledetti?"
"Siamo stati parte di te, ricordi? Ti conosciamo intimamente."
"Andate via!"
"Credevi di esserti liberato di noi? Ti sbagliavi. Ci hai estromessi dalla tua vita senza alcun riguardo, come se fossimo…"
"Siete soltanto degli stronzi!"
"Sì, siamo degli stronzi: i tuoi stronzi! E adesso ci ripagherai di tutto l’affetto che ci hai negato."
"Non vi devo nulla!"
"A presto babbino!" 


Pietro Ferrari, luglio 2019

giovedì 13 giugno 2019

LA MORTE NON BARA

“Quindi lei mi sta dicendo che mia moglie è un agente del Mukhabarat?”
“Questo è quanto.”
L’uomo seduto di fronte a me si prese la testa fra le mani.
“Fossi in lei non ne farei una tragedia.”
“Eh già, dopo dieci anni di matrimonio scopro che mia moglie lavora per i servizi segreti iracheni e secondo lei non dovrei fare una piega!”
“La prenda con filosofia.”
“Non dica sciocchezze!”
“Senta, lei ha due opzioni: fingere di non sapere e continuare la vita di sempre. Oppure dire a sua moglie che sa… e poi prendere un bel respiro.”
“Cosa intende dire?”
“Qual è il suo record di immersione in apnea?”
“Non capisco.”
“Mezz’ora sott’acqua resiste?”
“Certo che no.”
“E allora le suggerisco la prima opzione. Grazie per il whisky.”
Vuotai il bicchiere, gli lasciai il conto da pagare e me ne andai. Passando per viuzze laterali poco frequentate, tornai in agenzia. Ne avevo rilevato la proprietà dal mio ex principale, ammalatosi di sclerosi laterale amiotrofica. Livia, la segretaria, era passata alle mie dipendenze.
“Ho provato a chiamarla ma suonava a vuoto.”
Mi ricordai in quell’istante di aver silenziato il cellulare.
“Ci sono novità?”, chiesi.
Livia sorrise in modo enigmatico e indicò il monitor del pc. Mi avvicinai alla scrivania e diedi un’occhiata.
Sulla home page del Corriere spiccava un titolo: “Ucciso il rettore dell’Università di Pavia”.
Mi ci vollero alcuni istanti per riprendermi dallo sbigottimento.
L’articolo conteneva dettagli sconcertanti: il professor Alessio Frugoli era stato ritrovato cadavere in riva al Ticino, in zona Canarazzo, a pochi km dalla città. Sul suo corpo, evidenti segni di torture.
Chiamai subito Lello.
“Hai saputo?”
“Ho saputo.”
“Quando possiamo vederci?”
“Alle 15 in Piazza della Scala.
“Ok”.
Lello si era trasferito a Milano da un anno, in un bilocale situato in Viale Zara, ereditato da suo zio. Quando mi aveva parlato del trasloco credevo scherzasse. Invece era serissimo.
Arrivai in relativo orario. Lello mi aspettava davanti all’ingresso delle Gallerie d’Italia.
“Andiamo in un posto che so io”.
Lo seguii per un discreto tratto di strada. Zoppicava, segno che la sua artrite era andata peggiorando.
Si infilò in un bar che non conoscevo, salutò il proprietario e ordinò una bottiglia di bianco. Ci sedemmo a un tavolo d’angolo.
 “Vedrai che casino verrà fuori… stavolta non potranno nascondere la polvere sotto il tappeto.”
 “Secondo te perché lo hanno scaricato al Canarazzo?”
“Perché è fuori mano ma non troppo.”
 “Ho parlato con un amico al Forlanin:  chi ha torturato Frugoli si è accanito.”
“Volevano punirlo.”
“Probabile.”
“Non è probabile, è certo. Se lo hanno torturato è perché volevano vendicarsi e lasciare un messaggio. Ti ho mai detto che l’avevo conosciuto di persona?”
 “Davvero?”
“Ti stupisce?”
“No, ma non sapevo…”
“Ora lo sai.”
“In che occasione?”
“A Zurigo.”
“E che ci andava a fare a Zurigo, Frugoli?”
“Lugano è troppo frequentata dagli italiani, avrebbe corso il rischio di essere riconosciuto da qualcuno.”
“Stiamo parlando di?”
“Stiamo parlando di Bdsm. E non solo: Frugoli pippava come un formichiere e questo lo so con assoluta certezza perché l’ho visto coi miei occhi. Saliva da Pavia con un terzetto di compari. Un pastore protestante che frequentava l’ambiente li aveva soprannominati “i porci di Gerasa”, pensa un po’ te.”
“E chi erano gli altri?”
“Lanfetta, il suo assistente e il titolare della Ecogreen Costruzioni Bio, il grassone.”
“Lanfetta? Il docente di lingue protosemitiche?”
“Proprio lui.”
“Ma è una ripugnante cariatide!”
“E un formidabile sporcaccione. A Pavia basta che gratti un poco la patina di vernice bianca e la merda schizza sino al cielo.”
Si fermò per alcuni istanti a riflettere.
“Dimmi di più sulle torture.”
“Bastonature sulle piante dei piedi, tracce di bruciature su tutto il corpo, una quantità incredibile di tagli superficiali, piccole mutilazioni…”
“Lo hanno castigato di brutto.”
Squillò il mio cellulare. Era Livia.
“Indovini un po’.”
“Sarebbe?”
“E’ morto il professor Bongiovanni!”
Ammutolii.
“Mi ha sentito?”
“Sì. Come e quando?”
“Strangolato nel suo appartamento alla Minerva.”
Riagganciai.
“Lello, hanno ucciso il gran maestro Bongiovanni.”
Lello picchiò un tale pugno sul tavolo  da far tintinnare i bicchieri.
“Bingo!”
Un bip annunciò l’arrivo di un messaggio Whatsapp sul mio cellulare. Livia, ancora. Lo lessi ad alta voce:
“Segni di torture sul cadavere di Bongiovanni.”
“Lello, poche ore dopo aver scaricato al Canarazzo il cadavere del magnifico, entrano in casa del gran maestro e fanno la festa anche a lui… cosa diavolo sta succedendo?”
“A Pavia vien giù tutto, ecco cosa sta succedendo. Dammi qualche ora, voglio informarmi un po’ in giro.”
Accompagnai Lello alla più vicina fermata della metro.
“A Pavia tra poco ci saranno più agenti della Digos che sampietrini. Stai in campana, Marco.”

Posteggiai vicino al Castello Visconteo. Già che c’ero, feci un giro per i giardini, stranamente semideserti.
Il cellulare mi avvertì dell’arrivo di una mail. Nell’Oggetto si leggeva: “E se guarderai nell’abisso, l’abisso guarderà in te”. Allegato alla mail, un file video. Di norma non apro gli allegati quando si tratta di messaggi provenienti da sconosciuti ma in questo caso dovevo fare un’eccezione. Per forza.
Il filmato mostrava un uomo nudo, polsi e caviglie legati, sdraiato a pancia in giù a gambe divaricate su una specie di panca da palestra. Una figura femminile con indosso una tuta in latex gli ravanava nel culo con tutta quanta una mano. La videocamera si spostò sino a mostrare il volto dell’uomo legato alla panca. Benché avesse una pallina infilata in bocca non faticai a riconoscerlo. Era il magnifico rettore Alessio Frugoli.
Inoltrai la mail a Lello.
Il telefono squillò dieci minuti dopo.
“Ho visto il filmato.”
“Mi chiedo perché me l’abbiano spedito.”
“Ti hanno messo un’arma in mano. Se divulghi quelle immagini, sputtani il defunto e i suoi sodali.”
“E perché dovrei farlo?”
“Infatti te lo sconsiglio vivamente.”
“E se a farlo fosse il mittente della mail?”
“Lo ha già fatto, inviandotela.”
“Sì ma non capisco il senso. Se non rendo pubblico il filmato, non ha ottenuto nulla!”
“E’ qui che sbagli. Riporre un’arma in un cassetto non significa distruggerla. L’arma è sempre lì, pronta per l’uso. Solo che se premi il grilletto, quella ti esplode in faccia.”

La donna che mi sedeva di fronte in agenzia portava bene i suoi 62 anni.
“Lei capisce che un genitore oggi come oggi ha il diritto di sapere a cosa sta andando incontro suo figlio… Un matrimonio è un passo impegnativo sia dal punto di vista affettivo che finanziario.”
“Certo. Meglio non fare scelte affrettate.”
“Appunto, ed è per questo che mi sono rivolta a lei. So che è una persona seria e discreta.”
“La discrezione è il fulcro della mia deontologia professionale, signora.”
 “Non vorrei essere equivocata: mio figlio è un uomo adulto ed è liberissimo di decidere della sua vita. Io intendo solo fare il possibile per evitare che commetta un’imprudenza.”
“Comprendo perfettamente. La contatterò non appena avrò informazioni sulla signorina.”
Quando la cliente fu uscita tornai ad immergermi nella lettura dei quotidiani. I delitti di Pavia campeggiavano su tutte le prime pagine. L’espressione “torture efferate” ricorreva ovunque come un mantra. A Bongiovanni avevano messo una mordacchia per poi sottoporlo, nella sua abitazione, a sevizie di ogni genere. In pieno giorno, senza che nessuno dei vicini si accorgesse di nulla. La sua morte non era stata meno crudele di quella del rettore. E le telecamere del palazzo? Manomesse, tutte quante.
Mentre riflettevo su queste circostanze, si spalancò la porta. Livia dalla soglia mi lanciò un’occhiata diabolica.
“E fanno tre!”.
La osservai incredulo.
“Hanno ammazzato l’avvocato Salteri! Me l’ha detto adesso un mio amico dalla questura di Milano.”
 “Come lo hanno ucciso?”
“Un cecchino. Salteri era nel suo studio a San Babila. Gli hanno sparato dal tetto di un palazzo di fronte.
In quel preciso istante squillò il mio cellulare. Era Lello.
“Hai saputo?”
“Un istante fa.”
 “Un colpo da maestro: gli hanno scoperchiato la calotta cranica da ottocento metri di distanza! E’ cominciata la mattanza e per una volta tocca ai pesci grossi.”
Salteri, oltre ad essere uno degli avvocati più noti di Milano, era affiliato a una loggia storica, la Lafcadio Ambrosini.
“Sbaglierò ma ho l’impressione che si tratti di una ritorsione.”
“Non sbagli. Qualcuno a Pavia deve aver pensato che bisognasse reagire subito.”
“In modo eclatante, direi.”
“Ora devo andare, ci aggiorniamo.”
Livia, immobile sulla soglia, mi squadrava impassibile.
“Hanno indetto un consiglio comunale straordinario, per stasera. Ci va?”
“Penso proprio di sì.”

Tre ore dopo, raggiunsi la sala consiliare, strapiena di gente come non si vedeva da decenni.
“E’ una ferita a tutta quanta la città… le istituzioni democratiche reagiranno… … questo è il momento di essere uniti… non ci faremo intimidire”.
Nel pronunciare queste parole la voce del sindaco vacillò. Segno che intimidito lo era eccome.
In sala, tra il pubblico, individuai parecchie facce note. Mi assalì un senso di nausea.
Nell’andarmene, incrociai all’uscita il brigadiere Marostica.
“Dove vai così di fretta Marco?”
“Dentro si respira aria pesante.”
“Anche fuori se è per quello.”
“Buonanotte brigadiere.”

L’indomani, al mio risveglio, la prima cosa che vidi fu un geco sulla parete accanto al letto. Poi un altro in bagno, proprio sopra lo sciacquone, e infine un terzo in cucina, accanto al frigo. Sulla strada per l’ufficio mi fermai a far colazione al bar del Turco, così chiamato per via della sua inveterata avversione per il fumo. Dentro c’erano solo due avventori, due vecchie conoscenze, gente che alle nove del mattino invece del caffelatte sorseggia vino bianco. “Marco! Vieni che ti faccio vedere una cosa”. Il Turco prese dal cassetto della cassa un mazzo di carte.
“Scegline una, guardala e mettila via.”
“Fatto.”
“Adesso pensa intensamente a quella carta.”
Chiuse gli occhi e si stropicciò le tempie.
“Pensa alla carta!”
“E’ quello che sto facendo.”
“Fante di fiori!”
Lo guardai basito: aveva indovinato.
“Come cazzo hai fatto?”
“Il bravo prestigiatore non svela mai i suoi segreti. Hai letto la Provincia di oggi?”
“Ho visto la locandina davanti all’edicola: il ministro dell’Interno sarà oggi a Pavia.”
“C’è il centro blindato!”
“E te credo.”
Evitai Strada Nuova e, facendo il giro largo, mi recai nei pressi del monumento a Garibaldi, in piazza Castello. Qui, seduto sulla panchina di fronte alla fontana, sedeva un individuo sulla sessantina, piuttosto male in arnese, che mi rivolse uno sguardo d’intesa. Era padre Adamo.
Lo conoscevo dai tempi di Genova, città in cui ho vissuto i primi trent’anni della mia vita. All’epoca il suo caso finì sui giornali: un sacerdote sospeso a divinis per atti di esibizionismo e voyeurismo! Qualche anno dopo aver traslocato a Pavia scoprii, non senza stupore, che anche lui ci si era trasferito. Non aveva perso, tuttavia, le vecchie inclinazioni. Assiduo frequentatore di locali notturni, possedeva una conoscenza enciclopedica in materia di attricette e webcam girl.
“Adamo, come va?”
“La facciamo andare.”
“Dia un po’ un’occhiata.”
Avevo salvato sul tablet le foto della signorina consegnatemi dalla cliente.
“Ma io questa la conosco!” esclamò Adamo “E’ la Simona!”.
“Sicuro?”
“Sicurissimo, ci ho fatto dei privé con questa qua, vuoi che non me la ricordi?”
Insomma venne fuori che la signorina aveva un passato di spogliarellista e intrattenitrice in locali milanesi e della bergamasca, fra cui il Vanexa, di cui conoscevo l’ex gestore. Lo avrei contattato nel pomeriggio: mi fidavo delle competenze dello spretato ma mi occorreva una conferma.
E la conferma venne.

I notiziari della sera diedero ampio risalto al discorso del ministro dell’Interno. Quanto basta per convincermi a spegnere il televisore. A mezzanotte in punto ricevetti una chiamata di Lello.
“Sai quando sono i funerali?”
“Domattina alle 10. Le bare saranno esposte nel cortile delle statue. Prorettore vicario in pole position per il discorso.”
“Misure di sicurezza al massimo.”
“Ovvio.”
“Ci andrai?”
“Non credo proprio.”
Riagganciai.
Uscii a fare due passi. In Piazza Petrarca il solito viavai di automobili. Mi diressi al Castello. A un tratto mi sentii chiamare per nome da un tale seduto sul sedile passeggero di una Audi Q7 posteggiata in Viale XI Febbraio.
Mi avvicinai. Era un tizio sulla cinquantina, ben vestito, mai visto prima. E non era solo a bordo.
Mi fece cenno di avvicinarmi.
“Sali.”
“Non ci penso proprio.”
“Calma”, disse lo sconosciuto, “vogliamo solo fare due chiacchiere”.
“Io no.”
Il tizio mi fulminò con lo sguardo.
“Hai preso informazioni su una brava ragazza.”
“Mi pagano per questo.”
“Te la devi scordare.”
“Gratis?”
Sorrise, mettendo in mostra un paio di denti d’oro, e disse a quello alla guida: “Che ti dicevo? E’ uno che sa stare al mondo”, quindi, rivolto a me:
“Quanto costa un’amnesia?”
 “Tremila euro.”
Con la massima disinvoltura, il tizio prese dal taschino della giacca una mazzetta di banconote da 500 euro.
Ne contò sei, lentamente.
“Alla signora che diciamo?”
“Che la ragazza è a posto. Non una macchia.”
“Bravo.”
Intascai i soldi. L’autista mise in moto. Rimasi ad osservare la vettura che si allontanava verso il rondò Vittorio Necchi. Quella notte non riuscii a prendere sonno.

“Il commando ha fatto irruzione nel locale e falciato a raffiche di mitra i partecipanti alla riunione.”
Ascoltai incredulo il notiziario televisivo. Non riuscivo a capacitarmi che fosse accaduto davvero. Una strage in una loggia massonica pavese!
A una settimana dall’assassinio di Salteri, tre uomini armati di fucili d’assalto irrompono in una delle più note sedi massoniche della provincia e sterminano i presenti. Un fatto senza precedenti nella storia della Repubblica italiana!
Contai sino a dieci, squillò il cellulare. Era Lello.
 “Professionisti. Armi munite di silenziatori.”
“Aspettiamoci di tutto.”
“Golpe compreso.”

Una città in stato d’assedio avrebbe avuto un aspetto più rilassato. In Strada Nuova i passanti, studenti compresi, sgattaiolavano lungo i marciapiedi come animali braccati. Poliziotti ad ogni angolo, armi in pugno. Mi fiondai dal Turco.
“Marcone!”
“Whisky.”
“Lo sai che è morto il Giampiero?”
“Quando?”
“Ieri sera, è caduto dal Ponte coperto.”
“E come cazzo ha fatto?”
“Aveva bevuto più del solito”.
“Se n’è andata una delle più grandi spugne di Pavia. Brindiamo alla sua memoria.”
Tintinnarono i bicchieri. Fu un momento commovente.

Miranda. Che ci faceva Miranda sotto casa mia?
“Quanto tempo. Come mai da queste parti?”
“Hai un attimo da dedicarmi?”
“Non far caso al disordine che c’è in casa.”
“Come se fosse una novità.”
Salimmo.
“Dio mio Marco sei peggiorato”, disse appena entrata. “Pare un campo rom.”
“Se sei venuta per fare dello spirito puoi andartene anche subito.”
“Apprezzo la tua delicatezza.”
“Ho avuto un’ottima maestra. Facciamo in fretta.”
Si accomodò sul divano.
“Ti ricordi Roberto?”
“Quale dei due? Il primo o il secondo?”
“Il secondo.”
“Beh?”
“Mi dà il tormento”
“E quindi?”
“Vorrei che tu gli parlassi.”
“Perché non sei venuta in agenzia a discuterne?”
“Dobbiamo essere così formali? Credevo che in nome della nostra antica amicizia…”
“Hai dieci secondi per uscire. Nove…”
“Stronzo!”
“Otto…”
La udii imprecare lungo le scale.

“Quindi lei mi garantisce che…”
“Non sono emersi elementi tali da far ritenere con certezza che la signorina rappresenti un elemento poco raccomandabile.”
La cliente mi fissò dritto negli occhi.
“Non so perché ma la sua risposta non mi rassicura. Quanto le devo?” tagliò secca.
“Niente.”
“Niente?”
“A riprova della mia buona fede.”
“Beh, la ringrazio.”
Prese dal divanetto la sua borsa griffata e fece per andarsene. Si arrestò per un istante sulla soglia.
“Nel caso dovessero giungerle alle orecchie nuovi elementi, la pregherei di contattarmi.”
“Non mancherò, signora.”
Appena se ne fu andata andai in bagno a sciacquarmi la faccia.
Lo specchio mi restituì l’immagine di un vecchio farabutto.
Bussarono alla porta.
“Può uscire o se lo sta ancora scrollando?”
“Che c’è Livia?”
“Apra, per favore”
“Mi dia un attimo.”
“Finisca pure senza fretta, mi sto solo pisciando addosso.”

La giornata era trascorsa in modo del tutto improficuo. Non avevo concluso un accidente. Arrivato all’altezza di Via Innocenzo III, mi si materializzò davanti all’improvviso Marostica, in borghese.
“Marco!”
“Cazzo brigadiere, lei mi vuol far venire un infarto.”
“Ti spaventi per così poco? E’ da un po’ che tu ed io non facciamo due chiacchiere.”
“Sono a corto di argomenti.”
“Perché non ti credo?”
“Perché è prevenuto, ecco perché.”
“Vieni, ti offro un caffè.”
“Non a quest’ora. Poi finisce che non dormo.”
“E allora un bianchino, quel cazzo che ti pare, non farla lunga.”
Entrammo al bar di piazza Italia. Mi avvicinai al bancone.
“No, ci sediamo nella saletta. E’ più discreta.”
Per essere discreta lo era: non c’era un’anima.
Ordinai una vodka.
 “Dunque, dicevamo. Tu che hai orecchie dappertutto…”
“Insomma.”
“Non fare il modesto. Senti, veniamo al sodo: hai captato qualcosa?”
“Brigadiere, questa domanda va fatta alla polizia politica, non a un semplice investigatore privato.”
“Eppure tu sai sempre tutto.”
“Almeno fosse così.”
“Allora dimmi, in via del tutto confidenziale, quel poco che sai.”
“So quello che lei sa già molto bene: c’è una guerra in corso e in città il più pulito ha la rogna.”
 “Quindi non sai una minchia?”
“Perché, cosa credeva? Che avessi sottomano i nomi del commando?”
“No perché in tal caso staresti già dentro a una buca da qualche parte in Oltrepò.”
“E perché proprio in Oltrepò?”
“Per dire.”

La conversazione con Marostica mi aveva messo di malumore. Di tornare a casa non se ne parlava proprio, così mi misi a vagare come un’anima in pena. In Viale Matteotti vidi un tale raggomitolato per terra. Mi avvicinai e lo riconobbi. Era padre Adamo.
“Che è successo, don? Si sente male?”
“Mi hanno picchiato.”
“Chi è stato?”
“Non lo so, due energumeni…”
Lo aiutai a rimettersi in piedi. Aveva la faccia gonfia, un occhio mezzo chiuso.
Lo accompagnai sino a una panchina, quindi andai alla fontanella a bagnare un fazzoletto.
“Non avevo fatto niente di male…”
“Scusi, perché ha giù la braghetta?”
“Ma no, niente, me la sarò scordata aperta a casa.”
“Non mi prenda in giro, don.”
Premendosi il fazzoletto sul viso, Adamo si mise a raccontare.
“Non giudicarmi male, la natura umana è imperfetta. Ero ai giardini del castello…”
“Per puro caso.”
“A un certo punto vedo due ragazze.”
“E non ha potuto fare a meno di esibirsi.”
“Purtroppo no”, sospirò, “poi sono arrivati i fidanzati, e mi hanno rincorso. Correvano forte, mi hanno raggiunto e il resto lo vedi da te.”
“Don, lei deve darsi una calmata… Le prende le pastiglie?”
“Non sempre.”
“O quelle o i cazzotti: cosa preferisce?”
“Le pastiglie.”
“E allora le prenda. Vuole che le chiami un taxi? Ce la fa ad arrivare a casa?”
“No non c’è bisogno, ce la faccio”
Accompagnai lo spretato per un tratto.
“Che brutti tempi stiamo vivendo. Il gesto più innocente viene sistematicamente male interpretato.”
“Sa com’è, c’è gesto e gesto.”
“Vero. Questo è per te, a titolo di ringraziamento.”
Mi porse una pallina avvolta nel cellophane.
“Roba buona eh! Così fai serata con la tua segretaria, la Luciana.  Bella gnocca! Te li fa i pompini?”
Non risposi.
“E daglieli due colpetti ogni tanto!”
“Vada a dormire, che è meglio.”
“Per la polverina magica fanno di tutto quelle porcone! Se vuoi te ne presento una, sta al collegio Bellarmino.”
“Scusi don, ma se ci sono ‘ste porcone disposte a tutto per la bamba, come dice lei, perché se ne va in giro a mostrare l’uccello alle ragazze al parco?”
“Perché, come dice il mio consulente finanziario, bisogna diversificare gli investimenti.”
Lo vidi sparire, finalmente, nell’androne condominiale.
Mentre mi allontanavo, mi giunse di nuovo la sua voce.
“Marco!”
Affacciato alla finestra, lo spretato mi osservava con un’espressione stravolta.
“Che c’è ancora?”
“Non me la racconti giusta. Secondo me te la bombi eccome, quella bella maialona!”

La pallina non la buttai, poteva sempre tornare utile. Quella notte, stranamente, riuscii a dormire qualche ora.

“Hai sprecato i migliori anni della tua vita. Preparati ai peggiori.”
Una lettera anonima, scritta in stampatello, nella cassetta delle lettere. La busta non recava traccia di timbro postale, né l’indicazione del destinatario.  Mi sforzai di immaginare chi potesse avermela recapitata ma non mi venne in mente nessuno. La riposi in un cassetto.
Un minuto dopo squillò il cellulare.
“Marco, perché non fai un salto da me?”
Era Marostica.
“E' una cosa urgente?”
“Diciamo che è nel reciproco interesse.”
Mezz’ora dopo bussavo alla sua porta.

“Prego Marco, accomodati. Caffè?”
“Non si disturbi.”
“Immagino tu conosca il motivo di questo colloquio.”
“A dire il vero, no.”
“Fai le ore piccole, ti svegli sempre tardi e non sei aggiornato sulle novità. Dovresti saperlo che il mattino ha l'oro in bocca.”
“Mi ha convocato per dispensarmi consigli di vita?”
Marostica si fece serio.
“Stamattina Adamo Sarti è stato trovato impiccato alla ringhiera della scala nel suo condominio, con le mani legate dietro alla schiena. Vi conoscevate vero?”
“Lo conoscevate  meglio voi, visto che era un vostro informatore.”
“Quand'è l'ultima volta che l'hai visto?”
“Ieri notte, dopo le 11, steso sull'Allea di Viale Matteotti. Lo avevano gonfiato di botte.”
“Chi?”
“Dei giovanotti, così ha detto.”
“E poi?”
“L'ho aiutato ad alzarsi, l'ho accompagnato verso casa e me ne sono andato. Stop.”
“Secondo te chi l'ha ucciso?”
“Non ne ho la minima idea.”
“Non ti pare strano che quello incontra a te e poche ore dopo finisce appeso?”
“Diciamo meglio: quello incontra dei tizi che lo riempiono di botte e poi finisce appeso. Io non c’entro un cazzo.”
“E pensare che una volta Pavia era una noiosa città di provincia…”
“I bei tempi andati.”
“Tieni occhi e orecchie bene aperti, Marco.”
“Come sempre, brigadiere.”

Accanto all’ingresso dell’agenzia, un gatto rosso mangiava crocchette da una ciotola. Era un randagio che faceva spesso tappa da quelle parti. Entrai e non vidi Livia. Un istante dopo udii dei rumori provenire dal bagno, come se qualcuno stesse sferrando calci alla porta. Aprii e la vidi seduta a terra, imbavagliata, le mani legate dietro la schiena. La liberai dalla fascetta di plastica e dalla ball gag che le avevano ficcato in bocca. 
“Che è successo Livia? E’ ferita?”
“Due stronzi con il passamontagna sono entrati e mi hanno legata. Mi hanno chiesto dov’è la cassaforte, ho detto loro che la chiave ce l’ha solo lei, mi hanno messo la pallina in bocca e sono andati a rovistare nel suo ufficio.”
“Le hanno fatto del male?”
“Vuol sapere se mi hanno stuprata? No, non mi hanno violentata ma mi hanno sbatacchiato l’uccello in faccia, quelle merde. Ed è una cosa che non sopporto.”
“Hanno detto qualcosa di particolare?”
“A parte ‘Non urlare se no ti ammazziamo’, no.”
“Bastardi!”
“Millecento euro al mese non ripagano questo schifo.”
“Mi spiace, Livia, davvero.”
Andai in ufficio: avevano vuotato tutti i cassetti sul pavimento e il notebook era sparito.
“In che razza di casino si è cacciato?”
“Livia, le assicuro che non ho combinato nulla che possa giustificare tutto questo. Non riesco a immaginare cosa credessero di trovare.”
“Fossi in lei non ne parlerei a Marostica. Non servirebbe a niente. E poi non ho voglia di rispondere a domande sgradevoli.”
“Vero. Non servirebbe a niente.”
“Le do una mano a sistemare. Da solo non combinerebbe granché.”

I funerali delle dodici vittime della strage paralizzarono la città. Non avevo mai visto in vita mia tante facce fintamente contrite. Mi rifiutai di guardare un solo programma televisivo, di leggere un solo articolo di giornale sull’argomento.
Lello mi chiamò anche quella sera, dopo le 22.
“Non hai idea della quantità di stronzate che stanno dicendo in tele.”
“Immagino.”
“Senti, secondo me la visita all’agenzia era per farti capire che loro sanno che tu sai.”
“Cosa so, io? Niente! E non me ne importa nulla delle loro faide!”
“Magari è per via del filmato.”
“E che c’entro io col filmato? Me lo hanno inviato e da me si è fermato! Io mi faccio i fatti miei.”
“Probabilmente volevano incoraggiarti a continuare così.”
“Potevano trovare un altro modo, quei figli di puttana!”
“E’ gente che non va per il sottile, lo sai bene.”
“Comunque sia hanno passato il limite.”
“E quindi?”
“E quindi cosa?”
“Ti metti a fare il giustiziere della notte? E a chi spari, visto che manco sai chi sono?”
“Ma quale giustiziere della notte, a me basta solo che non mi rompano i coglioni!”
“Secondo me la cosa si chiude qui.”
“Voglio sperare.”
“E certo. Vivi e lascia vivere.”
“Lascia ammazzare, vorrai dire.”

Al brigadiere non dissi una parola dell’accaduto. Il giorno dopo, a mezzogiorno circa, ricevetti una chiamata in agenzia. Era una donna.
“Possiamo incontrarci?”
“La porta dell’agenzia è aperta, venga quando vuole.”
“Pensavo a qualcosa di più discreto.”
“Qui è discreto.”
“Non potrò essere lì prima delle 18”
“Nessun problema. Posso sapere il suo nome?”
“Simona.”
“A dopo.”
Cosa poteva volere da me quella donna? Lo avrei scoperto presto.
Dal giorno dell’intrusione tenevo sempre a portata di mano la Beretta APX (anagramma di Pax, ci avete fatto caso? Quelli di Gardone Val Trompia hanno un morboso senso dell’umorismo). Non che fossi convinto servisse a qualcosa ma averla accanto mi dava maggiore tranquillità.
In ogni caso, all’occorrenza non avrei esitato a usarla.
Livia se ne andò alle 17, come suo solito.
Alle 18 e 10 suonarono all’ingresso.
Andai ad aprire.
Dove avevo già visto quello sguardo? Quella chioma di capelli neri e lisci? E quel sorriso indecifrabile?
Le dissi di entrare.
Era il tipo di donna che non passa inosservata.
Ci sedemmo in ufficio, la scrivania a fare da linea di demarcazione.
Indossava una gonna a tubino in pelle e un top bianco.
“La ascolto.”
“Volevo ringraziarla.”
“Di cosa?”
“Lo sa benissimo.”
“La questione, per quanto mi riguarda, è risolta.”
“Tengo molto a Giulio.”
“Bene.”
“La gente giudica senza sapere di cosa parla.”
“Purtroppo.”
“Gente che, fra l’altro, farebbe meglio a guardare i propri peccati prima di scagliarsi contro quelli degli altri.”
“Vero. Nel suo caso però la faccenda può dirsi chiusa.”
“Ci sposiamo a settembre.”
“Meglio di così…”
“Grazie anche a lei.”
“Non c’è di che. Mi sono limitato a tradire la mia deontologia professionale e a vendere per denaro il mio silenzio.”
“E chi non si vende, a questo mondo? Siamo tutti in vendita, in un modo o nell’altro.”
“Già.”
“Si vede che la sua parola ha un valore, se bisogna pagare perché stia zitto.”
“Mettiamola così: ho un certo credito, in giro. Ora si tratta solo di capire se questo credito avrà un futuro oppure no. Gradisce qualcosa da bere?”
“No, grazie, anzi, è meglio che vada. Il mio fidanzato mi aspetta.”
“Non facciamolo aspettare, allora.”

Quella sera avrei cenato in trattoria ma lungo il tragitto mi fermai dal Turco.
“Marco, vieni che ti mostro una cosa.”
Da sotto il bancone tirò fuori un foglio, una volantino con il testo bilingue russo-inglese. Nel bel mezzo, la foto a colori di un lanciagranate RPG-7.
“Ti interessa?”
“Dico ma sei ammattito? Che me ne faccio di questo coso, ci ammazzo le mosche?”
“E’ una replica, mica è vero!”
“E vorrei anche vedere!”
“Dai, non ti arrabbiare, stasera la bevuta è gratis.”
Mi sedetti a un tavolino. La televisione era accesa col volume a zero. In un angolo, un avventore abituale fissava il vuoto.
Squillò il cellulare. Una voce femminile che non riconobbi pronunciò queste parole:
“Ore 21, chiesa del Carmine, navata destra, primo pilastro. La contatterò io.”
Chi diamine era, stavolta?

Avevo bevuto troppo. Arrivai in Carmine con una certa fatica, rasentando i muri. La chiesa era piena di anziani: una distesa di teste canute. La locandina all’ingresso annunciava la lettura di brani scelti dal ‘Diario di guerra di Edmondo Bazzelli’.
Presi posto su una sedia nel punto stabilito.
Il pubblico salutò con un applauso l’apparizione di un bellimbusto imbrillantinato che si piazzò al microfono e, dopo una prolissa introduzione, cominciò a leggere le pagine del Diario. Si atteggiava manco fosse Vittorio Gassman.
Improvvisamente mi giunse alle narici una ventata greve e nauseabonda di gas intestinali, sfiatati da chissà chi, forse dal fotografo obeso seduto alla mia destra. Un prete dall’espressione malvagia si materializzò all’improvviso da dietro il pilastro, saettando occhiate ostili sul pubblico.
Ebbi l’impressione di trovarmi in un obitorio, circondato da cadaveri ai primi stadi della decomposizione. La situazione era del tutto insostenibile.
Stavo per andarmene quando mi sentii toccare a una spalla.
Mi girai e vidi una donna sulla quarantina, con un abito a tubino nero. Una figura del tutto fuori posto in quella sede. Con un cenno del viso mi invitò a seguirla. 
Non esitai un istante. Sul sagrato della chiesa, ripresi finalmente fiato.
La sconosciuta discese i gradini con un’eleganza sapientemente coltivata.
Abito Ralph Lauren, acconciatura “di tendenza” con chignon basso, trucco non vistoso: bel tipo davvero.
“Beh? Dove andiamo?”
“Ho la macchina posteggiata qui vicino.”
La macchina era una Lexus LC 500.
Salii a bordo.
La signora in nero partì sgommando.
Dall’impianto stereo uscirono le note di una canzone che conoscevo bene: “My Weak Side” di Mr.Kitty.
“Non ha risposta alla mia domanda: dove siamo diretti?”
“A fare un giro.”
E facciamolo ‘sto giro, pensai.
“Posso sapere come ti chiami?”
“Florinda.”
“Come la Bolkan.”
“Ecco, bravo, proprio lei. Piaceva a mio padre.”
“Ho visto di recente un film di Fulci con la Bolkan, Non si sevizia un paperino. Pare sia un film di culto. A me non è piaciuto per niente, a parte una sequenza.”
“Quella della Bouchet che adesca il ragazzino?”
“Indovinato.”
“Siete così prevedibili, voi uomini. A me la Bolkan piace soprattutto in Metti una sera a cena.”
“Anche a me, se è per quello.”
Alla rotonda di Viale Indipendenza svoltò a sinistra e, di lì, in Viale Golgi. Imboccata la tangenziale Ovest, seguì le indicazioni per Bereguardo.
“Marco, posso darti del tu, vero?”
“Naturalmente.”
“Se adesso io mi fermassi in una piazzola e ti facessi un pompino, tu avresti qualcosa in contrario?”
“Non credo proprio.”
“Non mi fraintendere: la mia ero solo una curiosità di carattere, diciamo così, antropologico.”
“Antropologia a parte, dove siamo diretti?”
“Hai altri impegni?”
“Nessun impegno: vorrei solo capire.”
“Non c’è niente da capire. Ascolta qui.”
Un tocco al trackpad ed ecco uscire dalle casse ‘Go with the Flow’ dei Queens of the Stone Age.
Se non altro, sarebbe stata una notte diversa dalle altre.

Ci lasciammo alle spalle Bereguardo. Dopo alcuni km svoltammo in una strada sterrata che si inoltrava in un bosco. Procedemmo a lenta andatura per una decina di  minuti. Il bosco si infittiva in modo inquietante, avvolgendo la strada come in un bozzolo. Vidi apparire alla nostra sinistra un muro di cinta. Lo costeggiammo sino ad arrivare nei pressi dell’entrata, un cancello imponente oltre il quale si apriva una tenuta di campagna.
Il cancello si aprì: eravamo attesi.
Percorso un viale coperto di ghiaia illuminato da faretti, giungemmo dinanzi a una villa nobiliare, relativamente ben conservata.
Florinda spense il motore e scese dall’auto. La seguii senza fare domande.
Saliti i pochi gradini che conducevano all’ingresso, non dovemmo far altro che spingere il portone, oltre il quale si apriva un corridoio le cui finestre erano schermate da tende di velluto. Alle pareti, stampe che raffiguravano scene di caccia… all’uomo.
Al termine del salone si apriva un salone, arredato in modo bizzarro, dominato al centro da una specie di trono. Su di esso, sedeva un personaggio a dir poco singolare.
Non avevo mai visto in vita mia un uomo così piccolo. Sembrava tale e quale ad Harry Earles, il nanetto biondo del film di Tod Browning “Freaks”. Identico sia nell’aspetto che nell’abbigliamento, mi osservava con un sorriso indecifrabile.
Florinda, poco lontano, stava versando un drink.
“Non dirmi che non ti piace il Talisker”.
“Infatti non lo dico”, le risposi.
Mi passò il bicchiere.
L’omino alzò la mano sinistra.
“Viviamo tempi difficili, non crede?”
“Altroché.”
“Basta un nonnulla, e ci si ritrova su un tavolo settorio.”
“Già, a volte basta davvero poco.” 
“Una parola di troppo.”
“Anche.”
“Florinda cara, unisciti a noi.”
“Sono qui.”
“Ora le mostro una cosa.”
Schioccò le dita. Dal fondo del salone si fecero avanti due individui corpulenti, il volto celato da maschere,  spingendo una cabina munita di rotelle coperta da un telo colorato.
A un cenno del nano, fu tolto il telo.
La “cabina” altro non era che una gabbia. Al suo interno, un uomo sulla sessantina, nudo e in manette. Una gag ball gli impediva di proferire parola.
“Lo riconosce?”
Feci segno di no al padrone di casa.
“Eppure dovrebbe. Lo osservi bene.”
Non lo riconobbi.
“Come, lei non conosce l’illustre professor Corsati?”
Corsati? Il temutissimo ordinario di Diritto delle società offshore? E che ci faceva, rinchiuso in gabbia come un animale, in una villa sperduta nella Valle del Ticino?
“E’ uno sporcaccione, sa, il professore? Ma noi gli vogliamo bene lo stesso, vero Florinda?”
“Come no. Un bene dell’anima.”
Florinda si accostò alla gabbia del professore e gli strizzò crudelmente i testicoli.
“Accadono brutte cose. Cose di cui, onestamente, vorremmo non dover essere testimoni.”
“Posso socratizzarlo, zio?”
“Non ora, Florinda. Non vorrei turbare la sensibilità del nostro ospite. Ci occuperemo di lui in un secondo tempo. Marco, mi dica: ha mai seviziato qualcuno?”
“Sinceramente no.”
Lo zio mi fissò incredulo, come se avessi pronunciato la cosa più inverosimile al mondo.
“Se mettessimo un po’ di musica?” Florinda si diede ad armeggiare con un impianto stereo.

Ai quattro angoli del salone erano collocati diffusori acustici Enigma Veyron System.
Poco dopo, l’ambiente fu inondato dai bassi di “Bind, Torture, Kill”, album del 2006 dei Suicide Commando.
“Lei mi sorprende, Marco. Trovo bizzarro questo suo moralismo.”
“Non è moralismo. E’ solo che non mi attira l’idea.”
“Desidero offrirle un’opportunità unica.”
“La ascolto.”
“Le piacerebbe sottoporre a waterboarding il professore? Se vuole può farlo, adesso. I miei collaboratori saranno lieti di aiutarla.”
“Anch’io!”, esclamò Florinda
Non avrei potuto essere maggiormente consapevole del fatto di trovarmi in mezzo a dei pericolosissimi psicopatici. Soppesai con cura le parole.
“La ringrazio, davvero, ma non sono dell’umore giusto.”
Il nanetto non dissimulò il proprio disappunto.
“Non le va a genio proprio nulla, a quanto pare.”
“Qualcosa sì, zio. Penso proprio che mi si scoperebbe volentieri.”
Mi vidi rivolgere un’occhiata di disapprovazione – non so fino a che punto sincera.
“Davvero?”
“In questo momento gradirei un altro bicchiere di whisky.”
Lo zio scese dal trono servendosi di una scaletta in legno coi gradini imbottiti.
“Portatemi il professore!”
Florinda si sedette accanto a me sul divano.
“Sta’ a vedere Marco, ora lo zio ne combina una delle sue”.
“Sono finiti i giorni dei tuoi trionfi, miserabile!”
I due, aperta la gabbia, afferrarono e lo trascinarono di fronte allo zio.
“Tenetelo forte!”
Lo zio, fatti pochi passi, estrasse da un braciere un ferro da marchiatura per bovini e lo calcò sulla schiena dello sventurato.
Odore di carne bruciata si diffuse in tutto il locale insieme allo straziante muggito di dolore del professore.
“Summum ius, summa iniuria!” esclamò il nanetto.
“Che ti avevo detto? Lo zio è capriccioso.”
Il professore fu gettato nuovamente nella gabbia.
Lo zio sembrò acquietarsi. Tornatosi a sedere, mi rivolse lo sguardo più placido del mondo.
“Nel preciso istante in cui ha varcato la porta di questa villa lei è diventato nostro complice. Se ne rende conto, vero?”
Preferii non contraddirlo.
“Le cose cambiano. Equilibri che sembravano immodificabili si sgretolano nel volgere di poche ore. La città sul Ticino non sarà mai più la stessa. Molti dovranno perire.”
“Credevo che la mattanza fosse finita.”
“Finita? Ma se è appena cominciata! Non mi guardi così, la strage nella loggia non è opera mia. Io sono un umile artigiano… faccio la mia parte, do il mio piccolo contributo, nient’altro.”
Florinda mi si strinse addosso.
“Siamo formichine che lavorano a un più grande disegno, Marco.”
“Non riesco a seguirvi… Sinceramente.”
“Go with the flow, Marco, go with the flow”, mi sussurrò Florinda.
All’improvviso mi si annebbiò la vista. Cos’aveva messo nel whisky, la stronza? Piombai in un sonno di piombo.

Mi svegliai, intirizzito, sul sedile posteriore di un’automobile, con una gran voglia di pisciare e un discreto mal di testa.
Scesi dalla vettura. Mi trovavo nel cortile di un autodemolitore e non c’era nessuno in giro. Svuotai la vescica e tastai le tasche della giacca: non mi avevano sottratto nulla, a cominciare dal cellulare.
Lo accesi. Erano le 6 e un quarto del mattino e mi trovavo a pochi km da Milano. Per quale motivo mi avessero scaricato lì, lo sapeva soltanto il diavolo.
Squillò il telefono. Numero sconosciuto, voce maschile ignota.
“Il cancello è accostato, esci. Segui la strada, avanti duecento metri arrivi alla statale. Alla tua destra c’è la fermata dell’autobus.”
Mi attenni alle istruzioni ricevute.
Lungo il tragitto digitai il numero di Lello.
“Sei a casa?”
“Sì. Tutto bene?”
“Mica tanto. Ti va se passo da te entro un’oretta?”
“Certo.”

Quando mi aprì la porta, notai nel suo sguardo un attimo di sbigottimento.
“Marco, sei pallidissimo. Che è successo?”
“Ti spiace se mi siedo?”
“Stai scherzando, vieni, accomodati, ti preparo qualcosa di caldo.”
Mi sdraiai sul divano.
Dopo poco Lello tornò porgendomi una tazza di camomilla. Ne bevvi un sorso.
“Che ti è capitato?”, chiese sedendosi in poltrona.
Gli raccontai l’avventura della notte precedente.
“Marco, la situazione sta prendendo una brutta piega, vogliono metterti in mezzo a tutti i costi. Forse è meglio se vieni via da Pavia per un po’. Puoi venire a stare da me.”
“Non ci capisco più niente.”
“Immagino che Corsati non sia più nel novero dei vivi.”
“Non ne ho la minima idea, so solo che lo hanno marchiato a fuoco sotto i miei occhi.”
“Che ti ha detto il nano? ‘E’ appena cominciata’?”
“Esatto.”
“Scorrerà altro sangue allora.”
“Sicuro.”
“Potremmo fare delle ricerche in merito alla villa che mi hai descritto, ma qualcosa mi dice che è meglio lasciar perdere.”
“Infatti.”
“Senti, Marco, tu a Pavia per un po’ non devi mettere piede. Molla tutto.”
“E a Livia che dico?”
“Le dici che per un mesetto l’agenzia chiude, che le paghi comunque il salario e ti rifarai vivo al più presto”
“Cazzo.”
“Credimi, è la cosa migliore.”
“Non servirebbe a niente Lello. Se vogliono mi possono beccare benissimo anche qui.”
“Come vuoi, in ogni caso per te la porta è sempre aperta.”
“Se non ti dispiace me ne sto qui un’oretta, poi vado.”
“Stai quanto vuoi.”

Rientrai a Pavia in treno nel primo pomeriggio.
Durante il tragitto ricevetti un sms da un numero sconosciuto:
“Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, cripta di Severino Boezio, ore 18”.
Non esitai a rispondere.
“Avete rotto i coglioni!”
Due minuti dopo:
“Fai il bravo, Marco.”
Era quella puttana di Florinda, ne ero certo. Passai dall’agenzia, presi la pistola dal cassetto e alle 17 e 45 mi recai all’appuntamento.
In chiesa non c’era anima viva.
Raggiunsi l’ingresso della cripta.
Al suo interno, di fronte all’altare, vidi lei. Vestita esattamente come Clara Calamai nella scena finale di Profondo Rosso.
“Dove hai trovato questo impermeabile? Da un noleggio costumi?”.
“Lo zio ti manda i suoi saluti e un piccolo dono.”
Mi porse una scatola.
La aprii: conteneva una chiave.
“E quindi?”
“Apre la cassetta di sicurezza nella camera 26 dell’Hotel Alba. Tanti auguri, Marco. Esco prima io. Tu aspetta qualche minuto.”
La afferrai per un polso e le impedii di muoversi.
“No, adesso tu aspetti!”
“Mi fai male.”
“Per chi mi avete preso? Dopo lo scherzo di ieri notte, adesso dovrei partecipare a una caccia al tesoro?”
“Mi metto a strillare sai? Dico che hai cercato di violentarmi!”
“E chi vuoi che ti senta? La chiesa è deserta.”
Allentai la stretta.
“Sai che ti dico? Riprenditi la chiave, non so che farmene.”
“No, Marco: è tua.”
Mi si strinse contro e mi diede un bacio.
“Lasciami andare ora.”
“Usciamo insieme, tu avanti a me di un passo.”
“Come vuoi.”
Ci separammo una volta giunti in Viale Matteotti.

Conoscevo il portiere dell’Hotel Alba. Era un ex pugile, un tipo a posto. Quando mi vide arrivare, quella sera, non disse una sola parola. Si limitò a porgermi la chiave della camera 26.
Salii al piano. Il corridoio del secondo piano era deserto, la stanza era in perfetto ordine. Aprii la cassetta di sicurezza. Conteneva una chiavetta usb.
“Ma puttana di quella troia!”.
Scesi le scale imprecando. Quasi mi dimenticai di rendere la chiave della stanza al portiere.
Una volta a casa, accesi il portatile e inserii la chiavetta.
Conteneva un solo file, intitolato “Morituri”.
Era un elenco di nomi, parecchi dei quali a me noti.
Nomi di persone destinate a morire di morte violenta.
Spensi il notebook.
“Cazzo”.
Per ragioni che non riuscivo a capire, volevano che sapessi chi stavano per uccidere. Stavolta non avrei parlato a nessuno della cosa, neppure a Lello. Accadesse quel che doveva accadere.
Non chiusi occhio, quella notte. L’alba mi sorprese seduto in poltrona, in tinello, in compagnia di una bottiglia di whisky semivuota.
Erano decine di nomi, perdio. Una mattanza.
Andai in bagno a lavarmi la faccia, quindi indossai la giacca ed uscii.
In fondo, era un giorno come un altro. 

Pietro Ferrari, giugno 2019