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sabato 24 ottobre 2020

HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT AMERICANISTA: L'INVASIONE DEGLI INUTO

La Stella Polare (Polaris) è un breve racconto fantasy di H. P. Lovecraft, scritto nel 1918 e pubblicato per la prima volta nel dicembre del 1920 sulla rivista amatoriale The Philosopher (da non confondersi con l'omonima rivista accademica fondata nel 1923). Quando lo lessi, molti anni fa, ne fui molto colpito. Narra di un uomo ossessionato dalla Stella Polare, convinto di essere vissuto in un'epoca remotissima, nella terra che oggi conosciamo come Groenlandia e che lui chiamava Lomar. Il suo nome non viene mai rivelato nel corso della narrazione. Egli è convinto di essere stato un guardiano incaricato di sorvegliare la capitale del Regno, Olathoë, che sorgeva nel mezzo della piana di Sarkis, tra i monti Noton e Kadiphonek. La città era assediata da orde di genti bellicosissime e barbare, gli Inuto (nell'originale Inutos, col tipico plurale sigmatico anglosassone), descritti come "tarchiati e gialli".
 
Un'interessante incoerenza narrativa 
 
A un certo punto il narratore ascolta nella sua mente una poesia, che sembra essere pronunciata dalla Stella Polare, avvertita come una presenza ostile e maligna. Questo è il testo: 
 
"Slumber, watcher, till the spheres,
Six and twenty thousand years
Have revolv'd, and I return
To the spot where now I burn.
Other stars anon shall rise
To the axis of the skies;
Stars that soothe and stars that bless
With a sweet forgetfulness:
Only when my round is o'er
Shall the past disturb thy door."
   
 
Questa è la traduzione libera di Giuseppe Lippi (RIP):  
 
"Dormi, guardiano, dormi in fila
Per lunghi anni Ventiseimila,
Svegliati solo nel momento
Che brillerò nel firmamento
Proprio dove brillo adesso.
Tu nel ciel vedrai spuntare
Molte stelle da guardare;
E la calma ti daranno,
Dimenticare ti faranno:
Ma quando tornerò nella vecchia posizione
Il passato ti darà una bella lezione." 
 
Non so se sono soltanto io a trovare strano questo canto. La bizzarria non sta nei suoi contenuti: sta nel fatto che è in inglese e che presenta ingegnose rime. Il compianto Giuseppe Lippi ha fatto del suo meglio per rendere la sua struttura poetica, concependo rime idonee in italiano. Direi che il risultato è ottimo, anche se in alcuni punti si ravvisa una certa distanza dal significato dell'originale. La domanda è questa: nella testa del protagonista non avrebbe dovuto pulsare un componimento nella lingua di Lomar? I versi avrebbero presentato rime simili a quelle riportate nel racconto? Quali rime? Dovremmo pensare che il cervello di quell'uomo avesse trasposto i contenuti in inglese adattandoli alle circostanze? Oppure, semplicemente, l'Autore non ci ha pensato e ha dato per scontato che a Lomar si parlasse inglese? Non voglio credere a quest'ultima alternativa, che mi pare oltremodo ingenua e grottesca. 
 
L'ignota lingua di Lomar 
 
Certo è un vero peccato che l'ignota lingua di Lomar non sia stata documentata. Ci saremmo almeno aspettati di veder menzionati i nomi lomariani degli astri funesti, la Stella Polare e Aldebaran. Non sono in grado di ricavare elementi utili dal materiale citato, che consiste in alcuni toponimi (Lomar, l'altopiano di Sarkis, il monte Noton, il monte Kadiphonek, la torre di Thapnen, la valle di Banof, le città Daikos e Zobna), in un antroponimo (Alos) e in poco altro: oltre agli Inuto è menzionato un etnonimo (Gnophkeh), ma questi saranno endoetnici presi a prestito, non esoetnici imposti dai Lomariani; ci sono poi i Manoscritti Pnakotici (in inglese Pnakotic Manuscripts), che compaiono anche in altre opere lovecraftiane e che hanno tratto il loro nome dalla perduta città di Pnakotus, edificata dalla Grande Razza di Yith.
 
Gli Inuto, gli Inuit e la Terra del Sogno    

Ora leggete attentamente queste parole, che concludono il racconto: 

"I have failed in my duty and betrayed the marble city of Olathoë; I have proven false to Alos, my friend and commander. But still these shadows of my dream deride me. They say there is no land of Lomar, save in my nocturnal imaginings; that in those realms where the Pole Star shines high and red Aldebaran crawls low around the horizon, there has been naught save ice and snow for thousands of years, and never a man save squat yellow creatures, blighted by the cold, whom they call “Esquimaux”.
And as I writhe in my guilty agony, frantic to save the city whose peril every moment grows, and vainly striving to shake off this unnatural dream of a house of stone and brick south of a sinister swamp and a cemetery on a low hillock; the Pole Star, even and monstrous, leers down from the black vault, winking hideously like an insane watching eye which strives to convey some strange message, yet recalls nothing save that it once had a message to convey." 

Traduzione:
 
"Ho fallito nel mio compito, ho tradito la marmorea città di Olathoë; mi sono mostrato indegno di Alos, mio amico e comandante, e ancora le ombre del sogno mi deridono. Dicono che la terra di Lomar esiste solo nelle mie fantasie notturne, che nelle regioni dove la Stella Polare brilla alta nel cielo e Aldebaran striscia lungo l'orizzonte non c'è altro che neve e ghiaccio da migliaia d'anni e che l'uomo non ci si è mai avventurato, a parte una razza di individui gialli e tarchiati che qui chiamano "esquimesi".
E io mi tormento nel rimorso, desiderando ardentemente di poter salvare la città: ma ad ogni momento il pericolo cresce e io lotto invano per scuotermi di dosso il sogno innaturale di questa casa di pietra e mattoni, a sud della palude e del cimitero che sorge sulla collina. E la Stella Polare, malvagia e mostruosa, mi deride dalla volta nera, ammiccando orribilmente come un occhio folle che guarda, guarda in continuazione e cerca di trasmettere un messaggio misterioso; ma non ricorda quale, se non che una volta ce n'era uno."  

Stupisce molto che Lovecraft abbia usato l'etnonimo Inuto, in cui si riconosce all'istante un'alterazione di Inuit, ben noto endoetnico delle genti note come Eschimesi (variante obsoleta Esquimesi). Proprio il finale del racconto, sopra riportato, prova al di là di ogni dubbio che questa scelta dell'Autore non è stata casuale. Quanti se ne sono accorti tra i suoi esegeti? Possiamo dire a questo punto che gli Inuto sono i corrispondenti Eschimesi delle Terre dei Sogni (Dreamlands), anzi, uno dei pochi punti di contatto tra queste due realtà parallele. Il nome Dreamlands è dato a una vasta dimensione parallela a cui è possibile avere accesso unicamente tramite l'attività onirica. Proprio in tale mondo si trovano il Paese di Ulthar, ove non si possono uccidere i gatti, l'Altopiano di Leng, l'Isola di Oriab, le Rovine di Sarnath, la Terra di Mnar e innumerevoli altri luoghi incantati. La gelida Lomar appartiene alla stessa geografia del Sogno. Si potrebbe quindi pensare che sia vana la sua identificazione con la Groenlandia, con cui pure presenta molte analogie. Eppure è evidente che il Solitario di Providence ha tratto in qualche modo ispirazione dalla nostra realtà, da quanto poteva immaginare sulle origini degli Eschimesi e della calotta glaciale artica.     
 
Terre del sogno e realtà  
 
Facciamo ora un rapido confronto tra gli eventi ricostruibili e quelli esposti nel racconto. Secondo quanto Lovecraft ha narrato in Polaris, le cose erano tutto sommato abbastanza semplici, se così possiamo dire. Fino a ventiseimila anni prima del suo tempo, la Groenlandia era libera dai ghiacci e abitata da genti di aspetto europeo. Quindi sarebbero giunti dall'Asia gli Inuto a portare devastazione. Distrutta la civiltà di Lomar, sarebbe poi giunta la glaciazione e gli Inuto, adattati al nuovo clima, avrebbero infine dato come discendenti gli attuali Inuit. In realtà gli Inuit sono una presenza molto più recente nell'Artico: sono giunti alcuni secoli dopo la fondazione delle colonie norvegesi in Groenlandia, come spiegato con maggior dettaglio nel seguito. Anche per quanto riguarda la climatologia e la geologia, non c'è rispondenza alcuna tra quanto raccontato in Polaris e gli eventi del nostro pianeta. L'ultima glaciazione, quella di Würm, fu la quarta del Pleistocene: iniziò circa 110.000 anni fa e si concluse circa 12.000 anni fa. La sua massima estensione fu raggiunta circa 18.000-18.000 anni fa in Europa e circa 22.000-18.000 anni fa in Siberia. La calotta di ghiaccio (Islandsis) che ricopre la Groenlandia si formò molto prima, nel tardo Pliocene, circa 3 milioni di anni fa. Le prove delle glaciazioni quaternarie furono scoperte nel corso del XVIII e del XIX secolo, come parte della Rivoluzione Scientifica. Notiamo che la cronologia non torna affatto con quella descritta dal Solitario di Providence. Eppure c'è un dettaglio inquietante quanto innegabile: il cielo del nostro mondo è lo stesso di quello delle Terre del Sogno, con le medesime stelle che vi brillano!  
 
L'origine degli Inuit  
 
Gli attuali Eschimesi includono gli Inuit (Canada, Groenlandia) e gli Yupik (Alaska). Sono anche chiamati Neo-Eschimesi e discendono dalla Cultura di Thule, che è giunta in Groenlandia nel XIII secolo d.C. I loro antenati provenivano dalla regione di Birnirk, in Alaska settentrionale, come suggerito dai reperti archeologici e dall'analisi del genoma (presenza dell'aplogruppo A). Prima della migrazione delle genti della Cultura di Thule, le regioni del Canada settentrionale e della Groenlandia erano occupate da altri popoli, conosciuti come Paleo-Eschimesi. Appartenevano ai Paleo-Eschimesi le culture conosciute come Saqqaq (2500 a.C. - 800 a.C.), Indipendence I (2400 a.C. - 1000 a.C.), Indipendence II (700 a.C. - 80 a.C.) e infine Dorset (500 a.C. - al più tardi 1500 d.C.). Il nome dato a queste culture è tratto dai luoghi delle scoperte archeologiche: le loro lingue sono perdute. L'aplogruppo D è dominante, in netto contrasto con gli antenati degli Inuit. L'origine ultima dei Paleo-Eschimesi, come quella dei Neo-Eschimesi, è la Siberia, da cui sono partite ondate migratorie separate.  

Etimologia di Inuit
 
In proto-eschimese la parola *ińuɣ significa "persona". Ne derivano le seguenti protoforme: proto-Inuit: *inuɣ "persona" e proto-Yupik *yuɣ "persona". 
 
Questa è la declinazione di inuk "persona" in groenlandese: 
 
Singolare:
 
Assolutivo: inuk 
Ergativo: inuup
Allativo: inummut
Ablativo: inummit
Prosecutivo: inukkut
Locativo: inummi
Strumentale: inummik
Equativo: inuttut  
 
Plurale: 
 
Assolutivo: inuit  
Ergativo: inuit 
Allativo: inunnut
Ablativo: inunniit
Prosecutivo: inutsigut
Locativo: inunni
Strumentale: inunnik
Equativo: inuttut  

La forma lovecraftiana Inuto sembra quasi l'equativo di inuit, ossia inuttut "come una persona; come le persone". Non credo tuttavia plausibile che Lovecraft avesse simili conoscenze. Avrà derivato l'etnonimo Inuto a partire dalla forma assolutiva plurale inuit, che certamente doveva essere ben nota agli etnologi. Non dobbiamo dimenticarci che Lovecraft non era Tolkien e non dava grande importanza al rigore filologico.   
 
Lingue Inuit e algonchine: possibili contatti  
 
Le lingue eschimesi sono considerate parte della macrofamiglia nostratica. Eppure i contatti e gli scambi con altri ceppi linguistici del Nordamerica sono senza dubbio stati assai intensi. Nella lingua Innu-aimun parlata dalla popolazione algonchina conosciuta come Montagnais, autoctona della penisola del Labrador, la parola innu significa "persona, essere umano". Potrebbe trattarsi di un prestito da un sostrato o da un adstrato eschimese, dal momento che la lingua dei Montagnais appartiene al gruppo delle lingue Cree e non ha parentela con le lingue degli Inuit. Dal confronto con le altre lingue algonchine emerge che la parola innu è derivata da una protoforma *elenyiwa. A prima vista sembrerebbe difficilmente compatibile con la protoforma eschimese *ińuɣ, ma le difficoltà non sono insormontabili. Se diamo un'occhiata a qualche esito storico, notiamo che potrebbe comunque essere esistita una protoforma comune. 
 
Esiti di *elenyiwa si trovano in tutte le lingue algonchine. Questi sono alcuni esempi: 
 
Cree: iyiniw "uomo"
Fox: ineniwa "uomo"
Menominee: enɛᐧniw "uomo"
Ojibwe: aniniw "uomo"  
Abenaki: alnôba "essere umano"
Massachusett: ninnu "uomo"
Mohegan-Pequot: in "uomo" 
etc.
 
All'interno delle lingue Cree, abbiamo questi dati:  

    Plains Cree: iyiniw
    Woods Cree: iθiniw
    Swampy Cree: ininiw
    Moose Cree: ililiw
    Atikamekw: iriniw
 Cree Occidentale:
    Nord Est Cree: īyiyiw 
    Sud Est Cree: īyiyū 
Montagnais: īlnu (Ovest), innu (Est)
Naskapi: iiyuw, iyyū
 
E se questa radice proto-algonchina fosse un prestito remoto da una lingua artica anteriore da genti anteriori agli Inuit? Potrebbe questa radice essere un antico termine importato dalla Siberia da epoca immemorabile ed evolutosi in seguito in modi indipendenti nelle lingue di popoli diversi, anche non imparentati tra loro? La butto lì.  
 
Thule, Dorset ed Amerindiani 
 
Non ci sono somiglianze genetiche tra Eschimesi e Paleo-Eschimesi. Questo ci dice l'analisi delle sequenze dei resti rinvenuti. Gli accademici non riescono a capire come gli Eschimesi possano aver adottato alcune tecnologie della Cultura di Dorset senza contatti genetici. Ad esempio, risulta che la Cultura di Thule abbia preso da quella di Dorset un particolare tipo di arpione e la tecnica di caccia alle foche tramite un buco nel ghiaccio - anche se non sembra che le genti di Dorset avessero cani per aiutare i cacciatori. Le leggende degli Inuit parlano di una stirpe di giganti che avrebbero abitato in tempi antichi le terre artiche. Sono chiamati Tuniit (al singolare Tuniq) o Sivullirmiut (ossia "Primi Abitanti"). Secondo questa tradizione, questi Tuniit sarebbero stati molto timidi, cosicché gli antenati degli Inuit li avrebbero messi facilmente in fuga. Ma in fuga dove? Questi confusi racconti potrebbero essere nati dal tentativo di nascondere un'orrenda colpa ancestrale, quella del genocidio. Proprio il vocabolo Tuniit potrebbe essere un prestito dalla lingua dei Dorset, il suo ultimo resto e il suo solo documento vivente. Potrebbe essere la prova di qualche contatto intercorso tra le due culture, prima che esplodessero le ostilità con conseguente sterminio degli abitanti più antichi. Se così fosse, prenderebbe sostanza la tesi di coloro che considerano i Paleo-Eschimesi all'origine della diffusione delle lingue Na-Dené in Nordamerica. Tra le lingue di questo ceppo menzioniamo quella dei Navajo e quella degli Apache, popolazioni ben note e gloriose. Il vocabolo dené si trova nelle lingue del ceppo Athabaskan e significa "gente, popolo". Non sembra troppo difficile affermare che la radice *tuni- significasse proprio questo nella lingua della Cultura di Dorset e che avesse la stessa origine. Trovo assurda l'idea di quegli accademici che credono alla scomparsa della Cultura di Dorset prima dell'arrivo di quella di Thule, postulando il saccheggio dei villaggi ormai deserti come fonte di approvvigionamento di manufatti e tecnologie. Proprio la persistenza dell'etnonimo Tuniit confuta questa tesi.  
 
Un esperimento stravagante 
 
D'accordo. Non ho certo l'ardire di ritenermi anche lontanamente pari a Tolkien. Vorrei però tentare un esperimento filologico, a mio avviso di enorme interesse. Pongo i primi rudimenti di una grammatica della lingua degli Inuto che hanno invaso Lomar, portandovi devastazione e morte. Ecco la declinazione di inug "persona, essere umano":
 
Singolare:
 
Assolutivo: inug
Ergativo: inoof
Relativo: inoom
Allativo: inumboth
Ablativo: inumbith
Prosecutivo: inuthkoth
Locativo: inumbë
Strumentale: inumbikh
Equativo: inuhtoth 
 
Plurale: 
 
Assolutivo: inuto
Ergativo: inutof 
Relativo: inutom
Allativo: inumnoth
Ablativo: inumneyth
Prosecutivo: inuthsigoth
Locativo: inumnë 
Strumentale: inumnikh
Equativo: inuhtoth  

A differenza della lingua di Lomar, quella degli Inuto è già fin d'ora ricostruibile.

Un'importante missione 

Anche se non ci riuscirò nel breve termine, vorrei riuscire a produrre un vero e proprio atlante linguistico delle Terre del Sogno! Se tutto andrà per il verso giusto, potrò presentare la mia opera nel giro di qualche anno, rivelando i misteri di Lomar, di Ulthar, del Paese di Mnar e di innumerevoli altri luoghi incantati!   

domenica 4 ottobre 2020

ETIMOLOGIA DI DAGON

Il dio Dagon è descritto dalla Bibbia come una divinità dei Filistei. Essendo questi un popolo di origine marinara, provenienti dalla lontana isola di Caphthor (con ogni probabilità da identificarsi con Creta), fino agli inizi del XX secolo prevaleva l'idea che Dagon fosse un Dio Pesce. Gli studiosi delle Scritture reputavano che tutto ciò fosse assolutamente naturale e scontato, fornendo al contempo una lineare etimologia ebraica del teonimo. Infatti nella lingua scritturale דָּג dāg significa "pesce" (plurale numerabile דָּגִים dāgīm "pesci"), così non è troppo difficile pensare che il teonimo דָּגוֹן Dāgōn significhi proprio "Dio Pesce". Dalla stessa radice derivano le parole דָּגָה dāgāh "pesce" (collettivo), דּוּגָה dūgāh "pesca; arpione da pesca; pescatore", דַּיִג dayig "pesca", דַּייָּג dayyāg "pescatore". 
 
In realtà le cose sono un po' più complesse. Se si indaga, si scopre che l'associazione tra Dagon e il pesce è una fabbricazione medievale. In ebraico esiste anche un'altra parola, che fornisce un'etimologia più plausibile: דָּגָן dāgān "grano, frumento".  Anche in ugaritico il nome comune del grano è dgn /da'ga:nu/. In fenicio questa parola doveva suonare /da'go:n/. Quindi Dagon non è una divinità delle acque, bensì della terra e della crescita dei cereali. Una divinità della fertilità. Non dobbiamo dimenticare una testimonianza giunta da un'epoca lontana: Filone di Biblo (circa 64 - 141 d.C.), basandosi sull'autorità del fenicio Sanchuniathon, scrive che Dagon significa proprio "grano", traducendo il teonimo con il greco σῖτον (sîton). Sempre secondo Filone, Dagon sarebbe stato il fratello di Crono. L'importanza di questa divinità era grande a Ugarit, nella cui lingua ricorre la locuzione bʽl bn dgn /'baʕlu binu da'ga:ni/ "Baal, figlio di Dagon". Gli Hurriti identificavano Dagon con Kumarbi, che era chiamato anche Halki. Orbene, nella lingua hurritica halki significa proprio "grano". 

Possiamo pensare che dal fenicio dgn /da'go:n/ "grano, frumento" sia derivato il teonimo, poi preso a prestito dagli Ebrei col vocalismo diverso da quello della parola comune per indicare il cereale. Casi simili non sono rari: il fenicio yd /jo:d/ "mano" è passato a indicare il nome della lettera yōd /jo:ð/, mentre la parola ebraica per "mano" è yād /ja:ð/. Tutto sarebbe risolto se il culto di Dagon si fosse sviluppato proprio in Fenicia. In realtà l'area in cui questa divinità era adorata era molto ampia e comprendeva la Mesopotamia; sulla costa le attestazioni del suo culto sono molto meno comuni e provengono per lo più da Ugarit. Gli studiosi si interrogano sulla verosimiglianza del racconto biblico, dato che i reperti archeologici con iscrizioni di dedica a Dagon sono scarsi proprio nella terra che fu abitata dai Filistei. In sumerico il teonimo è Dagan. La pronuncia in accadico doveva essere /da'ga:nu/, come in ugaritico. La variante Zagan, che pure si trova in sumerico, è notevole, perché punta a una protoforma con una consonante fricativa iniziale /ð/, che nelle lingue storiche sarebbe diventata per lo più un'occlusiva /d/, ma talvolta si sarebbe assibilata in /z/
 
Qualche biblista avrà sicuramente cercato di ricondurre dāgān "grano, frumento" a dāg "pesce" tramite un singolare artifizio etimologico. La muscolatura del pesce è simile nella sua struttura a una spiga: presenta muscoli incuneati in modo da sembrare proprio i chicchi di grano nella spiga. Così Adamo, volendo nominare il grano e il pesce, avrebbe usato parole simili proprio perché avrebbe notato una somiglianza strutturale. Questo perché i biblisti danno per scontato che l'ebraico fosse la Prima Lingua del genere umano, quando è dimostrato che è una lingua derivata come tutte le altre. I dati esterni alla lingua ebraica (ad es. parole afroasiatiche per indicare tipi di cereali, parole altaiche per indicare il pesce) dimostrano, se ce ne fosse davvero bisogno, che si tratta di un'etimologia popolare, ingegnosa ma vana. 
 
Com'è e quando è nata la leggenda del Dio Pesce? 
 
Tutto ha avuto origine dal testo biblico: 1 Samuele, 5:1-7.
Questa è la versione originale in lingua ebraica: 

בוַיִּקְח֚וּ פְלִשְׁתִּים֙ אֶת־אֲר֣וֹן הָאֱלֹהִ֔ים וַיָּבִ֥אוּ אֹת֖וֹ בֵּ֣ית דָּג֑וֹן וַיַּצִּ֥יגוּ אֹת֖וֹ אֵ֥צֶל דָּגֽוֹן:
גוַיַּשְׁכִּ֚מוּ אַשְׁדּוֹדִים֙ מִֽמָּחֳרָ֔ת וְהִנֵּ֣ה דָג֗וֹן נֹפֵ֚ל לְפָנָיו֙ אַ֔רְצָה לִפְנֵ֖י אֲר֣וֹן יְהֹוָ֑ה וַיִּקְחוּ֙ אֶת־דָּג֔וֹן וַיָּשִׁ֥בוּ אֹת֖וֹ לִמְקוֹמֽוֹ:
דוַיַּשְׁכִּ֣מוּ בַבֹּקֶר֘ מִֽמָּחֳרָת֒ וְהִנֵּ֣ה דָג֗וֹן נֹפֵ֚ל לְפָנָיו֙ אַ֔רְצָה לִפְנֵ֖י אֲר֣וֹן יְהֹוָ֑ה וְרֹ֨אשׁ דָּג֜וֹן וּשְׁתֵּ֣י | כַּפּ֣וֹת יָדָ֗יו כְּרֻתוֹת֙ אֶל־הַמִּפְתָּ֔ן רַ֥ק דָּג֖וֹן נִשְׁאַ֥ר עָלָֽיו:
העַל־כֵּ֡ן לֹֽא־יִדְרְכוּ֩ כֹהֲנֵ֨י דָג֜וֹן וְכָֽל־הַבָּאִ֧ים בֵּית־דָּג֛וֹן עַל־מִפְתַּ֥ן דָּג֖וֹן בְּאַשְׁדּ֑וֹד עַ֖ד הַיּ֥וֹם הַזֶּֽה:
 
Questa è la versione latina della Vulgata:

Philisthim autem tulerunt arcam Dei et asportaverunt eam a lapide Adiutorii in Azotum tulerunt Philisthim arcam Dei et intulerunt eam in templum Dagon et statuerunt eam iuxta Dagon cumque surrexissent diluculo Azotii altera die ecce Dagon iacebat pronus in terram ante arcam Domini et tulerunt Dagon et restituerunt eum in loco suo rursumque mane die alio consurgentes invenerunt Dagon iacentem super faciem suam in terram coram arca Domini caput autem Dagon et duae palmae manuum eius abscisae erant super limen porro Dagon truncus solus remanserat in loco suo propter hanc causam non calcant sacerdotes Dagon et omnes qui ingrediuntur templum eius super limen Dagon in Azoto usque in hodiernum diem.
 
Questa è la traduzione CEI 2008: 
 
5 I Filistei, catturata l'arca di Dio, la portarono da Eben-Ezer ad Asdod. 2 I Filistei poi presero l'arca di Dio e la introdussero nel tempio di Dagon. 3 Il giorno dopo i cittadini di Asdod si alzarono ed ecco Dagon giaceva con la faccia a terra davanti all'arca del Signore; essi presero Dagon e lo rimisero al suo posto. 4 Si alzarono il giorno dopo di buon mattino ed ecco Dagon con la faccia a terra davanti all'arca del Signore, mentre il capo di Dagon e le palme delle mani giacevano staccate sulla soglia; solo il tronco era rimasto a Dagon. 5 A ricordo di ciò i sacerdoti di Dagon e quanti entrano nel tempio di Dagon in Asdod non calpestano la soglia fino ad oggi.
 
Il versetto רַ֥ק דָּג֖וֹן נִשְׁאַ֥ר עָלָֽיו raq dāgōn nishʾar ʿālāyw è stato equivocato e mal tradotto. La Vulgata traduce, come la CEI 2008: "solo il tronco di Dagon era rimasto (a lui)". La parola raq significa "solo, soltanto, esclusivamente". Così la parola per "tronco" è sottintesa. David Kimhi (XIII secolo) interpretò quindi "il tronco di Dagon" come "la parte in forma di pesce del suo corpo", ritenendo che la forma corretta dovesse essere raq dāgō, "solo il suo pesce": omettendo la -n finale, il nome di Dagon veniva a essere la parola comune dāgō "il pesce di lui". Già Shlomo "Rashi" Yitzchaki (XI secolo) era giunto a conclusioni simili prima di Kimhi. Nel XIX secolo questa erronea convinzione, sostenuta da Julius Wellhausen, fu rafforzata dalle scoperte archeologiche mesopotamiche, che portarono alla luce numerose raffigurazioni di divinità con caratteri teriomorfi di pesce. Si trattava degli Abgal (Apkallu in accadico), esseri sapienti tra cui vi era Uanna (grecizzato in Oannes), emerso dal Golfo Persico ai primordi del genere umano per insegnare i rudimenti della civiltà alle genti della Mesopotamia. Questi Abgal nulla hanno a che vedere con Dagon. Una bella lezione per i fautori del primato dell'archeologia sulla linguistica! 
 
Il primo a dubitare del mito del Dio Pesce fu Hartmut Schmökel, che nel 1928 pubblicò il suo lavoro Der Gott Dagan; Ursprung, Verbreitung und Wesen seines Kultes. Oggi nessuno studioso serio sostiene più l'iconografia tradizionale dell'ibrido ittiomorfo, che tuttava continua ad essere presente nella cultura popolare. 
 
Esistono altre ipotesi, a mio avviso poco plausibili:
1) In arabo esiste la parola dajana "essere tenebroso, nuvoloso", che deriva da una protoforma *dagana, visto che in tale lingua il fonema protosemitico velare /g/ è diventato palatale, evolvendo in /dʒ/ in modo sistematico. Sempre in arabo si ha anche dajj "pioggia", forse in qualche modo connesso alla radice di dajana (forse, perché esiste anche la parola dujn "tenebra"). Secondo questa ipotesi, Dagon sarebbe addirittura una divinità uranica, paragonabile a Giove. 
2) Nella lingua degli Hittiti esiste la parola tekan "terra", che ha la variante dagan. Così dankuiš daganzipaš significa "Terra Nera", o meglio "Oscuro Genio della Terra": è un nome dell'Oltretomba. Daganzipa è poi il nome di una dea che corrisponde a Persefone, traducendo l'epiteto greco Khthonía "Sotterranea", e deriva anche dalla stessa radice. Secondo questa ipotesi, Dagon verrebbe ad essere nientemeno che una divinità ctonia, legata al sottosuolo e al mondo del Morti. 
 
Questi sono in sintesi i dubbi: 
 
i) Le caratteristiche di Dagon postulate da queste etimologie non corrispondono a quelle dimostrabili. 
ii) Le parole arabe dajana e dajj hanno origine incerta; non è nemmeno chiaro il rapporto che intercorre tra loro e non se ne trova traccia, a quanto ne so, nell'area in cui Dagon era venerato.
iii) Non mi risulta che il culto di Dagon fosse tipico dell'Asia Minore.
iv) Un tiranno di Purushanda, in Asia Minore, portava il nome di Nur-dagan. Visse all'epoca di Sargon, che lo vinse e lo spodestò. Esiste anche la variante Nur-daggal, che complica le cose. Potrebbe non avere connessione alcuna con Dagon. 
 
H. P. Lovecraft e Dagon 
 
Howard Phillips Lovecraft fu l'autore di un racconto breve intitolato Dagon. Lo scrisse nel luglio del 1917, riuscendo a farlo pubblicare su The Vagrant nel 1919. Dopo alcuni anni, nel 1923, Dagon apparve su Weird Tales. La storia fu ispirata in parte da un incubo che funestò il suo sonno in un'occasione. Così ebbe in seguito a descriverlo: "Ho sognato tutto quell'orribile strisciare, e riesco ancora a sentire la melma che mi risucchia!" ("I dreamed that whole hideous crawl, and can yet feel the ooze sucking me down!"). Bisogna stare attenti a non equivocare: la creatura che appare nel racconto non è denominata "Dagon". È un gigantesco mostro viscido che striscia verso un monolito alieno, abbracciandolo in adorazione. Un devoto quindi, più che il demone oggetto del culto. Il teonimo che dà il titolo all'opera del Solitario di Providence può così essere interpretato: il protagonista, conscio dell'esistenza e della terrificante natura del Signore degli Abissi, deve avergli dato un nome biblico che conosceva bene e che lo faceva tremare dall'orrore. La confutazione del mito del Dio Pesce ad opera di Schmökel sarebbe giunta soltanto pochi anni più tardi, ma questo è per noi irrilevante. Possiamo dire che Dagon e Nodens siano i soli nomi di divinità realmente adorate da popoli della Terra ad essere stati utilizzati da Lovecraft, che ha sempre preferito servirsi di spaventosi suoni di ben altra origine, non appartenenti al mondo che conosciamo.

sabato 18 luglio 2020

OCCHIO PER OCCHIO
 
Fummo avvertiti mediante cablogramma che il forte sarebbe stato cannoneggiato alle 8 del mattino del 19 maggio.
Il messaggio si concludeva come segue:
“Invieremo imbarcazione di recupero alle ore 14 del giorno 18 solo se avrete ultimato le procedure di cui al punto successivo”.
Attendemmo per un po’ di ricevere un cablo contenente il “punto successivo”. Invano: non giunse nulla.
Mi affrettai a segnalare la circostanza al Comando Supremo.
La risposta fu di questo tenore:
“Procedere senza indugio secondo le disposizioni impartitevi. Qualsiasi tentativo non autorizzato  di allontanamento dall’isola anzitempo sarà trattato alla stregua di un atto ostile.”
Inviai un altro cablo.
“Chiedo invio del testo delle procedure che dovremo eseguire.”
Di lì a poco giunse la risposta: era stilata in un codice di cui non possedevo il cifrario!
Segnalai immediatamente la cosa.
La replica non tardò ad arrivare:
“Impossibilitati inviare testo in chiaro per motivi di sicurezza.”
Ribadii che non possedevo il cifrario.
“Prendere visione del Manuale, capitolo 10, paragrafo 4”.
Il Manuale operativo constava sì di 10 capitoli, ma il decimo aveva solo tre paragrafi.
Notificai la cosa al Comando.
“Consultare XI edizione Manuale operativo”
A noi non era mai stata fornita: disponevamo della X.
Lo feci presente. Seguì un lungo silenzio.
Sei ore dopo, ricevemmo questo cablo:
“Procedere senza indugio secondo le disposizioni impartitevi”.
I miei collaboratori mi osservavano attoniti. I volti logori, gli sguardi spenti, facevano pensare a un’adunata di spettri.
Il più anziano prese la parola:
“Siamo spacciati.”
Aveva ragione. L’isola era munita di un bunker abbastanza capiente e robusto, ma quand’anche avesse resistito al bombardamento navale, che ne sarebbe stato di noi, in seguito?
Inviai un altro messaggio.
“Ribadisco impossibilità ad eseguire procedure di cui non siamo informati”.
“Consultare Capitolo 10, paragrafo 4, XI Edizione Manuale Operativo”.
“Detta edizione non è in nostro possesso. Si prega di inviare testo procedure in codice cifrato N6.”
Ricevemmo il testo, ma nel medesimo codice di prima.
“Non abbiamo il cifrario per il codice da voi utilizzato.”
“Prendere visione del Manuale, capitolo 10, paragrafo 4”.
Gli uomini della piccola guarnigione se ne andarono sconsolati.
Rimasi solo, a rileggere quell’increscioso scambio di messaggi.
Trascorsi le ore successive a inviare cablo, ricevendo le medesime risposte grottesche.
Deciso a tutto, alle prime ore del mattino del giorno 18 scrissi:
“Procedure ultimate secondo istruzioni impartiteci. Attendiamo arrivo imbarcazione di recupero”.
Gli stronzi risposero come segue:
“Arrivo imbarcazione posticipato ore 16. Disporsi in attesa sul molo.”
Lasciai l’ufficio e convocai gli uomini della guarnigione.
“Vengono a prenderci. Vi voglio armati e pronti a far fuoco. Di qui ce ne andiamo in qualsiasi caso, con o contro la loro volontà.”
Ci schierammo sul molo. Attendemmo due, tre ore. Niente da fare.
Giunse un cablo.
 “Prelievo posticipato ore 20”.
Arrivarono le 20 e poi le 21. Facevo la spola tra il molo e l’ufficio come un’anima in pena.
Alle 21 e 30 ricevemmo questo messaggio:
“Attività ostili del nemico impediscono invio missione di recupero”.
Replicai immediatamente:
“Chiedo annullamento operazione prevista per domattina”
Alle 22 e 30 giunse un cablo cifrato. Non era in codice N6.
“Codice non in nostro possesso”
“Consultare Capitolo 10, paragrafo 4, XI Edizione Manuale Operativo”.
Tornai sul molo. Non potevo mentire, non a loro.
“Ci vogliono morti.”
“Facciamogliela pagare”, disse il più giovane.
“Mi sembra giusto. Se sopravvivremo al bombardamento, apriremo il fuoco su coloro che sbarcheranno sull’isola. Chiunque essi siano.”
 “Occhio per occhio!”
Ci separavano poche ore dall’Apocalisse. Scendemmo nel bunker animati da propositi di vendetta. 
 
Pietro Ferrari, luglio 2020 

sabato 30 maggio 2020

UN SOGNO PORTENTOSO E ORRENDO

Prima mi sono trovato a viaggiare in treno assieme a Battiato e a parlare con lui di argomenti filosofici. Era giovane e vestito da becchino. Poi il cantante ha proseguito per Napoli, mentre io sono sceso dal treno e sono rimasto bloccato in un paese del Piemonte perso in mezzo al niente. Non c'era un solo treno per Milano: le indicazioni che avero ricevuto erano errate. Ero costretto a stare lì, in quel luogo nefasto chiamato GRAMAODE. Quando è giunto il tramonto, mi sono accorto che regnava il coprifuoco. Non c'era un solo lume acceso, la tenebra saliva come dal suolo, densissima e aggressiva. Non una sola finestra illuminata. Non un treno, non una pensione, non un bed and breakfast o un locale aperto. I miei tentativi di chiedere informazioni sono naufragati: c’era un bigliettaio, vecchio e aggressivo, con cui non si poteva comunicare. Gli ultimi barlumi di luce morivano in una foschia inferale. Anche le poche luci della stazione si spegnevano, si disattivavano persino i pannelli con gli arrivi e le partenze, i cui caratteri erano peraltro illeggibili. Così sono corso verso l'ultima luce, un gabbiotto di vetro con alcuni macchinari in mostra, dove due giovani spenti stavano mangiando panini. Ero disperato, ho chiesto loro se potevano darmi un passaggio. Mi hanno detto che sarebbero andati a Milano, nel quartiere Isola, proprio dove lavoro. Così siamo saliti in macchina, addentrandoci nell'oscurità dell'Ade. Un tragitto folle a fari spenti nei campi, come se il pilota avesse la vista agli infrarossi. A un certo punto ho visto che proveniva una fioca luce da una stazione ferroviaria di un paese chiamato IOSUS. Mi dicevano che un tempo lì c'erano gli Etruschi. Ci siamo allontanati, di nuovo immersi nel buio simile a petrolio opprimente e mi sono svegliato in preda al terrore. 
 
Marco "Antares666" Moretti, maggio 2020

PROSTITUZIONE IN SECOND LIFE

Camminavo lungo la via in un paese glaciale. A un certo punto ho visto qualcosa che ha attratto la mia attenzione. La prostituta era una ragazza dark, il cui avatar era definito con il massimo dettaglio: si poteva distinguere il rossetto nero sulle labbra, gli occhi erano truccati col mascara, le unghie delle mani e dei piedi avevano uno smalto nero lucido. Stava immobile vicino a un lampione, esibendo le gambe. Le chiome erano lunghe e corvine, la pelle era di un pallore cadaverico. Gli abiti neri erano davvero succinti. Poco oltre c'era il pappa, un afroamericano in doppiopetto, anche lui sembrava una statua. Quello che mi ha stupito, è che sulla testa delle due figure non compariva l’etichetta con nome e cognome. Ho cliccato sulla prostituta con l’apposito tasto per ottenere informazioni, e ho potuto constatare che era sprovvista di nominativo: era una proprietà di un bordello chiamato "Liberty or Tyranny", o qualcosa del genere. Probabilmente era un "bot", ossia un avatar fittizio. Pieno di stupore ho ripreso il mio cammino, allontanandomi da quel luogo. 
 
Marco "Antares666" Moretti, gennaio 2016

giovedì 28 maggio 2020

UN CASO DI PRECOGNIZIONE

Stavo camminando al parco, quando ho visto davanto a me un bambino intento a mangiare una brioche. La madre seguiva a pochi metri di distanza. All'improvviso ho saputo per certo cosa sarebbe accaduto di lì a poco: non solo mi sono visto la scena con gli occhi della mente, ma ho anche udito i suoni delle parole rimbombare nel mio cranio. Al bambino la brioche sarebbe caduta, e si sarebbe chinato per raccoglierla. La madre sarebbe intervenuta subito, prendendo il resto del dolciume e buttandolo nel vicino cestino dell'immondizia, dicendo: "Lascia stare, te ne do un'altra". Di lì a pochi secondi, la sequenza si è verificata esattamente, come se avessi visto in anticipo una sequenza del film della vita, con un semplice sfasamento. 
 
Marco "Antares666" Moretti, giugno 2014

ATTIVITÀ ONIRICA ANOMALA

Un sogno demente, violento, esploso, al confine dell'epilessia. Uscivo dal Duomo di Milano con in mano una grossa pietra, davanti alle guardie incredule la mettevo in un sacchetto di carta e quella si trasformava in pane. Poi una corsa col cuore in gola per arrivare alla fermata di una metropolitana di superficie dove avevo visto una donna che era mia sorella, ma appena l'ho raggiunta si è messa a cambiare forma davanti ai miei occhi fino a trasformarsi in una serie di brani di carne, all'interno di uno potevo distinguere un globo oculare ricoperto da una membrana. Dentro il cranio una pulsazione feroce e una frase martellante quanto criptica: "È NEL CIRCUITO DI PAUTSITÒR". Il risveglio traumatico con una forte emicrania, alle ore 7:01, la luce del giorno che mi feriva i nervi ottici. 
 
Marco "Antares666" Moretti, marzo 2015

IL CIELO COME UN MURO DI CEMENTO

Mi ero addormentato in treno, e quando mi sono destato all'improvviso sono rimasto sconvolto. Al posto del cielo c'era un immenso muro di cemento. Per qualche istante sono stato assolutamente certo della natura reale di quel muro, di cui avvertivo così bene la superficie che pareva estendersi all'infinito. Poi ad un certo punto quella certezza si è dissolta e ho capito di essere stato vittima di un'illusione. Il cielo plumbeo e uniforme, foriero di neve, era da me stato interpretato come una struttura in muratura, è evidente. Eppure, niente riesce a togliermi l'idea di aver visto in quel brevissimo lasso di tempo la vera realtà delle cose, il cemento che delimita questo campo di sterminio. 
 
Marco "Antares666" Moretti, febbraio 2015

martedì 26 maggio 2020

LA SFINGE, UN RACCONTO BREVE DI EDGAR ALLAN POE

 
La sfinge (The Sphinx) è un racconto di Edgar Allan Poe, pubblicato per la prima volta nel gennaio del 1846, sulla rivista Arthur's Ladies Magazine di Filadelfia. Fu ripubblicato nel 1859 nel secondo volume (Poems and Tales) della raccolta postuma The Works of the late Edgar Allan Poe (editore: Blakeman & Mason). Fu pubblicato dopo la raccolta Racconti del terrore e dell'incubo, del 1845, così non vi è incluso. Tuttavia in seguito le case editrici hanno pubblicato tra i Racconti del terrore e del grottesco questo e altri testi scritti tra il 1846 e il 1849 (anno della scomparsa dell'autore). Direi che l'attribuzione più ragionevole è ai Racconti dell'incubo. Per alcuni sarebbe invece da classificarsi tra i Racconti di tema vario


Traduzioni del titolo:
  Italiano: La sfinge
  Tedesco: Die Sphinx
  Francese: Le Sphinx
  Spagnolo: La esfinge
  Rumeno: Sfinxul 
 
Elenco completo delle edizioni italiane:  

Traduzioni in italiano: 
Maria Gallone
Fernanda Pivano, A.C. Rossi, Aldo Traverso, Virginia Vaquer
M. Carla Solomeni, Vincenzo Brinzi
Carla Apollonio  
Maria Gallone  
Giorgio Manganelli  
Daniela Palladini
Daniela Palladini e Isabella Donfrancesco 

Traduzione in francese:
William Little Hughes (1822 - 1887). 
Questo è uno dei 25 racconti di Poe che non furono tradotti da Charles Baudelaire. La traduzione di Hughes compare nel volume Contes inédits, pubblicato da Hetzel nel 1862.  
 
Trama: 
Una violenta epidemia di colera imperversa, devastando New York. Il narratore viene invitato da un parente a trovare rifugio nel suo cottage sulle rive del fiume Hudson, nelle vicinanze di una collina franata. Nonostante i buoni propositi di dedicarsi alle passeggiate e alle attività di diporto, il tempo sembra non passare mai. Prevale lo sfinimento e non c'è molto da fare, a parte attendere notizie luttuose dalla città. A un certo punto il narratore, dopo essere rimasto a lungo immerso nella lettura, guarda dalla finestra e crede di vedere un mostro spaventoso che si precipita giù dalla collina per poi scomparire all'improvviso. Per un po' l'uomo non ne fa parola per paura di essere ritenuto folle. Vince le sue paranoie soltanto dopo diversi giorni di conflitto interiore. Il proprietario del cottage è più incline alla razionalità e ascolta con estrema attenzione la descrizione della bestia favolosa; quando la situazione si ripete mentre i due si trovano nella stessa stanza, guarda dalla finestra e afferma di non riuscire a vedere alcun mostro. Quindi apre un libro di filosofia naturale e mostra al suo compare l'esatta descrizione della mirabile creatura, una falena detta sfinge testa di morto, a sua detta piccolissima. 
 
Testo originale e traduzioni: dettagli 
 
Si nota subito che New York è scritto con il trattino (hyphen): New-York. Un uso stravagante che di questi tempi lascia allibiti. Il testo originale ha cottage ornée, con esibizione di francesismo, come andava di moda nella Boston snob del XIX secolo. Tuttavia va specificato questo: cottage non è una parola francese genuina, essendo stata importata dall'inglese. La pronuncia /kɔ'taʒ/ è francesizzata ortograficamente. Il genere del sostantivo è maschile, così si dovrebbe dire cottage orné, non cottage ornée, dato che ornée è la forma femminile. Finora mi sono sempre imbattuto in traduzioni italiane in cui questo aggettivo è stato obliterato. Il corsivo usato da Poe dimostra che la parola cottage era considerata francese dai Bostoniani. Con ogni probabilità nei salotti si pronunciava /kɔ'taʒ ɔR'ne/. L'ironia di tutto questo è che la parola inglese cottage /'kɔtɪdʒ/ proviene a sua volta dall'antico francese cote "capanna", a sua volta dal norreno kot "capanna". Sia sempre benedetta la santa Scienza dei prestiti lessicali, che ci permette di provare un vero e proprio edonismo spirituale! 
 
Interpretazione 

La vulgata corrente considera questo racconto come una descrizione dell'emozione della paura e del suo potere di neutralizzare le menti suggestionabili. Esiste anche un'altra opinione abbastanza diffusa: l'allucinazione del protagonista sarebbe un'allegoria della natura ingannevole delle apparenze. Simili banalità non spiegano l'orrore che si prova nel leggere il breve testo, la cui ontologia abissale non è riducibile al meccanicismo neopositivista del pierangelismo. La sfinge è come un buco nel cielo, una voragine di un nero assoluto che si apre all'improvviso dove non dovrebbe esserci. Le radiazioni che fanno la loro irruzione da quel sinistro pertugio sono l'eco di un altro Universo, atrocemente più vasto di quello in cui conduciamo le nostre vane esistenze. 

 
Distorsione percettiva  

Nel Mito della Caverna, narrato da Platone, si descrive il processo di liberazione dell'uomo tenuto prigioniero nelle tenebre fin dalla nascita. Quando egli giunge alla luce del sole, che rappresenta il Bene, riesce a comprendere la vera natura delle cose. Il suo è un processo di anabasi. Per contro, Poe descrive un processo di catabasi. Una discesa agli Inferi. I sensi allucinati dell'uomo trasformano la spettrale falena in un immane leviatano. Siamo poi così sicuri che si tratti soltanto di un'illusione? Certo, per le genti del mondo è senza dubbio così: quanto vede un allucinato non può avere forma né sostanza alcuna. E se invece egli avvertisse, anche solo per pochi attimi, il tocco di qualcosa che viene dall'Esterno? E se non si trattasse di un riflesso di un'emozione, bensì di qualcosa che ha un'ontologia propria e funesta? Ecco come il narratore descrive la spaventosa apparizione:
 
"Cercando di valutare la mole della creatura, in rapporto al diametro dei grandi alberi presso i quali passava, – i pochi giganti della foresta che erano sfuggiti alla furia della frana – conclusi che doveva essere più grande di qualsiasi nave di linea in attività. Dico nave di linea perché la sagoma del mostro ne suggeriva l’idea, – lo scafo di uno dei nostri «settantaquattro» può dare un’idea abbastanza esatta del suo profilo. La bocca dell’animale era posta all’estremità di una proboscide lunga una ventina di metri, e grossa come il corpo di un comune elefante. Vicino alla radice di questa escrescenza si vedeva un’immensa quantità di arruffati peli neri – molti più di quelli che avrebbero potuto fornirne le pelli di una mandria di bufali; da questo pelame sporgevano, sui lati all’in giù, due zanne scintillanti, non diverse da quelle di un cinghiale, solo infinitamente più grandi. Protesa, parallelamente alla proboscide e da ogni lato di essa, c’era una gigantesca asta lunga una diecina di metri, apparentemente di puro cristallo, a forma di perfetto prisma; essa rifletteva nel modo più fantastico i raggi del declinante sole. La proboscide era a forma di cuneo con il vertice diretto verso terra. Da essa si aprivano verso l’esterno due coppie di ali – ogni ala raggiungeva la lunghezza di quasi un centinaio di metri – in ogni coppia un’ala era piazzata sopra l’altra e tutte erano ricoperte da spesse scaglie di metallo; ogni scaglia aveva apparentemente un diametro di oltre tre metri. Osservai che ogni ala superiore era unita alla corrispondente inferiore da una robusta catena. Ma la peculiarità principale di questa cosa orribile, era la raffigurazione di una Testa di Morto, che copriva quasi interamente la superficie del suo petto, e che era tracciata con precisione in uno scintillante color bianco sul fondo nero del corpo, come se fosse stata disegnata con grande cura da un artista. Mentre guardavo il terrificante animale e più specialmente l’immagine sul suo petto, con un senso di orrore e di timore – misti a una sensazione di sciagura incombente, che mi riusciva impossibile colmare malgrado ogni sforzo della ragione, vidi le enormi mascelle all’estremità della proboscide, spalancarsi all’improvviso; ne usci un suono così forte e pauroso, che colpì i miei nervi come un rintocco funebre. Quando il mostro scomparve ai piedi della collina, caddi svenuto al suolo."
 
Portenti e presagi 

Il ragionamento dei meccanicisti è abbastanza lineare: se l'emozione nasce nel sistema limbico ed è prerazionale, il sentimento è qualcosa che presuppone la consapevolezza, venendo ad esistere solo quando la mente focalizza la sua attenzione sull'emozione. Il protagonista è dominato dal terrore che il Tristo Mietitore possa giungere fino a lui, ma quando pensa ai presagi passa dall'emozione al sentimento. Cerca di dare un'interpretazione a quanto gli accade, ma siccome la sua mente è limitata, non agisce come un perfetto orologio cartesiano. Invito questi materialisti a maggior rispetto nei confronti dei portenti e dei presagi, che non sono meri simboli della superstizione o ubbie generate dall'ignoranza del popolino. Usando l'interpretazione dei segni, un aruspice etrusco predisse l'esatta durata del potere di Roma. Osservando il volo degli avvoltoi e contandoli, predisse con esattezza il declino e la fine dell'Urbe. Innumerevoli sono gli esempi che si possono citare. Sono diverticoli del Labirinto su cui irradia il Sole Nero della Morte dell'Essere. 
 
Edgar Allan Poe e la coprofilia 
 
È stato detto che nelle opere di Edgar Allan Poe è presente una larvata necrofilia. Credo che nessuno si sognerebbe di mettere in discussione questa verità. Ebbene, La sfinge ci mostra una larvata coprofilia sovrapposta all'onnipresente necrofilia. Il Bostoniano era un grande, in grado di far collassare interi universi concentrandoli in poche parole. Così ha scritto: "L'aria stessa del Sud ci sembrava recare odore di morte" (The very air from the South seemed to us redolent with death). Morte mista agli escrementi! Per quasi tutti gli attuali lettori, il colera è soltanto una reminiscenza letteraria. È soltanto una parola. La sola possibile eccezione a me nota è un tale che si era recato in India durante un'epidemia di colera e aveva praticato l'anilingus a una prostituta, salvo poi struggersi in mille paure ipocondriache. Poe sapeva bene cosa scriveva: l'epidemia di colera che aveva devastato New York avvenne nel 1832, mentre lui era in vita. Cercherò quindi di trasmettere ciò che sentiva, usando parole vivide. Culi sporchi di merda. Orifizi laidi, duramente provati da continue scariche di diarrea acquosa e caustica. La flora batterica dell'intestino è ormai un lontano ricordo: anche le sue ultime tracce sono state evacuate. Coliche atroci e scorregge crepitanti, mentre sembra di avere il piombo fuso nel ventre teso. Vomito che non dà requie. Ormai lo stomaco non riesce a trattenere più nulla e non è sopportabile nemmeno il pensiero di ingurgitare qualcosa. Tremore che scuote le membra gelide per l'ipotermia. Delirio. La coscienza che sprofonda in un'oscurità solida, compatta, fino a spegnersi del tutto. Se ci riuscite, provate a immaginarvi centinaia, migliaia di persone in simili condizioni. Perché questa è un'epidemia di colera. Al giorno d'oggi non ci siamo più abituati. Il colera nasce dalla contaminazione fecale. Si trasmette tramite rapporti oro-fecali e oro-anali. Il suo imperversare è favorito dove sono comuni gli atti di coprofagia, consapevole o inconsapevole. Ci sono state vittime illustri. Ormai pochi ricordano che Giacomo Leopardi morì di colera. Lo aveva contratto da un gelataio che preparava i sorbetti senza essersi lavato le mani dopo aver smerdato. Il Poeta di Recanati si recava nella gelateria ogni giorno, e si divertiva ad osservare le giovani della Napoli Bene, quelle che - parole sue - "vendevano la gola". Morì tra spasmi atroci. Il suo corpo fu gettato in una fossa comune e cosparso di calce. Recuperato da amici e sepolto in una chiesa, il cadavere fu poi rubato e profanato dai necrofili.  
 
Acherontia atropos  
 
La sfinge testa di morto (Acherontia atropos) è una farfalla notturna di notevoli dimensioni. È a dir poco eccezionale e nota a tutti per il caratteristico disegno che ricorda un teschio umano. Pochi sanno che è anche la sola farfalla a possedere una laringe e ad emettere suoni. Il suo verso è raggelante, sembra a metà strada tra il gracchiare di una cornacchia, la risata di una iena e il lamento di un moribondo. Può essere udito a molti metri di distanza. A produrlo è l'aria eiettata contro una lamina posta all'imboccatura della laringe, che la fa vibrare. A quanto ho saputo, anche il bruco è capace di emettere lo stesso lugubre verso. Mi è capitato di imbattermi sia in adulti che in larve di questa specie, ma sfortunatamente non ho mai potuto udire il loro repertorio sonoro. Mi sono rifatto ascoltando registrazioni reperite in rete e devo dire che mi affascina molto. Non si tratta di un richiamo: la falena infera lo usa per scacciare i predatori, quando si sente minacciata. Le sue abitudini sono assai singolari. Si introduce negli alveari, dove riesce a neutralizzare le difese utilizzando una sostanza il cui odore mima quello degli acidi grassi delle api. Con la possente spiritromba buca gli opercoli cerosi dei favi e ingurgita incredibili quantità di miele. Talvolta è così satolla da non potersi muovere: le api operaie la identificano, le si ammassano addosso fino a soffocarla, quindi la ricoprono di propoli per impedire che la putrefazione della carcassa ammorbi l'alveare.     
 
I meandri della tassonomia 
 
Poe utilizza la classificazione entomologica di Latreille. I Crepuscularia sono la seconda famiglia dei Lepidoptera; le sfingi o falene, che corrispondono al genere linneano Sphinx, sono divise a loro volta in quattro sezioni: Hesperisphinges, Sphingides, Sesiasides e Zygænides, che corrispondono rispettivamente ai generi fabriciani Castnia, Sphinx, Sesia e Zygæna. Nella denominazione attualmente in uso, il genere Sphinx appartiene alla tribù degli Sphingini, a sua volta parte della sottofamiglia delle Sphinginæ, appartenente alla famiglia delle Sphingidæ. Tanto per dare un'idea dell'estrema varietà di queste forme di vita, basterà riportare che la tribù degli Sphingini comprende in tutto 39 generi (di cui uno estinto), per un totale di 275 specie. Gli antichi Romani, sempre molto pragmatici, chiamavano la sfinge testa di morto con un nome secco e preciso: papilio feralis, ossia "farfalla mortifera".   
 
Razionalismo distorcente
 
La cosa bizzarra è che Poe descrive Acherontia atropos come un insetto piccolissimo, grande al massimo un millimetro e mezzo (about the sixteenth of an inch in its extreme length). La conversione fatta nella traduzione in italiano è corretta: 1/16 di pollice = 0,0625 pollici = 1,5875 millimetri.  In realtà la sfinge testa di morto è una delle falene di dimensioni più grandi, con un'apertura alare di 90-130 millimetri. L'addome, grassissimo e sensuale, è anch'esso di lunghezza notevole. Il bruco è grosso come un salsicciotto. Trovo ugualmente assurdo che l'insetto possa essere distante un millimetro e mezzo dalla pupilla dell'occhio dell'osservatore (and also about the sixteenth of an inch distant from the pupil of my eye). Si può quindi affermare che l'amico razionale del protagonista abbia a sua volta commesso un grave errore di valutazione delle distanze, rimpicciolendo la creatura anziché ingigantirla! Non trovo alcun commentatore che si sia accorto di questo importante particolare. Forse a causa del racconto di Poe, nell'immaginario collettivo americano è impressa l'idea che la farfalla sfinge sia di proporzioni minuscole. Nella celebre locandina del film Il silenzio degli innocenti (The Silence of Lambs), di Jonathan Demme (1991), si può vedere un esemplare di Acherontia sulla bocca di una ragazza. Il disegno del teschio è sostituito da un'immagine tratta da un dipinto di Salvador Dalì, con alcune donne nude che sembrano formare un teschio. Il punto è che le dimensioni del lepidottero sono piccolissime!
 
Rosso: areale permanente
Arancione: areale estivo

Un notevole errore 
 
Una cosa davvero interessante è la distribuzione territoriale della falena Acherontia atropos. Per farla breve: in America questo lepidottero non esiste. Il suo areale di diffusione include l'Europa, l'Africa e parte dell'Asia occidentale. Certo, esistono altre due specie simili, Acherontia styx ed Acherontia lachesis, ma sono entrambe tipiche dell'Asia. Quindi non è fisicamente possibile che qualcuno abbia potuto vedere una sfinge testa di morto nel territorio dell'Hudson. Si tratta di un clamoroso errore, che può soltanto saltare all'occhio di chi si diletta di entomologia. Con ogni probabilità lo scrittore di Boston aveva visto esemplari di Acherontia atropos durante il suo soggiorno in Inghilterra e ne aveva tratto ispirazione per scrivere il suo racconto. Certo, a un genio come lui si perdona questo ed altro!  
 
Demiurgia e aneddotica 
 
Poe ha nutrito il nostro spirito. Ha contribuito con le sue creazioni a fare di noi ciò che siamo. Ogni tratto della sua scrittura disegna un intero Cosmo, governato da leggi soltanto in apparenza simile a quelle che conosciamo. Ha potuto dar vita a un intero Universo di orrore e di percezioni distorte perché è vissuto in un'epoca in cui era riconosciuta la preminenza dell'aneddotica. Scriveva in modo febbrile, senza nemmeno provare a verificare la precisione di ogni singolo dettaglio. Così troviamo numerose bizzarrie e incongruenze nei suoi testi. Non si tratta di difetti, come si potrebbe pensare a prima vista, bensì di gemme. Certo, erano tempi diversi. Esisteva ancora un pubblico pronto a riconoscere la grandezza dell'artista, dell'evocatore. Il presente è sterile. I grandi come Poe sono ancora apprezzati, ma solo perché sono giunti come fossili da un passato ormai esaurito. Oggi non sarebbe più possibile il sorgere di un uomo simile. Non ne sarebbe riconosciuta la grandezza e non andrebbe da nessuna parte. Ogni sua minima affermazione sarebbe accolta con una domanda stizzosa: "Fonti?" 
 
Altre recensioni e reazioni nel Web 

Segnalo giusto due recensioni. La prima è di Giovanni Sacchitelli: 
 

La seconda è di Federico "Dragonstar" Passarella: